1 Aprile 1948 Camporeale (PA). Ucciso Calogero Cangialosi, 42 anni, sindacalista.
Calogero Cangialosi, 42 anni, sposato con quattro figli, segretario della CGIL di Camporeale (PA), si batteva per l’applicazione dei decreti Gullo sulla divisione del grano a 60 e 40 e sulla concessione alle cooperative contadine delle terre incolte e malcoltivate degli agrari. La sera del 1° aprile del 1948, nonostante fosse sempre scortato dagli amici del sindacato, mentre faceva ritorno alla propria abitazione, qualcuno con un mitra sparò sul gruppo ferendone gravemente due ma Calogero, colpito alla testa e al petto, spirò all’istante. “Calogero Cangialosi fu il 36esimo sindacalista assassinato dalla mafia in quegli anni del secondo dopoguerra.
Per quell’omicidio, la giustizia «ingiusta» di allora non riuscì nemmeno ad imbastire un processo. Nonostante tutti sapessero che a dare l’ordine di morte era stato il proprietario terriero “don” Serafino Sciortino, mentre a sparare ci avevano pensato il capomafia Vanni Sacco e i suoi «picciotti», si procedette contro «ignoti», che tali rimasero per sempre. Poi sulla vicenda cadde il silenzio.” (Tratto da La Sicilia)
Fonte: archivio.unita.news
Articolo del 3 aprile 1948
Orrore e collera in tutta la Sicilia per l’assassinio del trentaseiesimo dirigente sindacale
Il segretario della Confederterra di Camporeale ucciso.
PALERMO. 2. — Ieri sera alle 23,30 il compagno Calogero Cangialosi, segretario della Federterra di Camporeale, paese sperduto nelle campagne tra il Palermitano e il Trapanese, è stato freddato a tradimento mentre rincasava insieme con altri quattro compagni, due dei quali, Di Salvo e Liotta, questo ultimo di soli 18 anni, sono stati feriti.
I cinque compagni, vittime di questa nuova aggressione della mafia, erano appena usciti dalla sezione socialista e si dirigevano verso le proprie case quando, in un punto solitario, al limite del paese, i colpi dei sicari appostati su un rialzo li fermavano: due, miracolosamente illesi potevano fuggire. Il Cangialosi, colpito da più colpi alla testa, si abbatteva ucciso mentre i due feriti riuscivano, strisciando carponi sul terreno, a ripararsi dietro una casa ed a raggiungere quindi le proprie abitazioni. La notte stessa venivano trasportati a Palermo dove giungevano alle 3 del mattino per essere ricoverati in clinica e operati.
Nel giro di un solo mese, con la fine del compagno Cangialosi, che lascia la moglie e 4 figli di cui tre in tenerissima età, tre sono i sindacalisti caduti per mano della mafia agraria: Li Puma, Rizzotto e Cangialosi, nomi di uomini coraggiosi che hanno lottato contro la prepotenza ino all’ultimo.
Ed è questo il trentaseiesimo assassinio che insanguina l’isola: è ormai con un senso di profondo orrore che le popolazioni siciliane guardano a questa strage che continua vile e spietata senza che mai un colpevole abbia pagato. Eppure il movente è sempre lo stesso: sempre i dirigenti sindacali sono stati uccisi appena era stato ottenuto dai contadini poveri un terreno incolto da dissodare, appena la lotta delle masse stava per costringere le autorità ad applicare la legge a danno degli agrari e dei ricchi.
L’ondata di sdegno sviluppatasi da un capo all’altro della Sicilia è incontenibile. Senza precedenti è il fermento che regna nelle campagne in particolar modo. Il significato politico di questo nuovo assassinio, perpetrato a sangue freddo a un solo giorno di distanza dalla riunione a Palermo dell’Esecutivo della C.G.I.L. e dalla proclamazione dello sciopero generale di un’ora in tutto il Paese come protesta e monito agli assassini e al governo, è chiarissimo per tutta l’opinione pubblica. In tutta l’isola si mettono in rapporto – ormai da parte di ogni cittadino – il ritmo crescente e sempre più spietato dei delitti e l’impunità concessa in tutti i casi senza eccezione agli assassini da parte delle autorità governative.
Proprio ieri – si dice – i rappresentanti democristiani nella C.G.I.L. si erano rifiutati di associare la loro protesta a quella di tutto l’Esecutivo nella riunione di Palermo e di partecipare a quella riunione: il giorno dopo questo gesto un altro dirigente sindacale ha perso la vita assassinato!
