13 gennaio 1981 Somma Vesuviana (NA). Scompare Raffaella Esposito, 13 anni, mentre sta tornando a casa da scuola. Il corpo ritrovato due mesi dopo in fondo ad un pozzo.

Raffaella Esposito, 13 anni, abitante a Somma Vesuviana, scompare il 13 gennaio 1981: esce dalla scuola alle 12 e si avvia verso casa a piedi. E sparisce. Incominciano così le ricerche. Si parla anche di camorra, perché quella è la zona di Raffaele Cutolo. Ma proprio la camorra interviene scrivendo in una lettera al quotidiano Il mattino: Noi uomini di Cutolo non ammettiamo che si tocchino i bambini. Liberate la piccola, sennò pagherete. Due mesi dopo la scomparsa, il 13 marzo, il cadavere di Raffaella viene ritrovato in un pozzo ad Ottaviano. L’autopsia rivela che non è stata violentata. Non è stato, dunque, un sequestro, né una violenza. Che cosa allora? Una professoressa di Ottaviano ricorda di avere visto la bambina, verso le 12,30 del giorno in cui era scomparsa, salire su un’auto 127 rossa. È l’ ultima persona ad averla vista. Il giudice Lucio Di Pietro che conduce le indagini interroga un tale Giovanni Castiello, proprietario di una 127 rossa. Gli indizi si rivelano inconsistenti e Castiello viene scarcerato. Ma la camorra lo uccide il 13 aprile rivendicando l’omicidio con l’aberrante proclama: Giustizia è fatta. Sul delitto della bambina non si è indagato più.

Fonte:  ricerca.repubblica.it Articolo del 16 gennaio 1990 – ‘TELEFONO GIALLO PER LA PICCOLA RAFFAELLA

 

 

 

Articolo da L’Unità del 14 aprile 1981

 

 

 

 

Dal libro:
Storia e Storie di Camorra
I segreti e gli intrighi di potere dello scioccante mondo parallelo della criminalità organizzata

di Bruno De Stefano

Newton Compton Editori

I bambini non si toccano

La verità è in fondo a un pozzo profondo cinque metri e largo quattro. Lo stesso nel quale il 13 marzo del 1981 i carabinieri trovarono il cadavere di Raffaella Esposito, una tredicenne rapita due mesi prima a Somma Vesuviana, a pochi chilometri da Ottaviano, il regno di Raffaele Cutolo.

Un delitto orribile: Raffaella era morta strangolata, l’assassino le aveva stretto intorno al collo la cintura del suo cappottino azzurro. Un omicida che per lo Stato non ha mai avuto né un volto né un nome; stando alle carte giudiziarie, infatti, nessuno è mai finito sotto processo per aver ucciso la tredicenne. Ma se per lo Stato il killer è rimasto sconosciuto, per la camorra l’infame che ha ammazzato la ragazzina è stato punito come meritava: con la condanna a morte. Una pena esemplare per dimostrare, ovviamente in maniera strumentale, che la giustizia dei clan è più veloce ed efficace di quella fatta di giudici, pubblici ministeri e sentenze.

La storia comincia con il rapimento di Raffaella, che sparisce il 13 gennaio del 1981 mentre sta tornando da scuola. Che non si tratti di un sequestro a scopo di estorsione è fin troppo chiaro: il padre è un venditore ambulante di bibite, la madre è fruttivendola, quindi non potrebbero mai pagare alcun riscatto. Le ipotesi sono tante ma nessuna è convincente. In quel periodo nell’area vesuviana la NCO di Cutolo è in guerra con tutti e non c’è giorno in cui non ci siano omicidi e imboscate. Raffaella, insomma, potrebbe aver visto qualcosa che non doveva vedere. O forse l’hanno rapita per fare uno sgarro a qualcuno, anche se non si sa bene a chi.

La possibilità che dietro la sparizione della ragazzina ci sia la camorra è remota, ma i cutoliani reagiscono stizziti alle voci che li vorrebbero in qualche modo coinvolti nel rapimento. La legge non scritta delle cosche afferma il principio secondo il quale i bambini non si toccano perché le “creature” sono sacre. Gli anni successivi dimostreranno che i boia della camorra non risparmiano niente e nessuno, neppure le anime innocenti, ma all’interno della NCO sanno che per non perdere il consenso popolare devono far vedere di non essere neutrali di fronte a un crimine perpetrato ai danni di una bambina. E così il 16 febbraio, a poco meno di un mese dal sequestro di Raffaella Esposito, Pasquale D’Amico, uno dei luogotenenti di Cutolo, spedisce una lettera alla redazione del quotidiano «Il Mattino» nella quale intima ai rapitori di rilasciare la ragazzina. Nella lettera D’Amico tiene a precisare che la NCO non ha nulla a che vedere con la faccenda e che «tutti i componenti della vera camorra sono uomini d’onore che si estraniano da tutti i tipi di rapimento». Il boss, senza troppi giri di parole, aggiunge anche che i camorristi «per un fatto del genere sono pronti ad ammazzare».

