12 Dicembre 1975 Reggio Calabria. Giuseppina Utano, 3 anni, restò uccisa in un agguato al padre

Giuseppina Utano  foto da memoriaeimpegno.blogspot.it

Giuseppina Utano, 3 anni appena, fu uccisa a Reggio Calabria nel corso di un agguato a suo padre Sebastiano. Colpita alla testa dai pallettoni indirizzati al padre, guardaspalle del boss di San Giovanni di Sambatello. Nell’agguato rimase gravemente ferita anche la madre della piccola, in avanzato stato di gravidanza. L’intera famiglia era in auto quando fu investita dai colpi esplosi probabilmente da più di un killer.

Fonte:  Liberanet.org

 

 

 

Fonte:  archiviolastampa.it/ 
Articolo del 14 dicembre 1975
Bimba di 3 anni uccisa in auto in un agguato contro suo padre
Guerra di cosche a Reggio Calabria.

Reggio Cal. 13 dicembre. Una bimba di tre anni uccisa, la madre in fin di vita, il padre illeso. Questo è il bilancio di un nuovo agguato a colpi di lupara e pistola compiuto poco prima delle 23 di ieri, alla periferia di Reggio, nella frazione San Giovanni di Sambatello, ai piedi dell’entroterra aspromontano. La bimba, Giuseppina Utano, dormiva accovacciata sul sedile posteriore della “Innocenti A112” guidata dalla madre, Domenica Pangallo, 20 anni. Accanto al posto di guida d’era il padre, Sebastiano Utano, 25 anni, sorvegliato special, ex autista e “luogotenente” di don Mico Tripodo, il “padrino” della mafia calabrese, attualmente in carcere a Torino.

La piccina, raggiunta alla testa da due proiettili, è morta durante il trasporto al policlinico di Messina. La giovane madre, che è al sesto mese di gravidanza, è in fin di vita nel reparto rianimazione degli Ospedali Riuniti di Reggio: ha riportato ferite alla testa e in altre parti del corpo. Sebastiano Utano, che subito dopo l’attentato era sparito dalla circolazione, si è presentato stamane ai carabinieri affermando di essere scappato per paura che gli assassini lo seguissero per finirlo.

Non c’è dubbio che l’agguato è stato teso per eliminare l’Utano. L’uomo era appena uscito dall’ospedale di Scilla, dove era stato sottoposto a una serie di esami clinici, e la moglie lo stava riaccompagnando a casa. Erano quasi arrivati nella frazione Sam Giovanni di Sambatello dove abitano, quando la Pangallo è stata costretta a frenare perché c’era un’auto messa per traverso sulla carreggiata.

Il racconto di Sebastiano Utano ai carabinieri: «La nostra vettura è stata circondata da due o tre persone mascherate che imbracciavano fucili a canne mozze e forse anche una pistola. Hanno cominciato a sparare. Mia moglie ed io ci siamo piegati verso il pavimento. Ho sentito la mia bambina lanciare un urlo, ma non potevo fare niente per proteggerla. quando i banditi si sono allontanati, ho visto che Giuseppina era in una pozza di sangue, morta. Anche mia moglie era rimasta ferita alla testa e alle braccia. Però ha ancora avuto la forza di guidare l’auto fino in paese dove siamo stati soccorsi».

Secondo gli inquirenti, l’episodio è da inquadrare nel contesto della guerra scoppiata da più di un anno tra le due più potenti cosche mafiose che operano nel Reggino, quella di don Mico Tripodo e quella che fa capo ai fratelli De Stefano. Il bilancio finora è di cinque morti e diversi feriti. Altro particolare significativo: la “A112” guidata dalla Pangallo, abbandonata nella piazza di Sambatello con la carrozzeria crivellata dai proiettili, è misteriosamente sparita durante la notte. e.l

 

 

 

Fonte: archivio.unita.news
Articolo del 14 dicembre 1975
Mira al padre, uccide la bimba commando mafioso a Reggio C.
di Franco Martelli
Senza quartiere la guerra fra cosche in Calabria
Nell’agguato la giovane madre della piccola è rimasta gravemente ferita – La vittima designata rimane incolume ma nega ogni informazione – Reazioni della regione – Oggi il convegno delle forze democratiche sui gravi problemi – Le crepe  nella  magistratura.