Scelba, l’uomo che organizza spedizioni contro i lavoratori e clamorose sfilate di agenti a Milano, ha reagito a quest’ultimo crimine contro i lavoratori siciliani sostituendo l’ispettore, attualmente incaricato della lotta contro il banditismo in Sicilia con il Dott. Spanò, inviando nell’isola il generale dei Carabinieri di Napoli silvio Robino ponendo una taglia di quattro milioni sugli esecutori. Il comunicato del Ministero degli Interni per la prima volta parla di “nefandi crimini” accorgendosi che quattro altri gravi delitti si sono susseguiti in Sicilia in brevissimo tempo. Ma non una sola parola è stata pronunciata per denunciare al paese i responsabili dell’accaduto e l’evidente significato politico.
Nessuno dimentica la scandalosa giustificazione di “mancanza di mezzi” che il Ministero degli Interni avanzò subito dopo l’eccidio di Portella della Ginestra. Ed ecco che mentre Scelba annuncia questi suoi provvedimenti, nel tentativo di mascherare le sue responsabilità, giunge notizia che a Randazzo presso Catania un folto numero di Carabinieri – quelli stessi incapaci di far luce su uno solo dei delitti o di arrestare un solo responsabile – sono penetrati nelle case dei lavoratori e dei contadini senza alcun mandato, in cerca di armi che non hanno trovato, per rastrellare fazzoletti rossi e tessere delle avanguardie garibaldine. Ciò mentre poche ore prima, a Campoleone, un dirigente contadino era stato massacrato!
Il compagno Parodi, dell’Esecutivo nazionale della C.G.I.L. e il compagno Macaluso, segretario regionale della C.G.I.L., insieme ad altri rappresentanti sindacali, si sono recati a Camporeale per condurre un’indagine sull’assassinio.
È stata immediatamente richiesta dai dirigenti sindacali – sotto forma di ultimatum – la sostituzione del commissario locale di pubblica sicurezza Marzano, la destituzione del Sindaco di Camporeale legato notoriamente alla mafia, la sostituzione del maresciallo dei carabinieri e di tutta la guarnigione. G.I.
Articolo di LA SICILIA del 30 Marzo 2008
Il sindacalista che sfidò la mafia
di Dino Paternostro
La sera dell’1 aprile 1948 la piazza del paese pullulava di contadini che discutevano animatamente. Calogero Cangialosi, 42 anni, segretario della Cgil, venne «freddato» vicino casa con decine di colpi alla testa e al petto.
Era la sera del 1° aprile 1948. Non faceva più freddo e la piazza di Camporeale pullulava di contadini, che discutevano animatamente tra loro. In quei giorni, l’argomento era sempre lo stesso: le elezioni politiche del 18 aprile e la «lezione» che la povera gente avrebbe potuto dare a “lorsignori”, i padroni del feudo. Anche alla Camera del lavoro quella sera si era tanto parlato di questo, insieme alle lotte da organizzare per l’applicazione dei decreti Gullo sulla divisione del grano a 60 e 40 e sulla concessione alle cooperative contadine delle terre incolte e malcoltivate degli agrari.
Poi, Calogero Cangialosi, quarantunenne segretario della Cgil, guardò l’orologio, si accorse che si era fatto tardi e salutò i presenti per tornare a casa. «Calogero, aspetta che ti accompagniamo noi», gli dissero Vito Di Salvo, Vincenzo Liotta, Giacomo Calandra e Calogero Natoli. Il loro non fu un gesto di cortesia, ma un modo per proteggere il dirigente sindacale, che era nel mirino della mafia. L’offerta di una «scorta», insomma. Tutti e cinque uscirono dalla sede della Camera del lavoro, che si trovava in piazza, e si avviarono verso via Perosi, dove Cangialosi abitava con la moglie, Francesca Serafino di 35 anni, e i suoi quattro figli: Francesca di 11 anni, Giuseppe di 5, Michela di 3 e Vita di appena 2 mesi. Erano quasi arrivati, quando dalla parte alta di via Minghetti, che faceva angolo con via Perosi, si udì un crepitare di mitra. Decine di colpi, sparati in rapida successione e ad altezza d’uomo, si abbatterono sull’intero gruppo. Colpito alla testa e al petto, Cangialosi cadde per terra, spirando all’istante. Anche Liotta e Di Salvo furono colpiti e feriti gravemente. Miracolosamente illesi rimasero, invece, Calandra e Natoli.
