11 Giugno 1980 Rosarno (RC). Assassinato Giuseppe Valarioti, dirigente del PCI, il “più importante martire dell`antimafia calabrese, ben più che un politico onesto”.

Foto da: Giuseppe Valarioti – Pagina Facebook

Giuseppe Valarioti viveva a Rosarno, in Calabria. Era un insegnante precario. Pensava che la politica e la cultura fossero strumenti per sconfiggere la ‘ndrangheta e offrire un’opportunità ai giovani del suo paese. È stato ucciso a trent’anni, la notte tra il 10 e l’11 giugno 1980, mentre usciva dalla cena con cui il Pci festeggiava la vittoria alle elezioni. È il primo omicidio politico in Calabria, quello che affossa il movimento anti ‘ndrangheta. È il battesimo di sangue della Santa, la nuova ‘ndrangheta, che cambia il destino della Calabria. Per sempre. Una vicenda giudiziaria lunga undici anni: testimonianze coraggiose e ritrattazioni repentine, un super pentito che parla e non viene creduto, interi faldoni smarriti e un omicidio senza giustizia. (Il caso Valarioti di Danilo Chirico e Alessio Magro)

 

 

 

Fonte: Stop’ndrangheta.it
Il compagno Giuseppe Valarioti
Dirigente rosarnese del Pci, viene assassinato l’11 giugno del 1980 al termine di una cena di festeggiamento per la vittoria elettorale del partito. Dietro la sua morte, una strategia delle cosche per intimidire la politica. Un delitto rimasto impunito

Giuseppe Valarioti muore nella tarda serata dell’11 giugno del 1980. Lo attendono fuori dal ristorante dove stava festeggiando il successo del Partito comunista alle elezioni che si erano svolte in quei giorni. Lo uccidono con due colpi di lupara. Aveva trent’anni.

Peppe Valarioti era il segretario cittadino del Pci di Rosarno e consigliere comunale. Era legato da passione politica e amicizia personale a Peppino Lavorato, dirigente del Pci che poi diverrà parlamentare e sindaco di Rosarno. È stato proprio Lavorato a soccorrerlo subito dopo l’agguato, raccogliendo le sue ultime parole, il suo ultimo sguardo.
Durante la gestione di Valarioti, il Pci avviò una campagna di moralizzazione interna, soprattutto nella cooperativa Rinascita, che era collaterale al partito. Come in tutta l’Italia meridionale, le cooperative agricole erano spesso obiettivi sensibili: la ‘ndrangheta puntava a drenare i sussidi europei e nazionali garantiti ai produttori (Aima). Per negligenza, perché corrotti, perché ingenui o semplicemente per paura alcuni dirigenti della Rinascita (che saranno sospesi e poi espulsi, non appena le indagini chiariranno le loro posizioni) non avevano arginato i tentativi di inquinamento portati avanti dalle cosche rosarnesi.

Valarioti provò a invertire la rotta. Un tentativo che certamente lo espose notevolmente. Nonostante la gran parte del partito seguisse il segretario cittadino nel nuovo corso politico, all’esterno Peppe figurava come elemento centrale dell’attacco alla ndrangheta, nel bene e nel male.
Ma quello della cooperativa non era l’unico fronte aperto. Le prese di posizione sulle concessioni edilizie, gli scontri violenti in consiglio comunale con i membri del Psi al governo cittadino, le dichiarazioni e i comizi. L’omicidio Valarioti è maturato in un contesto elettorale, in un anno decisivo, il 1980, per la svolta “politica” della ‘ndrangheta dell’intera Calabria. Ed è in questo contesto che vanno cercate le cause scatenanti dell’assassinio.

Dall’inchiesta emerge il netto coinvolgimento della cosca dei Pesce. Giuseppe Pesce, il patriarca della ‘ndrina, riuscì a presenziare alla campagna elettorale del maggio-giugno, nonostante si trovasse al confino, grazie ad un permesso per la malattia della madre prolungato ad arte per alcune settimane. Una presenza che alimentò notevolmente la tensione. L’auto di Lavorato in fiamme, i manifesti del Pci scollati e riattaccati al rovescio, l’attentato alla sede del partito, le minacce continue. Era una tornata elettorale decisiva. Valarioti non volle sentire ragioni, nessun cedimento alla pur necessaria prudenza. Nei comizi Peppe attaccava a spada tratta, con nomi e cognomi. In un discorso acceso, il 25 maggio, pronunciò parole di sfida aperta in reazione agli attentati: “Se pensano di intimidirci non ci riusciranno, i comunisti non si piegheranno”. Un comizio proprio nel giorno del funerale della madre di Pesce. Impensabile qualche anno prima.

Il voto aveva premiato la linea dura di Valarioti, mettendo in crisi il Partito socialista, quel partito che dalle indagini emergerà come notevolmente infiltrato e come contenitore dei voti della ‘ndrangheta. Al di là del dato giudiziario, era il Psi il riferimento delle cosche di Rosarno. Una vittoria festeggiata con tanto di sfilata con le bandiere nel quartiere “Corea”, il rione popolare di Valarioti, ma anche dei Pesce.

