11 Aprile 1990 Opera (MI). Ucciso Umberto Mormile, assistente carcerario. Ucciso perché non rivelasse ciò che accadeva nelle carceri.

Foto da  bergamo.corriere.it    

Umberto Mormile, educatore carcerario, fu ucciso a Lodi l’11 aprile del 1990. Fu ucciso con sei colpi di pistola da un killer su una Honda 600 che lo affiancò mentre era in colonna, all’altezza di Carpiano, a bordo della sua auto e si stava recando verso il carcere di Opera.
La sentenza definitiva del processo per il suo omicidio determinò la condanna del boss Domenico Papalia in qualità di mandante e di Antonio Schettini in qualità di esecutore materiale, ma durante le indagini emersero evidenti tentativi di depistare l’inchiesta.
Dalle dichiarazioni di chi conduceva la moto, pentitosi, emerge il vero movente dell’omicidio:
“…Mormile aveva raccontato che Domenico Papalia, allorché era detenuto a Parma, luogo dove aveva lavorato in precedenza lo stesso Mormile, beneficiava di incontri con persone ‘sospette’, a suo dire anche facenti parte dei servizi segreti, usufruiva di colloqui e permessi che non gli spettavano ed insomma era un privilegiato per via di rapporti importanti che intratteneva con personaggi che non mi furono indicati…”

 

 

 

 

Fonte: archivio.unita.news
Articolo del 12 aprile 1990
Milano, ucciso assistente carcerario
di Marina Morpurgo
Lo hanno ammazzato con 8 colpi di pistola, mentre andava a lavorare come ogni mattina.
Umberto Mormile, educatore del carcere di Opera, è stato assassinato da due killer, arrivati e fuggiti in sella ad una moto. Per l’attentato sono giunte due telefonate di rivendicazione, una a Milano, una a Bologna.
Quest’ultima è stata fatta da un misterioso gruppo terroristico ma gli inquirenti sono scettici sull’attendibilità.

OPERA (Milano).  C’è stato un gran silenzio, poi uno dei detenuti ha mormorato «Proprio lui…il migliore».  La notizia, nel carcere di Opera, e arrivata verso le 11 del mattino, quando da due ore si attendeva l’arrivo di Umberto: un’attesa vana, visto che Umberto era ancora lì al chilometro 5 della statale Binasco-Melegnano, fermo al semaforo, dove i suoi killer lo avevano aggredito verso le 8.45, fulminandolo con otto colpi di pistola alla nuca, in faccia, nel petto. Per sparargli senza sbagliare avevano accostato la loro motocicletta Honda 600 – rubata a Milano il 14 marzo – alla portiera dell’Alfa 33 dell’educatore: lui aveva alzato d’istinto una mano, nel debole tentativo di ripararsi, e le pallottole calibro 38 gliel’avevano spezzata. Un lavoro feroce e rapidissimo, da professionisti, preparato evidentemente da tempo ed eseguito sotto gli occhi di decine di pendolari, che come Umberto Mormile erano in fila, bloccate dal disco rosso all’incrocio tra la statale e la strada della Val Tidone. I due assassini, i volti mascherati da caschi bianchi e rossi, erano scappati via indisturbati nel gran traffico mentre il corpo della loro vittima scivolava sul sedile. La moto sarebbe stata trovata solo più tardi a Locate Triulzi, un paese che dista circa tre chilometri dal luogo del delitto.

Cosi è morto, a 37 anni, l’educatore Umberto Mormile. Le parole dei detenuti, dei magistrati di sorveglianza e dei colleghi non hanno il suono falso delle dichiarazioni di circostanza: «Era l’uomo più tranquillo che si potesse immaginare, pacato e riflessivo» dice il direttore di Opera, Aldo Fabozzi. «Era molto benvoluto dai detenuti, il più bravo» gli fanno coro gli insegnanti del corso di alfabetizzazione. A Opera Umberto Mormile –  campano di Sant’Antimo – era arrivato nell’87, poco dopo l’inaugurazione della casa di reclusione. Fino ad allora aveva lavorato a Parma, dove aveva curato un esperimento che aveva visto i detenuti varcare le mura per andare a curare i giardini comunali.  «Qui da noi si occupava dei 41 semiliberi – racconta il dottor Fabozzi – e dei 150 detenuti impiegati nei lavori domestici o nella tipografia che abbiamo allestito in carcere. Le attività culturali dipendevano da lui, era stato lui a portar fuori i ragazzi, a farli recitare nel teatro comunale di Opera una commedia scritta dai detenuti di Alessandria… adesso stava organizzando di andare addirittura al Lirico di Milano…».

Chi può aver desiderato la morte di un uomo così? I colleghi increduli dicono: «Non può esserci un legarne con il carcere, non aveva screzi con nessuno». Eppure, il lavoro di Umberto Mormile aveva i suoi lati scottanti, visto che agli educatori – oltre che agli assistenti sociali – tocca il compito di stendere le relazioni sui detenuti, ed è anche in base a queste paginette che il magistrato di sorveglianza decide la concessione di un permesso o l’autorizzazione al lavoro esterno. Poco tempo fa, ad un convegno sulla riforma carceraria, un altro educatore aveva denunciato pubblicamente: «Noi riceviamo minacce». Il clima ad Opera era così pesante – confessa un magistrato – che agli operatori era stato consigliato di fare relazioni collettive.  Forse a decretare la condanna a morte di Umberto Mormile è stato proprio un giudizio sfavorevole, un permesso negato, una semilibertà giudicata inopportuna: Le modalità dell’esecuzione – che i carabinieri di Lodi definiscono «tipicamente mafiose» – fanno pensare a vendetta della malavita.

Poco dopo I’ attentato una strana telefonata è arrivata all’ispettorato del Ministero di Grazia e Giustizia: «Cosi trattate i detenuti buoni, figurarsi quelli cattivi», ha detto una voce anonima, prima di riattaccare. Su questa chiamata, che potrebbe avere un legame con l’uccisione dell’educatore (un capomafia è morto d’infarto poco tempo fa ad Opera, e qualcuno potrebbe farne una colpa al carcere) sta indagando anche la Digos di Milano. Meno probabili sembrano le ipotesi di una vendetta trasversale, diretta contro persone vicine alla vittima: per i curiosi casi della vita Umberto Mormile, che anni fa aveva sposato una vigilatrice del carcere di Rebibbia, adesso stava per risposarsi con la direttrice del piccolo carcere di Lodi.

Gli inquirenti, coordinati dal sostituto procuratore della repubblica di Lodi Carlo Cardi, non trascurano neppure l’ipotesi di un attentato terroristico diretto contro l’istituzione-carcere, che a Milano sarebbe il primo dopo un lungo periodo di pace iniziato dopo la morte del brigadiere di San Vittore Francesco Rucci, assassinato dai Nuclei Comunisti Combattenti il 18 settembre 1981. Alle 15.40 all’Ansa di Bologna è arrivata una telefonata di rivendicazione. «A proposito di quanto è avvenuto a Milano – ha detto uno sconosciuto, dalla voce priva di particolari inflessioni dialettali e parzialmente schermata da rumori di traffico – Il terrorismo non è morto. Vogliamo che l’amnistia sia estesa anche ai detenuti politici. Non importa chi siamo: ci conoscerete in seguito». La Digos di Milano e Bologna e i carabinieri sembrano però piuttosto scettici sull’attendibilità della rivendicazione, un po’ per il lasso di tempo intercorso tra l’assassinio e la chiamata, ma soprattutto per i contenuti. I terroristi – dicono – non chiederebbero l’amnistia impugnando le armi.

Qualunque sia la pista da seguire, resta il clima di angoscia in cui sono sprofondati gli operatori dei due carceri milanesi, la vetusta e sovraffollata casa circondariale di San Vittore e il modernissimo e luminoso penitenziario. Il gravissimo gesto di ieri segue di una ventina di giorni un altro inquietante episodio: in due occasioni attentatori sconosciuti avevano sparato contro le mura di San Vittore, arrivando ad incrinare  il  vetro della garitta blindata.