Erano le 22.30. Il rumore degli spari attirò tanta gente. Qualcuno capì quello che era accaduto ed andò di corsa a chiamare i cognati del sindacalista ucciso e i parenti dei due feriti. Questi ultimi furono trasportati all’ospedale, mentre Cangialosi fu portato nella casa del suocero. La moglie Francesca stava allattando la piccola Vita, seduta su una seggiola, quando arrivò un fratello a chiamarla. Immediatamente lasciò la neonata ad una vicina di casa e corse a casa del padre. Calogero era stato sdraiato sul letto, col corpo crivellato dai proiettili. Urla, scene di disperazione. Poi arrivarono i carabinieri, fecero le domande di rito e raccomandarono di non toccare il cadavere fino all’arrivo del magistrato per la perizia. Allora Camporeale faceva ancora parte della provincia di Trapani e passarono ben quattro giorni prima che un giudice del capoluogo si degnasse di mettere piede in paese. «Nel mentre mio marito era gonfiato tutto, fino a diventare irriconoscibile», avrebbe poi raccontato la moglie.
Finalmente si poterono svolgere i funerali, a cui parteciparono tutti i contadini del paese e dei comuni del circondario. In mezzo a loro e accanto ai familiari di Cangialosi c’era anche il segretario nazionale del Partito Socialista, Pietro Nenni, venuto ad onorare il suo compagno di partito, 36esimo sindacalista assassinato dalla mafia in quegli anni del secondo dopoguerra. Il 35esimo era stato Placido Rizzotto a Corleone (10 marzo) e il 34° Epifanio Li Puma a Petralia Sottana (2 marzo). Disperazione e rabbia si toccavano con mano. Erano palpabili. «La sera del 16 aprile ’48 – racconta Nicola Cipolla, uno dei capi contadini siciliani di quel periodo – al comizio di chiusura della campagna elettorale, i mafiosi scomparvero tutti dalla piazza per paura dei contadini». Ed accadde un «miracolo»: il 18 aprile il «Fronte Democratico Popolare», composto dal Psi e dal Pci, fu sconfitto in tutta la Sicilia, ma non a Camporeale, dove ottenne ancora più voti delle regionali del ’47.
Fu l’ultimo regalo di Calogero Cangialosi ai suoi contadini. Per quell’omicidio, la giustizia «ingiusta» di allora non riuscì nemmeno ad imbastire un processo. Nonostante tutti sapessero che a dare l’ordine di morte era stato il proprietario terriero “don” Serafino Sciortino, mentre a sparare ci avevano pensato il capomafia Vanni Sacco e i suoi «picciotti», si procedette contro «ignoti», che tali rimasero per sempre. Poi sulla vicenda cadde il silenzio.
Articolo di LA SICILIA del 15 Aprile 2007
«Non perdono gli assassini»
di Dino Paternostro
Francesca Serafino, 94 anni, ricorda nei dettagli l’uccisione del marito, il segretario della Camera del Lavoro di Camporeale, Calogero Cangialosi, il 1° aprile del 1948. Conserva ancora per ricordo la cravatta crivellata dai buchi dei proiettili.
«Il sangue di mio marito, le ferite, guarda quanti buchi! Quando è morto gli cambiavamo le camice e lui buttava sempre sangue… le ferite le baciavamo tutte io e mia suocera, il sangue usciva, usciva, passava a fiumi il sangue… Questa cravatta la portava il giorno che morì: guarda quanti buchi! Uno, due, tre, quattro, cinque!». Ha rievocato così Francesca Serafino le ore drammatiche, immediatamente successive alla morte del marito, Calogero Cangialosi, segretario della Camera del lavoro di Camporeale, che la feroce mafia del feudo assassinò la sera del 1° aprile 1948.
