13 gennaio 2018 Crotone. Giuseppe Parretta, 18 anni, è stato ucciso da un vicino, già noto alle forze dell’ordine, che si era convinto che facesse la spia sul suo conto ai carabinieri.

Il 13 gennaio del 2018 a Crotone, Giuseppe Parretta, 18 anni, è stato ucciso da un vicino, già noto alle forze dell’ordine, con precedenti per droga, rapina ed armi, che si era convinto che facesse la spia sul suo conto ai carabinieri.
Il ragazzo che si trovava in casa insieme alla mamma, Katia Villirillo, presidente dell’associazione Libere donne, molto impegnata nel contrasto alla violenza di genere, la fidanzata, la sorella ed il fratello si è parato per fare scudo ai familiari e divenendo bersaglio dei colpi di pistola sparati con freddezza da Salvatore Gerace (56 anni).

 

 

Fonte:  quotidianodelsud.it
Articolo del 14 gennaio 2018
Ucciso a 18 anni, lutto cittadino e Comune parte civile
L’omicida di Crotone pensava di essere spiato

CROTONE – Riteneva di essere al centro di un “complotto”, di essere «spiato» dai vicini di casa, Salvatore Gerace, il cinquantaseienne che ieri, a Crotone, ha fatto irruzione nell’abitazione adiacente alla sua sparando, in preda ad un raptus, e uccidendo Giuseppe Parretta (LEGGI LA CRONACA DEL DELITTO).

Il ragazzo che si trovava in casa insieme alla mamma, Katia Villirillo, presidente dell’associazione Libere donne, molto impegnata nel contrasto alla violenza di genere, la fidanzata, la sorella ed il fratello si è parato per fare scudo ai familiari e divenendo bersaglio dei colpi di pistola sparati con freddezza da Gerace. La vittima è stata raggiunta al petto, alla spalla ed al fianco.

La dinamica dell’omicidio è stata illustrata in una conferenza stampa in Questura, a Crotone. Ad incontrare i giornalisti il vicario del Questore, Antonio Ferrante e il capo della Squadra Mobile Nicola Lelario che spiegato come, allo stato, non ci sia «collegamento tra quanto accaduto ieri pomeriggio è l’attività dell’associazione». E’ stata una mania di persecuzione, secondo quanto emerso, ad avere obnubilato la mente di Salvatore Gerace.

L’uomo ha riferito agli investigatori di sentirsi spiato ritenendo che la moto, uno scooter con il quale ieri Giuseppe Parretta era arrivato a casa nel pomeriggio, fosse un regalo proprio per questa attività di spionaggio: una motivazione assurda che Gerace, con precedenti per droga, rapina ed armi, ha riferito al magistrato, Alfredo Manca, che lo ha interrogato. Sul posto, dopo le segnalazioni giunte alla centrale della Polizia, sono intervenuti gli agenti delle Volanti e della Squadra Mobile che hanno raccolto le prime testimonianze.

Gerace, dopo il delitto, si è asserragliato nella sua abitazione. Prima non voleva aprire, poi ha ceduto conducendo gli agenti nella camera da letto dove ha consegnato l’arma usata, un revolver 38 con proiettili (dalla perquisizione ne sono stati poi trovati altri), con matricola abrasa e detenuta illegalmente. Per lui il magistrato ha formalizzato l’arresto.

Intanto, è stato proclamato il lutto cittadino a Crotone nel giorno dei funerali di Giuseppe Parretta, lo ha stabilito il sindaco di Crotone, Ugo Pugliese. Il Comune di Crotone si farà carico delle spese per i funerali di Giuseppe e si costituirà parte civile nel procedimento penale a carico del responsabile devolvendo l’eventuale risarcimento derivante dal giudizio in azioni a sostegno della tutela dei minori e delle famiglie in difficoltà. Lo ha deliberato la giunta comunale di Crotone riunita d’urgenza dal sindaco in seduta straordinaria.