 

REGGIO CALABRIA.  13. La spirale di violenza mafiosa in Calabria ha fatto un’altra vittima innocente, una bambina di appena tre anni, Pinuccia Utano, ha avuto la testa spappolata dai pallettoni indirizzati al padre, Sebastiano Utano, 25 anni. È quest’ultimo, per fama   generale, guardaspalle di “don Mico” Tripodo, il boss mafioso di San Giovanni di Sambatello, la frazione di Reggio Calabria dove, dopo le ventitré di ieri è stato teso il tragico agguato. Il boss è per ora in carcere anche se la sua cosca non ha mai cessato la sanguinosa guerra con quella dei De Stefano (almeno quindici morti in un anno dall’una e dall’altra parte) per il controllo dell’importante «piazza» di Reggio Calabria, da dove si dipartono le fila delle lucrose attività dei sequestri, del contrabbando e dei subappalti nella regione calabrese e fuori di essa.

Nell’agguato è rimasta gravemente ferita anche la moglie dell’Utano, Domenica Pangallo, venti anni. In avanzato stato di gravidanza. La giovane donna era al posto di guida di una utilitaria: al suo fianco c’era il marito, certamente vittima designata dell’agguato e sul sedile posteriore la piccola Pinuccia.  La famiglia Utano tornava da Scilla. Un’auto con a bordo i killer ha sbarrato loro la strada all’ingresso della frazione. A sparare sarebbe stato più di uno. Malgrado le ferite la donna ha avuto la forza di fare ancora un po’ di strada e di arrivare all’abitazione di un conoscente che ha provveduto a trasportare la famiglia Utano all’ospedale di Reggio. La povera Pinuccia vi è giunta cadavere. Per tutta la nottata i medici hanno cercato di strappare a medesima sorte la madre, ma le sue condizioni appaiono disperate. Stamane si è provveduto a trasportarla al Policlinico di Messina.

Sebastiano Utano viene ora interrogato dalla squadra mobile alla questura di Reggio.  Nonostante la tragedia che l’ha fulminato egli nega di conoscere l’identità degli assassini e il movente che li ha spinti, così come nega di avere mai avuto a che fare con «don Mico» Tripodo. Fatto strano e ugualmente emblematico infine è scomparsa anche la macchina sulla quale gli Utano viaggiavano e che era stata lasciata per poco incustodita al momento del trasbordo dei feriti.

Continua a dipanarsi in Calabria, oramai senza sosta, una violenza bieca, nel ripetersi di barbare esecuzioni, di tracotanti agguati, di spietate vendette. Questa catena di delitti ha portato ormai a novanta i morti in un anno nella sola provincia di Reggio, ai quali bisogna aggiungere le altre violenze rappresentate dagli oltre mille attentati per estorsione, dalle   intimidazioni, dai ricatti, dai rapimenti (quelli palesi, ma anche quelli occulti perché risolti senza alcuna pubblicità nel breve volgere di poche ore).

Le cosche mafiose, profondamente trasformate perché più aderenti ai nuovi interessi, si danno battaglia per assicurarsi il controllo della zona in cui operano, innestando spesso in questa lotta metodi che le cosche   stesse si portano   dietro come   antichi   retaggi.   È il caso delle faide che pur sempre si accendono su interessi mafiosi. Ma non c’è soltanto questo. La cinica violenza è frutto anche di tracotanza che deriva dalla convinzione che non esiste argine alla esplosione e allo strapotere mafioso. Che cosa vale una vita, la vita d’una bambina stavolta, di fronte alla supremazia che assicuri taglieggiamenti, subappalti, potere? La guerra tra i De Stefano e i Tripodo, ad esempio, è scoppiata un anno fa per l’accaparramento dei subappalti nel raddoppio della linea ferroviaria Reggio Calabria-Villa San Giovanni, sei miliardi di lavori ancora in esecuzione.  a al grosso subappalto si sono aggiunte le altre attività e, quindi, la guerra, in un gioco di alleanze e di scambi di favori tra le varie cosche, si è estesa, ha investito altri gruppi, si è contrassegnata con altri scontri di interessi. Oggi esiste più che mai la convinzione, peraltro, che le cosche mafiose reggine abbiano esteso a tutta la regione il loro controllo e siano dietro gran parte dei rapimenti che avvengono fuori della Calabria e controllino, inoltre, la parte più consistente del contrabbando di droga e di sigarette (gli sbarchi si susseguono a ritmo serrato sulla costa Ionica e tirrenica).