Era il 24 maggio 2003, quando Gabriella Ebano l’ha intervistata a Grosseto, in Toscana, dove ormai vive da anni con i figli e i nipoti. Allora aveva 90 anni. Oggi di anni ne ha 94, ma è ancora molto lucida e determinata. Non ha mai dimenticato quei momenti, non ha mai dimenticato il suo Calogero, con cui si era sposata il 19 settembre del ’35. Non ha dimenticato che tennero in casa il corpo del marito morto per ben quattro giorni, fino a quando il magistrato non si decise a recarsi da Trapani a Camporeale il sopralluogo di rito. E non riesce a dimenticare che il parroco del paese non voleva nemmeno autorizzare la celebrazione dei funerali in chiesa. «Ma mio marito era socialista, non era comunista!», dovette dirgli Francesca per convincerlo. Conserva ancora la sua cravatta piena dei buchi dei proiettili. E non è disposta a perdonare. «Come si può perdonare… forse il Signore può perdonare», ha detto alla scrittrice, che ha inserito l’intervista nel volume «Felicia e le sue sorelle» (Ediesse, Roma, 2005). Ma attingiamo ancora ad altri “fotogrammi” dei ricordi di Francesca.
«Legge non ne hanno fatta. Il processo per mio marito non l’hanno fatto! Io sono andata al mio paese, dalla legge, e ci ho detto così: “A mio marito lo hanno ucciso e io voglio giustizia!”. Mi rispose il maresciallo: “Signora, se ne vada a casa, a noi non si comanda! Comanda la mafia! A chi ha ucciso suo marito gli hanno dato quattro tumuli di frumento». Quattro tumuli di frumento per ammazzare una persona! Allora io, non contenta, con i miei fratelli… andai ad Alcamo a ripetere la stessa cosa: “Voglio la legge, che a mio marito l’hanno ucciso!”. La stessa cosa che a Camporeale: “Signora, a noi si comanda. Comandano loro, la mafia! Suo marito l’hanno ucciso per quattro tumuli di frumento”. Come mi dissero al mio paese, mi dissero ad Alcamo».
Non c’era legge e non c’era giustizia, allora, nei paesi del feudo, dominati dagli agrari e dalla mafia. E nessuno pagò per il delitto Cangialosi. Né il capomafia di Camporeale, Vanni Sacco, né il grosso proprietario terriero don Serafino Sciortino, di cui Cangialosi era mezzadro. «Un giorno – ha raccontato ancora a Gabriella Ebano – lo chiama uno – io ero davanti la porta, seduta al sole con mio marito – e gli dice: “Calogero, ti vuole parlare don Serafino, ma non passare nella strada principale, vieni dalla campagna». Ed io ho detto a mio marito: “Ma che cosa vuole questo?”. Io allattavo la bambina piccola, che aveva tre mesi. Mio marito avvisò tutti i compagni del Partito socialista, della sezione. (Forza Signore, forza per raccontare…) Mio marito tardava e i compagni stavano in pensiero. Allora tutti armati di scopette [fucili] andarono in questa casa di campagna a cercare mio marito e arrivati bussarono: “Noi vogliamo Cangialosi!”. E quelli risposero che Cangialosi non c’era. “Non c’è? Chissà cosa succederà!?”. E mentre i compagni aspettavano, lì, sotto il portone, dentro le stanze c’erano i mafiosi… “Se tu ti levi dal partito ti mandiamo in America, l’America Argentina, o se vuoi ti facciamo la cavalla, se tu abbandoni la politica”. Ma mio marito rinunciò a questa offerta… Erano tutti dentro le stanze, i mafiosi, e chiamarono don Serafino. Mio marito me lo raccontò dopo. Intanto i compagni della sezione lo aspettavano. “Mandate Cangialosi, altrimenti succederanno cose brutte stasera!”. Il proprietario di questo appartamento fece uscire la moglie. Chissà che dovevano fare! Ma quando lui capì, fece chiamare la moglie che era da una parente e fecero andare fuori mio marito, nella campagna. Ma se non usciva, avevano pronta una macchina per portarlo via come Rizzotto…». «Questo è avvenuto quattro giorni prima che l’uccidessero», ricorda Francesca.
Articolo del 21 Marzo 2012 da casarrubea.wordpress.com
La doppia morte di Calogero Cangialosi
di Giuseppe Casarrubea
Oggi mi fanno ridere quelli che fanno antimafia. Pubblicando un libro al mese, preparando fiction o mostre di pittura o, semplicemente, facendo retorica politica, allestendo incontri, dibattiti e manifestazioni varie. Certo, per niente e niente è meglio che ci siano tutte queste belle iniziative, ma non è detto che creino coscienza, come potrebbe, invece, avvenire con un lavoro ben fatto a scuola. A tutta questa massa di gente darei in mano una pala e un pico per spalare la polvere che si è sedimentata sotto i loro piedi e per togliere le incrostazioni cementatesi sulla loro coscienza, nella loro percezione deformata, nella presunzione tronfia di chi predica bene e poi magari razzola male. O, predica soltanto. Il che è quanto ci basta e ci soverchia.