Il sindaco di Crotone non ha dubbi: «Davanti alla morte di un ragazzo avvenuta nelle circostanze drammatiche in cui si è verificata – afferma Pugliese – il sentimento di sgomento e di dolore è unanime e condiviso. Ma in questo momento deve soprattutto prevalere il sentimento di cordoglio nei confronti della famiglia colpita negli affetti più cari». «Questa morte – aggiunge il sindaco di Crotone – appartiene a tutti noi. La morte di Giuseppe appartiene a tutta la comunità cittadina. Per questo motivo proclamo per il giorno dei funerali il lutto cittadino come segno di vicinanza alla famiglia ma anche per chiedere all’intera comunità di Crotone di rimanere unita perché la luce della speranza continui ad essere accesa. Essere uniti, stringendosi intorno al dolore della famiglia, della mamma, è un dovere che ciascuno di noi deve sentire. Lo dobbiamo alla memoria di Giuseppe, ai giovani della nostra città, a noi stessi».

 

 

 

Fonte: antimafiaduemila.com
Articolo del 16 gennaio 2018
Crotone, morte di un giovane per difendere la famiglia
di Licia Lucarelli
Il diciottenne Parretta ucciso a colpi d’arma da fuoco

“Il gesto di uno spacciatore che ha preso la vita di mio figlio ma che tutti i giorni prende anche la vita dei vostri figli…” queste, le parole disperate di una madre che ha visto il figlio, Giuseppe Parretta, morire ingiustamente.
Per i funerali di domani (dalle ore 9:30 si partirà dall’obitorio dell’ospedale San Giovanni di Dio verso la Basilica Cattedrale S. Dionigi) il sindaco ha proclamato il lutto cittadino.
L’intera comunità potrà stringersi attorno la famiglia dopo che il giovane diciottenne, sabato scorso, si è fatto scudo morendo innocentemente per mano del pregiudicato 56enne, Salvatore Gerace, arrestato più volte in passato per spaccio di droga, detenzione di armi illegali e rapina.
Uscito di galera dopo tre anni di carcere, Gerace aveva ripreso a spacciare droghe nella città antica di Crotone, un ghetto dove si vive uno stato di abbandono. E’ in questo quartiere che il malfattore si è stabilito a casa di sua sorella proprio di fronte alla sede dell’associazione “Libere donne” di cui Katia Villirillo, madre del giovane Giuseppe fondatrice e presidente che da nove anni salva le donne dalla schiavitù della prostituzione, della tossicodipendenza e dalle svariate violenze.
La scelta di aprire la sede associativa in una delle zone più difficili della città è stata voluta dall’audace donna crotonese proprio per arrivare più facilmente a combattere con tutta se stessa e nel suo piccolo, il malaffare e le ingiustizie della sua terra martoriata da un cancro secolare. In questi nove anni sono state diverse le vicende, gli attacchi e le minacce subite dall’attivista Villirillo che accusa le istituzioni per averla lasciata sola persino nella richiesta di poter installare delle semplici telecamere di sorveglianza o nel ripristino del numero verde per l’associazione.
Pochi giorni prima dell’omicidio del giovane figlio, mentre tornava a casa, è stata ulteriormente minacciata con urla da Salvatore Gerace il quale, mostrandole una pistola, la invitava a far molta attenzione per se stessa e per i suoi tre figli. A questo punto, la madre aveva chiesto una protezione alle istituzioni ma il suo allarme è caduto nel vuoto.
Purtroppo nella mente del pregiudicato si era fatta ormai spazio l’dea che l’onesta famiglia lo spiasse nei suoi misfatti. Incolpava il giovane studente-lavoratore Giuseppe Parretta di movimenti strani contro di lui. La realtà era ben diversa e il diciottenne si recava al lavoro come farebbe un uomo onesto e responsabile sostenendo economicamente la sua famiglia.
