1 settembre 1951 Delianuova e Piani di Carmelia (RC). Uccisi Antonio Sanginiti, maresciallo dei carabinieri, e Francesco Papalia, un pastore, per vendetta.
Anche Delianuova, agli inizi degli anni Cinquanta, fu al centro di una tragica vicenda di violenza. All’alba del 3 Luglio 1951 in un conflitto a fuoco con i carabinieri vennero uccisi due giovani del luogo, Gianni Macrì, latitante, e un suo amico, Leo Palumbo. Poco meno di due mesi dopo, Angelo Macrì, un boscaiolo incensurato di 20 anni, fratello di una delle vittime, sfogava la sua vendetta contro il maresciallo Antonio Sanginiti, comandante della locale stazione. Poi andava ad ammazzare sui piani di Carmelia il pastore Francesco Papalia, l’uomo che avrebbe indicato ai carabinieri il nascondiglio del fratello. Angelo Macrì verrà arrestato il 9 febbraio 1956 a Buffalo, negli Stati Uniti, dove era emigrato illegalmente e dove si faceva chiamare Domenico Ferrara.
Tratto dal libro Fratelli di Sangue di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso pag. 169
Tratto dal libro Dimenticati – Vittime della ‘ndrangheta di Danilo Chirico e Alessio Magro pag. 201
[…] La mattina di sabato 1 settembre 1951 (Antonio Sanginiti) si alza di buon’ora e va in piazza, si siede a uno dei tavolini del caffè Loria, che sta a due passi dall’ufficio postale e chiacchiera con alcuni amici. Intorno alle dieci qualcuno nota l’arrivo di un giovane. si chiama Angelo Macrì, ha ventitre anni e tutti in paese lo conoscono come il classico bravo ragazzo. Da qualche tempo Angelo ha una strana luce negli occhi. Il suo sguardo è cambiato da quando, pochi mesi addietro, il maresciallo Sanginiti ha arrestato i suoi fratelli Rocco e Giuseppe. Soprattutto da quando, appena poche settimane prima, l’altro fratello, Giovanni, è rimasto ucciso durante un conflitto a fuoco con i carabinieri. Quella mattina Angelo è nervoso e glielo si legge in volto. Arriva in piazza e poi torna verso casa. Si rifà vedere in piazza verso le undici ed entra nell’ufficio postale. Poi, con un movimento repentino, esce dal cancello e si dirige verso il bar. Impugna una pistola, tende il braccio dritto davanti a sé e lo punta verso il suo obiettivo. Prende la mira. Spara. Il maresciallo Sanginiti si accascia a terra e muore.
Angelo Macrì non si scompone e non perde la calma. Si guarda attorno e coglie la paura nello sguardo delle persone. Poi si volta e a passo spedito va verso la periferia del paese, si nasconde nelle campagne. E fa perdere le sue tracce in pochi minuti. Ma non basta. Poco dopo va verso Carmelia, la zona nota in tutta la Calabria per i pini secolari e i castagni. Lì c’è la casa di Francesco Papalia, un pastore. Arrivato, chiede notizie al figlio. Il ragazzo, inconsapevole di quanto sta succedendo, gli indica la strada: mio padre è in contrada Mastrogianni. Lì in pieno bosco è stato allestito un punto di ristoro per i pellegrini che “scalano” a piedi la montagna diretti verso il santuario della Madonna di Polsi, nel cuore dell’Aspromonte, dove per la festa che si celebra proprio nei primi giorni di settembre arrivano migliaia di persone da tutta la provincia di Reggio Calabria.
Angelo Macrì arriva in pochi minuti, trova Francesco Papalia seduto davanti a una tavola imbandita. Con lui ci sono alcuni amici e un gruppo di pellegrini. Papalia invita il giovane a sedersi, a bere e mangiare qualcosa. Macrì rifiuta l’invito. Chiede solo un bicchiere d’acqua. Poi gli dice: “Non ho fretta, posso attendere per regolare quel conto”. In quel momento Papalia capisce tutto. Gli si gela il sangue, realizza che Macrì non è lì per caso. Un movimento fulmineo. Il giovane estrae la pistola e spara sette colpi a bruciapelo. Per il pastore non c’è scampo.