Se penso all’antimafia, cuore e mente vanno ai pionieri che sapevano solo di rimetterci le penne, che si battevano per la gente comune, che avevano il nemico dietro l’angolo, a portata di fucile, di coltelli, di pistole, di bombe. Sindacalisti e uomini di Stato, come La Torre, Falcone e Borsellino, che ci rimettevano sempre di tasca propria, pelle compresa. Che tiravano dritto armati solo dei loro ideali. Come fu Calogero Cangialosi, sindacalista di Camporeale, ammazzato il 1° aprile 1948 da Vanni Sacco che non gradiva che nel suo paese qualcuno se la pigliasse contro i latifondisti e si battesse per portare un paese sperduto ai confini del mondo allo stesso livello dei paesi civili dell’Italia. Applicando le leggi di riforma agraria, lottando perché i contadini poveri avessero riconosciuto il diritto a un’equa ripartizione dei prodotti agricoli, o perché l’intera comunità di quel paese dimenticato da Dio fosse finalmente condotta sotto le regole della legge dello Stato e non della mafia.
La sera del 1° aprile di quell’anno, Calogero usciva dalla Camera del Lavoro dopo una giornata di fatiche e di impegno per la stipula di nuovi contratti di mezzadria. Si era già in piena campagna elettorale e ai signorotti locali non piaceva che quell’uomo deciso, se ne tornasse a casa indisturbato. Dava troppo fastidio e questo, come era accaduto a Epifanio Li Puma il precedente 2 marzo e a Placido Rizzotto, il 10 marzo successivo, non poteva essere perdonato.
I killer di Sacco lo aspettarono per il suo rientro e, quando lo videro, gli scaricarono addosso le loro armi.
Si chiudeva, così, con l’uccisione di questi tre sindacalisti socialisti, la reazione armata contro le punte più in vista del movimento contadino nella Sicilia occidentale. L’ala che non aveva aderito alla scissione, avvenuta nel gennaio dell’anno precedente, di Palazzo Barberini, ma che era stata fedele al Blocco del Popolo che, in Sicilia aveva vinto le elezioni regionali del 20 aprile 1947.
E come non ricordare, assieme a Calogero, sua moglie Francesca Serafino? Fino ad alcuni anni fa mi telefonava di tanto in tanto. Il suo grande desiderio era di tornare in Sicilia e di essere seppellita accanto alla tomba del suo Calogero. Lei, donna indifesa, 94 anni, dopo oltre sessant’anni da quando era stata costretta ad abbandonare la Sicilia, aveva solo questo desiderio. Era dovuta emigrare a Grosseto con i suoi quattro figli ancora piccoli, ma nessuno era riuscito a togliere dalla sua testa le scene di morte della sua Camporeale. Con i suoi vestiti a lutto le conservava ancora come cimeli di una lacerazione sempre viva, senza rimedio come un male incurabile. La cravatta di suo marito crivellata di colpi di arma da fuoco. La camicia sporca di sangue. Il nero del lutto che da allora l’aveva uccisa, dentro e fuori, assieme al suo Calogero. Un lutto reso ancora più pesante dall’ignoramento costante e maligno dello Stato che ancora non ha profferito una sola parola su un processo mai istruito, su un atto dovuto da sempre rifiutato. Imperdonabili gli assassini, imperdonabile questo Stato.
Fonte: cittanuove-corleone.net
Articolo del 31 marzo 2019
Calogero Cangialosi. A colpi di mitra contro il segretario della Camera del lavoro di Camporeale
di Dino Paternostro
Oggi cade il 71° anniversario dell’assassinio di Calogero Cangialosi, segretario della Camera del lavoro di Camporeale, caduto la sera del 1° aprile 1948.
Quella sera non faceva più freddo e la piazza di Camporeale pullulava di contadini che discutevano animatamente tra loro delle elezioni politiche che si sarebbero tenute il18 aprile. Anche alla Camera del lavoro quella sera si era tanto parlato di questo. Calogero Cangialosi, quarantunenne, segretario della Cgil, salutò i presenti per tornare a casa, accompagnato da Vito Di Salvo, Vincenzo Liotta, Giacomo Calandra e Calogero Natoli. Il loro non era un gesto di cortesia, ma un servizio di “scorta” che i contadini garantivano da mesi al loro dirigente, ormai nel mirino della mafia.