 

 

 

 

Fonte: ricerca.repubblica.it
Articolo del 13 aprile 1990

LODI, QUELL’OMICIDIO È NATO DIETRO LE SBARRE
di Piero Colaprico

LODI Per scrupolo, e in silenzio, i carabinieri hanno controllato conto corrente, abitudini, tenore di vita. Niente. Umberto Mormile, l’educatore del carcere di Opera ammazzato l’altro ieri mattina da due killer armati di 38 special, non aveva nulla da nascondere. Una persona limpida, trasparente, disponibile, dicono in tanti, detenuti, colleghi, agenti di custodia. Nessuno lo aveva minacciato. Né lui, né me, ha assicurato ai magistrati Armida Miserere, sua compagna e direttrice del carcere di Lodi. L’inchiesta ieri ha imboccato una direzione precisa, che porta nel cuore delle palazzine grige del carcere di Opera, aperto tre anni fa nella periferia meridionale di Milano. Alla pista del terrorismo, nonostante la telefonata di rivendicazione arrivata all’Ansa di Bologna nel pomeriggio di mercoledì, gli investigatori non sembrano dare credito alcuno. È la vita quotidiana e sotterranea del carcere, sono i rapporti, le inchieste, gli appunti riservati di quella che i detenuti chiamano la casa del nulla a entrare nel fascicolo dell’omicidio Mormile. E, d’altra parte, per illuminare questo misterioso assassinio sinora non ci sono altri spiragli. Abbiamo stilato un elenco di detenuti, dice il procuratore di Lodi Roberto Petrosino, alla fine di una mattinata frenetica. Alle 11.50 è arrivato a Lodi anche il procuratore generale di Milano Adolfo Beria d’Argentine. I due magistrati si sono chiusi nella stanza più grande, mentre nell’ufficio a fianco Aldo Fabozzi, direttore del carcere di Opera, è stato interrogato a lungo da Carlo Cardi, il sostituto che si occupa del caso. Poi, tutti e quattro insieme, hanno fatto il punto della situazione. È stata ricostruita con precisione l’attività di Umberto Mormile, sono state ricordate le sue giornate dietro le sbarre, la disponibilità, l’esperienza, la generosità. Lui ci sapeva fare. Disponibile ma serio, aperto al dialogo ma non avventato. Ai detenuti diceva sempre: non prometto nulla, solo quello che posso mantenere, ha raccontato un agente di custodia. Poco dopo l’una, magistrati, ufficiali dei carabinieri e il direttore del carcere sono andati nella villetta alla periferia di Montanaso dove l’educatore viveva con la direttrice del carcere di Lodi. Un viale stretto, lungo, circondato da alberi piantati di fresco, poco lontano dalle ciminiere di una mega-industria. La signora ha parlato a lungo con gli investigatori, poi è rimasta dietro le tendine bianche. Presto si sarebbe dovuta sposare con l’educatore di Opera. E oggi accompagnerà la bara per i funerali, che partiranno alle 10.30 dall’ospedale di Melegnano. È atteso anche il direttore generale degli istituti di pena Nicolò Amato. Se la pista sembra definita, è molto difficile pensare che possa portare presto all’identificazione dei killer e dei mandanti. Quei due colpi dietro l’orecchio sinistro, a mezzo centimetro l’uno dall’altro, e messi in evidenza dall’autopsia eseguita ieri, sono la conferma che hanno sparato assassini professionisti. Il lavoro dei carabinieri della compagnia di Lodi è cominciato nell’archivio, con lo studio dei fascicoli intestati ai boss dell’ Anonima sequestri calabrese, ai detenuti incarcerati per associazione per delinquere di stampo mafioso e a un gruppo di semiliberi. Nell’elenco concepito dalla Procura non mancano nomi di importanti famiglie della malavita organizzata. E in questo quadro è stata riletta la telefonata anonima arrivata l’altro ieri pomeriggio al poco conosciuto ispettorato milanese del Ministero di Grazia e Giustizia. È stato infatti un uomo con forte accento calabrese a telefonare e dire: È una ritorsione. È stata invece quasi rimossa dagli investigatori una domanda chiave: Mormile è stato ammazzato perchè qualcuno ha voluto vendicarsi di lui, o è stato colpito solo perchè, vista la sua regolarità, era solo un obiettivo più facile di altri? È stato ucciso per lanciare un segnale trasversale alla struttura del carcere? Nelle carte del fascicolo è finita anche una vecchia storia, che aveva sfiorato Mormile senza però intaccarne la credibilità professionale. Lui, prima di arrivare a Opera, faceva parte dello staff del carcere di Parma. Sull’istituto di pena emiliano, tra l’86 e l’87, avevano indagato a lungo il ministero di Grazia e giustizia e il giudice istruttore Vittorio Zanichelli. Il direttore Raffaele Panìco, accusato di essersi fatto aiutare nei lavori per la sua villa da qualche detenuto, era andato in pensione. Due marescialli erano stati trasferiti. Il ministero, insomma, aveva azzerato la struttura e anche Mormile, nonostante non gli fossero state rivolte accuse, e anzi fosse molto ben considerato per il suo lavoro, era finito nel calderone. Per principio non escludiamo nulla. Però – dice uno degli investigatori impegnati nell’indagine – se qualcuno vuole vendicarsi non aspetta troppo tempo. È perciò molto difficile mettere in relazione i vecchi fatti di Parma con questa barbara esecuzione.

 

 

Armida TGR – Pubblicato il 11 gen 2011

 

 

 

Articolo dell’ 8 Aprile 2015 da antimafiaduemila.com
XXV Anniversario dell’omicidio di Umberto Mormile – 11 Aprile
Questa, purtroppo, è una storia come tante altre storie che sono accadute in Italia quando sono ammazzati uomini di Stato che toccano o sono toccati da faccende scottanti.

Cosa hanno in comune Peppino Impastato, Beppe Alfano, Graziella Campagna oltre ad essere vittime innocenti di mafia? Sicuramente il tentativo di depistaggio delle indagini su mandanti ed esecutori dei loro omicidi. Impastato era un terrorista e poi un suicida, Alfano un femminaro, Campagna una ragazzina scappata con il fidanzato. Solo dopo anni e anni di battaglie, combattute in solitudine dalle loro famiglie e dai pochi che le hanno sostenute, è stata consegnata alla Storia una verità processuale corrispondente alla verità dei fatti accaduti.

Umberto Mormile, educatore carcerario, fu ucciso a Lodi l’11 aprile del 1990. La sentenza definitiva del processo per il suo omicidio determinò la condanna del boss Domenico Papalia in qualità di mandante e di Antonio Schettini in qualità di esecutore materiale, ma durante le indagini emersero evidenti tentativi di depistare l’inchiesta. Lo stesso Schettini, in carcere dopo l’arresto, tentò di sviare le indagini, cercando di scagionare ingiustamente Papalia. La sigla “Falange Armata” nacque con la rivendicazione dell’omicidio Mormile.

L’11 aprile 2015 saranno passati venticinque anni dall’omicidio di Umberto. La sua famiglia, amareggiata dalle stranezze che costellarono l’espletamento delle indagini sul delitto e dalle voci infamanti su Umberto che emersero durante i processi, non ha mai voluto ricordare Umberto pubblicamente.

A fine gennaio scorso Stefano Mormile, fratello di Umberto, ha contattato Salvatore Borsellino, l’avvocato Fabio Repici ed il magistrato Giovanni Spinosa (Presidente del tribunale di Teramo, già Pubblico Ministero delle indagini a Bologna sulla ‘banda della Uno Bianca’). E’ nato così uno scambio di conoscenze che ha permesso di individuare nuovi elementi sui moventi dell’omicidio Mormile. Si tratta in un quadro che contiene indizi sulle vere ragioni dietro quell’ordine di morte e che dimostra la completa infondatezza delle calunnie ai danni di Umberto Mormile.

Qualche giorno fa Stefano Mormile ha scritto queste parole: “M’è tornata la voglia: voglio dire quello che so e quello che penso, anche a chi non vuol sentire, soprattutto a chi non vuol sentire” ed ha proposto al Movimento Agende Rosse di organizzare un evento, per i 25 anni della morte del fratello. La scelta sul luogo è caduta su Palermo, città simbolo per rilanciare una richiesta di verità su delitti i cui moventi rimandano all’esistenza di contiguità tra criminalità organizzata e potere.

Sabato 11 aprile 2015 alle ore 16.00, a Palermo, nel luogo dove parlò per l’ultima volta pubblicamente Paolo Borsellino, Casa Professa (piazza Casa Professa, n.1), verrà ricordato – per la prima volta pubblicamente – Umberto Mormile. All’evento, moderato da Federica Fabbretti, interverranno Stefano Mormile, Giovanni Spinosa, Fabio Repici e Giuseppe Lo Bianco (giornalista de ‘Il Fatto Quotidiano’). L’evento, promosso dal Movimento Agende Rosse e da Scorta Civica Palermo, non sarà una semplice commemorazione ma un tentativo di affermare la verità dei fatti sulla persona di Umberto Mormile. In questa occasione sarà inoltre presentato dai relatori l’avvio di un progetto di studio ed analisi in merito ad alcuni fatti di sangue accaduti in Italia tra il 1978 ed il 1993 e tra i quali è possibile inquadrare anche l’uccisione di Umberto Mormile.

 

 

 

Articolo dell’11 Aprile 2015 da antimafiaduemila.com
Oltre la Falange Armata, il mistero sul delitto Mormile
di Aaron Pettinari
Venticinque anni dopo una nuova lettura sul movente dell’omicidio

L’Italia è il Paese dei misteri. Da Portella della Ginestra, alle stragi del ’92-’93, passando per casi meno noti al grande pubblico ma non per questo meno importanti per rileggere quanto avvenuto nel corso della nostra storia. Tra questi vi è la morte dell’educatore carcerario Umberto Mormile. Venticinque anni sono passati da quando, l’11 aprile del 1990, fu ucciso con sei colpi di pistola da due killer mentre era in colonna, all’altezza di Carpiano, a bordo della sua Alfa 33. Si stava recando verso il carcere di Opera quando un’Honda 600 con a bordo i due sicari (Nino Cuzzola e Tonino Schettini, ndr) affiancò l’auto. L’ultima cosa che Mormile vide in vita sua fu la canna della 38 special che si avvicinava al finestrino. Sul delitto si è scavato per anni ma nonostante la celebrazione di tre processi le reali motivazioni che hanno portato alla morte dell’educatore carcerario non sono mai state veramente chiarite.

