10 novembre 1975 Prato. Rapito Piero Baldassini, giovane industriale, non farà più ritorno a casa. Il suo corpo ritrovato in una cisterna di un casolare nel pistoiese.
L’industriale pratese Piero Baldassini, 32 anni, viene sequestrato il 10 novembre del 1975, mentre in auto fa ritorno a casa. I familiari hanno pagato un riscatto di 700 milioni, ma il giovane industriale non ha fatto più ritorno a casa.
Uno degli arrestati indicherà agli inquirenti il luogo dove è stato «sepolto». La «tomba» verrà trovata in una cisterna di un casolare nel pistoiese.
Fonte: archivio.unita.news
onte: archivio.unita.news
Articolo del 2 ottobre 1976
I rapitori hanno una base sulle colline grossetane?
Siamo arrivati al settimo rapimento.
Pura coincidenza per la zona isolata e lontana dalle grandi strade di comunicazione o centro dell’anonima sequestri? – Maleno Malenotti è stato rapito nello stesso posto, il trottatore Wayne Eden è stato rilasciato qui, Il riscatto Baldassini è stato pagato a pochi chilometri di distanza da dove è stato «prelevato» Bartolomeo Neri.
GROSSETO, 1. Con il rapimento del possidente grossetano Bartolomeo Neri siamo giunti in Toscana al settimo sequestro. Per tutta la giornata la moglie di Bartolomeo Neri, il possidente settantatreenne di Follonica sequestrato ieri sera da quattro individui mascherati mentre stava rientrando alla tenuta San Ottaviano in località Massoni di Monterotondo Marittimo, ha atteso assieme ai parenti che i banditi si facessero vivi. La donna, anch’essa settantenne, appare molto provata. In casa Neri per ora sembra non sia giunto nessun messaggio da parte dei rapitori.
La famiglia Neri non sembra essere molto facoltosa. Il Neri è titolare di una vasta azienda agricola, quella di San Ottaviano, nella quale, oltre agli olivi, si coltivano alberi da frutta, ortaggi. La tenuta si estende su di un’area che supera di poco i 250 ettari. Il Neri comunque assieme ai quattro fratelli nel 1968 ha venduto un vasto appezzamento di terreno alla Montedison della zona di Scarlino. In questa area la Montedison ha poi realizzato lo stabilimento di Scarlino. Nonostante sia stato realizzato questo affare, gli investigatori non qualificano il Neri tra i possidenti di «alto rango».
I rapitori comunque, non possono aver sbagliato persona. Infatti dalla «127» su cui il Neri viaggiava assieme a due amici hanno prelevato solo lui legando gli altri due ad un trattore.
Dei sette rapiti, solo l’industriale, di Lastra a Signa, Romolo Banchini ed il cavallo Wayne Eden per ora però sono ritornati a casa. Del conte «multinazionale» di Greve Alfonso de Sayons, dell’industriale pratese Piero Baldassini, del pensionato di Sesto Fiorentino Luigi Pierozzi e del produttore cinematografico Maleno Malenotti non si è saputo più niente. Tutte le indagini nel caso di Piero Baldassini nonostante il pagamento di oltre 700 milioni, non hanno portato ad alcun risultato concreto.
La zona compresa tra le province di Pisa, Livorno e Grosseto e le colline metallifere comunque compare in numerose occasioni in questi sequestri. La zona, estremamente accidentata e lontana dalle grandi vie di comunicazione, si presta per imprese di questo genere.
L’uomo, che abitava da solo nella tenuta «Il Lago» in località Nicciano, fu sorpreso dai suoi rapitori mentre stava mangiando. Gli inquirenti infatti trovarono la tavola ancora apparecchiata ed una porta della villa forzata.
Anche nello strano sequestro di cui fu vittima il 14 agosto dello scorso anno il purosangue Wayne Eden della scuderia «Mira II», rubato all’ippodromo di Montecatini, dopo aver vinto a tempo di record la riunione clou della serata, compare questa zona della Toscana. Il trottatore infatti fu ritrovato dopo 24 giorni legato ad un olivo in un campo dietro il cimitero di Montescudaio.
