15 Dicembre 1983 Napoli, rione Siberia. Resta ucciso il bambino Luigi Cangiano, 10 anni, in uno scontro tra polizia e gente dei clan.

Foto da napolitan.it

Il 15 dicembre del 1983 nel Rione Siberia, un quartiere popoloso e fatiscente,  non lontano dal carcere di Poggioreale, Luigi Cangiano, dieci anni, rimane ucciso da un proiettile vagante.
Stava giocando con un gruppetto di amici, quando la polizia ed una banda di spacciatori si fronteggiano in un conflitto a fuoco.
Tre agenti della sezione narcotici della squadra mobile della questura, in abiti civili, bloccano due persone, trovate in possesso di un quantitativo di droga e di una pistola. Mentre gli agenti procedono alla loro identificazione, da un pianerottolo al piano ammezzato di un isolato adiacente, alcuni sconosciuti aprono il fuoco. Gli agenti rispondono con le pistole di ordinanza. Alla fine dell’intensa sparatoria  viene trovato sul terreno il corpo di Luigi, venutosi a trovare ”sulla linea di fuoco” e rimasto accidentalmente colpito da una o più pallottole.
Soccorso e trasportato immediatamente nell’ospedale ” Nuovo Pellegrini”, il piccolo muore dieci minuti dopo il ricovero.
Fonte: Fondazione Pol.i.s.

 

 

 

articolo da L’Unità del 17 Dicembre 1983  

Foto da L’Unità del 17 Dicembre 1983

Luigino, ucciso a 10 anni nella «guerra di camorra»
di Luigi Vicinanza

La tragica sparatoria del Rione Siberia, a Napoli
Chi ha sparato il proiettile «vagante» che ha raggiunto il ragazzino allo stomaco? La madre accusa gli agenti ma la questura dà un’altra versione – Un quartiere poverissimo

Stava scappando verso casa. Una pallottola vagante lo ha raggiunto allo stomaco, freddandolo sul colpo. Come a Beirut, è morto senza sapere neppure da che parte provenisse il proiettile. Si chiamava Luigi Cangiano. Aveva solo 10 anni. Era l’ultimo di dieci figli. È accaduto l’altra sera, poco dopo le 21, alla periferia della città , nel rione Siberia, un luogo di degrado e di miseria che nasconderebbe — secondo la polizia— il quartiere generale del traffico della droga controllato dalla «Nuova Famiglia».

Amaro destino quello toccato al piccolo Luigi: morto nel corso delia violenta sparatoria che una pattuglia in borghese della «squadra narcotici» ha ingaggiato con due o tre contrabbandieri i quali, armi in pugno, avevano tentato di liberare il fratello maggiore del bambino, Antonio Cangiano, 29 anni, arrestato qualche minuto prima sotto casa.
I poliziotti lo stavano portando via, insieme ad un altro giovane, Stanislao Spavone, quando qualcuno da un ballatoio ha cominciato a sparare. Un inferno durato qualche minuto al termine del quale Luigino è stato trovato faccia a terra, morto. Ma ormai in quel desolante «Far west» che è la periferia partenopea non c’è più pace, neppure per i bambini. In redazione, mentre scrivevamo questa cronaca, è giunta un’altra notizia inquietante. A Secondigliano, un quartiere della periferia nord-est, genitori e insegnanti della scuola media hanno proposto di ridurre l’orario delle lezioni del turno pomeridiano. Col buio, infatti, la zona diventa dominio di scippatori e tossicodipendenti che giungono persino a rubare le cartelle dei ragazzi.

Nel rione Siberia il clima di violenza diffusa e di intimidazione quotidiana non è diverso. Anzi l’avverti sulla pelle.
La polizia ha interrogato gli abitanti di un intero palazzo (quello da cui hanno sparato i contrabbandieri) e tutti hanno dichiarato di non aver visto e sentito nulla. Abbiamo domandato a più di venti persone notizie sull’episodio, ma come risposta abbiamo ricevuto un coro di «non so, io non c’ero». Tre uomini, che stavano sicuramente scambiandosi informazioni sulle perquisizioni effettuate successivamente dagli agenti, hanno negato persino di abitare li. È qualcosa di più dell’omertà. Assomiglia tanto all’oceano dentro cui guazza agile il pesce camorrista. Neppure la morte di un bimbo innocente sembra far mutare questo atteggiamento. Almeno cosi è in apparenza.
Pertanto l’unica versione della sparatoria è quella fornita dalla questura che tende ad attribuire ai malviventi l’uccisione del ragazzino. Di diverso avviso la madre della vittima, che urla il suo odio, con violenza, contro gli agenti: «Mi hanno ucciso il più piccolo e mi hanno arrestato il più grande», dice senza dubbi. Ma è inutile chiederle di più.