Alla ricerca del movente
Così, nel corso degli anni, per il delitto vengono individuati i colpevoli ma si preferisce non andare fino in fondo e far piena luce su un caso che anche nella sua “evoluzione processuale” ha presentato non poche contraddizioni e depistaggi. “L’individuazione della singola specifica condotta del Mormile che ha fatto scatenare la voglia di vendetta, di punizione del Papalia non è affatto necessaria” scrivono i giudici nella sentenza emessa il 25 novembre 2008, con la quale venne condannato all’ergastolo Domenico Papalia e vennero assolti Antonio Musitano e Diego Rechichi. Per comprendere quanto avvenuto è però necessario fare un passo indietro. Tutto ha inizio quando, a partire dalla metà degli anni Novanta, Antonio Schettini sceglie di collaborare con la giustizia. Agli inquirenti disse di essere stato lui l’esecutore materiale e di aver agito su ordine del boss calabrese Antonio Papalia, il quale avrebbe dato all’educatore 30 milioni di lire per ottenere pareri favorevoli che servivano al fratello ergastolano, Domenico, a lavorare fuori dal carcere di Parma. Inoltre spiegò che Mormile, nonostante i soldi ricevuti, fu inadempiente tanto che “Mico” Papalia, giurò di vendicarsi. Una tesi giudicata dai familiari della vittima un vero e proprio depistaggio. E’ così che ebbe inizio un processo, a carico di Antonio Papalia, Franco Coco Trovato, Antonino Cuzzola, Antonio Musitano e Diego Rechichi. Schettini, reoconfesso, scelse il giudizio abbreviato e venne condannato a a 14 anni di reclusione. Durante il processo, clamorosamente, Schettini, anziché accusare i suoi complici si avvalse della facoltà di non rispondere e la Corte d’assise di Milano fu costretta ad assolvere tutti gli imputati. E’ a quel punto però che si verificò un colpo di scena. Antonino Cuzzola, il conducente della moto, decise di collaborare con la giustizia ed oltre a confessare il proprio coinvolgimento diede una nuova versione sui motivi che portarono Mormile alla morte. Secondo Cuzzola Antonio Papalia era infuriato perché Mormile aveva scoperto che “Mico”, nel carcere di Parma, aveva svolto colloqui, ovviamente abusivi, con esponenti dei servizi segreti, i quali entravano nel penitenziario con documenti falsi. Grazie al pentimento di Cuzzola al processo d’appello vennero condannati all’ergastolo Antonio Papalia e Franco Coco Trovato, mentre per Musitano e Rechichi ripartì tutto da zero, in quanto il ruolo assegnato a loro da Cuzzola non combaciava con l’originaria versione di Schettini. Successivamente venne scoperto che la collaborazione di quest’ultimo era stata concordata con i Papalia, i Flachi, i Coco Trovato, Luigi Miano ed il catanese Salvatore Cappello e doveva servire a intorbidare i processi, in favore dei vertici del consorzio criminale intermafioso del quale Schettini era stato fedele affiliato. Nacque così il processo a carico di Domenico Papalia, Antonio Musitano e Diego Rechichi (quest’ultimi due assolti mentre il primo venne condannato all’ergastolo, ndr).

Una nuova versione per il delitto
Nonostante le dichiarazioni di Cuzzola vennero ritenute attendibili nel suo complesso, al processo contro “Mico” Papalia spuntò un ulteriore pentito, Emilio Di Giovane (autorevole esponente dei clan calabresi insediati in Lombardia e in guerra col gruppo Papalia-Flachi-Coco Trovato), che diede una nuova versione sui motivi che portarono alla morte dell’educatore penitenziario. Il collaboratore di giustizia disse di aver conosciuto Mormile al carcere di Parma, di averlo corrotto a suon di denaro e di automobili, di averlo presentato a Papalia per far ottenere indebiti favori a pagamento anche a lui. Non solo. Anni dopo, al carcere di Cuneo, avrebbe incontrato Papalia il quale gli confessò di essere stato mandante dell’omicidio Mormile proprio per quei mancati benefici penitenziari. Anche se le dichiarazioni di Cuzzola non siano ritenute inattendibili la sentenza si basa esclusivamente sul dato che “l’omicidio doveva essere consumato nell’interesse di Domenico Papalia” in quanto “l’educatore non aveva aiutato il Papalia ad accedere a dei benefici carcerari”. Tutto il resto, sarebbe solo contorno. Poco importa se Mormile viene dipinto come un corrotto.

Rivendicazioni a scoppio ritardato
Tra le rivelazioni importanti di Cuzzola vi è un particolare tutt’altro che irrilevante: Antonio Papalia subito dopo l’omicidio Mormile si era adoperato perché quel crimine venisse rivendicato con la sigla della Falange Armata. Nell’immediatezza del delitto, c’era stato un preannuncio all’Ansa di Bologna: “I carabinieri e la polizia di Bologna stanno valutando l’attendibilità di una telefonata anonima giunta alla redazione bolognese dell’Ansa intorno alle 15,40. Una voce maschile, senza particolari inflessioni dialettali ha detto, facendo riferimento indiretto all’uccisione di un educatore del carcere lombardo di Opera avvenuto oggi non lontano da Lodi: “A proposito di quanto è avvenuto a Milano, il terrorismo non è morto. Vogliamo che l’amnistia sia estesa anche ai detenuti politici. Non importa chi sono. Ci conoscerete in seguito”. La comunicazione è stata poi interrotta. Durante la telefonata, in sottofondo, si sentiva il rumore provocato dal traffico di autoveicoli”. Sei mesi dopo l’uccisione dell’educatore, il 27 ottobre 1990, ecco una nuova telefona all’Ansa di Bologna: “Con una telefonata alla redazione Ansa di Bologna uno sconosciuto ha rivendicato alla “Falange armata carceraria” l’omicidio di Umberto Mormile, l’educatore del carcere di Opera (Milano) ucciso lo scorso 11 aprile, e ha annunciato che verranno “giustiziati” altri quattro educatori, dei quali ha fatto i nomi. La chiamata è arrivata verso le 12,20 ed è stata fatta da un uomo che parlava con accento straniero; questi prima ha chiesto che il suo messaggio venisse scritto o registrato e poi, dicendo di non avere tempo, ha letto in fretta un comunicato. “All’inizio di questo anno – ha detto – abbiamo individuato due fronti di lotta armata”, uno politico-finanziario e giudiziario e uno all’interno delle carceri. Rispetto a questa ultima, ha proseguito, “abbiamo individuato cinque educatori” che sono elementi operativi e cervelli dell’applicazione della legge Gozzini; “Mormile di Milano è già stato giustiziato, gli altri saranno colpiti al momento opportuno”. Poi l’uomo ha fatto i nomi di quattro educatori che lavorano rispettivamente nelle carceri di Porto Azzurro, Ancona, Pavia e Messina e ha annunciato un comunicato per domani sera, specificando la zona in cui verrà fatto trovare. Digos e Carabinieri stanno vagliando l’attendibilità della telefonata e svolgendo accertamenti sul nome della presunta organizzazione, che risulterebbe nuovo”.
E’ quella la prima volta in cui la famigerata sigla della “Falange Armata” fa la sua comparsa in un momento storico piuttosto particolare. In quei giorni, infatti, l’opinione pubblica italiana è in fibrillazione perché il 24 ottobre l’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti era intervenuto alla Camera dei Deputati, rivelando l’esistenza di Gladio. Forse proprio per quella ammissione dirompente la telefonata dei falangisti passò quasi inosservata. Diversamente accadde quando il 4 gennaio del 1991, la banda guidata dai fratelli Savi massacra tre carabinieri di pattuglia al quartiere Pilastro a Bologna. Ventiquattro ore dopo sul fatto vi fu la rivendicazione della Falange.

Punto di contatto
Proprio quella rivendicazione della Falange Armata (che ne dica la Corte di Milano nella sua sentenza, ndr) rappresenta un punto di contatto tra l’omicidio Mormile e la strage del Pilastro della Uno Bianca. Ben più delle perizie balistiche sui bossoli dell’omicidio. In un primo momento avevano dimostrato come una delle pistole utilizzate dalla Banda della Uno Bianca nella strage del Pilastro fosse la stessa che aveva messo fine alla vita di Mormile. Successivamente venne però accertato che “i proiettili sequestrati in occasione dell’omicidio Mormile non erano stati esplosi da nessuna delle armi sequestrate ai fratelli Savi ed ai loro complici.”. Un dato, quest’ultimo, che avvalora ulteriormente le dichiarazioni di Cuzzola, il quale aveva spiegato fin dalle sue prime rivelazioni che Schettini si era disfatto dell’arma utilizzata per l’omicidio Mormile già nella fase della fuga.