In quei giorni le indagini sembrano arrivate a buon punto. I carabinieri fermano il presunto sequestratore: si chiama Giovanni Castiello, ha trentasette anni e lavora alle dipendenze di uno zio di Raffaella. Gli inquirenti sono arrivati a lui sulla base della testimonianza di una donna che ha raccontato di aver visto la vittima salire su una Fiat 127 di colore rosso nel giorno in cui è scomparsa. Castiello, proprietario di una macchina dello stesso modello e colore, viene interrogato dal giudice Lucio Di Pietro, che però lo scarcera perché gli indizi a suo carico non sono sufficienti.

L’ipotesi che la bambina sia finita nelle mani di un maniaco diventa sempre più consistente. Anche Papa Giovanni Paolo II fa un appello per chiedere la liberazione della figlia del venditore ambulante. Tutto inutile. Il 13 marzo, a due mesi esatti dal rapimento, una contadina trova il corpo senza vita di Raffaella in un pozzo in un fondo agricolo in contrada Cinquevie, a San Gennarello, una frazione di Ottaviano. Secondo il Burocratico linguaggio del medico legale, Raffaella è in uno stato di «saponificazione cadaverica» dal quale si deduce che in quel pozzo era stata gettata almeno quaranta giorni prima.

Per qualche tempo, la notizia della ragazzina strangolata da un maniaco ruba la scena ai delitti di camorra che continuano a insanguinare l’area vesuviana. A rendere ancora meno accettabile la tragica fine di Raffaella è la palese difficoltà nell’individuare l’autore del delitto. I carabinieri hanno interrogato un centinaio di persone ma senza venire a capo di nulla. L’unico a essere sospettato è stato Giovanni Castiello, tuttavia gli elementi a suo carico sono assolutamente insufficienti a considerarlo l’assassino al di là di ogni ragionevole dubbio. Ma quegli elementi, considerati insufficienti dal giudice e dai carabinieri, bastano e avanzano, invece, alla camorra. Se la giustizia dello Stato non riesce a incastrare i colpevoli, allora ci pensa la NCO di Cutolo a punire l’assassino di Raffaella Esposito. Anche perché la carogna colpevole del delitto ha agito nel territorio «amministrato» da Raffaele Cutolo e dai suoi soldati: un affronto che non può non restare impunito.

Il 13 aprile, a trenta giorni dal ritrovamento del cadavere della bambina, Giovanni Castiello viene ammazzato con tre colpi di pistola calibro 38 a Sant’Anastasia, dove abitava. Agli investigatori non occorrono grandi sforzi per capire perché l’operaio sia stato ucciso. Ad eccezione della vicenda di Raffaella, Castiello non aveva mai avuto alcun problema con la legge. I dubbi su chi possa averlo trucidato durano poche ore. Nella tarda serata al centralino del quotidiano «Il Mattino» arriva una telefonata anonima dal contenuto inequivocabile: «La camorra ha giustiziato l’assassino della piccola raffaella Esposito: i bambini non si toccano».

Molti anni dopo Cutolo sarà prosciolto dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio di Castiello. Ma quel delitto, secondo alcuni pentiti, fu voluto dalla NCO per dimostrare che, se la giustizia dello Stato è lenta e titubante, quella della camorra è rapida e certa.

 

 

 

 

Foto da:  fanpage.it

Fonte:  fanpage.it
Articolo del 27 febbraio 2018
Raffaellina che dormiva nel pozzo: la storia della bimba uccisa nel regno di Cutolo
di Angela Marino
La piccola Raffaella Esposito fu trovata morta sul fondo di un pozzo nelle campagne di Ottaviano nel gennaio del 1981, a due mesi dalla sua scomparsa. La piccola era stata strangolata con la cinta del cappotto. Tra sospetti di pedofilia e vendette di camorra, il suo caso resta uno dei grandi misteri campani.