La vittoria, lo smacco, l’omicidio. Seguirà un processo fallito, con Giuseppe Pesce accusato dal pm Tuccio come mandante, ma assolto per insufficienza di prove. Qualche anno dopo, grazie alle rivelazioni del pentito Pino Scriva, emergerà il ruolo di altri pericolosi ‘ndranghetisti: oltre a Pesce, ci sono Giuseppe Piromalli e Sante Pisani. Il presunto killer era intanto morto. L’inchiesta bis non approderà a nulla, archiviata per insufficienza di prove. Il Pci si era costituito parte civile nel processo di primo grado. Ma, caso unico e raro, non si è mai celebrato l’appello.
Quello di Valarioti è di certo un assassinio politico: nella modalità (durante la festa post-voto), nella successione dei fatti, nel contesto. È un omicidio politico che si inserisce in una strategia intimidatoria contro il Pci e contro la politica regionale. Le cosche entrano direttamente nell’agone, nessuno deve osare fermarle. A dodici giorni di distanza, infatti, muore un altro dirigente comunista calabrese. Il 21 giugno sparano a Giannino Losardo, di Cetraro (coinvolto pesantemente il boss Franco Muto). Due militanti uccisi per motivi indiretti (Ciccio Vinci e Rocco Gatto), due dirigenti assassinati a sangue freddo. Un attacco frontale al Partito comunista, che reagisce con grandi manifestazioni, a Rosarno con Pecchioli e Boldrin, a Cetraro con Berlinguer, e poi a un mese dalla morte di Valarioti arriva a Rosarno Pietro Ingrao.

Negli anni successivi in pochi, troppo pochi hanno ricordato Valarioti. Una memoria storica dispersa colpevolmente. Stopndrangheta.it vuole riscoprire la vicenda storica, politica e umana di Valarioti, in cerca di una verità negata.

 

 

 

 

 

Il caso Valarioti
(Rosarno 1980: così la ‘ndrangheta uccise un politico (onesto) e diventò padrona della Calabria)

di Danilo Chirico e Alessio Magro
Ed.: Round Robin

Giuseppe Valarioti viveva a Rosarno, in Calabria. Era un insegnante precario. Pensava che la politica e la cultura fossero strumenti per sconfiggere la ‘ndrangheta e offrire un’opportunità ai giovani del suo paese. E’ stato ucciso a trent’anni, la notte tra il 10 e l’11 giugno 1980, mentre usciva dalla cena con cui il Pci festeggiava la vittoria alle elezioni. E’ il primo omicidio politico in Calabria, quello che affossa il movimento anti ‘ndrangheta. È il battesimo di sangue della Santa, la nuova ‘ndrangheta, che cambia il destino della Calabria. Per sempre. Una vicenda giudiziaria lunga undici anni: testimonianze coraggiose e ritrattazioni repentine, un superpentito che parla e non viene creduto, interi faldoni smarriti e un omicidio senza giustizia.

 

 

 

 

Fonte:  terrelibere.it
Recensione di Antonello Mangano

Giuseppe Valarioti viveva a Rosarno, in Calabria. Era un insegnante precario. Pensava che la politica e la cultura fossero strumenti per sconfiggere la `ndrangheta e offrire un`opportunità ai giovani del suo paese. E` stato ucciso a trent`anni, la notte tra il 10 e l`11 giugno 1980. E` il primo omicidio politico in Calabria, quello che affossa il movimento antindrangheta. Ma è anche una storia da ricordare e diffondere il più possibile.

La maggior parte degli inviati, dei giornalisti televisivi e dei commentatori che si sono occupati dei “fatti di Rosarno` (gennaio 2010) hanno raccontato una realtà a due dimensioni. Da un lato il razzismo, dall`altro il degrado mafioso di una realtà che ai più è apparsa piatta, immobile. Rosarno è un invece un concentrato di contraddizioni senza uguali. Per comprenderlo, sarebbe bastato tornare a qualche anno indietro. Fino al 2003 il sindaco di Rosarno si chiamava Giuseppe Lavorato. Un uomo inflessibile, la sua giunta fu la prima in Italia a costituirsi parte civile in un processo contro la mafia, una delle prime a utilizzare i beni confiscati.

Sono le contraddizioni di tutti i Sud. Un delirio di degrado, violenza, cosche mafiose, balordi in motorino, spari agli africani, beni confiscati, fabbriche abbandonate, sparatorie per motivi meno che futili contraddetto in pochi attimi da storie straordinarie. Una storia come quella di Lavorato, che si intreccia inevitabilmente con quella di Giuseppe Valarioti.

Alessio Magro e Danilo Chirico hanno ricostruito la vicenda del più importante martire dell`antimafia calabrese, ben più che un politico onesto. Il punto culminante di una lunghissima stagione di lotte, sconfitte, conquiste, tradimenti. Nei punti caldi della Calabria, in particolare nella Piana di Gioia Tauro, negli anni `70, ci fu uno scontro durissimo – nei quartieri delle cittadine come nelle campagne – tra il movimento capeggiato dal PCI e la ‘ndrangheta. Si tratta di una storia completamente sconosciuta. Mentre è ormai acquisito il concetto di antimafia, e sono noti a tutti i protagonisti delle stagioni siciliane di lotta a Cosa Nostra, rimane ancora forte il luogo comune di una terra da sempre assuefatta e incapace di contrapporsi alle ‘ndrine. “Il caso Valarioti” è un libro importante e colma un vuoto. E` infatti fondamentale avere pubblicazioni, possibilmente più agili e focalizzate sull`argomento, che raccontino contesti e biografie e siano destinate alle scuole e alla società civile.

Giuseppe Valarioti è stato ucciso a trent`anni, la notte tra il 10 e l`11 giugno 1980, mentre usciva dalla cena con cui il PCI locale festeggiava la vittoria alle elezioni. E` il primo omicidio politico in Calabria, quello che affossa il movimento antindrangheta. Valarioti e Lavorato rappresentavano infatti la linea dell`intransigenza, una scelta difficile da imporre a tutti i livelli, proprio nel momento in cui il movimento contadino passava all`organizzazione diretta e creava cooperative, centri di autorganizzazione ma anche di interessi economici su cui la criminalità concentrava i suoi appetiti. Per avidità, ma anche per dimostrare che nulla può sfuggire al suo controllo.