Gerace, però, era deciso ad agire. Così sabato, intorno alle ore 16:30, vedendo arrivare Giuseppe su di una moto e credendo che fosse un regalo donatogli dalla polizia in cambio di informazioni su di lui, senza esternare parola si è scaraventato nella sede dell’associazione “Libere Donne”. Qui ha cominciato ad esplodere colpi di revolver 38 con matricola abrasa e detenuta illegalmente. Sono stati rapidissimi gli attimi nei quali Giuseppe Paretta ha cercato di disarmare il pregiudicato facendosi scudo per proteggere i suoi familiari e morendo con diversi colpi di pistola a distanza abbastanza ravvicinata. Uno lo ha colpito in pieno petto mentre la mamma lo stava alzando da terra per aiutarlo.
“Il gesto di un drogato…, di uno spacciatore che ha preso la vita di mio figlio ma che tutti i giorni prende anche la vita dei vostri figli…” queste sono le amorevoli parole pronunciate dalla madre che persino nell’oppressione della sua sofferenza non smette di dare un messaggio di richiamo al suo prossimo. La madre attivista contro le violenze, seppur lacerata dal dolore per aver visto l’esecuzione di suo figlio nonostante abbia fatto di tutto per difenderlo, mette da parte se stessa e si rivolge ai genitori che ingenuamente non si accorgono che i giovani sono raggirati da questi disonesti uomini che cercano di vendere loro sostanze stupefacenti. Domenica un silenzio surreale si è disteso a macchia d’olio nelle vie centrali di Crotone. La città era desolata ma cinque mila persone si sono unite e compattate in un grande corteo con fiaccole accese; si percepiva chiaramente l’effetto sonoro delle fiammette che si spostano ad ogni passo che avanza con amarezza. Tantissimi i giovani presenti che sollevavano lunghi striscioni sui quali era scritto: “Giustizia per nostro fratello!”. Questa ed altre le frasi che hanno sfilato i compagni di scuola del Liceo Artistico come simbolo di un urlo che in questo istante non riescono ad urlare.
Neppure il graduale “din-don” delle campane della cattedrale è riuscita a tagliare il disteso silenzio di rabbia e meditazione sull’ingiustizia accaduta proprio nella sede di quella associazione simbolo di protezione, di non violenza e di ogni tipo di coercizione verso le donne. Quella che doveva essere una strage familiare si è rivelata un grande atto d’amore e “Libere donne” è diventata la sede nella quale un giovane ragazzo ha dimostrato che non esistono solo uomini aggressori guidati dall’istinto egoistico della rabbia o della paura ma anche uomini che sanno connettere il cuore persino in una situazione estrema come quella vissuta dal diciottenne Parretta. Il ragazzo non ha seguito l’istinto primordiale di fuggire o nascondersi ma è stato disposto a proteggere, dando tutto se stesso, anche la vita, semplicemente per una scelta d’amore. Lo stesso che sua madre Katia continua a dare a tutti coloro che le chiedono aiuto.
Alla fiaccolata, presente con tutta la sua forza di Madre vi era anche lei, Katia che si è unita in un toccante abbraccio con il papà di Dodò ucciso a soli 11 anni dalla ‘ndrangheta mentre inseguiva un pallone e con la mamma e la sorella di Gabriele De Tursi, il 19enne di Strongoli scomparso nel nulla quattro anni fa. La lotta contro la violenza persiste nel cuore della mamma di Giuseppe la quale dichiara di non cercar vendetta ma giustizia sì!

