14 Settembre 1990 Casola di Napoli. Ucciso Paolo Longobardi, bambino di 8 anni.

Paolo Longobardi aveva solo otto anni e l’unica sua colpa era di essere figlio di un uomo forse affiliato o solo un conoscente di un affiliato ad un clan camorristico contrapposto ad un altro. Una lotta cruenta di cui il piccolo Paolo è la cinquantasettesima vittima in meno di due anni.
È accaduto a Casola di Napoli il 14 settembre del 1990.

 

 

 

Fonte: fondazionepolis.regione.campania.it

Un agguato in cui il piccolo Paolo e suo padre Antonio Longobardi, un netturbino di 36 anni, vengono massacrati con quattro colpi di fucile automatico da caccia: ecco la causa della cinquantaseiesima e cinquantasettesima vittima in meno di due anni della guerra tra il clan D’Alessandro e Imparato, combattuta per il controllo del territorio di Castellammare di Stabia.

Michele D’Alessandro dispone dal carcere di Poggioreale ogni mossa per rispondere al suo avversariio ed ex braccio destro Mario Umberto Imparato.
La polizia arresta il numero due degli Imparato, pochi giorni prima dell’agguato, e Umberto Imparato, per mostare il suo potere incontrastato, ordina l’assassinio di Antonio Longobardi.

In quel periodo basta anche una conoscenza non diretta a determinare una condanna a morte: è la strategia del terrore, si spara all’impazzata contro donne e bambini. Non potendo arrivare gli uni agli altri, i D’Alessandro e gli Imparato si fanno terra bruciata intorno.

Il killer si apposta sotto casa di Antonio Longobardi, dove Antonio e Paolo sono appena entrati per cambiarsi d’abito. Sono in una stanzetta piccola, poco più di venti metri quadri e sono l’uno accanto all’altro. Sono da poco passate le nove e, appena la luce s iaccende e si intravedono le ombre, il killer comincia a sparare all’impazata. Paolo era così vicno al padre che non poteva non essere colpito.

Antonio poteva essere ucciso con facilità, ogni giorno usciva da solo per svolgere il suo lavoro da netturbino, ma gli hanno sparato a casa sua, per dimostare forza, per dimostare all’avversario che questi poteva essere raggiunto ovunque e in qualunque momento.

Ora è rimasta solo Anna Maria, di 30 anni, distrutta dal dolore per aver perso il marito e il suo unico figlio. Paolo avrebbe frequentato la terza elementare e pochi giorni prima si era fatto comprare dal papà le avventure di Pinocchio. Al piccolo Paolo piacevano le favole e gli animali.

 

 

 

Fonte:  archivio.unita.news
Articolo del 14 settembre 1990
La camorra uccide un netturbino e il figlio di 8 anni
di Vito Faenza

Hanno sparato con fredda determinazione con i fucili caricati a pallettoni. Hanno sparato per uccidere e non hanno avuto nessuna pietà per il bambino di 8 anni colpevole soltanto di sedere accanto al padre nella stanza al piano terra della villetta di famiglia, a guardare la televisione.
È l’ennesimo delitto della camorra, l’ultimo di una lunga serie, ben 53, avvenuti nella zona di Castellamare di Stabia.

La dinamica del duplice omicidio è stata ricostruita sommariamenta dai carabinieri: i killer si sono avvicinati alla finestra della villetta dove abitava Antonio Longobardi, 36 anni, netturbino. La casa si trova in una strada periferica del piccolo centro. Nessuno ha notato niente. Così i fucili hanno sparato ripetutamente contro il malcapitato e suo figlio Paolo, di 8 anni appena. I killer sono poi fuggiti in auto. La madra del piccolo Paolo ha udito dalla cucina gli spari: è corsa nella stanza. Ha chiamato aiuto, ha avvertito i carabinieri. Ha chiesto aiuto ai vicini.