Dopo quegli spari nella notte della campagna, si avvia una lunghissima stagione. Paura da una parte, arroganza dall`altra. Il processo – undici lunghi anni di procedimento giudiziario – non porterà a niente.

Saranno due le ipotesi principali seguite dagli inquirenti. La prima è quella dell`omicidio politico: la ‘ndrangheta – che a Rosarno significa famiglia Pesce – vuole fermare sul nascere l`ascesa di un partito dichiaratamente antimafioso. La seconda pista è quella interna e riguarda i contrasti all`interno della cooperativa Rinascita. Il libro documenta scrupolosamente, anche se con qualche manicheismo, le ipotesi degli investigatori.

Quando viene raccontata la storia di Valarioti si stenta a credere che lo scenario di quelle straordinarie vicende sia il luogo degradato teatro della pulizia etnica da Alabama avvenuta a gennaio 2010. Come è accaduto che quel lungo processo si sia interrotto nell`ultimo giorno di permanenza di Lavorato nel palazzo municipale, nel 2003?

La risposta è molto semplice. Rosarno e i rosarnesi onesti non possono fare nulla nell`isolamento. E nel disprezzo. Il movimento della Piana era collegato a quello nazionale e internazionale. L`esperienza del sindaco antimafia si è estinta quando è rimasta isolata. Anche con la fine del PCI e della “diversità` da sempre sbandierata dai comunisti, orgogliosi del fatto che la questione morale fosse un problema altrui.

Il presidente della Repubblica Napolitano – in un messaggio pubblico – ha espresso apprezzamento per il libro e per l`obiettivo di ricordare Valarioti. Fu proprio Napolitano a incoraggiare Lavorato a proseguire l`azione politica in una fase di profonda stanchezza. In un altro paese, probabilmente, Lavorato sarebbe presidente della Repubblica, un riconoscimento adeguato per chi ha rischiato la vita, sul campo, per l`affermazione di principi etici. Invece, oggi, al Quirinale c`è l`uomo che per primo, all`interno del Partito Comunista, volle l`apertura a Craxi. Cose che capitano nel nostro paese, capita anche di peggio, e non è il caso di soffermarsi troppo sulla questione.

Ci sono ben altre cose da fare, per esempio riallacciare il filo della memoria a partire da quel paese di poche migliaia di abitanti, nel cuore della Calabria, da cui passano così tante storie importanti per tutta la nazione.

 

 

 

 

 

La testimonianza dell’ex fidanzata di Valarioti, contenuta nel libro “Il caso Valarioti”
da: stopndrangheta.it/(6 Giugno 2010)
Il ricordo – Vi racconto il mio Peppe
di Carmela Ferro

…Tanto tempo è trascorso. I ricordi sembrano lucciole inquiete, illuminate dall’improvviso faro della memoria. Vagano senza direzione, sfuggono, si ribellano ad ogni mio tentativo di imprigionarli, di riordinarli. Ricompaiono nel campo visivo della coscienza con tutta la carica magmatica e incandescente delle emozioni. Poi tornano a nascondersi nelle pieghe profonde e remote dell’anima, silenziosi ma vivi, presenti, incancellabili. Ricordi di una storia che non è una storia perché lacerata, spezzata. Rimasta solo un inizio, una promessa, un sogno… Ricordi di un periodo della vita tutto proiettato in avanti: il passato si contraeva, perdeva importanza, il futuro  si dilatava in mille prospettive e aspettative. E la felicità era lì, vicinissima, a portata di mano. Quasi un diritto.
… quando era entrato nella mia vita? …in che modo era cominciata la nostra storia? Scavo nel passato e improvvise si affacciano le prime immagini, i primi rapidi flashback…
Lo rivedo, ancora adolescente, venirmi incontro nei corridoi del liceo, durante la ricreazione. È lì, nel gruppo dei suoi compagni forse un po’ arroganti, esuberanti di giovinezza, che scherzano e parlano forte. Ed ecco, tra i tanti, la sua figura, che si distingue per un’allegria più contenuta,  addolcita da un velo di timidezza. Poi sulla nave per Messina, con gli altri colleghi della facoltà di lettere, a commentare appunti e situazioni della vita universitaria e lo ritrovo, dopo qualche anno,  al corso abilitante, dove subito, con altri aspiranti futuri professori, si crea un’intesa forte e insieme condividiamo ogni giorno quella esperienza: Gianni, Lelia, Rosetta, Ciccio, Luciana…  Giovanni, con la sua ironia colta e spregiudicata, con le sue provocazioni culturali animava molte delle riflessioni e delle discussioni  che si svolgevano tra una lezione e l’altra del corso, ma a catturare la mia attenzione era lui, con i suoi modi spontanei e naturalmente gentili, i suoi occhi scuri, miti e insieme concentrati e determinati, la sua risata scanzonata, il pudore un po’ schivo con cui proteggeva la trama interiore dei sentimenti e delle emozioni; aveva fatto amicizia con tutti, ma evitava di mettersi in mostra e talvolta, in quella fase della sua vita, era come se facesse un passo indietro per raggiungere una distanza che gli consentisse di osservare, capire, stabilire quale dovesse essere il suo modo di stare al mondo, in quel nostro mondo, confuso e per tanti versi violento. Sul suo viso, nel suo gesto si intuiva lo sforzo, la fatica un po’ sofferta, di far germogliare decisioni ancora in sospeso: forse a quale parte di sé dare più spazio, a quali scelte concedere la priorità, quale fosse la direzione giusta da imprimere al suo destino. Una ricerca di senso, che seguiva un suo intimo e sotterraneo percorso.