 

 

 

Foto da: ilmattino.it

Fonte: ilmattino.it/
Articolo del 19 luglio 2018
Giuseppe, morto a 18 anni per salvare i fratelli. La mamma: «Abbandonata dallo Stato, ucciso due volte»
di Domenico Zurlo

Caterina Villirillo, la madre del 18enne Giuseppe Parretta, ucciso a Crotone il 13 gennaio mentre era proprio con la mamma e con i fratelli (a cui salvò la vita), ha scritto una lettera aperta in cui denuncia la solitudine che lamenta dallo Stato, dopo l’omicidio del figlio. Giuseppe fu ucciso mentre si trovava all’interno dei locali dell’associazione «Libere Donne», che da anni combatte la violenza sulle donne e di cui la mamma è presidente: ad ucciderlo il vicino di casa 57enne, Salvatore Gerace, già noto alle forze dell’ordine, che a suo dire si sentiva spiato dal 18enne.

«Dal giorno dei funerali di mio figlio io sono rimasta abbandonata al mio destino senza né un supporto psicologico né materiale, nonostante le ripetute promesse fatte dalle istituzioni crotonesi, tutte false, tutte espresse al solo scopo di pubblicizzare meschinamente la loro ‘bontà’ di fronte all’Italia intera», scrive la signora. «Mio figlio è stato ucciso più volte e la mano che ha armato quella dell’assassino ha un nome preciso: lo Stato. Uno Stato che concede libertà vigilata senza vigilanza ad un recidivo del crimine e gli permette di possedere armi è uno Stato patrigno, cattivo, superficiale ed attento solo a non offendere i poteri occulti che lo manovrano come un burattino e che hanno imposto, col nome di ‘democrazia’, la tutela del carnefice».

«Sto chiedendo giustizia per mio figlio – afferma Caterina Villirillo – e la sto chiedendo anche e soprattutto a questo Stato che non prevede leggi che tutelino le vittime. Sì, perché una madre o un padre o dei fratelli sopravvissuti ad una simile tragedia sono vittime tanto quanto chi è rimasto ucciso, e non voglio che i miei figli vivano ciò che altri hanno vissuto, cioè il ritrovarsi di fronte l’assassino perché non esistono pene commisurate agli efferati delitti che bestie come l’assassino di mio figlio commettono. Dove sono le associazioni umanitarie quando la vittima è un italiano? Dove sono le politiche sociali quando la vittima è un ragazzo onesto? Che fine hanno fatto le istituzioni che volevano accollarsi il costo di un addio dignitoso al mio Giuseppe? Dov’è la Chiesa? Dov’è il Vescovo? Dov’è il Papa?».

«Hanno ucciso Giuseppe, Pamela, Jessica nel giro di poche settimane – conclude la donna – ma nessuno ha levato scudi per chiedere giustizia mentre vedo mobilitarsi sindacati, associazioni ed il Governatore della Calabria in persona per l’uccisione di un uomo sorpreso a rubare. Perché? Forse perché Giuseppe, Pamela e Jessica erano solo ragazzi italiani e, quindi, non muovono interessi né hanno eco internazionale? In Italia esistono innegabilmente vittime di serie A e vittime di serie B ed appartengono alla prima i mafiosi e gli immigrati. Non è razzismo, il mio, ma una pura e cinica consapevolezza».

 

 

 

Fonte:  huffingtonpost.it
Articolo del 13 gennaio 2019
La lettera della madre di Giuseppe Parretta, ucciso a Crotone un anno fa: “Mio caro Giuseppe, a volte dormo abbracciata al tuo cuscino”
Il testo raccolto dal Corriere della Sera. Il 18enne venne ucciso da un pregiudicato che si era convinto fosse spiato.

Il 13 gennaio del 2018, a Crotone, Giuseppe Perretta venne raggiunto a morte da colpi di arma da fuoco. A sparare, Salvatore Gerace, di 57 anni, già noto alle forze dell’ordine, che si era convinto che Giuseppe facesse la spia sul suo conto con i carabinieri. A un anno dalla morte la madre della vittima, Katia Villirillo, che nel 2009 aveva lanciato l’associazione Libere Donne, ha scritto un testo dedicato al figlio raccolto dal Corriere della Sera.

Mio caro Giuseppe, oggi è un anno che vivo senza di te. Alle 16.15 di un anno fa ero qui a stringerti fra le braccia mentre te ne andavi. Sento come fosse adesso il calore del tuo corpo svanire, ti ho davanti agli occhi mentre — anche dopo il terzo sparo, dolorante — indicavi a Ester di salvare i tuoi fratellini. Ester, che sognavi di far diventare la tua sposa, ha dovuto vederti morire proprio come me. Ti ricordi l’ultima foto, figlio mio? Mentre la scattavo sorridevi felice in sella alla tua moto nuova. Te l’ho fatta e poi ti ho abbracciato: «Stai attento, mi raccomando. Giurami che non correrai mai», le solite raccomandazioni da mamma. Mezz’ora dopo eri per terra, fra le mie braccia. Quante volte ti avrò detto: non te ne andare, ti scongiuro non lasciarmi… Per quasi due mesi ho vissuto in una bolla di dolore che sembrava una resa, ho sentito il suono degli spari nella mia testa un milione di volte.