Tutti e cinque uscirono dalla sede sindacale, che si trovava in piazza, e si avviarono verso via Perosi, dove Cangialosi abitava con la moglie, Francesca Serafino, di 35 anni, e i suoi quattro figli: Francesca di 11 anni, Giuseppe di 5, Michela di 3 e Vita di appena 2 mesi. Erano quasi arrivati, quando dalla parte alta di via Minghetti, che faceva angolo con via Perosi, si udì un crepitare di mitra. Decine di colpi, sparati in rapida successione ad altezza d’uomo, si abbatterono sull’intero gruppo. Colpito alla testa e al petto, Cangialosi cadde per terra, morendo all’istante. Anche Liotta e Di Salvo furono colpiti e feriti gravemente. Miracolosamente illesi rimasero, invece, Calandra e Natoli. Il corpo di Cangialosi fu portato nella casa del suocero. Arrivarono i carabinieri, fecero le domande di rito e raccomandarono di non toccare il cadavere fino all’arrivo del magistrato per la perizia. Allora Camporeale faceva ancora parte della provincia di Trapani e passarono ben quattro giorni prima che un giudice del capoluogo si degnasse di mettere piede in paese. «Nel mentre mio marito si era gonfiato tutto, fino a diventare irriconoscibile», avrebbe poi raccontato la moglie Francesca.
Ai funerali parteciparono tutti i contadini del paese e dei comuni del circondario. In mezzo a loro e accanto ai familiari di Cangialosi c’era anche il segretario nazionale del Partito Socialista, Pietro Nenni, venuto personalmente a Camporeale, in Sicilia, per onorare il suo compagno di partito, trentaseiesimo sindacalista assassinato dalla mafia in quegli anni, subito dopo Placido Rizzotto ed Epifanio Li Puma. Ma per quell’omicidio, la giustizia “ingiusta” di allora non riuscì nemmeno a imbastire un processo. Nonostante tutti sapessero che a impartire l’ordine di morte era stato il proprietario terriero don Serafino Sciortino, mentre a sparare ci avevano pensato il capomafia Vanni Sacco e i suoi “picciotti”, si procedette contro ignoti, che tali rimasero per sempre. Poi sulla vicenda cadde il silenzio.
Calogero Cangialosi i era mezzadro di don Serafino Sciortino, un grande proprietario terriero di Camporeale. Quando il capolega gli disse senza mezzi termini che il grano bisognava dividerlo come per legge – 60 per cento ai contadini, 40 per cento ai proprietari –, don Serafino fece scattare la “punizione”. Invitò Cangialosi a casa sua per un “ragionamento”, ma il capomafia Vanni Sacco e i suoi “picciotti” lo sequestrarono, con l’intenzione di ucciderlo, come la mafia di Corleone aveva fatto con Rizzotto. Ma i contadini della Camera del lavoro di Camporeale riuscirono a scoprire il luogo in cui Calogero era tenuto prigioniero e un “commando” di compagni, armati di lupare, riuscì coraggiosamente a liberarlo. «Questo è avvenuto quattro giorni prima che lo uccidessero», ha ricordato la moglie Francesca. Purtroppo, la sera del 1° aprile non fu più così. Stavolta i mafiosi organizzarono un vero e proprio raid terroristico. Colpito da diversi colpi di mitra, Cangialosi morì, lasciando soli e nella disperazione la moglie e i suoi quattro figli.
«Ero piccola allora – ha raccontato la figlia Francesca – Avevo appena 11 anni. Ricordo che quando mio padre tornava a casa, si avvicinava sempre ai nostri lettini e ci rimboccava le coperte con tanta tenerezza. Lo ricordo perché a volte facevo solo finta di dormire… Mio padre era una persona buona, che faceva bene a tutti…».
Dopo qualche anno la moglie e i figli di Cangialosi emigrarono in Toscana, dove sono rimasti per sempre. Nel 1998 il Comune di Camporeale ha dedicato una piazza a Calogero Cangelosi. Ogni anno, la Cgil e il Comune lo ricordano con una cerimonia a cui partecipano anche gli alunni delle scuole. Quest’anno sarà ricordato ufficialmente il 30 aprile, insieme agli altri dirigenti ed attivisti sindacali assassinati dalla mafia, come deciso al congresso della Camera del lavoro di Palermo.