Anche nel sequestro del giovane industriale pratese Piero Baldassini, rapito il 10 novembre dello scorso anno mentre stava ritornando alla Villa di Gonfienti la zona delle colline metallifere grossetane ha una sua importanza. In località Sassa vicino a Querceto a pochi chilometri da dove è stato rapito Bartolomeo Neri fu pagato il riscatto di circa 750 milioni di lire. Il legale della famiglia Baldassini, l’avv. Guarducci, che il 22 novembre scorso consegnò personalmente ai banditi i soldi del riscatto, ha raccontato nel gennaio scorso durante una conferenza stampa di aver ricevuto delle indicazioni ben precise dai rapitori. Il Guarducci, dopo che erano andate a vuoto alcuni abboccamenti che dovevano avvenire sempre in questa zona, ricevette una telefonata con cui i banditi lo invitavano a fare questo percorso: Bologna, Pistoia, Montecatini, Livorno, Palazzi di Cecina. Qui doveva prendere la Volterrana fino a Cassino di Terra e quindi procedere verso Canneto, Monterotondo, Massa Marittima, Follonica, Grosseto e Civitavecchia.
Ci si chiede ora se questa zona della Toscana è stata scelta solo casualmente dai banditi che hanno effettuato questi sequestri, in considerazione delle sue particolarità ambientali, oppure se in questa zona l’anonima sequestri toscana ha alcune delle sue basi.
P.B
Fonte: archivio.unita.news
Articolo del 20 luglio 1979
Sequestri: una sentenza esemplare ma non tutti i misteri sono sciolti
di Giorgio Sgherri
Il verdetto dell’assise fiorentina chiude un capitolo atroce e doloroso.
Restano gli interrogativi sulla morte di Bartolomeo Neri, Maleno Malenotti, Marzio Ostini – Individuato il nucleo esecutivo dell’«anonima» – La litania dei «non ricordo» e «non so» interrotta dalle testimonianze.
È una sentenza quella dell’Assise fiorentina che individua e inchioda l’anonima sequestri sarda: quattro ergastoli, due condanne a 20 anni, una a 25 anni, una a 24, una a 22, una a 21, una a 18, una a 16, due a 10 e altre pene minori per complessivi 236 anni e quattro mesi di carcere.
Una sentenza — a differenza di quella di Siena che mandò assolti i sequestratori di Marzio Ostini — che dà una esemplare risposta al crimine organizzato, anche se non c’è pena al mondo che possa ripagare le sofferenze e i lutti delle famiglie che hanno perduto i loro cari. Un verdetto che chiude un capitolo atroce e doloroso dei rapimenti in Toscana e in particolare di quelli di Alfonso De Sayons (anche se il corpo non è stato ritrovato), Luigi Pierozzi e Piero Baldassini.
La loro tragica fine non è più un mistero. Altri misteri rimangono da scoprire, che fine hanno fatto Bartolomeo Neri, possidente di Follonica, Maleno Malenotti, produttore cinematografico scomparso nel grossetano e Marzio Catini, possidente milanese rapito nel senese? Si riuscirà a individuare i responsabili? Per Marzio Ostini c’è qualche probabilità. C’è ancora un’istruttoria in corso, così come per Bartolomeo Neri si indaga dopo la incriminazione di due persone.
Il verdetto dei giudici fiorentini individua in Giacomino Baraglin, Luigi Lodu, Antonio Baragliu e Giovanni Piredda il nucleo esecutivo dell’anonima sequestri che per quattro anni ha imperversato in Toscana.
Giovanni Piredda viene invece indicato come il capo dell’esecutivo. Non a caso i suoi lo chiamavano «cervello elettronico». Quando venne raggiunto dal mandato di cattura si trovava nel carcere di Rebibbia per aver il 27 gennaio 1977, in concorso con altri, sequestrato a scopo di estorsione il ricercato Albino Selvotti che pagò brevi manu 60 milioni per la sua liberazione.
Con l’ingresso di Giovanni Piredda nel processo di Firenze l’organigramma della banda dei sardi con ausiliari siciliani si completò. Piredda dovrà vedersela con il giudice di Montepulciano che conduce l’istruttoria supplementare per il sequestro di Marzio Ostini e che vede indiziati del reato anche il sindaco di Radicofani Alberigo Sannini e il padrino dei sardi dell’alto Lazio Giò Maria Manca.