La donna parla dell’attenzione che ne è seguita, della reazione dell’opinione pubblica: “Mi sono sentita protetta dalla gente che ti ha amato, dall’ondata di solidarietà che ho ricevuto, da chi mi ha promesso che il tuo sacrificio non sarebbe stato invano”.

Ti ricordi la promessa che ti feci mentre te ne stavi andando? «Io non mi arrenderò», ti dissi. E non l’ho fatto, amore mio. Ho riaperto il centro e sto facendo tante cose per te. Sto raccogliendo firme contro gli sconti di pena nei casi di omicidio, non voglio ritrovare il tuo assassino dietro l’angolo fra pochi anni. Io e le persone che ti hanno voluto bene stiamo per aprire un’associazione a nome tuo per aiutare i giovani, proprio come volevi tu. Sto organizzando un concorso letterario che porterò nelle scuole e si chiuderà con un premio per la legalità che avrà, anche quello, il tuo nome. Vedi, amore mio? Io cerco di resistere e non mi arrendo. Ma sapessi com’è dura… E intanto è passato un anno e la tua assenza è qui, ogni giorno più presente

 

 

 

Fonte: lacnews24.it
Articolo del 7 maggio 2019
«Mio figlio vittima di ‘ndrangheta e io abbandonata dalle istituzioni»
Una lettera aperta di Caterina Villirillo madre di Giuseppe Parretta ucciso al culmine di una lite da un pregiudicato ad appena 18 anni: «Il silenzio della politica regionale consente alla criminalità di farmi il vuoto intorno»

Io Caterina Villirillo madre di Giuseppe Parretta vittima della criminalità organizzata resto in vana attesa di una risposta delle Istituzioni. Sono stata lasciata sola dalle Istituzioni e dallo Stato con due figli minori. Lo scorso 3 maggio a Petilia Policastro si è svolta la VI Giornata del Coraggio Femminile, appuntamento organizzato dal sindaco Nicolazzi, grazie al quale la cultura è stata presentata come un valore di scambio tra le varie generazioni che vi hanno partecipato. Una realtà quasi di nicchia ed insolita per chi è abituato a considerare la Calabria terra di criminalità, che a me, mamma di Giuseppe Parretta assassinato a 18 anni poco più di un anno fa sotto i miei occhi, è apparsa come una bellissima iniziativa che finalmente premia le tante donne di questa regione che lottano ogni giorno per una vita migliore, fatta di regole certe e solidarietà. La mia gioia si è spenta quando sul palco è salita l’assessore regionale Angela Robbe che nel suo discorso, fatto di vuote parole lanciate con arte al pubblico presente, ha elencato tutto quello che puntualmente ha disatteso nei miei confronti: far rete, condividere, avere coraggio e rivolgersi alle istituzioni…. Ha detto anche con orgoglio che oltre ad essere assessore regionale alle Politiche Sociali, ha anche la delega alle Pari Opportunità!

Cui prodest? Mi sono domandata, allibita da cotanta vanagloria e ostentazione dietro la quale si nasconde solo il peggio che certe donne esprimono quando tentano a tutti i costi di somigliare a uomini ambiziosi. Il discorso della Robbe poggia sul nulla ed io ne sono la testimone vivente. La incontrai a Roma in occasione del conferimento del Premio Camomilla. Violence on the Violence Against in the World 2018, consegnatomi per il mio impegno nel sociale dedicato alla lotta contro la violenza alle donne.

Forse perché in quel momento ero una ‘donna sul palco’ mi fece mille promesse, e mi recai con tanto di appuntamento ben quattro volte presso il suo assessorato alla Regione Calabria, per far ripartire la mia associazione, ma inutilmente.
Ho scritto altre mail anche ad un altra donna impegnata nel Consiglio Regionale, l’Onorevole Sculco a cui nessuno ha mai risposto, persino il Presidente Oliverio ha avuto l’opportunità di venire per altri suoi impegni a Crotone, ma mai un incontro con me, “la Regione ha bisogno di persone valide come lei, la contatteremo a breve” queste sono state le sue parole, ma io ancora sto aspettando.