In questi giorni, in concomitanza con l’esplosione di tanta violenza, si colgono nella regione reazioni   importanti che aiutano a comprendere la profondità del fenomeno e a ricercare le vie di uscita.  Si avverte sempre più distintamente, in primo luogo, che non è più possibile continuare ad ignorare, sottovalutare   un   fenomeno, quello mafioso appunto, che, per la sua stessa natura, non cresce avulso dalle strutture economiche, sociali, civili, politiche, ma ne pervade gran parte sino a distorcere a suo favore la loro stessa funzione, traendo da ciò, peraltro, impunità, potere, tracotanza. Si tratta, quindi, in primo luogo di prendere consapevolezza del fatto che la mafia cresce e si rafforza con le connivenze e le collusioni. I segni di questa reazione positiva sono il concreto avvio dei lavori della commissione regionale di studio e di indagine sul fenomeno mafioso (nei giorni scorsi sono stati eletti il presidente e il vice-presidente della commissione che sono rispettivamente il democristiano  Barbaro ed il comunista Martorelli), la presa di   posizione dei vescovi calabresi i quali hanno sottolineato tutti i pericoli che la massiccia presenza mafiosa nella società calabrese rappresenta, la decisione delle forze politiche democratiche e sindacali di tenere per domani, domenica, a Reggio, un convegno per ricercare tutti assieme i criteri di lotta più efficaci all’espansione mafiosa. E ci sono iniziative coraggiose che rompono silenzi paurosi e mobilitano interi paesi come quella adottata dall’amministrazione popolare di Polistena che il 21 dicembre terrà una manifestazione pubblica per chiedere il sostegno di tutti nella lotta contro la mafia che, in questo comune, tra l’altro, blocca un miliardo di lavori pubblici, dato che le imprese hanno abbandonato gli appalti per sfuggire ai taglieggiamenti.

Siamo, in sostanza, di fronte   all’avvio di una mobilitazione di tutte   le forze   sane   della    società    calabrese per questa   lunga e difficile   battaglia   necessaria   per isolare e   sconfiggere la mafia e per risanare   la società dai guasti che essa le impone.

Ma, accanto a queste reazioni coraggiose, positive, ci sono anche da registrare tentennamenti, dubbi, intolleranze come ad esempio quelle di certi settori della magistratura, che, di fronte alla decisione del Consiglio superiore di condurre nella regione un’indagine sullo stato della giustizia, si arroccano ciecamente in una difesa della categoria che essi dicono «calunniata» e minacciano perfino rappresaglie contro la stampa. È questo, precisamente, il modo per calunniare una categoria che invece come abbiamo più volte registrato, annovera elementi e strati sempre più considerevoli di magistrati, che salutano con favore la decisione del Consiglio superiore, consapevoli che uno dei nodi da sciogliere, se si vuole condurre un’efficace lotta alla mafia calabrese, sia proprio quello rappresentato dall’ordinamento giudiziario. È giusto indagare non solo sulle difficoltà obiettive che pure esistono, ma anche sui casi evidenti di collusione e connivenza.

 

 

 

Fonte:  memoriaeimpegno.blogspot.com
Nota di Libera Reggio Calabria, dicembre 2014

Giuseppina Utano aveva solo 3 anni quando è stata uccisa, vittima innocente della prima delle due guerre di ‘ndrangheta che hanno insanguinato Reggio Calabria. Una lunga scia di sangue, la guerra tra i De Stefano e i Tripodo, che è servita alla creazione di una nuova classe dirigente della criminalità organizzata reggina.