A Siena Giacomino Baragliu, indicato come uno degli uccisori di Marzio Ostini, sfuggì alla condanna con un’insufficienza di prove. Contro l’istruttoria, quella di Montepulciano, piena di lacune, affrettata, superficiale, finì per vincere la strategia dell’omertà portata avanti con caparbietà dagli imputati e dai loro difensori.
La stessa strategia si è ripetuta a Firenze con gli imputati impegnati nella litania dei «non ricordo», dei «non so». Ma oltre il grosso del materiale accusatorio (appunti, banconote del riscatto Baldassini e indizi vari) alle carte processuali ci sono allegate le testimonianze di due donne, Antonietta Atzeni e Luisa Calamai.
Imputati e difensori hanno cercato di screditare le due testi definendole «puttane» le cui accuse sono state pagate col denaro. La Calamai verrà in aula e confermerà punto per punto le sue accuse anche in un drammatico confronto con il suo ex fidanzato Pietro De Simone.
La svolta al processo si avrà quando il figlio di Luigi Pierozzi, Anile riconoscerà in aula nella voce di Giuseppe Buono quella del rapitore che aveva tenuto i contatti telefonici con la famiglia. Buono vacilla e incomincia a meditare, a valutare il pro e contro sulla convenienza di rompere il muro dell’omertà. Un mese dopo si deciderà a vuotare il sacco, a «tradire» l’anonima sequestri. Indicherà agli inquirenti il luogo dove è stato «sepolto» Piero Baldassini, l’industriale pratese rapito il 10 novembre del 1975. La «tomba» verrà trovata in una cisterna di un casolare nel pistoiese. È il primo decisivo colpo di maglio alle strategie del silenzio degli imputati, poi verranno altre rivelazioni, la scoperta della fossa dove è stato gettato il corpo di Luigi Pierozzi, un pozzo di una cascina a Calenzano.
Per l’anonima sequestri è la fine. Il ritrovamento dei due cadaveri inchioderà alle loro responsabilità gli imputati e permetterà ai giudici togati e popolari di emettere una sentenza, un verdetto, che deve aiutare nella lotta contro il crimine che continua a imperversare.
Fonte: archiviolastampa.it
Articolo del 19 ottobre 1983
Sequestrati, picchiati e uccisi
di Lorenzo Del Boca
D’altra parte, la Toscana conosce storie di delinquenza criminale spietata. Quale pietà? L’anonima sequestri, i suoi ostaggi li teneva prigionieri e poi, una volta incassato il riscatto, li ammazzava e li squartava come bestie.
Perché? Perché le pecore belano e si fanno sentire. Gli uomini si possono costringere al silenzio finché sono legati, ma poi ricordano e, per non correre rischi, è più facile farli fuori. Storie inumane.
Il primo sequestro è stato quello di Alfonso De Sayons, un argentino trapiantato nel cuore della terra del Chianti, abbastanza ricco ma anche tanto spaccone da lasciar credere di esserlo ancora di più. Si faceva chiamare barone e non lo era e teneva in casa una vetrina che proteggeva dei pezzi di antiquariato falsi. I banditi hanno fiutato l’affare, una sera sono entrati nella sua villa e l’hanno portato via. Ma il sequestrato viveva solo e non aveva parenti. Chi poteva pagare? Ma all’errore si può rimediare. L’hanno ucciso, e il becchino, Luciano Ladu (ergastolo), che l’ha seppellito, ha avuto cura di sventrarlo dal collo alle cosce. Sottoterra, il cadavere avrebbe potuto gonfiarsi e la terra, crescendo di volume, avrebbe indicato che lì sotto c’era una tomba.
Luigi Pierozzi pensionato di Sesto Fiorentino, con un buon patrimonio finanziario alle spalle, è stato strangolato e infilato in una buca scavata fra l’Autostrada del Sole e la Firenze-Mare, a due passi da una chiesa.
Piero Baldassini, industriale di Prato, l’hanno trovato invece in un pozzo, legato mani e piedi con del filo di ferro e il petto aperto da una fucilata sparata a bruciapelo. Hanno usato i pallettoni che servono per cacciare il cinghiale. Per lui erano già stati pagati settecento milioni L’ha raccontato Giuseppe Buono, un casertano che viveva da anni in Toscana e che ha deciso di pentirsi è di raccontare tutto. Almeno i morti hanno potuto trovare una sepoltura onorevole.