Fonte: mafie.blogautore.repubblica.it
Articolo del 6 marzo 2020
La storia di Calogero Cangialosi
di Sonia Grechi, nipote di Calogero Cangialosi
a cura di Asia Rubbo
Calogero Cangialosi fu un sindacalista e un politico siciliano, originario di Camporeale, un piccolo comune tra Trapani e Palermo. Segretario della Camera del Lavoro e del Partito Socialista locale, Cangialosi dedicò la sua vita alla giustizia mettendosi al servizio dei contadini ridotti in povertà e sfruttati dal latifondo.
Fu proprio a causa della sua determinazione e del suo coraggio che, dopo essere stato a lungo nel mirino della mafia e del potere locale, trovò la morte l’1 aprile del 1948.
Oggi la storia di Calogero Cangialosi è affidata a sua nipote, Sonia Grechi, che se ne fa carico e testimone, tenendone viva la memoria e lottando per ottenere finalmente giustizia.
Nonno Calogero ha sacrificato la sua esistenza e condizionato quella delle persone a lui vicine per un ideale, per la giustizia e per la creazione di quelle condizioni di democrazia che sono alla base di una società moderna ed emancipata dal sopruso e dallo sfruttamento. Aveva solo 41 anni quando è stato ucciso, una moglie che lo adorava e quattro splendidi figli, di cui la più piccola, Vita, mia mamma, aveva solo due mesi.
Era il 1948. Il nostro Paese, dopo il conflitto mondiale, tentava di rialzarsi e la Costituzione era stata appena varata. “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, recita l’articolo 1. Già, ma quale lavoro? Non certo quello sottopagato dai latifondisti ai contadini siciliani, sfruttati, ridotti alla condizione di minima sussistenza, ostaggio della povertà e con la dignità di uomini calpestata dal profitto e dell’interesse. Allora anche il semplice tabacco rappresentava un lusso.
Mio nonno di tutto ciò era consapevole e sovente si faceva consegnare del denaro dalla nonna e, con questo, comprava le preziose sigarette donandole a chi era meno fortunato di lui. Troppi lo erano. E lui, segretario del PSI e di Federterra, oltre che della Camera del Lavoro di Camporeale, se ne era reso conto e non voleva che i suoi figli fossero costretti a vivere in questa condizione. Anche per questo si era impegnato in prima persona, essendo uomo di grande intelligenza e spessore, per cambiare lo stato delle cose. Del resto, le norme esistevano, solo che non venivano rispettate.
Al tempo, infatti, erano stati approvati i “decreti Gullo” con cui si stravolgeva il concetto del lavoro riconoscendo ai contadini il 60 per cento del raccolto. Una svolta epocale questa, che avrebbe permesso di smarcare dalla povertà un’ampia fetta di popolazione, restituendole la dignità perduta. La determinazione di mio nonno lo porto ad uno scontro violento con don Serafino Sciortino, latifondista di Camporeale di cui lui era mezzadro. Sciortino non avrebbe mai permesso quanto i decreti indicavano e, per questo, propose a nonno Calogero una “buonuscita”: un biglietto di sola andata per gli Stati Uniti d’America per lui e la sua famiglia, accompagnato da un bonus. La proposta, però, venne fermamente respinta.
Nonno Calogero non si fece dissuadere e restò fermo nelle sue intenzioni. Pochi giorni prima, il 10 marzo, il suo compagno e amico Placido Rizzotto, era stato fatto sparire dal capomafia di Corleone. Malgrado tutto, però, quella morte non lo intimidì. Don Serafino giocò un’ultima carta per tentare di convincerlo ad abbandonare la causa. Il 28 marzo lo invitò a casa sua per discutere della faccenda, ma Cangialosi venne sequestrato dal capomafia Vanni Sacco e dai suoi picciotti, con l’intenzione di ucciderlo.
Il piano però non venne portato a termine perché i compagni della Camera del Lavoro e i contadini, dopo aver scoperto dove era tenuto prigioniero andarono a liberarlo con un commando armato di lupare. Nonno Calogero, indomito, continuò nella sua lotta, con la consapevolezza che ormai il suo destino era segnato. Nemmeno il grande, immenso amore per la sua famiglia, lo avrebbero distolto dal perseguimento dei propri ideali. La sete di giustizia e di libertà era talmente grande che nulla e nessuno l’avrebbe potuta soddisfare, neppure la vista dei suoi figli ai quali soleva rimboccare le coperte quando rientrava a casa dopo una giornata di lavoro e di lotta politica. Arrivò la sera del primo aprile, la piazza di Camporeale era piena di contadini che discutevano per le imminenti elezioni politiche del 18 di quel mese e alla Camera del lavoro si era fatto tardi proprio per parlare di tutto questo.