A bordo di un’auto il piccolo Paolo è stato portato al più vicino ospedale ma vi è giunto cadavere. Suo padre, anch’esso rapidamente soccorso da un vicino, respirava ancora al momento del ricovero. I medici hanno deciso di trasferirlo all’ospedale Cardarelli di Napoli, una struttura meglio attrezzata per gli interventi chirurgici d’urgenza. Anche questa corsa però è stata inutile. L’uomo e morto qualche istante dopo il suo arrivo nell’ospedale partenepeo.

Lo sgomento della gente è grande. Ma a questo stato d’animo si aggiunge quello degli investigatori che sono estremamente perplessi di fronte alla violenza dell’agguato. Castellamare, un’area insanguinata da una faida tra due clan della camorra: quello degli Imparalo e quello dei D’Alessandro. Uno scontro nato due anni fa quando Imparato, una volta amico del braccio destro dei D’Alessandro ha deciso di mettersi in proprio. Da allora e stata guerra con stragi, ferimenti, agguati, e vittime innocenti.

Gli investigatori proprio per questi pprecedenti non si sbilanciano: «Ogni pista potrebbe essere quella buona – affermano – anche quella di una vendetta pesonale, anche se non possiamo escludere che si tratti di un delitto di camorra. L’ennesimo». Anche se Antonio Longobardi risultava incensurato. Ma chi, se non una feroce banda di assassini può ammazzare un bambino di 8 anni? Tuttavia si indaga a tutto campo.

Nel giorni scorsi, a Napoli, la guerra della camorra per mettere le mani sugli appalli miliardari che il comune ha destinato alle imprese private impegnate nella raccolta dei rifiuti solidi, ha causato un primo grottesco effetto: dopo gli «agguati» ai camion della Nu, la polizia ha iniziato le scorte armate ai mezzi addetti alla raccolta delle immondizie. Anche questa è un’ipotesi.

Del resto su 53 delitti rimasti insoluti, avvenuti in questa zona dal 10 aprile del 1989 uno solo è stato risolto dagli inquirenti. È stato quando la vittima designata, sorpresa dai killer del clan avversario, al termine di una partita dei Mondiali, ha reagito al fuoco ed ha ucciso, prima di morire. uno degli aggressori. Degli altri delitti si sa poco o nulla, se non che sono inseriti nella tremenda faida che da anni sta insanguinando la zona in cui è nato il ministro degli Interni Antonia Gava.

 

 

Paolo Longobardi – archiviolastampa.it del 15 settembre 1990

Fonte: archiviolastampa.it
Articolo del 15 settembre 1990
Otto anni, ucciso abbracciato al padre
di Fulvio Milone
Riesplode la faida di Castellammare, la madre del piccolo: ora non voglio più vivere
Strage di camorra, 7 morti in 24 ore

CASOLA.

Hanno sparato all’impazzata, mirando a una sagoma indistinta che si muoveva dietro il vetro smerigliato di una finestra illuminata. I quattro colpi di fucile caricato a pallettoni sono risuonati come schiocchi di frusta nel silenzio della notte. Poi, dalla villetta immersa nel verde, si sono levate le urla di un uomo e di un bambino, mentre le luci si accendevano nelle case vicine e qualcuno telefonava ai carabinieri.

«Tutto secondo copione: un altro delitto in perfetto stile camorrista», commenta il vecchio maresciallo. Ma questa volta anche un ragazzino è finito sotto il tiro dei sicari scesi armi in spalla dai boschi del monte Cerreto, rifugio sicuro per i latitanti di Castellammare di Stabia, ma anche città che conta 57 morti ammazzati dall’88 ad oggi per una faida tra bande rivali. Paolo Longobardi aveva otto anni, e frequentava con profitto la terza elementare. A chi gli chiedeva cosa avrebbe voluto fare da grande, rispondeva senza esitare: «Il cacciatore». L’altra notte ha subito la stessa sorte del padre Antonio, 36 anni, netturbino: i pallettoni sparati con una lupara gli hanno squarciato il petto, in una villetta alla periferia di Casola, un vecchio borgo agricolo a una decina di chilometri da Castellammare di Stabia. Della famiglia Longobardi è rimasta solo Annamaria, 30 anni, madre di Paolo. Ma il medico che l’assiste la descrive come una donna che ha perso la voglia di vivere.