…ancora insieme ai corsi della 285 che avrebbero dovuto dare soluzione ai problemi dei giovani disoccupati. E qui la frequentazione quasi giornaliera diventava occasione per una intesa più complice,  più vicina. Le prime piccole significative attenzioni (Sono andato a comprare le ricotte ancora calde… ti piacciono?): toccano punti profondi del mio cuore che esplodono di gioia. Poi l’incarico per entrambi di gestire la biblioteca di Mileto (ricordi, Peppe, quel bacio sotto la statua di Ruggero II, nella villa di Mileto, mentre, da un bar vicino, Adriano Celentano cantava uno dei suoi ultimi successi…), il suo impegno in politica e la mia cattedra a Galatro. E intanto dentro di me si affermava chiara e forte la convinzione che non avrei più voluto vivere la mia vita senza di lui.
…quella mattina d’inverno, appena alzata, mi ero avvicinata alla finestra per dare una sbirciatina fuori e per cogliere con uno sguardo veloce i particolari del paesaggio. Il cielo era azzurro e trasparente, l’aria gelida e immobile. Durante la notte era nevicato e le cime del Poro e dello Zomaro splendevano di bianco.
Dopo le undici Peppe venne a prendermi all’uscita dalla scuola. La mattinata era stata leggera: solo le prime tre ore di lezione. Decidemmo di fare una passeggiata in macchina per vedere la neve. Ci inoltrammo su per una stradina a tornanti che porta allo Zomaro. Man mano che salivamo i rami degli alti alberi si caricavano di neve e il bianco, che all’inizio costituiva solo delle rade chiazze sul verde scuro della vegetazione, si faceva sempre più compatto fino a coprire ogni cosa con un candore quasi accecante.
Andare ancora avanti diventava difficoltoso e anche pericoloso, la neve infatti aveva invaso spazi sempre più ampi della strada ed era diventata alta e spessa. Ci fermammo e scendemmo dalla macchina. C’era un silenzio assoluto, diverso da quello  familiare che avvertivo di notte nella mia camera, punteggiato da mille piccoli rumori. Eravamo immersi in una dimensione sospesa e sconosciuta. Ci scambiammo qualche rapida battuta scherzosa per cercare di attenuare  quella strana sensazione che ci faceva sentire quasi fuori dal mondo e dal tempo. Ci accorgemmo che le nostre voci rimbalzavano curiosamente; anche il loro suono assumeva una nuova tonalità, mai sperimentata prima.
Cominciammo a ridere e a rincorrerci con la voce, e la curva fila degli alberi appesantiti di neve  era diventata un’enorme cassa di risonanza: il suono dei nostri nomi si perdeva in lontananza tra il fitto intrico dei rami. La cosa dovette sembrarci straordinaria e magica perché all’improvviso i nostri sguardi si incontrarono comunicandosi lo stupore misterioso di quel momento. I suoi occhi avevano perso l’aria scanzonata e divertita di sempre e mi guardavano con una profondità  fino ad allora mai toccata. Sentii sulla guancia le sue dita fredde che mi sfioravano delicatamente, poi il calore di un abbraccio. Nient’altro esisteva, ogni altra cosa era annullata in quell’istante di gioia fuori dal tempo.

Ti sei mai chiesto perché
quando guardi alcune persone
ne senti la musica?
E da vuoto che eri
Improvvisamente hai negli occhi un volto
che è più di un volto,
ti viene nel cuore un abbraccio mai più diviso
nel prendere per mano questi angeli,
nell’ascoltarne silenzi e parole:
perché quelle parole non sono vuote,
hanno richiami d’amore
come il ricordo che quando nascesti
non eri mai solo.

(Paolo Amodeo, 15 ottobre 2002)