Ulteriori elementi
Seguendo la pista oscura lasciata dalla Falange armata e che porta fino in Sicilia quando, negli anni delle stragi dei primi anni Novanta la sigla fa la sua ricomparsa. Racconta il pentito Maurizio Avola che che nelle riunioni del dicembre 1991, quando Cosa nostra decide di “togliersi i sassolini dalle scarpe” e, in vista della sentenza definitiva del maxi processo che sarebbe stata loro sfavorevole, si decise di organizzare “azioni di tipo terroristico anche tradizionalmente estranee al modo di operare e alle finalità di Cosa Nostra. Queste azioni secondo una prassi che erano già in atto da tempo dovevano essere rivendicate con la sigla Falange Armata”.
Altro fattore inquietante è poi il riferimento a Domenico Papalia che viene fatto nella sua lettera di addio dal mafioso Nino Gioè, vittima di un misterioso suicidio a Rebibbia nel luglio ‘93. Un nome, il suo, che viene inserito anche all’interno di un’informativa della Dia, che nel 1994 lo indica tra gli ‘ndranghetisti in contatto a Milano con ambienti legati alla massoneria. Pochi giorni dopo l’agguato dell’11 aprile 1990 Armidia Miserere, direttrice al carcere di Lodi e compagna di Mormile (trovata morta il 19 aprile del 2003 con un colpo di pistola alla testa), scrisse ai pm che curavano le indagini sull’omicidio che “L’ipotesi più logica è che Umberto sia stato ucciso perché ostacolo a un grande progetto”. A cosa si riferiva? Riguardava i rapporti di Papalia con i servizi? O l’educatore penitenziario aveva scoperto dell’altro ancora? Oggi pomeriggio di questo si parlerà a Palermo (appuntamento a partire dalle 16 a Casa Professa), in una conferenza in cui interverranno Giovanni Spinosa, il magistrato che si occupò delle indagini sulle stragi della Uno Bianca, Fabio Repici, l’avvocato che ha seguito alcune delle famiglie delle vittime della mafia e dei depistaggi delle indagini sulla loro morte e Giuseppe Lo Bianco, giornalista de Il Fatto Quotidiano e autore di diverse inchieste sulle più oscure stragi di mafia. Interverrà all’incontro, per la prima volta pubblicamente, anche Stefano Mormile (fratello dell’educatore penitenziario).
L’evento, promosso dal Movimento Agende Rosse e da Scorta Civica Palermo, non sarà una semplice commemorazione ma un tentativo di affermare la verità dei fatti sulla persona di Umberto Mormile e sarà anche occasione per presentare un documento (a cura di Giovanni Spinosa, Antonella Beccaria e Fabio Repici), scaricabile gratuitamente in PDF, che analizza la commistione tra criminalità organizzata, cultura eversiva e brandelli infedeli dello Stato e associa – documenti alla mano – avvenimenti apparentemente non collegati tra loro e propone una nuova lettura della storia degli ultimi 40 anni della nostra Repubblica.

 

 

 

Articolo del 13 Aprile 2015 da ilfattoquotidiano.it
Umberto Mormile, un’altra vittima di mafia e dello Stato
di Federica Fabbretti

Due giorni fa, l’11 aprile, è stato il venticinquesimo anniversario dell’omicidio di Umberto Mormile e la famiglia ha scelto di ricordarlo per la prima volta pubblicamente, a Palermo, nel luogo dell’ultimo discorso pubblico di Paolo Borsellino, Casa Professa.

Quella di Umberto è una storia come tante altre storie di vittime di mafia, la storia di quelle vittime che vengono uccise due volte, dalla mafia che spara sei proiettili, di cui tre al volto, e poi dallo Stato che getta fango sul morto invece che sugli assassini. Una storia che riporta alla mente le notizie girate dopo la morte di Peppino Impastato, terrorista e poi suicida, o di Beppe Alfano, professore con il vizio delle scappatelle, o di Attilio Manca, medico drogato e suicida, o di Nino Agostino, poliziotto in attesa del primo figlio con amanti a destra e a sinistra. Ci vollero anni, lacrime e lotte senza sosta (delle famiglie), in quasi completa solitudine, perché si affermasse finalmente la verità sulla loro morte e si restituisse dignità ai loro nomi.

Umberto Mormile e la sua famiglia quella verità la stanno ancora aspettando.

Umberto era un educatore carcerario, una di quelle figure che cercano di applicare ciò che venne scritto nella Costituzione riguardo la funzione delle carceri, le quali dovrebbero avere l’obiettivo non solo di punire il colpevole ma anche di rieducarlo per facilitarne il reinserimento nella società. Era un servitore dello Stato onesto e preparato, che vide quello che non avrebbe dovuto vedere: boss della ‘ndrangheta ricevere premi e favori dopo aver avuto incontri in carcere – non nelle regole e, quindi, non registrati – con, presumibilmente, uomini dei Servizi. Ma è molto meno problematico “dimenticare” le confessioni di un pentito, Antonino Cuzzola (ritenuto peraltro totalmente attendibile dai giudici), che chiama in causa le istituzioni, e usare invece quelle di un altro pentito, Emilio Di Giovine, finendo per dare ad Umberto l’etichetta del corrotto. Poco importa se gli asseriti tentativi di corruzione non vennero mai verificati nè, tantomeno, confermati.

Stefano Mormile, il fratello di Umberto, ha raggiunto Salvatore Borsellino nemmeno tre mesi fa e, tramite lui, ha avuto la possibilità di conoscere il suo avvocato, Fabio Repici, e, successivamente, Giovanni Spinosa, il magistrato che condusse le indagini sulla cosiddetta “banda della Uno Bianca” ed uno dei pochissimi che parlò esplicitamente delle “zone grigie” che circondavano non solo quell’indagine ma anche quella sull’omicidio Mormile, accomunate dalle rivendicazioni della sigla “Falange Armata“.

Stefano e la sua famiglia conobbero il vero significato della parola “solitudine” e, forse anche per questo, non si erano mai sentiti di commemorare il loro caro pubblicamente. Ma poi accadono incontri inaspettati, si conoscono persone non soltanto competenti e preparate ma con un carico di umanità, coraggio e desiderio di affermare la giustizia che ti toccano nel profondo. Fatto sta che, dopo nemmeno un mese da quegli incontri, Stefano ci chiede aiuto nell’organizzare la prima commemorazione pubblica, un giorno per ricordare Umberto ma anche per chiedere finalmente giustizia: “M’è tornata la voglia. Voglio dire quello che so e quello che penso, anche a chi non vuol sentire, soprattutto a chi non vuol sentire.”

Sabato siamo entrati nella sala dove si sarebbe svolto di lì a poco l’incontro e, per un momento, un senso di sconfitta e impotenza (e di colpa, verso Stefano e la sua famiglia) si è impossessato di me, alla vista della poca partecipazione della gente, seppur preventivata. Ma è proprio in questi casi che si ricevono le migliori lezioni di vita: Stefano ha preso le sedie dei relatori, le ha avvicinate a quelle del pubblico e si è seduto, esattamente come aveva fatto Salvatore Borsellino sette anni prima, quando aveva parlato ad una platea di sei persone (“una in più dei ragazzi che sono morti per proteggere mio fratello,” disse quel giorno). Gli altri relatori, Fabio Repici, Giovanni Spinosa, Giuseppe Lo Bianco e la sorella di Stefano, Nunzia, lo hanno imitato. Ció che ne è seguito è stato uno degli incontri più interessanti, formativi e sentiti a cui abbia mai partecipato.

Tutte le persone che hanno parlato hanno dovuto convivere, nella loro vita, con la solitudine e l’isolamento, hanno dovuto affrontare battaglie che, a volte, sembravano più grandi di loro, nelle quali ad ogni passo avanti sembrava se ne facessero due indietro. Uno stato d’animo che, in piccolo, proviamo spesso anche noi semplici cittadini, che non siamo magistrati, avvocati, giornalisti o familiari di vittime di mafia ma che investiamo tempo, energie e speranze cercando di fare la nostra parte per migliorare questa società. Lo scorso sabato, ascoltando le persone presenti e guardandole interagire e prendere l’impegno l’una con l’altra di andare avanti, insieme, quel senso di solitudine e di essere fuori posto, che spesso porto dentro di me, é scomparso ed ho avuto la sensazione, spero con tutta me stessa fondata, che anche quelle persone si sentissero un po’ meno sole.

P.S. per l’11 aprile Giovanni Spinosa, Fabio Repici, Antonella Beccaria e Stefano Mormile hanno pubblicato un documento (scaricabile gratuitamente qui dal sito di Antimafia Duemila*) che propone una nuova lettura sul caso dell’omicidio Mormile, evidenziando i vuoti delle indagini e le ambiguità delle sentenze emanate a seguito dei processi a carico dei mandanti e degli esecutori; dall’omicidio Mormile il documento analizza il ruolo della Falange Armata all’interno dell’azione degli stragisti della “Uno Bianca”, proponendo una lettura dell’operato di quest’ultima decisamente diversa da quella su cui si basarono le successive risultanze processuali; il tutto sarà inquadrato, nell’ultima parte di questo lavoro, in un’analisi che delineerà i collegamenti tra criminalità organizzata, destra eversiva, massoneria e mafia, dimostrando come queste realtà, storicamente, siano sempre andate a braccetto.

 

 

 

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    Prefazione
    La morte di un uomo di Stato e la nascita di depistatori di Stato  
    di Giovanni Spinosa, Antonella Beccaria e Fabio Repici

La morte di un uomo di Stato e la nascita di depistatori di Stato.
Falange Armata, Protocollo Farfalla, Servizi segreti, “Uno Bianca”,mafia e… uomini di Stato.