Il nome di Antonio Longobardi non compare in alcun rapporto giudiziario. Polizia e carabinieri non avevano mai sentito parlare di quel dipendente comunale dall’aria così schiva e pacifica. Eppure, la sua morte e quella del figlio sono da considerarsi l’ultimo atto della faida tra le cosche capeggiate da Michele D’Alessandro e Umberto Mario Imparato: 57 delitti in 24 mesi, una lunga catena di episodi di violenza che stringe in una morsa di paura Castellammare di Stabia e i Comuni confinanti, dove la camorra è decisa a imporre la sua legge. Proprio ieri, poche ore dopo il duplice omicidio, sarebbe dovuto arrivare il presidente dell’Antimafia Chiaromonte. La visita è stata rinviata per consentire al senatore di partecipare al funerale del leader comunista Giancarlo Pajetta. Ma gli inquirenti si sono riuniti nella caserma di Castellammare di Stabia, mentre dal resto della regione arrivavano notizie scoraggianti: in 24 ore la camorra aveva «firmato» 7 omicidi.

«Il fatto è che da queste parti ormai basta un piccolo sospetto perché sia decisa la morte di un uomo – spiega un investigatore -. Una semplice stretta di mano nella piazza del paese basta a farti iscrivere nell’elenco degli amici o dei nemici di questo o quel camorrista».

A chi aveva stretto la mano, Antonio Longobardi? Casola, 3 mila 700 abitanti, è un feudo della famiglia D’Alessandro, interessata ad allungare le mani sugli appalti per la costruzione del nuovo stadio e la risistemazione delle strade. La guerra contro il clan di Imparato cominciò proprio qui, davanti al Municipio dove siede il sindaco Antonio Del Sorbo, genero di Catello Cuomo, indicato dagli inquirenti come amico dei D’Alessandro. I sicari uccisero Luigi Sorrentino, fedelissimo di Umberto Mario Imparato che dopo un mese si vendicò con una strage: fece eliminare 4 uomini della banda rivale.

Da allora la guerra è continuata senza soste. Fino all’altra notte, quando anche un bambino ha pagato con la vita. Erano le 22,30. Paolo Longobardi aveva cenato da poco, ed era entrato nella sua camera da letto accompagnato dal padre, che lo aveva preso in braccio per dargli il bacio della buonanotte. Gli assassini, appollaiati sul muro di cinta della villetta, hanno sparato dopo aver visto la luce accendersi nella stanza. I vetri della finestra erano opachi, dalla loro postazione non potevano certo distinguere il bersaglio con precisione. Hanno mirato ad una sagoma scura, e hanno premuto il grilletto. Padre e figlio sono scivolati sul pavimento, coperti di sangue.

L’agguato dell’altro ieri a Casola è stato l’ultimo atto di una giornata nera per la provincia di Napoli, dove in sole ventiquattr’ore sono stati compiuti altri cinque omicidi. L’elenco delle vittime comincia con il nome di un piccolo camorrista: Giovanni Pecoraro, 28 anni, ucciso a revolverate in un vicolo dei «Quartieri Spagnoli». Poi è toccato a Umberto Poggione, giustiziato con un colpo di pistola alla nuca nel Comune di Somma Vesuviana. Le ultime tre vittime sono Pasquale Cirillo, 43 anni, contrabbandiere di Torre Annunziata, Alfonso Avagliano, ucciso a Cava dei Tirreni e il pregiudicato Alfonso Ramaglia, caduto in un agguato a Casoria.