Quel periodo era stato impegnativo sia per me che per lui: io avevo vinto il concorso a cattedra e avevo finalmente la responsabilità di una classe tutta mia da seguire per l’intero anno scolastico; lui era stato nominato segretario della sezione del partito comunista e in quell’impegno ci metteva una passione trascinante che assorbiva gran parte delle sue energie.  Quando gli avevo chiesto il perché di quella scelta che intuivo rischiosa (ma non immaginavo fino a che punto…) mi aveva risposto che gli era ormai impossibile starsene in disparte a guardare. Voleva partecipare in prima persona all’emancipazione della sua gente, quella onesta che lavorava senza riuscire a superare mille difficoltà, a dare una svolta alla propria vita. Fare politica significava questo per lui: provare a diventare la voce di quella gente, offrire il suo slancio perché qualcosa potesse cambiare davvero. Del resto la sua decisione di offrire il suo contributo alla sezione del suo paese aveva motivazioni intime, radici che affondavano in un vissuto concreto. Aveva lavorato anche lui in campagna con il padre, aveva potato ulivi e aranci tra un esame e l’altro all’università, conosceva la fatica dei contadini, i loro sacrifici, le loro rinunce. Soprattutto la rinuncia, per molti ragazzi, alla possibilità di andare a scuola e di istruirsi. Lui invece si sentiva fortunato, perché aveva potuto studiare ed arrivare alla laurea. I suoi genitori e la sua famiglia erano fieri di lui, su di lui avevano puntato intuendo il suo desiderio di imparare, di andare avanti e migliorarsi. E lui li aveva ricompensati in pieno, restando però umanamente semplice, buono e onesto come loro, senza mai assumere atteggiamenti di distacco o di superiorità. I veri ignoranti, mi aveva detto un giorno,  erano quelli che  la possibilità di andare a scuola l’avevano avuta, ma che non avevano mai letto un libro, che restavano ugualmente insensibili al fascino della cultura e della conoscenza.
Andare in giro con lui era invece per me occasione per compiere mille scoperte entusiasmanti. Aveva una sensibilità naturale ma acuta per la bellezza, nella natura e nell’arte. Amava la sua terra, i suoi paesaggi, i suoi colori, i suoi profumi. Scoprivamo insieme angoli nascosti e scorci suggestivi e si era comprato un piccolo apparecchio fotografico per poterli fissare sulla pellicola. Spesso viaggiando in macchina rallentava e poi si fermava perché un albero aveva una forma particolare, o la terra un’ondulazione, una sinuosità, un colore più intenso. Andavamo nelle chiese, a Galatro o a Vibo, ad ammirare la bellezza delicata ed adolescenziale delle madonne del Gaggini, uno scultore messinese che aveva lavorato anche in Calabria, o a trovare resti archeologici e storici magari poco conosciuti e valorizzati.
…«oggi ti porto a vedere qualcosa che sicuramente non conosci» mi disse quel pomeriggio appena salita in macchina: imboccammo la statale 18 che porta a nord e ci dirigemmo verso Vibo Valentia. Il pomeriggio era caldo, il cielo appena velato di nuvole bianche. L’aria profumava delle prime zagare. Ci fermammo alla periferia della città e Peppe posteggiò la macchina all’inizio di un lungo viale alberato. Lo percorremmo e ci accorgemmo che su ogni tronco era stata affissa una targa in ricordo dei caduti della prima guerra mondiale. Il viale si apriva in uno slargo che si affacciava su uno scenario di una bellezza che toglieva il respiro: ai piedi si stendeva tutta la vallata del Mesima… e in fondo il mare, di un azzurro illuminato da mille riflessi dorati. I nostri sguardi abbracciarono quella visuale incantevole e Peppe con la mano mi indicò sulla sinistra un avvallamento del terreno. Ci avvicinammo e scorsi blocchi di pietra disposti in forme geometriche. Erano i resti di un tempio dell’antica Hipponyon dedicato a Persefone, la dea delle stagioni, rapita dal dio degli inferi. Per sei mesi rimaneva nell’oltretomba, per gli altri sei ritornava sulla terra per far sbocciare i fiori, far maturare le messi e far ricoprire gli alberi di frutti. Il suo culto era molto diffuso nelle città della Magna Grecia.
Più in là c’era una panchina posta quasi sul bordo dell’affaccio e sedendoci ricordammo il racconto di quei miti affascinanti che riuscivano a spiegare i tanti perché della natura e della vita. Quei luoghi, ora abbandonati e dimenticati, rivelavano la loro anima antica, il loro passato che ancora, a distanza di tanti secoli, sembrava volerci offrire il suo tesoro di insegnamenti, le sue affascinanti visioni. Un tempo, popoli in quei luoghi avevano combattuto e pregato, ora aspettavano che qualcuno raccogliesse la loro storia e i loro segreti.
Seduti su quella panchina,  come tante altre volte, Peppe mi parlava anche dell’antica Medma, dei coloni locresi che attraversando l’Aspromonte e le Serre avevano a loro volta fondato le sub colonie di Hypponion, Medma, la sua Rosarno, e Metauro. Era orgoglioso della storia millenaria del suo paese e anche a quelle radici sembrava voler attingere la forza per affrontare i problemi del presente.
In quel sole e in quell’azzurro un respiro ampio e gioioso mi dilatava i polmoni e dava luce ai miei pensieri. Peppe aveva in mano la macchina fotografica, ne tolsi la custodia esterna e allontanandomi di qualche passo da lui  gli scattai una foto…
Oggi la conservo tra le mie cose più care…