La sera in cui è stata uccisa, Giuseppina stava rientrando a casa in auto con i genitori. La sua colpa? Essere figlia di un ex sorvegliato speciale, un tempo accompagnatore e autista del boss di San Giovanni di Sambatello, Domenico “don Mico” Tripodo, uno dei vecchi boss che le cosche emergenti volevano soppiantare.

Il padre di Giuseppina, Sebastiano Utano, era stato più volte visto insieme a Mico Tripodo, prima di essere arrestato per dei furti avvenuti nel quartiere Santa Caterina. Dopo aver scontato la misura di prevenzione, si era trasferito a Sarzana e lì aveva lavorato come muratore. Da un mese e mezzo era rientrato a Reggio e aiutava saltuariamente il suocero Sebastiano Pangallo.

Venerdì 12 dicembre 1975, la piccola Giuseppina era insieme alla madre Domenica Pangallo, di soli 20 anni, originaria di Roccaforte del Greco e al padre Sebastiano, 25 anni, vittima designata dell’agguato. Nella mattinata Sebastiano Utano era stato dimesso dall’ospedale in attesa dei risultati di alcune analisi a cui era stato sottoposto perché soffriva di dolori allo stomaco. La figlia e la moglie erano andati a trovarlo prima di mezzogiorno e dopo essere usciti dall’ospedale erano stati a Scilla, ospiti di un amico. La sera stavano rientrando a casa, a Sambatello. A poco più di un chilometro dal centro abitato, all’ingresso della frazione, li attendevano tre killer armati di fucili e pistola, che sbarravano loro la strada con un’auto scura di piccola cilindrata, ferma in mezzo alla carreggiata.

Appena avvistata l’auto degli Utano, i sicari avevano iniziato a sparare, indirizzando i colpi principalmente al conducente, che ritenevano fosse Sebastiano Utano. Al padre di Giuseppina, infatti, era stata ritirata la patente al momento in cui era stato sottoposto a misura di prevenzione, ma aveva continuato comunque a guidare la sua auto, al punto che più volte era incorso in contravvenzioni. I tre avevano concentrato il fuoco sul sedile di guida, non potendo distinguere nell’oscurità che a guidare, invece, fosse la moglie.

Domenica Pangallo, ferita, era riuscita a sfuggire trovando spazio tra l’auto dei killer e il limite destro della carreggiata, mentre i tre continuavano a sparare all’auto in fuga frantumando il lunotto posteriore e centrando in testa la piccola Giuseppina. Malgrado le ferite, la madre aveva avuto la forza di guidare fino all’abitazione di un conoscente che aveva poi accompagnato la famiglia all’ospedale di Reggio. L’auto crivellata di colpi, lasciata incustodita e sparita in un primo momento, è stata successivamente rinvenuta abbandonata, nella vicina frazione di Diminniti. Il padre, interrogato in questura, non ha fornito alcun elemento utile alle indagini, negando di conoscere assassini e movente.

Arrivati in ospedale, la madre, al sesto mese di gravidanza, era stata trasferita e curata al Policlinico di Messina, mentre il padre aveva solo una lieve ferita alla spalla sinistra.

Per Giuseppina Utano, invece, non è stato possibile fare niente: quando è arrivata all’ospedale la bimba era già morta. Uccisa per stabilire la supremazia di una cosca di ‘ndrangheta su Reggio Calabria, colpita in testa dai killer che avevano sparato per uccidere il padre, senza alcuno scrupolo, sapendo che la moglie e la figlia erano in macchina con lui.
Una folla commossa ha accompagnato sino al cimitero la piccola Giuseppina, per l’ultimo saluto a questa piccola vittima innocente di ‘ndrangheta.

 

 

Dal libro: Dead Silent  Life Stories of Girls and Women Killed by the Italian Mafias, 1878-2018 di Robin Pickering Iazzi University of Wisconsin-Milwaukee, rpi2@uwm.edu

 

 

 

 

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