 

 

 

 

Fonte: archivio.unita.news
Articolo del 15 settembre 1990
II massacro di Casola
Padre e figlio di 8 anni vittime della faida tra clan della camorra
di Mario Riccio

NAPOLI.  Polizia e carabinieri non hanno dubbi: il massacro di Casola, il piccolo comune agricolo alle falde dei monti Lattari, si inserisce nella sanguinosa    faida   che vede contrapposti i clan dei D’Alessandro e degli   Imparato, In guerra per il controllo delle attività illecite a Castellammare di Stabia e nei comuni vicini.  Gli investigatori sono convinti che a uccidere l’altra sera il netturbino Antonio Longobardi e suo figlio Paolo, di 8 anni, sono stati killer legati al super-latitante Mario Umberto Imparato. Il comune di Casola.  3.700 anime, economia   contadina, un po’ di pastorizia e qualche attività terziaria, è da sempre considerato feudo di Michele D’Alessandro. A controllare gli interessi del boss nel paese sarebbe Catello Cuomo, pregiudicato, detto   «’O Caniello», suocero dell’attuale sindaco dc Antonio Del Sorbo, che ha però sempre respinto le accuse.  Eppure proprio qui, nell’aprile dello scorso anno, fu ucciso il pregiudicato Luigi Sorrentino, uomo di Imparato. Un omicidio che dette il via alla faida che ha già provocato 57 morti.

Antonio Longobardi, 38 anni, nessun precedente penale, da quattro alle dipendenze del municipio, una grande passione per la caccia, da tutti descritto come un uomo tranquillo, forse ha pagato con la vita la sua amicizia con qualche elemento legato ai D’Alessandro.  «Oggi la lotta tra clan si è imbarbarita al punto che basta fermarsi per scambiare due parole con qualche pregiudicato per essere uccisi», dice quasi rassegnato un ufficiale dei carabinieri. La criminale aggressione è avvenuta l’altra sera, poco dopo le 22.

Antonio Longobardi, sua moglie Anna Maria Calabrese e il loro unico figlioletto Paolo di 8 anni sono nella camera da pranzo, al piano ammezzato di via Roma.  Al piano superiore della palazzina abitano anche i genitori dell’uomo.  Il bambino –  che frequentava la terza elementare – chiede al papà di accompagnarlo a letto. Longobardi prende in braccio il piccolo e si avvia in camera da letto. Una volta dentro la stanza, il netturbino accende la luce.  È il segnale che i killer, appostati sul muro di cinta che delimita la costruzione, stanno aspettando. I sicari sparano quattro cartucce caricate a pallettoni.

Paolo è colpito alla testa, il padre al volto e al torace. Dalla cucina Anna Maria sente gli spari. Di corsa la donna raggiunge la camera da letto, dove vede i corpi del marito e del figlioletto immersi in una pozza di sangue.  La donna ha solo la forza di chiamare aiuto, poi cade svenuta.  Saranno i vicini di casa a soccorrere padre e figlio.  Una inutile corsa verso l’ospedale San Leonardo di Castellammare di Stabia: Antonio e Paolo, infatti, muoiono durante il tragitto.

Nei prossimi giorni a Castellammare di Stabia la commissione Antimafia incontrerà i responsabili dell’ordine pubblico.  E intanto continuano gli scontri armati tra piccole bande in tutto il Napoletano, dove nelle ultime 24 ore i morti ammazzati sono stati 5. Senza contare  poi le quotidiane  intimidazioni  nei confronti  degli  addetti  alla  raccolta dei  rifiuti  nel capoluogo campano.