Credo di esserlo una madre coraggio, una madre che per il suo impegno nel sociale ha perso un figlio nel peggiore dei modi: assassinato da un criminale espressione del malaffare della mia città, Crotone. Ancora oggi mi domando il perché e l’unica risposta che trovo è che il mio impegno dava fastidio, colpiva gli abbietti interessi di una criminalità capillare e senza alcuna pietà. Forse quel maledetto 13 gennaio 2018 ero io la predestinata dai colpi di pistola del pregiudicato Salvatore Gerace. O forse volevano solo mettermi paura perché la smettessi di aiutare donne in difficoltà, vittime della prostituzione e della droga. Quante ne ho aiutate, e per nessuna di loro lo Stato mi ha mai detto un grazie, hai agito con giustizia.

Quando ho incontrato Angela Robbe ormai travolta dal dolore per la morte di mio figlio, mi sono fidata ed affidata a lei e per l’ennesima volta mi sono poi scontrata contro la dura realtà, fatta di false promesse sotto i riflettori per poi vedermi abbandonata nel buio del mio dolore, con altri due figli da crescere senza alcun aiuto. Dov’è lo Stato, dove sono le istituzioni? Perché si nomina un assessore alle politiche sociali con delega alle Pari Opportunità se poi l’unica cosa che sa fare quando incontra un dramma come il mio è negarsi e disattendere ogni aspettativa? Non solo ogni giorno devo affrontare il dolore insormontabile di aver perso un figlio, ma ogni volta che ho chiesto aiuto mi è stata chiusa la porta in faccia, come se il crimine lo avessi commesso io. Ho sempre lavorato per mantenere i miei figli e qualche volta ‘in nero’, perché la mia regione di nascita e residenza offre poco o niente in termini occupazionali. Ma tiravo avanti. Dopo l’atroce delitto che mi ha strappato il figlio più grande, oltre al dolore e alla tragedia, nessuno mi ha mai più dato la possibilità di lavorare come prima, forse per paura. Così come nessuno si è preoccupato del trauma subito da mia figlia Benedetta che ha assistito all’omicidio di suo fratello Giuseppe. Benedetta da allora non riesce più ad andare a scuola, ma da nessuna istituzione mi sono sentita offrire un supporto psicologico per me e per la mia famiglia, oltre a Benedetta ho un terzo figlio di 13 anni. Ho scritto al presidente Mattarella che non si è degnato neanche di rispondere, figuriamoci di incontrarmi. Così come a Matteo Salvini, ministro degli Interni, si proprio lui, perché ogni giorno so che rischio la vita insieme ai miei figli. Il processo in corte d’Assise contro l’omicida di mio figlio Giuseppe è ancora in corso. E quindi mi domando perché? Cosa è che fa paura? E’ possibile che la ‘ndrangheta mi abbia fatto il vuoto intorno? E tutte le istituzioni che non fanno altro che vantarsi di lotta alla criminalità organizzata, dove sono quando c’è una donna inerme con due figli ancora vivi da portare avanti? Tutti bravi a riempirsi la bocca di belle parole ma poi mi accorgo che forse la criminalità è più potente dello Stato e chissà…forse lo domina. Durante la mia attività con l’associazione Libere Donne avevo già subito altri episodi di criminalità regolarmente denunciati: mi avevano danneggiato l’automobile, avevano messo un ordigno davanti alla sede associativa, successivamente avevano distrutto l’interno dei locali facendomi trovare la stanza piena di escrementi di animali, un chiaro messaggio mafioso. Sono certa che mio figlio è stato ammazzato per darmi il segnale definitivo, per bloccare la mia attività in aiuto di donne sole. Lui, Giuseppe, il mio immenso ragazzo di soli 18 anni, è una vittima della criminalità organizzata. Ma a nessuno interessa, nessun politico, nessun presidente, nessun ministro rende merito al coraggio di mio figlio che è morto per salvare la sua famiglia.