Introduzione di Stefano Mormile e Federica Fabbretti

Cos’hanno in comune la vicenda della ‘Uno Bianca’ con l’omicidio Mormile? E con le stragi dimafia? E con la ‘trattativa Stato-mafia’? E col ‘protocollo farfalla’? Sono tutte vicende terribili, accomunate da ferocia e disumanità. Ma, a parte questo, apparentemente, non sembrano esserci legami forti, un qualche disegno strategico per realizzare un obiettivo criminale. Eppure, esiste un ulteriore elemento che fa da collante a tutto questo, che appare e scompare, che nasconde, camuffa, contamina, diffama, uccide: è la ‘Falange Armata’, una sigla che, secondo gli inquirenti, è terroristica ma non è terroristica, è dei servizi segreti ma non è dei servizi segreti, è carceraria e non è carceraria. La Falange Armata compare per la prima volta l’11 aprile 1990, proprio per rivendicare l’omicidio dell’educatore carcerario Umberto Mormile (Falange armata carceraria), poi ricorre in tutti gli episodi di sangue che caratterizzano quegli anni, rivendicando e minacciando tutti, fino al capo dello Stato.

Gli inquirenti fanno a gara per sminuire la portata di questa ‘sigla’: millantatori,mitomani, cialtroni. Eppure, basta leggere con attenzione le parole usate nei comunicati, contestualizzarle, e lo scenario che si svela è inquietante: dietro la ‘Falange Armata’ sembra celarsi una strategia precisa, portata avanti da pezzi deviati dello Stato, frange estremiste eversive e criminalità organizzata, con una regia sapiente che accompagna e sostiene gli eventi.

Questa piccola pubblicazione, realizzata con il contributo eccezionale di chi le vicende le conosce per averle vissute e studiate, vuole fornire una prima parziale lettura di quei terrificanti accadimenti, incastonati, per la prima volta, in un quadro d’insieme generale.

Si approfondirà il caso dell’omicidio Mormile, evidenziando i vuoti delle indagini e le ambiguità delle sentenze emanate a seguito dei processi a carico dei mandanti e degli esecutori; dall’omicidio Mormile si passerà ad analizzare il ruolo della Falange Armata all’interno dell’azione degli stragisti della Uno Bianca, proponendo una lettura dell’operato di quest’ultima decisamente diversa da quella su cui si basarono le successive risultanze processuali; il tutto sarà inquadrato, con l’ultima parte di questo lavoro, in un’analisi che delineerà i collegamenti tra criminalità organizzata, destra eversiva, massoneria e mafia, dimostrando come queste realtà, storicamente, siano sempre “andate a braccetto”.

Segue: MORMILE-la-morte-di-un-uomo-di-Stato.pdf

 

 

 

 

Fonte: ilfattoquotidiano.it
Articolo del 26 luglio 2017
Omicidio Mormile, ‘Umberto ucciso dalla ‘ndrangheta con il nulla osta dei servizi segreti’
di Antonella Beccaria

“Mormile, nonostante sia stato infangato come corrotto, venne ucciso perché rifiutò di fare una relazione compiacente a Domenico Papalia“. A parlare è Vittorio Foschini, ‘ndranghetista pentito che il 26 aprile 2015 ha detto anche altro: Mormile sapeva di un patto tra criminalità organizzata calabrese e servizi segreti. L’educatore carcerario lo disse chiaramente: “Io non sono dei servizi”, quando gli venne chiesto un favore per il boss Domenico Papalia, e per questo – anche per questo – morì. “Questa allusione sui rapporti servizi-Papalia, oltre che al rifiuto di fare il favore, fu fatale al Mormile”, spiega infatti Foschini.

Vediamo di capire meglio. Umberto Mormile, 37 anni, era un educatore in servizio nel carcere di Opera dopo essere stato a Parma. Fu ammazzato l’11 aprile 1990 a Carpiano, nel milanese, mentre andava al lavoro. Gli furono sparati sei colpi di 38 special esplosi da un’Honda 600 che aveva affiancato la sua Alfa 33. L’omicidio venne rivendicato dalla Falange Armata – Falange Armata Carceraria, per la precisione – sigla che esordì proprio con questo delitto (e sul punto torneremo).

In via definitiva per l’omicidio Mormile sono stati condannati come mandanti Domenico e Antonio Papalia e come esecutori materiali Antonio Schettini e Nino Cuzzola. Nel corso del processo, la memoria dell’educatore carcerario fu sporcata da insinuazioni secondo cui avrebbe avuto una “condotta non specchiata” e troppo propensa a prestare favori ai boss detenuti, sia a Parma che a Opera. Falso, tanto che già nella stessa sentenza di condanna non lo si dava per certo, non c’erano elementi per sostenerlo.

Perché tornare a parlare adesso di tutto questo? Per due ragioni. La prima è che il 19 luglio scorso, sul palco allestito a Palermo, in via D’Amelio, per la commemorazione della strage in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino 25 anni fa, sono saliti per la prima volta Stefano e Nunzia Mormile, fratelli di Umberto. Insieme ad Armida Miserere, la direttrice di carcere legata sentimentalmente all’educatore assassinato e morta suicida a Sulmona il 19 aprile 2003, i fratelli hanno portato avanti per anni ricerche in proprio e sono giunti a una conclusione: Umberto fu assassinato perché testimone di una versione forse ante litteram del Protocollo Farfalla, una sorta di accordo tra servizi segreti e amministrazione penitenziaria per entrare in carcere e parlare con i boss al 41 bis, il regime di carcere duro.

Stefano e Nunzia Mormile lo hanno ripetuto pubblicamente pochi giorni fa in via D’Amelio e lo hanno fatto in modo tanto vigoroso da essere stati avvicinati da Nino Di Matteo, il pm palermitano oggi alla Direzione nazionale antimafia (vedi foto in evidenza). La seconda ragione per cui tornare a parlare di Umberto Mormile si lega alla prima, l’esistenza di un antesignano del Protocollo Farfalla noto a Umberto e possibile causa (o almeno concausa) del suo omicidio. Di questo si parla nell’ordinanza ‘Ndrangheta Stragista, quella che ipotizza (in realtà conferma aggiungendo nuovi elementi rispetto a quelli già conosciuti) l’esistenza di un patto terroristico tra malavita calabrese e Cosa nostra per destabilizzare lo Stato.

Proprio nelle 970 pagine dell’ordinanza compaiono le parole di Foschini e a pagina 914 c’è un paragrafo che si intitola “Un filo rosso delle vicende stragiste: le rivendicazioni Falange Armata. L’omicidio Mormile. La riunione di Enna e le dichiarazioni di Cannella, Avola e Malvagna. Le dichiarazioni di Foschini e Cuzzola. Il copyright della ‘ndrangheta e di settori deviati degli apparati di sicurezza nazionale“. Sul delitto Mormile, che aveva già bloccato un permesso di Domenico Papalia e stava rifiutando il secondo favore, intervennero anche – scrive la gip di Reggio Calabria Adriana Trapani – i servizi segreti o, più precisamente, “non identificati esponenti” degli apparati di sicurezza, che suggerirono ai Papalia di usare la sigla Falange Armata per rivendicare il delitto.

 

 

 

Fonte: antimafiaduemila.com
Articolo del 15 aprile 2018
Delitto Mormile, la famiglia pronta a chiedere riapertura indagini
di Aaron Pettinari
Un pentito parla di un patto tra cosche e servizi