 

 

 

Articolo di La Repubblica del 15 Settembre 1990
LA CAMORRA SEMINA IL TERRORE UCCISO UN BIMBO DI 8 ANNI
di Emilio Piervincenzi

CASOLA (Castellammare di Stabia) – Sono vent’anni che faccio il poliziotto, ma quando ieri notte ho visto il volto sfigurato di quel bambino proprio non ce l ho fatta a trattenere le lacrime. Il fatto è che stiamo con le spalle al muro. Questa è una guerra e non so quanto siamo preparati a combatterla. Raimondo Fois, un poliziotto della Digos come tanti, appena uscito dal commissariato di Castellammare. Uno sfogo, il suo, condiviso dal piccolo esercito di agenti che stringe inutilmente d’assedio la cittadina vesuviana e che il brutale omicidio di Paolo, otto anni appena, è riuscito a sottrarre al silenzio imposto dalle rigide regole di polizia. E anche Piero Sassi, nemmeno un mese sulla poltrona del commissariato più scottante d’Italia, il volto tirato di chi non ha chiuso occhio per tutta la notte, non può che allargare le braccia: Un bambino, un’altra vittima innocente di questa maledetta faida.

Gli ordini dal carcere
Paolo Longobardi e suo padre Antonio: massacrati con quattro colpi di fucile automatico da caccia giovedì sera. Cinquantaseiesima e cinquantasettesima vittima in meno di due anni della guerra tra i clan D’Alessandro e Imparato, combattuta per il controllo del territorio di Castellammare, la città di Antonio Gava. Quattro morti nelle ultime due settimane. Michele D’Alessandro, accusato di essere il mandante di cinque omicidi, che potrebbe uscire di galera fra poco più di un mese per decorrenza dei termini, dispone dal carcere di Poggioreale ogni mossa di risposta al suo avversario ed ex braccio destro Mario Umberto Imparato, detto ‘o professore per aver frequentato l’università, che a sua volta gestisce il suo esercito di killer da uno dei suoi tanti rifugi sul monte Faito.

Alcuni giorni fa la polizia ha arrestato il numero due degli Imparato, Carmine D’Antuono. E ieri ‘o professore, per dimostrare di essere ancora saldamente in sella, per lanciare un messaggio inequivocabile al suo nemico D’Alessandro, gli ha ucciso un povero cristo di netturbino, 36 anni, incensurato, Antonio Longobardi, assassinando anche il figlio che ha avuto il solo torto di trovarsi accanto al padre al momento dell’agguato. È come ai tempi delle Brigate rosse, dicono i carabinieri di Castellammare di Stabia, cui spettano le indagini quando si uccideva un agente solo perché aveva la divisa. I D’Alessandro e gli Imparato ammazzano un uomo e chi gli sta vicino, chiunque esso sia e qualunque età abbia, solo perché magari è amico di un amico del clan avversario. Noi abbiamo dato un nome a questa folle guerra: la chiamiamo strategia del terrore camorristico. Fino a sei mesi fa i due clan si sparavano con una logica, colpendo degli obbiettivi precisi. Adesso si spara all’impazzata, contro donne e bambini.

Sia Imparato che D’Alessandro, non potendo arrivare l’uno all’altro, fanno terra bruciata intorno al proprio nemico. È ormai un bollettino di guerra che la camorra si premura di aggiornare continuamente. Questa volta il killer si era appostato sotto un ciliegio del giardino, a nemmeno venti metri di distanza dalla camera dove il bambino e suo padre erano appena entrati per cambiarsi d’abito. Una camera piccola, dove spogliarsi e rivestirsi si poteva fare solo a stretto contatto. Erano da poco passate le nove. È bastato che la luce s’accendesse, è stato sufficiente vedere un’ombra perché l’assassino premesse il grilletto. Quattro rose di pallini in acciaio supercorazzato, quelli usati per la caccia al cinghiale, per essere sicuri di non commettere errori. Paolo era così vicino al padre che non poteva non essere colpito. Se errore c’è stato, è stato quello di aver ucciso anche un innocente di otto anni. Ma questo, alla strategia del terrore camorristico, poco interessa. Ciò che conta è seminare paura. Antonio poteva essere ucciso con facilità: ogni giorno usciva alle quattro del mattino per spazzare le strade del suo paese. E sicuramente aveva poca gente attorno. Invece gli hanno sparato a casa sua proprio per dimostrare quanto sono forti, per dire all’avversario attento, ti posso raggiungere ovunque e in qualsiasi momento.