Andavamo spesso, in quel periodo ad ascoltare le conferenze che il bibliotecario al comune di Polistena, Gianni Russo, aveva organizzato quell’anno: appuntamenti preziosi per conoscere la cultura del nostro territorio. Affascinante era stata la conferenza del famoso linguista tedesco Rolfs che spiegava l’etimologia antica, greca e bizantina, di tante parole del nostro dialetto. Momenti sereni ed appaganti. Con Gianni Russo Peppe aveva stabilito un bel rapporto di amicizia e di collaborazione. Più di una volta eravamo andati a trovarlo nella biblioteca che stava organizzando, fatta prevalentemente di volumi di storia e letteratura calabrese. Peppe prendeva in mano quei libri, li sfogliava, li chiedeva in prestito per leggerli e studiarli, documentarsi e capire. La sua voglia di fare non era mai disgiunta dal bisogno di andare  fino in fondo,  in ogni cosa.
…seduti in riva al mare, alla Tonnara di Palmi, come tutte le sere insieme, a raccontarci le nostre giornate. Lo scirocco era caduto e l’aria di quella sera di tarda primavera calda, quasi afosa. Guardavamo incantati lo spettacolo del tramonto del sole che calava velocemente verso l’orizzonte. Poco più in là bambini giocavano nell’onda già a piedi nudi. Alle nostre spalle in alto la torre di avvistamento, una delle tante che si affacciano sulle nostre coste,  anch’essa violacea e misteriosa. Mi girai ad osservarla e lui iniziò sottovoce a cantare una strofa di una canzone di Otello Profazio che narrava una delle tante pagine di violenza che la nostra gente, in passato, era stata costretta a subire, di popoli  feroci e predatori, i Mori, che arrivavano sulle spiagge dell’Italia meridionale per fare bottino e catturare le nostre donne. Secoli fa su quella torre giorno e notte qualcuno stava di guardia per avvistare l’arrivo delle navi e avvertire la popolazione a fuggire e a ritirarsi nei paesi dell’interno. Come sempre, alle sue parole, la mia immaginazione si accendeva, gli scenari si aprivano, gli spazi si popolavano, con continui flashback nel cuore della Storia. Una Storia antica ma viva, un flusso palpitante di cui anch’io mi sentivo parte, piccola goccia in un fiume in continuo movimento.
Era questa una delle cose che più affascinavano in lui: una consapevolezza  acuta della dimensione del tempo, il riuscire e considerare la terra, gli oggetti, gli edifici, le pietre,  le persone stesse in una prospettiva dinamica, in cui ogni elemento acquisiva valore e significato. «Se anche i ragazzi a scuola potessero conoscere davvero la storia della loro terra, sicuramente imparerebbero a rispettarla e ad amarla» mi ripeteva spesso. La Storia come strumento di radicamento e di identità, di responsabilizzazione per i giovani: era una delle sue convinzioni più forti.
Lo disse anche quella sera, e avvertii chiaramente quanto i ragazzi, la scuola gli mancavano… Era quella la sua vera vocazione, l’altra sua grande passione. Starne lontano gli pesava.  E sebbene il lavoro prima nella biblioteca di Mileto, poi al museo di Nicotera gli piacesse, e cercasse di farne un’occasione di incontro, di confronto con le persone  che li frequentavano, la sua speranza era di poterci ritornare, a scuola, di poter riprendere il suo posto in cattedra e il dialogo con i ragazzi. «L’insegnamento è lo strumento più potente che abbiamo per trasformare questa nostra società meridionale, forse più forte ancora della politica», e mi raccontava gli episodi delle esperienze vissute nel corso delle supplenze che aveva fatto, dell’importanza di saper ascoltare gli alunni, di sostenerli nelle loro difficoltà, perché molte di quelle difficoltà anche lui le aveva vissute. Insisteva sulla necessità che imparassero a conoscere e ad usare parole nuove, perché è attraverso il linguaggio che possiamo creare rapporti profondi e significativi, costruire ponti per comprendere e trasformare la realtà. Ma soprattutto, diceva, era importante trasmettere la fiducia in un mondo più pulito. Poteva esistere un mondo di cose semplici e belle, in cui l’onestà aveva più valore della prepotenza, la lealtà e la solidarietà più del successo ottenuto calpestando regole morali e leggi dello Stato. È possibile nutrire e trasmettere questa speranza? Ti chiedevo, ci chiedevamo, o solo un sogno, un’utopia, addirittura un inganno?
Te lo chiesi anche quella sera. E, come altre volte, mi rispondesti: è possibile. Bisogna crederci…
Guardavamo il mare, in quella serata di primavera del 1980, e l’estate sembrava già alle porte, carica di promesse.

Perfino così tardi avviene:
l’amore che arriva, la luce che viene.
Ti svegli e le candele si sono accese
forse da sé,
le stelle accorrono, i sogni entrano
a fiotti nel cuscino,
sprigionano caldi bouquet d’aria.
Persino così tardi le ossa del corpo
splendono
e la polvere del domani s’incendia
in respiro.
(Mark Strand)

…quasi di corsa avevamo risalito la lunga scalinata che dall’ultima terrazza a picco sul mare portava in alto, all’affaccio del Sant’Elia. Ci eravamo rincorsi per gioco, ridendo l’uno dell’altra quando il fiatone ci costringeva ad accasciarci sulle strette panchine di pietra che fiancheggiavano i ripidi gradini. Ora, appoggiati alla ringhiera riprendevamo fiato, in silenzio, aspettando che il respiro riprendesse il suo ritmo regolare. Volgendomi verso di lui, mi accorsi che i suoi occhi inseguivano pensieri che lo preoccupavano, lo inquietavano. Lo sguardo, assorto, era rivolto in avanti, perso sulla linea indistinta dell’orizzonte. «Vorrei andare via… fare domanda di insegnamento al Nord, avere una cattedra, un futuro sicuro e tranquillo…». Era la prima volta che gli sentivo pronunciare parole di quel genere. Non aveva mai espresso il desiderio di viver una vita diversa, sempre mi comunicava la certezza che quello che faceva lo coinvolgesse e lo appagasse pienamente. Di solito si mostrava sereno, ed era molto attento a non trasmettermi tensioni. Anche quando mi parlava di problemi o difficoltà, nella sua voce c’era sempre un tono di ottimismo, di fiducia che quelle difficoltà avrebbero potuto trovare una soluzione. «E io?». «Tu verrai con me». «E tutti i nostri progetti? Il tuo impegno… il contributo che vuoi dare al tuo paese… come potremmo vivere altrove..?». Ricordo l’espressione dei suoi occhi stranamente severa, il suo silenzio, come unica risposta. Conoscevo bene il profondo attaccamento alla sua famiglia, agli amici, ai suoi studi, i forti legami che lo tenevano radicato alla nostra terra…  e una morsa dolorosa, improvvisa, mi strinse il cuore.
…avevamo deciso di ritornare a Messina, una città che ci era cara perché vi avevamo compiuto gli studi universitari. Arrivati a Villa avevamo avuto qualche dubbio se salire sulla nave: lo scirocco era forte e il mare, scuro, era increspato dalla schiuma di onde piuttosto alte. Ci imbarcammo ugualmente e arrivati a Messina visitammo la nostra facoltà nella speranza anche di incontrare professori che avevamo seguito e stimato. Ma diversi anni erano passati dalla nostra laurea e le facce delle persone che affollavano i corridoi, le scale, le grandi aule ci erano completamente sconosciute. Passeggiammo nei viali del centro, raccontandoci esperienze e aneddoti della vita universitaria, poi pranzammo al “Cavallino rosso”, un ristorante sul lungomare che ci assicurò dei buonissimi piatti di pesce fresco e ci rituffammo nelle stradine ricche di bar e negozi. Stavamo gustando una granita di caffè con panna quando sentimmo in lontananza una melodia conosciuta e bellissima: seguendo  il richiamo di quel suono raggiungemmo una piazza dove un’orchestra suonava brani classici. Proprio in quel periodo Peppe aveva cominciato ad assaporare lo straordinario potenziale comunicativo della musica e aveva iniziato a collezionare i dischi dei grandi compositori dell’Ottocento. Amava la letteratura e la poesia, il teatro classico, la storia e l’archeologia, ma il mondo della musica costituiva per lui un territorio ancora inesplorato. Il sostegno di quell’arte gli era mancato. «Peccato, non averlo scoperto prima… ma ci sarà tempo…».
Restammo affascinati, in piedi, fino alla fine dello spettacolo, senza accorgerci che l’orario della nave per il ritorno era passato ormai da un pezzo…