E Marzio Ostini? Quello è stato massacrato a bastonate perché i suoi carcerieri si sono ubriacati, una sera, e per divertirsi hanno cominciato a picchiare l’ostaggio. Giacomino Baraglio, un metro e mezzo d’altezza e la forza di Sansone, ha cominciato a battere quel poveretto incatenato alla sedia. Un fendente gli ha aperto la testa» Del morto non c’è più traccia. È terrificante, ma l’anonima sequestri ha gettato il cadavere fra i maiali. Hanno avuto l’accortezza di bucare il corpo in modo che il sangue aizzasse gli animali.
I rapitori li hanno chiamati «la banda dei sardi». In realtà, con gente che veniva da Sassari c’erano anche banditi che arrivavano da Salerno, Cosenza, Catania e Foggia. Gente disadattata, senza radici e senza valori da difendere. Non riesce nemmeno a capire perché il resto del mondo inorridisce nel sentire quello che hanno fatto. Loro pensano di aver fatto un lavoro come un altro.
Elena Luisi è la ventitreesima vittima di sequestri in Toscana, ma è la prima nel Lucchese. Gli inquirenti dicono che è un rapimento «anomalo». E, in realtà, è quello che più di tutti riempie il cuore di orrore.
Fonte: iltirreno.gelocal.it
Articolo del 26 settembre del 2015
Un pentito fece ritrovare il cadavere dopo quasi 4 anni
di Paolo Toccafondi
Le sequenze del rapimento, i contatti, il pagamento del riscatto e poi il lungo silenzio. Le indagini di Vigna e Fleury portarono a sgominare la banda dei sequestratori, sardi e non solo
Lunedì 10 novembre 1975, la serata è piovigginosa. Piero Baldassini ha lasciato la fabbrica di via Ceccatelli e sta tornando a casa sulla sua vecchia Seicento. “Non la cambio – ha sempre detto – altrimenti do troppo nell’occhio”. Ha 32 anni ed è il figlio primogenito di Dino Baldassini, uno degli imprenditori tessili più noti della città, ex presidente del Prato calcio. Da operaio a industriale, tra gli anni ’50 e ’60 Baldassini ha creato un piccolo impero. Nella sua fabbrica (30.000 metri quadrati, 400 dipendenti) entrano gli stracci ed escono tessuti e cappotti. Il figlio Piero è l’erede designato di quell’impero.
Quando Piero lascia la provinciale e prende via di Gonfienti, una strada in mezzo ai campi, mancano poche centinaia di metri per arrivare a casa, o alla fattoria, come la chiamano. E’ Villa Niccolini, una residenza storica acquistata e ristrutturata dai Baldassini, dove vive con la moglie e il figlio Lorenzo di 4 anni.
Il rapimento. Poco prima del borgo, all’altezza del cimitero, i fari della 600 illuminano un furgone fermo in mezzo alla strada. Baldassini rallenta e all’improvviso un colpo scuote la sua auto. L’auto che seguiva l’ha tamponato. Lui intuisce il pericolo, ma ormai è troppo tardi. I banditi circondano l’auto, lo tirano fuori a forza, lo infilano in un sacco e lo chiudono in un furgone blu che si allontanerà passando anche davanti alla villa dei Baldassini. Sono più o meno le 20. La notizia è uno shock per Prato. Il rapimento è il materializzarsi di una paura che da tempo circola tra gli industriali pratesi, dopo il fiorire dei colpi dell’Anonima sequestri in tutta Italia e in particolare in Toscana.
I contatti e le lettere. I banditi si fanno vivi due giorni dopo. Hanno fatto scrivere a Piero tre lettere, servono per dimostrare che è vivo e contengono anche le istruzioni per il pagamento del riscatto. La prima richiesta è esorbitante: 3 miliardi. La famiglia fa sapere che non è possibile. Si scende a un miliardo.
In una delle lettere ci sono anche le indicazioni per la consegna del riscatto: una sola persona dovrà percorrere a bordo di una 500 bianca con una damigiana legata sul tetto l’itinerario che va da Bologna a Massa Marittima e fermarsi solo quando vedrà un segnale (una corda) gettato sulla strada.