Colpiti alla testa e al torace, Antonio e suo figlio sono morti durante la corsa dell’ambulanza verso l’ospedale. Adesso, in questa misera casa appoggiata alle falde del monte Faito, sono rimasti soltanto i lamenti e le grida di Anna Maria. Trent’anni appena, distrutta dal dolore, è sdraiata sul lettino di Paolo, suo unico figlio. Una povera coperta militare le copre le gambe, il vestito nero ormai sgualcito, sul comodino la macchina radiocomandata del bambino. Gli occhi teneramente coperti da una donna china su di lei, le mani accarezzate dalle mani di una parente. Ripete sempre la stessa frase, a volte lentamente e dolcemente, altre volte rabbiosamente: E adesso che faccio, dio che faccio, sono rimasta sola…. Fuori, davanti alle scale, gli amici di Paolo piangono in un angolo: Gli piacevano gli animali e le favole, racconta trattenendo a stento le lacrime il piccolo Alfonso, suo compagno di classe (Paolo quest’anno avrebbe frequentato la terza elementare) e proprio l’ altro giorno si era fatto comprare dal padre Le avventure di Pinocchio. Gli volevamo tutti bene, era buono, spiritoso. Io e lui giocavamo spesso a casa mia col computer.

Il questore di Napoli, Vito Mattera, ha disposto un coordinamento più serrato fra i vari commissariati della zona. E si è detto sinceramente preoccupato. Ma le indagini difficilmente porteranno a qualche risultato. Da queste parti nessuno parla. Tantomeno a Casola, paesino di tremila abitanti, dove tutto ruota attorno alla figura di Catello Cuomo, 58 anni, luogotenente fidato di Michele D’Alessandro, padrone indiscusso della zona. Vive lussuosamente in una villa bunker, di cui si vedono soltanto il muro di cinta e le numerose telecamere fatte installare a ogni angolo. Ha una fedina penale di tutto rispetto, don Catello: quattro tentati omicidi (di cui uno commesso contro il padre, due contro carabinieri), denunce varie per usura. E nel febbraio scorso i carabinieri di Castellammare lo hanno proposto per l’applicazione della legge antimafia Rognoni-La Torre. Il genero è sindaco Suo genero, Antonio Del Sorbo, è sindaco dal 1983, da quando aveva 25 anni. Alle scorse elezioni, forse è un caso senza precedenti nel nostro paese, a Casola si sono presentate soltanto due liste composte da venti candidati complessivamente, tanti quanti ne occorrono per fare un Consiglio comunale: sedici sotto la bandiera Dc, quattro sotto quella di una lista civica, sempre di ispirazione democristiana. Tutti eletti, ovviamente. E lui, il sindaco, ha ottenuto un plebiscito: milletrecento voti su duemila votanti. L’opposizione, a Casola, non esiste. Qui c’è la pelle da difendere, e noi ci facciamo i fatti nostri, sussurra un uomo anziano, con un mozzicone di sigaro fra i denti, davanti al Circolo dei Cacciatori. I fatti nostri, in realtà, sono i fatti di Michele D’Alessandro. Ed è infatti questo il movente dell’omicidio di Antonio e Paolo Longobardi. L’uomo era molto amico del sindaco, che aveva aiutato alle elezioni. E per contraccambiare il favore, Antonio Del Sordo lo aveva fatto assumere in Comune, come spazzino. Essere amici di Del Sordo, qui a Casola, significa essere sottomessi al boss Cuomo, vassallo di D’Alessandro e dunque nemico giurato degli Imparato. E ‘o professore, giovedì sera, ha inviato il suo killer.

 

 

 

 

 

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