Ricordo gli ultimi mesi come un periodo pieno di tanti momenti intensi e anche felici. Tanti discorsi e progetti per la nostra vita futura, per tutto quello che avremmo voluto realizzare, i posti che avremmo voluto conoscere, i libri che avremmo voluto leggere, la musica che avremmo voluto ascoltare. Ma anche la tensione e la stanchezza per una campagna elettorale impegnativa e difficile, l’ansia per l’esito delle elezioni, i dubbi sulle attività della cooperativa…
Negli ultimi giorni ci eravamo visti quasi abitualmente, anche se qualche appuntamento era saltato. Ma il contatto non era mai venuto meno. Nell’ultima telefonata, la mattina del 10 giugno la sua voce mi era sembrata rilassata e allegra. Le cose erano andate bene, i risultati erano soddisfacenti e il pomeriggio era dedicato ai ringraziamenti. «Stasera festeggerò con i compagni, ma domani sarò libero e ti prometto che staremo tutto il giorno insieme… ho tante cose da sbrigare e poi faremo una bellissima passeggiata…». «Dove mi porterai?». «In un posto che ti piace tanto… alla torre di Ioppolo». «Mi mancherai, stasera…». «Anche tu. Ci vediamo domani…». «…sì, …domani…». Con il desiderio e la certezza di riabbracciarlo mi ero svegliata quella mattina dell’11 giugno… Mi alzavi, mi vestii e mi diressi in cucina, ancora un po’ addormentata, per fare colazione, con nella mente un pensiero gioioso: tra qualche ora sarei stata con lui. Entrai in cucina e il giornale radio delle otto cominciava a trasmettere le prime notizie…

Vivi nella mia assenza come in una casa.
È una casa sì grande l’assenza
che entrerai in essa attraverso i muri
e appenderai i quadri nell’aria…
(Pablo Neruda)

Sono passati trent’anni. Una ferita, la mia e quella delle persone che lo hanno amato, mai completamente rimarginata. Un dolore che ha resistito al tempo perché incomprensibile, assurdo. Inaccettabile. E i problemi della nostra terra, della Piana, sono ancora tutti lì, irrisolti,  più gravi e drammatici di allora.
Mentre scrivo si sono spenti da poco i riflettori sulle vicende di Rosarno. Quanta amarezza nel constatare che nessuna voce si è alzata a prendere le difese di quei ragazzi neri maltrattati e sfruttati, ma gli unici a trovare nell’unione la forza e il coraggio per ribellarsi ai soprusi e alle aggressioni.  Nessuno si è unito al loro corteo per urlare: sono uno di voi,  mi metto dalla vostra parte, lotto per i vostri diritti, perché i vostri diritti sono quelli di ogni uomo che lavora e che vive su questa terra. Oggi non esiste a Rosarno un altro Peppe Valarioti, disposto ad esporsi per difendere il riconoscimento della dignità del più debole. Che tristezza nel vedere una ragazza costretta a mentire e a chiudere il suo striscione che proponeva parole contro la mafia… «Non c’è libertà nel paese dei signori della ‘ndrangheta, dove il  ricordo di Peppe Valarioti, consigliere comunale del Pci ucciso la sera dell’11 giugno del 1980 è ormai sbiadito…» ha scritto Enrico Fierro sul Fatto Quotidiano… Oggi sento che davvero Peppe è morto…
Sono tornata ieri sera a Rosarno per ascoltare nel Duomo un concerto di due giovani pianisti di Palmi: era intitolato “Ricominciare dalla musica…”. Ricominciare dalla musica, che sa parlare al cuore e alla mente, come ha detto Vincenzo Muratore: dalla cultura per emergere dal degrado e dalla inciviltà.
Ho camminato nella piazza che porta il tuo nome, in quelle strade, Peppe, che ti hanno visto sorridere, scherzare, discutere, lottare, sognare… sognare non un destino da eroe, ma una vita normale e felice, di studio, di lavoro e di impegno, di affetti veri e forti. Sognare una Rosarno diversa… libera da violenze e ingiustizie, capace di affermare i valori autentici, non solo la propria rispettabilità, disposta con umiltà ad attuare una rivolta interiore, un radicale rinnovamento morale.  Ma la tua assenza, Peppe, oggi è un vuoto insostenibile, un silenzio desolante che angoscia e smarrisce, un macigno che pesa sul cuore…

 

San Ferdinando, 18 gennaio 2010

Peppe Valarioti è stato ucciso
Basta guardarvi
per trovare
ridicolo il tutto…
Baci, carezze
parole lunghe
quanto la luce
ed intona il buio
la canzone della solitudine
nell’anima di molti…
E Peppe è morto.
Città di croci
sopra i calvari del tempo
e quel tuo vivere per gli altri
e nell’amore per la verità
non è valso
dinanzi alla lupara…
Le pietre
costruiscono recinti
e nell’ovile
entrarono le pecore
ma il fratello Caino
ebbe invidia del lavoro di Abele
e colpì
non l’estraneo
ma uccise il suo sangue.
Tutta la terra
pianse
e il sole scappò per paura
e la sera si fece notte
e nel tempo di ieri
si ripete oggi e sempre
quel delitto:
si uccide il fratello
sulle vie del tacere…
E Peppe è morto
senza saperlo…

di Carmela Ferro

 

 

 

 

Articolo dell’11 Giugno 2015 da huffingtonpost.it
Da 35 anni senza Peppe Valarioti. C’era una volta la politica antimafia
di Danilo Chirico

Le storie delle vittime innocenti delle mafie meritano di essere ricordate. Tutte. La memoria collettiva è un risarcimento – minimo, parziale, insufficiente – da parte di un Paese colpevole, perché troppe volte incapace di assicurare verità e giustizia alle centinaia di cittadine e cittadini uccisi dai clan.