[…]
Fonte: deliapress.it
Articolo del 8 giugno 2019
IL SACRIFICIO DEL MARESCIALLO ANTONIO SANGINITI, UCCISO DALLA ‘NDRANGHETA, NEL RICORDO DEI CARABINIERI
di Cosimo Sframeli
In Calabria non si parlava ancora di ‘ndrangheta. Ne parlerà Corrado Alvaro nel 1955, ma era la stessa organizzazione che aveva martoriato e sottomesso, con violenza inaudita, la popolazione dei paesi dell’Aspromonte, della città di Reggio Calabria, dei paesi della Costa Jonica e Tirrenica. Anche i Carabinieri, presenti su tutto il territorio, furono esposti a violenze e uccisioni, pagando con la stessa vita la fedeltà al giuramento prestato. Così recita un riconoscimento conferito ad un eroe e martire dell’Arma:
Comandante di Stazione, già distintosi in precedente operazione, animato da alto sentimento del dovere e spirito di sacrificio, perseverò in difficili e laboriose indagini ed in gravosi prolungati servizi per la cattura di pericolosi banditi, che infestavano la zona. Fatto segno, proditoriamente, da due di essi, asserragliati in una capanna, a raffiche di mitra e colpi di pistola, seguiti da lancio di bombe, sostenne, a capo di un drappello di dipendenti, aspro conflitto, durante il quale, con sereno sprezzo del grave pericolo, si portò a distanza di circa tre metri dalla capanna, persistendo, audacemente, nell’azione di fuoco, finché i delinquenti caddero con le armi alla mano. Venne assassinato a tradimento, dopo circa due mesi, dal fratello di uno degli uccisi.
Fu questa la motivazione con cui il Generale C.A. Alberto Mannerini, Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, il 22 ottobre 1951, tributò, alla memoria, come prima attestazione di merito, l’Encomio Solenne al Maresciallo d’Alloggio Antonio SANGINITI, ucciso dalla ‘ndrangheta per vendetta.
Antonio SANGINITI, cl 1910 da Petrizzi (CZ), iniziò la sua carriera a Delianova (RC), dove il destino volle che la finisse. Aveva servito lo Stato e l’Arma dei Carabinieri, quale Comandante della Stazione di Delianuova (RC), con grande senso dell’Onore Militare, meritandosi l’incondizionata stima della popolazione e dei superiori gerarchici.
SANGINITI, la mattina di sabato del I settembre 1951, seppur in licenza, in compagnia di conoscenti, era seduto a un tavolo di fronte al caffè Loira, nei pressi dell’Ufficio postale, sul Corso Umberto I di Delianova. Verso le ore 10:00 comparve Angelo MACRÌ, giovane incensurato, fratello di Rocco e Giuseppe, arrestati dal Maresciallo SANGINITI nei primi mesi del 1951, e di Gianni, caduto in conflitto a fuoco con i Carabinieri il 3 luglio dello stesso anno. Senza farsi notare, il MACRÌ, con azione fulminea, pistola in pugno, indirizzando l’arma, una Beretta calibro 9, a braccio teso, contro il Maresciallo SANGINITI, sparò quattro colpi a bruciapelo. Il Sottufficiale, attinto alla regione toracica, senza alcun lamento, per le gravi ferite riportate, si accasciava a terra. L’assassino fece pochi passi indietro, manifestando un senso di disprezzo verso la sua vittima e, a passi lenti, si dileguò per i vicoli circostanti con l’intento di raggiungere l’Aspromonte. A un giovane, che gli veniva incontro domandandogli cosa fosse accaduto, disse con fermezza: “Il Maresciallo non mi chiamerà più in caserma! Per lui è finita. E finirà presto anche per qualche altra carogna”. Superati i primi momenti di sbigottimento, l’Avv. LOMBARDO, il Sindaco di Delianova, l’Ing. FRISINA e il Dott. Leopoldo GRECO, tentarono di soccorrere il Maresciallo agonizzante. Ma non ci fu nulla da fare: senza un lamento SANGINITI reclinò il capo nello spasimo della morte. Il MACRÌ aveva applicato la “sua legge”, la legge della ‘ndrangheta, della latitanza, della malavita, della vendetta contro il Sottufficiale dei Carabinieri che aveva contributo all’azione di bonifica sociale in un territorio in cui l’”Onorata Società” dominava da padrona incontrastata.