“Riaprite le indagini sulla morte di Umberto Mormile”. È questa la richiesta forte che i familiari dell’educatore del carcere di Opera, ucciso da sei colpi di pistola l’11 aprile 1990, fanno per svelare i volti dei mandanti occulti del delitto. Nelle prossime settimane, tramite il proprio legale Fabio Repici, presenteranno un’istanza alla Procura di Milano, ed intanto hanno espresso i propri dubbi partecipando all’evento in memoria che è stato organizzato nell’ambito del Festival dei beni confiscati.
Se c’è qualcosa che è evidente ventotto anni dopo dall’omicidio è che, nonostante le condanne (in via definitiva per l’omicidio Mormile sono stati condannati come mandanti Domenico e Antonio Papalia e come esecutori materiali Antonio Schettini e Nino Cuzzola, entrambi rei confessi, ndr), ci sono ancora diversi aspetti da chiarire per giungere ad una verità completa in particolare per far luce sul contesto in cui maturò il delitto ed i motivi che si nascondono dietro allo stesso.
“Dopo l’uccisione di mio fratello – ha ricordato Stefano Mormile – decine di agenti della penitenziaria ma anche detenuti eccellenti vennero trasferiti misteriosamente. Ad Opera molti sapevano di quel delitto, ma nessuno mai volle indagare davvero i mandanti”.
I nuovi elementi passano dalle dichiarazioni del pentito Vittorio Foschini, killer legato alle cosche calabresi, che alcuni mesi fa ha dichiarato al procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo ed al sostituto procuratore nazionale antimafia Franco Curcio che l’educatore non venne ucciso perché rifiutò 30 milioni di lire per redigere una relazione favorevole in vista di un permesso di libera uscita al boss ergastolano Domenico Papalia (la “versione” messa nero su bianco nelle sentenze e raccontata da Schettini, ndr), ma perché l’educatore (“che non era un corrotto”) aveva scoperto che Papalia aveva degli incontri con agenti dei servizi segreti in carcere senza l’autorizzazione dei magistrati. Non solo. Foschini sostiene anche che i Servizi, informati dallo stesso Papalia, avrebbero dato una sorta di “sta bene” all’omicidio Mormile, raccomandandosi di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica: quella della “Falange Armata”. Questa sigla, emersa per la prima volta proprio con il delitto Mormile, negli anni successivi si è fatta notare per aver accompagnato stragi mafiose, rivendicazioni politiche, ma anche delitti come quelli della Uno Bianca.
“Occorre indagare sul sistema carcerario, ma non solo – ha ribadito Fabio Repici – Se è vero che Domenico Papalia ha goduto a Parma prima e a Opera dopo, di una detenzione ‘di favore’, con la concezione di permessi grazia alla sua vicinanza con il Sisde, allora occorre ricordare che i permessi vengono concessi da magistrati, non solo in base al parere di un educatore o del direttore del penitenziario”. Ma sono diversi gli elementi che le indagini dell’epoca e le successive non hanno mai profondamente chiarito.
Basti pensare, ad esempio, che pochi giorni dopo l’agguato dell’11 aprile 1990 Armidia Miserere, direttrice al carcere di Lodi e compagna di Mormile (trovata morta il 19 aprile del 2003 con un colpo di pistola alla testa), scrisse ai pm che curavano le indagini sull’omicidio che “L’ipotesi più logica è che Umberto sia stato ucciso perché ostacolo a un grande progetto”. A cosa si riferiva? Riguardava i rapporti di Papalia con i servizi? O l’educatore penitenziario aveva scoperto dell’altro ancora?
“Le indagini sul delitto – ha proseguito Repici – avviate dalla Procura di Lodi, non riuscirono mai a penetrare la cappa di silenzio sollevato dall’amministrazione penitenziaria e da alcuni apparati istituzionali. Tant’è che al magistrato inquirente venne perfino negato l’accesso con un blitz nel carcere di Opera”.
Ma non si è neanche mai capito per quale motivo vennero “depotenziate” le rivelazioni di Cuzzola, che non solo rivelò di aver saputo la reale motivazione dell’assassinio che riguardava la scoperta dei contatti di Papalia in carcere con i Servizi segreti, ma parlò anche del fatto che Antonio Papalia (fratello di Domenico) si adoperò per rivendicare il delitto proprio con la sigla della Falange armata. Adesso, però, c’è un ulteriore riscontro con le dichiarazioni di Foschini. E magari, anche se in ritardo, si potrebbe scoprire una nuova verità.

 

 

 

Fonte:  antimafiaduemila.com
Articolo del 26 novembre 2018
Appello per Umberto Mormile e Armida Miserere
Ricordiamoli ogni 21 marzo, Giornata della memoria e dell’impegno, assieme alle altre vittime innocenti delle mafie

I sottoscritti, firmando il presente appello, chiedono che Umberto Mormile e di Armida Miserere siano ricordati nelle celebrazioni del 21 marzo, Giornata della memoria e dell’impegno, assieme alle altre vittime innocenti delle mafie.

Umberto Mormile nasce il 15 settembre 1953.
Nel 1976, alla soglia della laurea, abbandona gli studi di giurisprudenza per fare il poliziotto penitenziario nel carcere di Civitavecchia. Due anni dopo diventa educatore carcerario, uno dei primi dalla riforma penitenziaria. Nel 1984 è a Parma e conosce Armida Miserere, assegnata al carcere. Si lega sentimentalmente a lei. Tra il 1986 e il 1987 un’inchiesta coinvolge il direttore del carcere, accusato di corruzione. La vicenda non riguarda Mormile, a cui non viene rivolto alcun addebito, ma verrà usata strumentalmente per depistare le indagini sulla sua morte. Nel 1987, l’amministrazione penitenziaria gli propone di trasferirsi nel nuovo carcere di Milano-Opera. L’11 aprile 1990, a Carpiano, mentre si sta recando al lavoro, Umberto Mormile è ucciso da Antonio Schettini e Antonino Cuzzola.
La verità sul suo omicidio ha compiuto un lungo percorso. Gli spari, furono solo l’inizio. Umberto Mormile stava per essere ucciso una seconda volta e dopo l’omicidio, sulla sua figura, furono riversate accuse e fango. Ora siamo oramai alla svolta definitiva. Nuove rivelazioni hanno confermato e consolidato la versione che, nel 2004, grazie alle rivelazioni proprio di Cuzzola, aveva già dato una chiara interpretazione agli iniziali depistaggi.
Antonio Schettini, terribile killer in Lombardia a partire dagli anni ’80, nel 1995 sostenne che era stato proprio lui l’esecutore materiale del delitto. Successivamente aggiunse che aveva operato su ordine del boss calabrese Antonio Papalia, che si era voluto vendicare di Mormile un tempo amico e agevolatore nel carcere di Parma del fratello Domenico, poi resosi inadempiente, nonostante il denaro ricevuto, a soddisfare le esigenze del capo della famiglia. Dalle rivelazioni di Schettini nacque un processo a carico di Antonio Papalia, Franco Coco Trovato, Antonino Cuzzola, Antonio Musitano e Diego Rechichi. Schettini scelse il giudizio abbreviato e riportò per l’omicidio Mormile una condanna a 14 anni di reclusione. Nel successivo dibattimento a carico dei presunti complici, si rifiutò di rispondere, cosicché la Corte d’Assise di Milano il 23 gennaio 2004 assolse tutti gli imputati.
Un anno prima della sentenza, dopo avere fatto ogni sforzo per ottenere la verità sull’omicidio del suo compagno, Armida Miserere, all’età di 46 anni, si uccide a Sulmona.
Subito dopo la sentenza, lo stesso Antonino Cuzzola, iniziò a collaborare con la giustizia e confessò che era stato lui il conducente della moto dalla quale Schettini aveva esploso i suoi colpi di pistola. Cuzzola aggiunse però che il movente del delitto gli era stato confidato da Antonio Papalia: Umberto Mormile andava eliminato perché aveva divulgato la notizia che il boss Domenico Papalia nel carcere di Parma aveva svolto colloqui con esponenti dei servizi segreti, che entravano nel Penitenziario con documenti falsi. Cuzzola disse pure che Antonio Papalia si era adoperato perché quel crimine venisse rivendicato, proprio a Bologna, dalla Falange Armata. Sigla che tornò ad essere usata da chi rivendicò la Strage del Pilastro del 4 gennaio 1991, durante la quale morirono 3 carabinieri, della quale si dichiararono colpevoli i killer della Uno bianca. La sigla fu utilizzata, successivamente, per rivendicare gli assassini e le stragi di mafia del 1992 e del 1993.
Quest’anno, proprio nel giorno in cui la Corte d’Assise di Palermo ha affermato che la trattativa fra uomini delle istituzioni e uomini di Cosa nostra, agli inizi degli anni novanta, era una minaccia rivolta allo Stato italiano, il 22 aprile 2018, Vittorio Foschini, collaboratore di giustizia, ha dichiarato che Umberto Mormile “non è morto perché era un corrotto” e che, viceversa, a condannarlo a morte fu una frase che pronunciò dopo aver respinto in malo modo l’offerta del clan. Mormile avrebbe affrontato il boss Domenico Papalia e gli disse “Io non sono dei servizi”.

Foschini elemento di spicco della ‘ndrangheta milanese e fra i primi collaboratori di giustizia, braccio destro di Franco Coco Trovato, alle dirette dipendenze di Antonio e Domenico Papalia, parla durante le udienze del processo ‘Ndrangheta stragista, nel quale l’accusa, rappresentata dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, ha portato sul banco degli imputati il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, considerato all’epoca capo mandamento della ‘Ndrangheta reggina, per gli attentati ai carabinieri eseguiti in provincia di Reggio Calabria fra la fine del ‘93 e l’inizio del ’94, in uno dei quali morirono gli appuntati Fava e Garofalo.
Foschini dice che l’educatore di Opera “…aveva capito che Papalia non era cambiato, aveva ancora a che fare con noi, per questo aveva fatto una serie di relazioni negative al tribunale di sorveglianza, che per questo aveva bloccato i permessi”. Un problema per il boss, che secondo quanto raccontato dal pentito, nonostante la detenzione, rimaneva il vertice assoluto del clan ed elemento del gotha della ‘Ndrangheta. «In famiglia si diceva che i servizi non potevano fare niente, allora – racconta Foschini – si è pensato all’omicidio». Una decisione sofferta all’interno del clan. Il rischio era che immediatamente lo si addebitasse a Domenico Papalia, destinatario di fin troppe relazioni negative per non diventare sospetto. “Per questo – spiega il pentito – prima lo abbiamo avvicinato. Gli abbiamo offerto trenta milioni, ma lui ha rifiutato. Quell’omicidio – racconta – è stato firmato come Falange Armata “perché così Papalia mi aveva detto di fare”.
Dopo le dichiarazioni rese da Foschini i fratelli di Umberto vogliono finalmente avere giustizia e vogliono che la verità emerga anche in sede giudiziaria individuando anche gli altri mandanti dell’omicidio. A inizio agosto 2018 hanno fatto richiesta di riaprire le indagini al Procuratore aggiunto Alessandra Dolci a capo della Dda milanese.
Il presente documento verrà consegnato ai fratelli di Umberto, Stefano e Nunzia, alla figlia Daniela e a Don Luigi Ciotti, Presidente di Libera.