In alcuni casi, però, dobbiamo fare un passo in più. Ne abbiamo il diritto e il dovere. Con Giuseppe Valarioti, per esempio, ucciso a colpi di lupara nella notte tra il 10 e l’11 giugno 1980. Aveva appena finito di cenare con i suoi compagni del Pci di Rosarno (era segretario di sezione e consigliere comunale) per festeggiare la vittoria alle amministrative. Un risultato inatteso dopo la sonora sconfitta dell’anno precedente, un successo prezioso perché costruito sull’idea precisa e dichiarata di scardinare il sistema che la ‘ndrangheta con pezzi di Dc e Psi aveva costruito in quel lembo di Sud. Non poteva scegliere obiettivo, luogo, momento migliore la ‘ndrangheta per compiere il primo omicidio politico della storia della Calabria. Per lanciare un messaggio inequivocabile a tutti, visto che non erano bastate le continue minacce ai comunisti in campagna elettorale, che non erano servite le intimidazioni agli elettori fuori dai seggi: a Rosarno comandiamo noi.

Quella di Peppe Valarioti, ammazzato a soli trent’anni, è la storia di un professore precario e archeologo, intellettuale e dirigente politico, che nella Calabria degli anni Settanta – terra di disoccupazione giovanile e grandi speculazioni, emigrazione e affari sporchi – ha avuto la capacità di interpretare la contraddittoria società del presente e di proiettare la propria azione nel futuro. Per questa ragione le sue intuizioni e le sue idee sono ancora oggi formidabili mappe interpretative della realtà.

Valarioti aveva individuato il malaffare legato ai finanziamenti pubblici al sud quando tutti consideravano quei mega appalti come mucche da mungere, aveva decodificato in anticipo le trasformazioni della ‘ndrangheta e aveva scelto di mettersi di traverso all’ingresso delle cosche in politica e nelle cooperative della sinistra. Credeva nella responsabilità personale e nella partecipazione (“se non lo facciamo noi, chi deve farlo?”, diceva ai suoi amici e compagni), pensava che la formazione e la cultura fossero le uniche vere opportunità di emancipazione per i giovani del suo territorio, individuava nel lavoro e nel welfare il vero antidoto allo strapotere dei clan, credeva – forse anche perché figlio di contadini – che fosse necessario sporcarsi le mani con i bisogni delle persone e soprattutto considerava la politica (merito anche di un maestro come Peppino Lavorato) uno strumento formidabile per raggiungere il bene comune e contrastare concretamente le mafie.

Una storia personale che è una tessera di una storia collettiva, grande e ambiziosa. Fatta dell’abilità di comprendere i fenomeni sociali, della riconquista di un senso di appartenenza nei confronti di un territorio, del coraggio di combattere una lotta senza quartiere corpo a corpo contro il potentissimo clan Pesce di Rosarno, dell’intransigenza nella battaglia contro la corruzione anche se riguardava i propri compagni di partito, della capacità di intervenire nei processi sociali conquistando il consenso, mettendo in campo un’idea del mondo, una prospettiva per il futuro e facendo buona amministrazione.

Una storia straordinaria. Eppure incredibilmente dimenticata, negata, persino oltraggiata. Da tanti in Calabria e al Sud, da troppi anche tra coloro che si dichiarano eredi di quella storia. Una colpa grave, innanzitutto nei confronti di noi stessi. Perché Valarioti ha dimostrato che un altro modo di fare politica e di fare antimafia – politica e sociale – è esistito. E quindi forse può ancora esistere. Così, nel 35esimo anniversario di quell’omicidio senza un colpevole, travolti dalle vicende di Mafia Capitale, in un vuoto di cultura politica, quando è così confuso il concetto di antimafia in politica e di antimafia sociale, il pensiero non può che andare a quell’esempio antico e così capace di innovazione. Di cui si sente così forte la mancanza. Quanta nostalgia per il futuro, Peppe.

 

 

 

Giuseppe Valarioti – Quotidiano del Sud del 25 maggio 2016 – Pagine della memoria

 

 

 

 

Giuseppe Valarioti
Museo Metauros – 11 giugno 2020
Musei Calabria
Intervento di Alessio Magro – autore del libro “Il caso Valarioti”

 

 

Leggere anche:  vivi.libera.it

Articolo del 10 giugno 2020
In ricordo di Peppe Valarioti. Se non lo facciamo noi, chi deve farlo?
di Maria Joel Conocchiella

 

lavialibera.libera.it
Articolo del 26 gennaio 2021
Giuseppe Valarioti, un delitto impunito
di Rocco Lentini
Quarant’anni fa veniva assassinato dalla ‘ndrangheta il consigliere comunale del Pci a Rosarno. Gli stessi personaggi ambigui di allora sono finiti oggi nelle più importanti indagini in corso sulla mafia calabrese

 

 

Fotocopertina da:  senzatregua.it

 

 

 

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