Il pagamento del riscatto. L’itinerario viene percorso tre volte in tre sere diverse dagli avvocati Giannetto Guarducci e Paolo Cappelli che seguono la vicenda per la famiglia. L’appuntamento decisivo è al terzo tentativo, nella notte tra sabato 22 e domenica 23 novembre. Guarducci si mette di nuovo alla guida della 500 con la damigiana sul tetto, nel portabagagli c’è una valigia con 700 milioni. Il segnale compare dal buio in località Sassa di Montecatini Val di Cecina, sulla strada che da Volterra porta a Colle Val d’Elsa. Guarducci si ferma e viene circondato da quattro persone armate e incappucciate che gli intimano di scendere e si portano via la valigia con i soldi.
Comincia l’attesa della liberazione, ma i banditi non si faranno più vivi e Piero non tornerà.
Le indagini. Le indagini condotte dai magistrati Pierluigi Vigna e Francesco Fleury della Procura di Firenze, portano alla pista di una banda di sardi (con l’apporto di altri personaggi) che sarebbe anche dietro altri due sequestri: quello del sedicente conte argentino Alfonso De Sayons, rapito il 3 luglio 1975 nel Chianti e mai più tornato; e quello di Luigi Pierozzi, padre di un piccolo imprenditore di Campi Bisenzio, sparito la sera del 25 agosto 1975 e anche lui svanito nel nulla. Saranno decisivi la collaborazione dell’ex compagna di uno dei sardi e il pentimento di uno dei banditi, entrambi agevolati dai soldi promessi da Dino Baldassini. Poi arrivano anche gli arresti di alcuni sardi sorpresi a spendere i soldi del riscatto e i pezzi del puzzle via via si incastrano. Durante il processo, il pentito Giuseppe Buono rivelerà anche dove trovare il corpo di Baldassini e di Pierozzi. Il terzo non potrà essere ritrovato perchè il cadavere è stato fatto a pezzi e dato in pasto ai maiali.
Il cadavere. Il 22 aprile 1979 il corpo saponificato di Piero Baldassini viene ritrovato in una cisterna dietro una casa diroccata lungo la strada che da Cantagrillo va a Cecina di Larciano, sulle colline pistoiesi. Siamo a due chilometri da Casalvento, la località in cui Baldassini era stato tenuto prigioniero la prima notte dopo il sequestro. Così, tre anni e mezzo dopo il rapimento, Dino Baldassini rivede suo figlio Piero. “Ecco la malvagità degli uomini – sussurra – Era mio figlio, un ragazzo per bene. Ma oggi è il giorno più bello della mia vita perché l’ho ritrovato”.
Buono racconta che a uccidere Baldassini è stato Giovanni Piredda, il capo, con una fucilata a bruciapelo in pieno petto. Fu ammazzato forse perché aveva riconosciuto uno dei sequestratori. O forse perché fin dall’inizio era previsto che finisse così, perché quella banda non era organizzata per tenere a lungo un rapito.
Le sentenze. Il 18 luglio 1979, dopo 54 udienze, la Corte d’Assise di Firenze emise le sue sentenze per un totale di 4 ergastoli (Giovanni Piredda, Giacomino Baragliu, Pietro De Simone e Giovan Battista Pira) e altri 230 anni complessivi di reclusione. Tra gli altri condannati il pentito Buono, Giovanni Gungui, Francesco Ghisu, Salvatore Ghisu e Natalino Masetti. Nella casa di quest’ultimo, a Calenzano, frequentata da diversi banditi sardi, sarebbe stato concepito il rapimento. L’altro boss della banda, Efisio Lai, era stato ucciso prima dell’inizio del processo. Mario Sale, l’inafferrabile, sarà condannato a 24 anni per il delitto De Sayons, ma assolto per insufficienza di prove per il sequestro Baldassini.