Il caso Raffaella Esposito è un episodio di cronaca nera che ha ossessionato per anni la Campania degli anni Ottanta, una di quelle storie dai contorni talmente stinti che diventano quasi leggenda locale. I fatti risalgono al 1981, in un’Italia ormai lontana dal terrorismo rosso e nero, un’Italia dove la politica ha deposto la Beretta e preso in mano il santino elettorale, mentre alla tv il mostro di Firenze ipnotizzano l’opinione pubblica.

L’infanticidio nella terra di Raffaele Cutolo
Mentre il Paese se la vede con il primo killer ‘mediatico’, in Campania la ‘Nuova camorra organizzata’ di Raffaele Cutolo, ‘o professore’ di Ottaviano, si aggiudica il monopolio delle attività illecite di tutta la zona vesuviana, tra cui racket, traffico di droga, smaltimento illecito di rifiuti, usura e contrabbando. Per questo, quando un giorno una bimba esce per andare a scuola e non fa più ritorno, il suo caso finisce all’attenzione de ‘O professore’. Cutolo e i suoi avviano la loro contro-indagine su di Raffaellina Esposito, 10 anni, sparita intorno alle 12 e 15 all’uscita dalla scuola elementare. Gli investigatori, intanto, fanno degli accertamenti sulla famiglia Esposito, una coppia – ambulante lui, fruttivendola lei – di modestissima condizione, arrivando alla conclusione che quello non è un rapimento a scopo di estorsione.
Il messaggio

Qualcuno nel consesso della NCO, nel frattempo, invia alla stampa questo messaggio:

Noi uomini di Cutolo non ammettiamo che si tocchino i bambini. Liberate la piccola, sennò pagherete.

I giorni passano, ma nessuno si fa vivo per chiedere il riscatto o per rivendicare il rapimento, nonostante papa Woytila avesse lanciato un appello ai rapitori. Così gli Esposito decidono di mettere a disposizione una ricompensa di 10 milioni di lire per chiunque abbia notizie della piccola. Gli inquirenti si misero in ascolto, i camorristi pure.

La cisterna di Ottaviano
Due mesi dopo, a San Gennariello di Ottaviano, località Cinque vie, la signora Anna cala il secchio nella cisterna vicina al suo appezzamento per tirare su dell’acqua. Man mano che preleva liquido dal fondo del pozzo si vede affiorare qualcosa: il tenero corpicino di una bimba, con il grembiule bianco sopra il vestitino a quadri e il cappotto celeste ancora indosso. A zio Carmine Gavino spetta il crudele compito di riconoscere la piccola Raffaella, mentre a Somma lo sconcerto e l’orrore gelano le strade come un vento cattivo. Dai fogli dell’autopsia arriva la risposta alla domanda più tormentosa, quella che tutti a Somma si stanno ponendo. No, Raffaellina non è stata violentata. La piccola, come suggerito dalla cinta del cappotto legata intorno alla gola, era morta strangolata.

Se la giustizia è in mano ai boss
Dalle prima indagini del giudice Lucio Di Pietro, a capo dell’inchiesta, spicca una testimonianza chiave. Una insegnante della scuola elementare di Raffaella ha visto la bimba salire a bordo di una Fiat 127 di colore rosso, quel giorno. Giovanni Castiello, un operaio 37 anni, dipendente della ditta dello zio della piccola e proprietario di una 127 scarlatta finisce in cima alla lista dei sospetti. Contro di lui, però, indizi: Castiello, infatti, non ha precedenti e per il giorno del delitto ha un alibi e infatti viene rilasciato senza neanche andare a giudizio. Un mese dopo il ritrovamento del corpo, mentre cammina per strada a Santa Anastasia, Castiello viene crivellato da una calibro 38. Giustizia è fatta, dice il ‘comunicato’ della NCO. La camorra ha pronunciato la sua sentenza.

L’epilogo
Per qualcuno l’esecuzione di Castiello doveva essere una risposta, invece apre solo nuove domande. Era il vero colpevole o un capro espiatorio eliminato per ripristinare l’equilibrio? La camorra è intervenuta perché aveva delle responsabilità? E se Raffaella fosse stata involontaria testimone di un crimine finendo nel mirino dei boss? Mentre il fascicolo di Raffaellina finisce in archivio, due anni dopo a Ponticelli, a 15 minuti da Somma, altre due bambine vengono rapite, seviziate e i loro corpi dati alle fiamme. Questa volta in una Cinquecento blu.