Volle compiere la sua personale vendetta contro SANGINITI, mentre a Polsi c’era festa, per l’uccisione del fratello Giovanni, fuorilegge sanguinario ucciso durante un conflitto a fuoco con i Carabinieri. L’anello della lunga catena sporca di sangue (otto delitti erano imputabili ai fratelli MACRÌ) non era finita. In Aspromonte, sui Piani di Carmelia, MACRÌ raggiunse un pastore, considerato confidente dei Carabinieri e responsabile dell’uccisione di suo fratello. In pieno bosco, sotto una tettoia di ramaglie, dove era stato allestito un posto di ristoro per i pellegrini di passaggio diretti al Santuario della Madonna della Montagna, rintracciò il PAPALIA, davanti alla tavola imbandita in compagnia di suoi amici e di alcuni pellegrini che sostavano per un breve riposo. Francesco PAPALIA, di quarantasette anni, non aveva avuto mai a che fare con i MACRÌ. Appena scorse il giovane, lo invitò a sedersi, ma ebbe un netto rifiuto. Il MACRÌ gli chiese un bicchiere d’acqua e gli disse di continuare a mangiare: “perché non aveva fretta e poteva ancora attendere per regolare quel conto”. PAPALIA comprese, dall’atteggiamento risoluto del MACRÌ, che stava per morire. Fu un attimo. Estratta la pistola, esplose immediatamente a bruciapelo sette colpi contro il pastore, che piegò la testa sul petto cadendo fulminato. L’assassino chiese scusa, con atteggiamento spavaldo, ai presenti “per il disturbo che aveva loro arrecato” e si allontanò per un viottolo tagliato nel fitto di un’abetaia. Fatti alcuni passi si voltò indietro e disse a quelli che gli erano più vicini: “E due! C’è ancora un terzo che scoverò ad Acquaro”.
MACRÌ, il futuro “re dell’Aspromonte”, quando uccise il Maresciallo SANGENITI e il pastore PAPALIA, aveva appena diciannove anni, nonostante i suoi fratelli maggiori avevano cercato di lasciarlo fuori dalla malavita. La notte del 3 luglio 1951, il Maresciallo SANGINITI e i suoi militari, in contrada Cammarella, a quota 1200 metri, localizzarono una casupola di sassi, ricoperta di fascine e di terra, dov’era il nascondiglio di Gianni MACRÌ, l’ultimo dei fratelli rimasto latitante. I Carabinieri, avvicinatisi al capanno, ingaggiarono conflitto a fuoco nel quale perirono Gianni MACRÌ, che impugnava un mitra, e Leo PALUMBO, suo favoreggiatore. Angelo MACRÌ era molto legato a suo fratello Giovanni, i più piccoli della famiglia, cresciuti insieme. La mente di Angelo fu ottenebrata dalla “diceria”, subito sparsasi per il paese, che Gianni era stato trucidato nel sonno e che era stato tradito da un delatore. Da qui il tragico regolamento di conti avvenuto il primo settembre successivo davanti al caffè Loria.
Per i due omicidi, i Carabinieri arrestarono venticinque persone per associazione a delinquere, poi scagionati per mancanza insufficienza di prove. Il Giudice Istruttore di Palmi, con sentenza del 3 marzo 1955, prosciolse i Carabinieri da ogni accusa, avendo aver usato legittimamente le armi nello scontro a fuoco con Giovanni MACRÌ e Leo PALUMBO, rinviando a giudizio Angelo MACRÌ, latitante, per duplice omicidio premeditato e aggravato nei confronti del Maresciallo Antonio SANGINITI e il pastore Francesco PAPALIA.
Angelo MACRÌ, soprannominato “re dell’Aspromonte”, lasciò la Montagna e, attraverso la Francia, raggiunse gli Stati Uniti dove, a Buffalo, venne catturato. Di lui rimarrà una terribile leggenda.
Il Presidente della Repubblica, Senatore, Luigi Einaudi, in data 16 ottobre 1954, conferiva al Maresciallo SANGINITI Antonio la Medaglia d’Argento al Valor Civile, riconoscendo l’atto di coraggio, nonché l’ammirevole esempio di abnegazione e di attaccamento al dovere, avendo ingaggiato, con il latitante e con il suo favoreggiatore, aspro conflitto a fuoco, conclusosi con la morte dei due malfattori.