Fonte: iltirreno.gelocal.it
Articolo del 26 settembre 2015
“Mio padre rapito e ammazzato dai banditi. Così a 4 anni scoprii il male”
di Paolo Toccafondi
Quarant’anni fa il rapimento e l’uccisione di Piero Baldassini, uno choc per Prato. Per la prima volta parla il figlio Lorenzo, che oggi fa l’avvocato: “Perché questa storia non si può risolvere con un perdono”
PRATO. Sono passati quasi 40 anni da quando Piero Baldassini venne rapito dai banditi a 300 metri dal cancello della villa di Gonfienti. Dentro casa, quella sera di novembre del 1975, ad attenderlo c’era anche Lorenzo, il figlio di 4 anni. Quell’attesa fu una finestra sul vuoto. Lorenzo non avrebbe mai più rivisto suo padre, il cui cadavere venne trovato più di tre anni dopo in fondo a una cisterna. Lorenzo Baldassini oggi è un avvocato, lavora nello studio di Giannetto Guarducci, uno dei due legali che seguì per la famiglia la vicenda del sequestro. Fu lui ad andare all’appuntamento con i banditi per consegnare i 700 milioni del riscatto. Dopo 40 anni, per la prima volta, Lorenzo Baldassini accetta di parlare di quella tragedia che sconvolse la sua famiglia e fu uno choc per Prato.
I ricordi di un bambino. «Non ho ricordi netti. Semmai odori, sensazioni. I pomeriggi in penombra nella casa del nonno diventata silenziosa, un’atmosfera ovattata, come sospesa in attesa di una telefonata. Ma ho saputo tutto quasi subito. In un primo momento fui mandato nel Valdarno dai nonni materni. Mi dissero che il babbo era andato in America e che sarebbe tornato presto. Poi fu chiaro che questa risposta non poteva reggere a lungo. Mia madre mi portò da una psicologa che mi fece fare un disegno della famiglia: disegnai una pecora, l’agnellino e il pecorone zoppo. La psicologa consigliò di dirmi la verità, con tutte la cautele. Così sono sempre stato al corrente di quello che era successo. Mi sono costruito intorno a questa storia».
Il male. Il primo impatto duro per Lorenzo è la scoperta del male, della morte. «E’ un momento che arriva per tutti, prima o poi. Per me arrivò molto presto. Dovetti confrontarmi con l’idea che il male esiste e agisce nel mondo, che ci può essere qualcuno che ti odia e vuole farti male. C’è voluto del tempo per trovare la serenità». Ma poi basta poco perché quella serenità si incrini. «C’è una cassetta audio registrata con la voce di mio padre mentre gioca con me. L’ho ascoltata trent’anni dopo ed è stata una fucilata. Era una voce che conoscevo, come se fosse nascosta da qualche parte nel mio inconscio, ma che non sapevo legare a nessuna figura, disincarnata. Non l’ho mai più voluta ascoltare».
Mio padre. «Di mio padre ho ricordi vaghi, i ricordi veri si sovrappongono ai racconti successivi. Ma in famiglia non ne abbiamo mai fatto un santino. Mi sono fatto raccontare di lui i pregi e i difetti. In casa c’è una scatola con i ritagli dei giornali. La mamma e la nonna li raccolsero per me, pensando che se un giorno avessi voluto farmi un’idea di cosa era successo lì avrei potuto trovare un po’ di notizie. E’ la mia scatola della memoria».
I banditi. «Non ho mai cercato di sapere di più sui banditi, su chi l’ha ucciso. So che alcuni di loro sono morti in carcere. Anche Giovanni Piredda, il capo della banda, che secondo il racconto del pentito Buono fu quello che sparò a mio padre. Ogni tanto mi arrivavano richieste di perdono, in relazione a sconti di pena e richieste di grazia. Ho sempre detto di no. Non mi pare che questa storia si possa risolvere con un perdono. Anche perché le nostre vite sono cresciute intorno a questo palo. Chi si è fermato (mia nonna praticamente non uscì più di casa), chi si è chiuso, chi è cresciuto. Come si fa ad annullare tutto e dire “se non ci fosse stato”? Significherebbe cancellare un po’ anche noi stessi. Le nostre vite sono state la conseguenza di quel fatto».
L’autunno del patriarca. La morte del padre rafforzò il rapporto con il nonno, Dino Baldassini, il capostipite della famiglia, l’ex operaio che aveva creato dal niente un impero economico. «Mio nonno era un patriarca, l’uomo solo al vertice, secondo un’organizzazione gerarchica tipica di quegli anni». Operaio alla cementizia a 14 anni, poi operaio tessile, prima di diventare imprenditore. Ex partigiano, lo chiamavano l’industriale rosso perché non aveva mai ripudiato la sua simpatia per il Pci («ho una foto in cui lo si vede sfilare in corteo tra le bandiere rosse»). «Ma la democrazia finiva al momento delle decisioni. Quelle le prendeva da solo. E in famiglia era lo stesso. Si mangiava schierati in formazione: a capo tavola lui, al fianco la moglie e il figlio maggiore, io e mia madre, e via via gli altri a seguire. La regola era che si mangiava insieme a mezzogiorno e alle 19, cascasse il mondo, ci fosse pure il presidente della Repubblica in visita. L’impronta era quella della cultura contadina».