Nonno Calogero salutò i presenti per tornare a casa, accompagnato da Vito di Salvo, Vincenzo Liotta, Giacomo Calandra e Calogero Natoli. I compagni, ogni giorno, garantivano la scorta al loro dirigente sindacale nel mirino della mafia. Tutti e cinque uscirono dalla sede sindacale, che si trovava in piazza, e si avviarono verso casa di nonno Calogero. Erano quasi arrivati, quando si udì un crepitare di mitra. Decine di colpi, sparati in rapida successione ad altezza d’uomo, si abbatterono sull’intero gruppo. Colpito alla testa e al petto, Calogero cadde a terra, morendo all’istante. Anche Liotta e Di Salvo furono colpiti e feriti gravemente. Miracolosamente illesi rimasero invece Calandra e Natoli. Il corpo del nonno fu subito portato a casa del suocero e, dopo la sua morte, passarono ben quattro giorni prima che un giudice di Alcamo si degnasse a mettere piede in paese. Ai suoi funerali parteciparono tutti i contadini di Camporeale e dei comuni del circondario. In mezzo a loro e accanto ai familiari anche il segretario nazionale del Partito Socialista Italiano, Pietro Nenni, venuto personalmente a Camporeale, per onorare il suo compagno di partito. Per quell’omicidio, tuttavia, non ci fu mai giustizia. Non fu imbastito nemmeno un processo, nonostante tutti sapessero che a dare l’ordine di morte era stato il proprietario terriero don Serafino Sciortino, mentre a sparare ci avevano pensato il capomafia Vanni Sacco e i suoi picciotti. Si procedette quindi contro ignoti che, tali, rimasero per sempre.
La storia vissuta dalla famiglia Cangialosi non ha visto come protagonista solo mio nonno, ma anche sua moglie Francesca Serafino e i suoi quattro figli, Franca, Giuseppe, Michela e Vita. Francesca, donna fortissima, ha cresciuto con la fermezza di un uomo e con la tenerezza di una madre i suoi figli. E se nonno Calogero ha perduto il bene più prezioso, quello della vita, è giusto riflettere su cosa è spettato a mia nonna, persona alla quale è stato sottratto l’amore di un marito e il suo unico sostentamento, che si è dovuta reinventare capofamiglia nella Sicilia del dopoguerra. I suoi figli, invece, hanno perduto in tenera età l’affetto di un padre e con lui un punto di riferimento, trovandosi a vivere momenti difficili e in taluni casi non riuscendo neppure adesso a superare il trauma o le conseguenze di quanto accaduto.
Grosseto nel 1960 fu l’unica possibilità per vincere la povertà in cui la famiglia di Cangialosi, priva del suo sostentamento principale, abbandonata dalla giustizia e con tutte le difficoltà di un territorio sempre più povero, si era ritrovata suo malgrado.
Probabilmente è qui che lo Stato è venuto a mancare. Impedire alla giustizia di fare il suo corso, non riconoscere nonno Calogero come vittima di mafia, ha fatto sì che mai sia stato concesso un benché minimo sostegno a chi ha dovuto subire una perdita incolmabile come quella di un marito e di un padre. Ancora oggi si tratta di una mera questione di giustizia per riparare, a distanza di settant’anni, ad un torto e sanare un colpevole errore della magistratura, che non ha mai condannato né il mandante, né gli esecutori materiali di quell’omicidio pagato con quattro tumuli di frumento.
È doveroso restituire giustizia, perché solo così si può continuare a dare voce a questi eroi ormai muti. Una voce da cui si possano trarre quegli insegnamenti che devono essere oggi pietra angolare della nostra società civile affinché possa farsi forza dei principi che hanno guidato le menti di questi straordinari personaggi, esempio e guida per le generazioni più giovani e per quelle che verranno. Tocca a noi far sì che non vengano dimenticati, implementandone il ricordo. Perché il ricordo è il tessuto dell’identità. Quella stessa per la quale nonno Calogero, settanta anni fa, ha sacrificato i propri amori, la sua famiglia e la sua stessa vita.