Oggi spinta dal significato della Giornata del Coraggio Femminile scrivo questa lettera a voi giornalisti per ricordare che io nonostante tutto non ho paura. Ma che accuso lo Stato di non aver saputo garantire la sicurezza per la mia famiglia e ancora oggi dopo il dramma della morte ingiusta e violenta di mio figlio Giuseppe, non garantisce il suo supporto ed aiuto. Un atto dovuto considerato il mio impegno nel sociale. Oggi l’associazione Libere Donne è aperta ma nel luogo dove si è consumato l’omicidio per paura nessuno si avvicina più, e sono costretta a fare i colloqui “nei bar”, e ad organizzare eventi “da casa” in quanto dopo un anno non abbiamo nessuna telecamera e siamo obbligati a chiuderci dentro con la chiave, quasi come carcerati per le altre tre minacce ricevute in quest’anno, dopo aver riaperto.
Io vivo una situazione di grave disagio in questo momento psicologico, organizzativo e lavorativo.

Non mi resta che chiedere ancora una volta un intervento da parte dello Stato per poter dare ai miei due figli un po’ di sicurezza e serenità, un atto dovuto, ripeto, in un caso come il mio. Come in tutti i casi in cui in una famiglia accadono atroci episodi di violenza difficili da superare senza un supporto psicologico, perché ogni vittima innocente di femminicidio, omicidio, violenza sessuale o altro, porta con sé il dolore e disagio di un’intera famiglia, lasciandosi dietro dei veri disabili nell’affrontare la vita futura. Oggi posso solo dire che la criminalità organizzata ha ottenuto quello che voleva, mi ha sconfitto e faccio appello alle istituzioni per ricevere aiuto e riuscire a fare il mio dovere di madre.

 

 

Fonte:  thesocialpost.it
Articolo del 5 dicembre 2019
Giuseppe, morto per proteggere la mamma: ergastolo per l’assassino
di Alessandra Rocchi

Era il 16 gennaio 2018 quando il giovanissimo Giuseppe Parretta perdeva la vita per mano di Salvatore Gerace. Giuseppe aveva appena 18 anni quando, senza esitare, si è messo tra sua madre e il suo assassino per proteggerla. Al suo assassino però un solo colpo non è bastato, infatti, secondo la ricostruzione di quanto accaduto, Gerace aveva sollevato da terra il ragazzo tirandolo per il cappuccio, pero poi sparargli un colpo letale al cuore.

Oggi la Corte di Assise di Catanzaro si è espressa in merito alla vicenda mettendo un punto fine.

Salvatore Gerace è stato condannato.
La Corte d’Assise di Catanzaro ha condannato in primo grado Salvatore Gerace all’ergastolo.

Al 57enne pregiudicato è stata riconosciuta l’aggravante della premeditazione. La richiesta era stata avanzata sia dal pm della Procura della Repubblica di Crotone Ines Bellesi, sia dalle parti civili.

Escluse le aggravanti di futili motivi e crudeltà, respinte le richieste perpetuate dalla difesa dell’impuntato che puntava alla legittima difesa e all’omicidio preterintenzionale.

Morto tra le braccia della mamma.
Giuseppe aveva 18 anni quando morì agonizzante tra le braccia di sua madre Katia. La donna aveva assistito alla scena, tutto si è svolto in pochissimo tempo, Salvatore Gerace entra in quella che era allo stesso tempo casa della donna e sede dell’associazione Libere Donne; vuole ucciderla perché tutto quel via vai rovina i suoi traffici.

Giuseppe si mette in mezzo, Gerace gli spara alle gambe, poi lo tira su da terra e gli spara al cuore. Il pregiudicato era convinto anche che il 18enne avesse fatto la spia ai carabinieri.

Giuseppe è morto così, mentre la mamma cercava disperatamente di rianimarlo ma senza riuscirci, di fronte agli occhi disperati delle sorelline più piccole, in quello che avrebbe dovuto essere un’oasi sicura per coloro che sono vittime di persone come Gerace.

Chi è Salvatore Gerace.
Il 57enne condannato in primo grado per la morte del giovane Giuseppe è un pregiudicato.
Salvatore Gerace gestiva traffici di droga nel suo appartamento, per questo il via vai di donne e non solo dal centro anti-violenza lo aveva messo in allarme e infastidito. Quel 16 gennaio lui era andato lì con l’intento di farla finita.