Dino Baldassini è morto nel 2002 a 92 anni, ma era già un’altra persona. Il Dino imprenditore incontenibile aveva ricevuto un colpo mortale quella sera di novembre del 1975, quando gli portarono via il figlio primogenito. «Nel suo disegno, mio padre Piero era il predestinato a succedergli nella gestione dell’azienda e lo stava già facendo. Morto lui, era convinto che sarebbe toccato a me». E considerò definitivamente conclusa la sua storia dopo un pranzo di famiglia nel 1990, quando Lorenzo annunciò al nonno che avrebbe fatto l’avvocato e non l’imprenditore. Il resto fu dovere e sopravvivenza. Quel pranzo va raccontato. «Lo ricordo come se fosse ora. Avevo 18 anni, stavo finendo il liceo e dissi a mio nonno che mi sarei iscritto a Legge, che avrei fatto l’avvocato e non l’imprenditore. Stavamo mangiando i tortellini in brodo». Dino si ferma con il cucchiaio a mezza altezza tra la bocca e la scodella per un tempo infinito, nel silenzio dei presenti, come in una sospensione del tempo. Quando la pellicola riparte il patriarca chiede permesso e si alza da tavola. Torna dopo cinque lunghissimi minuti e pronuncia la sentenza: “Allora, da adesso si comincia a liquidare tutta l’attività”. Dopo una vita passata a costruire, in quel momento ha capito che non ha più senso continuare a correre. «Quella frase è stato il regalo più bello che mi potesse fare. Ha preso atto della mia decisione e mi ha liberato dall’impegno che aveva previsto, dal suo investimento sul mio futuro. Gliene sono grato».
Da lì cominciò la vendita dei terreni di Gonfienti, il feudo della famiglia («”il mio Texas”, come lo chiamava lui»), dove c’erano anche la fattoria e la villa in cui viveva il figlio Piero e dove Dino contava di riunire un giorno tutta la famiglia. Poi sarebbe seguito il lento e progressivo ridimensionamento dell’attività industriale. «Fino a pochi mesi prima di morire era in fabbrica tutte le mattine alle 5. Ma è chiaro che da quel pranzo ha cominciato a chiedersi: per chi lo faccio? Per uno come lui abituato a mettere in campo un progetto dopo l’altro, a pensare sempre a cosa fare domani è come se fosse venuto a mancare il terreno sotto al passo successivo. La sua corsa si è fermata».
La morte di Dino. «Aveva avuto un infarto due anni prima. Dall’inizio del 2002 era affaticato, non andava più in fabbrica. Aveva cominciato a vedere il traguardo della morte. Un giorno ne parlammo e gli chiesi come voleva essere “sistemato”, se aveva delle preferenze. Mi disse che voleva essere avvolto semplicemente in un lenzuolo bianco. Senza vestiti? “Sì nudo in un lenzuolo bianco – mi disse – Perché le tasche le ho avute tutta la vita e non le voglio più. Di là non servono». In quella scelta c’era forse il desiderio di liberarsi di ogni legame col denaro. Quel denaro che gli aveva dato tanto, ma che gli aveva tolto la persona più cara. «Ma anche la volontà di portare di là solo Dino, di prendere la distanza dalle cose. Quella frase è uno dei suoi ultimi regali».
Baldassini: l’epopea e la tragedia
Paolo Toccafondi 4 maggio 2018
Un docufilm sulla storia di Dino Baldassini, da operaio a imprenditore tessile, presidente del Prato calcio nella sua ultima stagione in serie B. Il rapimento del figlio Piero ad opera dellAnonima sequestri, la sua uccisione. Le indagini, la scoperta del cadavere e il processo
Foto di Piero Baldassini dal Video “Baldassini: l’epopea e la tragedia”