Flora Agostino, Nunzia Agostino, Vincenzo Agostino, Salvatore Borsellino, Paola Caccia, Angela Gentile Gioacchino Manca, Augusta Giacoma Schiera, Lorenzo Sanua, Antonella Beccaria, Maria Canino; Francesca Cimino; Ludovica Cimino; Gianni Cirillo, Simona D’Avino, Dario Di Nucci, Federica Fabbretti, David Gentili, Cesare Giuzzi, Benedetta Gaudino; Cinzia Gennarelli, Gerardo Gennarelli, Iris Isello, Matilde Maresca; Davide Milosa, Federica Monaci; Ezio Monaci; Angela Munizza; Lucio Pacilli; Luigi Pagano, Giuseppina Parisi; Elisa Passatempi; Moira Francesca Rametta Ilaria Ramoni, Giulia Sarti; Giovanni Spinosa; Mario Spinosa; la Redazione di ANTIMAFIADuemila, Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Baldo, Aaron Pettinari.

 

Bibliografia:
Miserere Vita e morte di Armida Miserere, servitrice dello Stato, di Cristina Zagaria, Dario Flaccovio
L’Italia della Uno bianca, di Giovanni Spinosa, Chiarelettere.
Uno bianca, trame nere, di Antonella Beccaria, Stampa Alternativa.
Processo allo stato, di Giorgio Mottola e Maurizio Torrealta, BUR Rizzoli.
Il filo dei giorni. 1991-1995: la resa dei conti, di Maurizio Torrealta, Imprimatur.
La repubblica delle stragi. 1978/1994. Il patto di sangue tra Stato, mafia, P2 ed eversione nera, a cura di Salvatore Borsellino, PaperFIRST.

Filmografia:
Come il vento, 2013. Regia di Marco Simon Puccioni, con Valeria Golino, Filippo Timi, Francesco Scianna, Chiara Caselli, Marcello Mazzarella.
Documenti processuali più significativi:
Ordinanza del Gip di Reggio Calabria nei confronti di Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone del 14 luglio 2017.

 

 

 

Fonte: .penitenziaria.it
Pubblicato il 6 agosto 2019
Omicidio Umberto Mormile: lettera aperta a Bonafede e Basentini del fratello dell’educatore ucciso dalla mafia, compagno di Armida Miserere

Lettera aperta al Ministro Bonafede e al vertice del Dap

di Stefano Mormile

Al Signor Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede

Al Signor Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini

Signor Ministro, Signor Capo Dipartimento,

mi chiamo Stefano Mormile, sono, anzi, ero il fratello di Umberto Mormile, educatore carcerario ad Opera, ucciso l’11 aprile del 1990 in un agguato mafioso mentre si recava al lavoro. La storia di Umberto, come la storia della sua compagna, Armida Miserere, direttrice carceraria morta suicida (?!) nell’aprile del 2003, le potete conoscere leggendo la copiosa documentazione giornalistica diffusa in questi anni, compresi alcuni libri (da ultimo, la Repubblica delle stragi, curato da Salvatore Borsellino) e addirittura un film (come il vento, del regista Marco Simon Puccioni, del 2013). Perciò non ve le racconto, sarei di parte, troppo coinvolto, e poi sono certo che le conosciate entrambe, anche perché parliamo di due lavoratori della Giustizia, delle carceri in particolare, che voi rappresentate e amministrate. A Voi chiedo altro.

Umberto Mormile, com’e ormai accertato, è stato ucciso perché si era accorto degli incontri proibiti che avvenivano all’interno del carcere tra personaggi appartenenti ai servizi segreti e boss della criminalità. Incontri che non solo non venivano registrati, ma producevano anche indecenti privilegi ai boss ai quali venivano concessi financo dei permessi premio. Inaudito!

Umberto fu eliminato affinché non rivelasse questo indicibile e spregevole scambio, o forse è meglio chiamarlo patto, come altri patti ignobili che sono costati la vita ad altri servitori dello Stato. Del resto, gli incontri proibiti in carcere, costati la vita a Umberto, altro non erano che un “protocollo farfalla” ante litteram, lo scandalo scoperto quasi casualmente nel 2004 e subito soffocato dal “segreto di stato”, pietra tombale di tutte le principali vicende di questo Paese che noi cittadini ingenui non dobbiamo assolutamente conoscere.

Torniamo però a Umberto; costituiva una minaccia perché non solo sapeva di quegli incontri, ma aveva il torto di essere onesto, non potevano comprarlo, solo eliminarlo. E così avvenne. A deciderne l’eliminazione fu il “consorzio”, ovvero, l’organismo di vertice dell’organizzazione criminale lombarda, costituito alla fine degli anni ’80 per governare e controllare tutti i traffici illegali (droga, appalti, ecc.). Insomma, come descritto anche dagli inquirenti che hanno raccolto prove e testimonianze, il consorzio è “un grumo di interessi politici ed economici attorno a cui ruotano servizi segreti deviati, massoni vicini a Gelli e organizzazioni criminali”.

Armida Miserere fu l’integerrima direttrice carceraria che, dopo la morte del suo compagno, dedicò la sua vita a cercare i colpevoli veri dell’omicidio di Umberto. Non diede tregua agli inquirenti, ai vertici del Dap, a chiunque avesse o potesse avere elementi utili a provare quello che lei già sapeva e che si sarebbe poi rivelato esatto. E forse fu proprio per allontanarla da quella sua ostinata e pericolosa ricerca della verità, che l’Amministrazione carceraria cominciò a mandarla ovunque ci fossero problemi e pericoli. Così Armisa Miserere, la direttrice dura e inflessibile, fu spedita a Pianosa, all’Ucciardone, a Voghera, Sulmona, lei sola a fronteggiare proteste, rivolte, insomma, a dipanare tutte le matasse che, all’epoca, si annodavano attorno al carcere. In cambio ottenne minacce, ritorsioni, calunnie, intimidazioni e attentati.

Delle due vicende, l’Amministrazione della Giustizia non s’è mai occupata, anzi, nel caso di Umberto ha fatto peggio, ostacolando di fatto le indagini.

Signor Ministro e signor Capo Dipartimento,

so bene che i Vostri incarichi sono recenti, non potete certamente rispondere di ciò che hanno fatto o non hanno fatto i Vostri predecessori.

Adesso però ci siete Voi.

Lei, signor Ministro, negli ultimi due anni, ha pregevolmente partecipato alle celebrazioni per l’anniversario della strage di Via D’Amelio, mostrando sensibilità e declinando impegno a combattere le mafie, anche e soprattutto quella di Stato. Ebbene, Umberto Mormile è stato ucciso da quelle mafie, anche e soprattutto da quella di Sato. Si sapeva già dal 2004, quando, per l’omicidio di Umberto Mormile, è stata emessa la sentenza d’appello dal tribunale di Milano che, seppure ha mandato assolta, incomprensibilmente, la mafia di Stato, ha comunque certificato quel “protocollo farfalla” come causa della sua morte. Più recentemente, il Tribunale di Reggio Calabria sta provvedendo in qualche modo a colmare le “lacune investigative” di Milano, attraverso le copiose e convergenti testimonianze rese, ripetute a dibattimento e riscontrate dagli inquirenti che svelano senza ombra di dubbio alcuno che il consorzio esisteva (esiste ?), aveva deliberato l’eliminazione immediata di quell’educatore che ficcava il naso e minacciava di rivelare quello che non si poteva rivelare.

Signor Ministro e signor Capo Dipartimento, credo che sia giunto il momento che l’Amministrazione intervenga.

Ad esempio, delle scuse dell’Amministrazione a Daniela Mormile, figlia di Umberto, e a Domenico Miserere, fratello di Armida, seppur tardive, non farebbero male.

Quello che chiedo io è invece una azione inequivoca da parte Vostra: un dipendente della Giustizia è stato ucciso per svolgere il proprio lavoro; finché non sarà fatta piena luce sulle cause e le circostanze che hanno determinato quella morte, ogni dipendente della Giustizia è in pericolo, perché non si può escludere che quel “sistema” sia ancora attivo.

Penso anche che sia giusto e necessario che l’Amministrazione si costituisca parte in causa nel processo di Reggio Calabria, non solo perché in quel processo si racconta anche dell’uccisione di Umberto Mormile, ma perché quei racconti aprono squarci terribili nell’ambiente carcerario di Opera e non solo. Ecco quei fatti raccontati e mai indagati, credo sia necessario accertarli, anche adesso, a distanza di anni, attraverso inchieste interne per verificare che quanto avvenuto in passato non avvenga più.

Signor Ministro e Signor Capo Dipartimento,

sono passati tanti anni dalla morte di due eccellenti servitori dello Stato. Purtroppo, non sono stati gli unici servitori dello Stato ad essere sacrificati, tanti altri, troppi, sono stati uccisi con la terribile sensazione che lo Stato che hanno lealmente servito li abbia traditi in nome di un “interesse superiore” che, ad oggi, non è dato sapere. Spesso, su quei servitori, lo Stato si è addirittura accanito, facendo o permettendo che si facesse scempio della loro memoria attraverso azioni di palese depistaggio, calunnia, diffamazione. Adesso lo Stato, almeno per quanto riguarda l’Amministrazione della Giustizia, lo rappresentate Voi, spetta a Voi servire la Giustizia e lo Stato con lealtà, ed è quello che Vi chiederebbero Armida ed Umberto.

 

 

 

 

 

 

 

 

Fonte:  antimafiaduemila.com
Articolo dell’11 aprile 2020
Ricordando Umberto Mormile, in attesa di giustizia
di Aaron Pettinari
Trent’anni fa l’omicidio dell’educatore carcerario

11 aprile 1990. Trent’anni sono passati da quella data in cui l’educatore carcerario Umberto Mormile fu ucciso da due killer con sei colpi di pistola. Era un giorno come altri e stava viaggiando a bordo della sua Alfa 33 per andare al lavoro, presso il carcere milanese di Opera. L’auto venne affiancata da un’Honda 600 con a bordo due sicari (Nino Cuzzola e Tonino Schettini, ndr), e per Mormile non ci fu scampo. Erano troppo ravvicinati quei colpi per poter fallire.
In via definitiva per quell’omicidio sono stati condannati come mandanti Domenico e Antonio Papalia e come esecutori materiali Antonio Schettini e Nino Cuzzola. Sul delitto si è scavato per anni ma, nonostante la celebrazione di tre processi, le reali motivazioni che hanno portato alla morte dell’educatore carcerario non sono mai state veramente chiarite.

Una vicenda su cui la Procura di Milano è tornata a lavorare partendo dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia (Vittorio Foschini, Salvatore Pace, Antonino Fiume ed Antonino Cuzzola), sentiti nel processo ‘Ndrangheta stragista, che di fatto ribaltano quanto fu accertato nei precedenti processi.
Pentiti che saranno sentiti anche nel processo Stato-mafia. Il motivo è presto detto.
L’omicidio dell’educatore carcerario fu anche il primo rivendicato dalla misteriosissima sigla della Falange Armata. La stessa che fu utilizzata da “diverse componenti” e nel corso degli anni divenuta “ad uso e consumo” anche dai mafiosi con una lunga serie di rivendicazioni di stragi e delitti eccellenti. Dagli omicidi del politico Dc Salvo Lima e del maresciallo Giuliano Guazzelli, alle bombe di Capaci e via d’Amelio, per poi passare alle stragi “continentali” di Roma, Firenze e Milano nel 1993. Ma sarà utilizzato anche per rivendicazioni politiche, e delitti come quelli della Uno Bianca.
La Corte d’Assise di Palermo ha dedicato ad essa un intero capitolo delle motivazioni della sentenza.

Ma perché fu ucciso Mormile?

Secondo le dichiarazioni del pentito Vittorio Foschini, killer legato alle cosche calabresi, che alcuni mesi fa ha dichiarato al procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo ed al sostituto procuratore nazionale antimafia Franco Curcio che l’educatore non venne ucciso perché rifiutò 30 milioni di lire per redigere una relazione favorevole in vista di un permesso di libera uscita al boss ergastolano Domenico Papalia (la “versione” messa nero su bianco nelle sentenze e raccontata da Schettini, ndr), ma perché l’educatore (“che non era un corrotto”) aveva scoperto che Papalia aveva degli incontri con agenti dei servizi segreti in carcere senza l’autorizzazione dei magistrati. Non solo. Foschini sostiene anche che i Servizi, informati dallo stesso Papalia, avrebbero dato una sorta di “sta bene” all’omicidio Mormile, e sempre gli apparati avrebbero raccomandato di rivendicarlo con la sigla terroristica della “Falange Armata”.
Ecco che il delitto Mormile, dunque, si inserisce nell’elenco dei misteri di Stato. Ne abbiamo parlato, in questa videoconferenza con il fratello, Stefano Mormile, con Fabio Repici, legale della famiglia, e David Gentili, Presidente Commissione Antimafia del comune di Milano, che per primo ci ha lanciato la proposta di dedicare questo spazio per i trent’anni passati dall’omicidio.
Abbiamo anche un contributo di un attore, Max Liotta, che recita un monologo scritto da Stefano, in cui dà voce a Umberto e alla sua richiesta di verità.

 

 

Umberto Mormile, storia di un omicidio ibrido in attesa di verità e giustizia

Antimafia Duemila – di Jamil El Sadi – 11 aprile 2022
A 32 anni dal delitto, l’intervista a Stefano Mormile, fratello dell’educatore carcerario
Un giovane educatore carcerario, un omicidio ibrido, ricco di misteri e una sigla: “Falange Armata”. È la storia di Umberto Mormile, assassinato l’11 aprile 1990 a Carpiano da due killer mentre si stava recando al lavoro presso il carcere milanese di Opera.
Umberto Mormile era un pioniere nel suo settore, perché era un conoscitore profondo del mondo delle carceri; aveva compreso quanto fosse importante l’arte e la cultura per la rieducazione e il reinserimento del carcerato nella società; e quanto il sistema penitenziario fosse il termometro con cui misurare la Democrazia di un Paese. Ma no, non è stato ucciso per questo. Dietro il suo delitto vi sono state trame ancora oggi oscure, che per troppi anni la giustizia non ha saputo (o voluto) affrontare.
Si tratta di un omicidio sui generis, probabilmente il primo di una lunga serie, per il quale dopo vari anni sono stati condannati come mandanti i boss di Platì, Domenico e Antonio Papalia – due dei vertici massimi della ‘Ndrangheta – e Franco Coco Trovato; mentre come esecutori materiali Antonio Schettini e Nino Cuzzola (oggi pentito). Ma per la famiglia Mormile, nonché per la procura di Reggio Calabria che sta approfondendo la vicenda con un’informativa depositata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo sulla “Falange Armata” al processo ‘Ndrangheta Stragista, Umberto Mormile venne ammazzato perché testimone di una versione forse ante litteram del Protocollo Farfalla, una sorta di accordo tra servizi segreti e l’amministrazione penitenziaria per poter entrare in carcere e parlare con i boss al 41 bis senza l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria.
Un protocollo che si incastra nel groviglio di fili rossi che “dagli anni Sessanta ad oggi ha collegato ambienti, istituzioni di nostri servizi di informazione con contesti della criminalità organizzata e della massoneria, che poi si è dipanato con modalità diverse e acronimi differenti e rivendicazioni di circostanza”, come ha sottolineato il vicequestore della Dia, Michelangelo Di Stefano nell’ambito del processo di appello ‘Ndrangheta stragista.
E tra queste rivendicazioni vi è indubbiamente quello dell’omicidio Mormile con il quale la “Falange Armata” fece la sua prima comparsa, per poi essere utilizzata in altre rivendicazioni come, ad esempio, l’omicidio dei due carabinieri Fava e Garofalo.
Ed è per far luce sulla vicenda di Umberto Mormile e sulle verità indicibili che si celano dietro il suo delitto, nonché per farne memoria, che – a distanza di 32 anni dal delitto – abbiamo intervistato Stefano Mormile, il quale si è detto convinto che “il Protocollo Farfalla, rappresenta il movente stesso per il quale Umberto è stato ucciso. Mio fratello è stato ucciso perché è stato un testimone scomodo degli incontri che avvenivano in carcere (prima di Parma e poi di Opera) tra il boss Domenico Papalia e personaggi degli apparati di sicurezza. Dopo questi incontri, nonostante il regime di carcere duro, Papalia otteneva dei permessi premio”.
Nel frattempo, la giustizia – anche se lenta – sta facendo il suo corso e recentemente sono state aperte nuove indagini sull’omicidio Mormile grazie al gip del tribunale di Milano, Natalia Imarisio, che ha respinto la richiesta di archiviazione della Dda milanese disponendo l’iscrizione sul registro degli indagati di due collaboratori di giustizia, Salvatore Pace e Vittorio Foschini. Una iscrizione “necessaria e preliminare a qualunque altro sviluppo” scriveva il giudice.

 

 

 

 

Leggere anche:

 

19luglio1992.com
Articolo del 22 marzo 2021
Umberto Mormile, vittima innocente il cui nome (non) deve essere dimenticato
Movimento Agende Rosse

 

vivi.libera.it
Articolo del 10 apr 2021
In ricordo di Umberto Mormile. La storia vera
di Stefano Mormile

 

milano.repubblica.it
Articolo del 7 marzo 2022
Omicidio di Umberto Mormile, gip dice no all’archiviazione: “Nuove indagini sulla “Falange Armata”
La gip di Milano Imarisio ha respinto la richiesta della Dda sull’inchiesta che riguarda la morte dell’educatore del carcere di Opera avvenuta nel 1990. Iscritti nel registro degli indagati due collaboratori di giustizia.

 

milano.corriere.it
Articolo dell’8 marzo 2022
Umberto Mormile, servizi segreti deviati, patto tra boss di mafia e Falange armata: un delitto oscuro da 32 anni
di Cesare Giuzzi
Umberto Mormile, educatore del supercarcere di Opera, venne ucciso l’11 aprile 1990 a Carpiano (Milano). Già condannati i due killer e il mandante Antonio Papalia, ma il gip ordina nuove indagini. Il ruolo del boss di ‘ndrangheta «Micu» Papalia e l’ipotesi di un «patto milanese» tra i boss.

 

 

 

 

 

 

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