La famiglia Cangiano abita in uno di questi palazzotti del rione tutti uguali, grigi e scrostati: isolato 6, primo piano.
E’ gente povera, che si arrangia per campare. Il capofamiglia è Gennaro Cangiano, 55 anni, muratore presso una ditta che lavora per la ricostruzione. La moglie, Maria Sarnataro, 52 anni, vende con un furgone aranciate e Coca-Cola insieme a tante altre cianfrusaglie.
Va in giro per la città con quattro figli e il genero. Una famiglia costretta a vivere di espedienti, di mille mestieri, spesso al limite della legalità. Antonio, il maggiore, accusato di spaccio di droga, risulta ufficialmente disoccupato. È sposato, con due figli, ma da quando s’è beccato l’epatite virale, ha smesso anche il precario lavoro che faceva prima.

In casa Cangiano sono riuniti tutti i parenti, tutta gente del quartiere. C’è uno stuolo di ragazzini. Alcuni ancora in fasce, che neppure hanno capito che cosa è successo. La madre piange e si dispera. Ha il volto solcato da graffi profondi. Se li è fatti lei stessa per il dolore. Sfoglio un album di foto di famiglia. Ce ne sono un palo di Luigino; richiamano un momento felice, un battesimo di qualche nipote. I ricordi del figlio sono scarni: «Era il “pazzariello” della casa. Non stava mai fermo». E la scuola? Luigino nonostante avesse 10 anni faceva ancora la prima elementare. «La scuola non gli piaceva e le maestre dicevano che era troppo sfrenato».
E gli altri figli hanno studiato? «No, nessuno, solo Antonio ha fatto la V elementare». Come mai alle 9 di sera Luigi stava ancora per strada? «Gli avevo dato i soldi per andare a comprare i botti di Natale, i tric-trac. Quando ho sentito i colpì di pistola ho pensato che fosse lui che stesse giocando con gli amici». Invece in una pozza di sangue Luigino stava morendo. Sotto casa, sotto gli occhi del fratello, colpito probabilmente da una pallottola sparata da chi voleva che suo fratello non finisse in galera.
Ieri sera il rione era in subbuglio. L’impressione enorme. Il povero Luigino è rimasto vittima di un ingranaggio più grande di lui, dal quale — forse — tra qualche anno sarebbe stato catturato, come sbocco inevitabile di una fanciullezza difficile.

È un dato di fatto che la fitta rete di venditori di sigarette di contrabbando, che si incontrano ad ogni angolo di strada, si sta trasformando in supporto per lo spaccio dell’eroina. Il dettagliante guadagna poche lire, mentre il fornitore s’arricchisce. E in questo meccanismo, la vita di un bambino di dieci anni non vale più nulla.

 

 

 

La Stampa del 17 dicembre 1983

 

 

 

 

Articolo del 15 Dicembre 2011 da  raffaelesardo.blogspot.com   
LUIGINO CANGIANO, UCCISO COI SUOI SOGNI A SOLI 10 ANNI
di Raffaele Sardo

La storia di Luigino Cangiano, ucciso a soli 10  anni, la sera del 15 dicembre 1983, è una di quelle vicende tragiche difficile anche da ascoltare. E quando ti capita di ascoltarla, poi non ci dormi la notte.

La storia di Luigino è tratta dal mio libro Al di là della notte ed Tullio Pironti

«E chi se la scorda più quella sera… Sono passati ventisette anni, ma ho tutto impresso nella mente come se fosse accaduto ieri». Maria Sarnataro, la mamma oramai settantottenne di Luigino Cangiano, capelli bianchi e fisico appesantito, ricorda con lucidità i fatti e i particolari di quella sera. Tira fuori la foto di Luigino da una scatola di latta. È la stessa pubblicata su un giornale dell’epoca. La guarda e dice: «Eccolo qui, vedete?, mio figlio Luigino a dieci anni. È possibile che me lo abbiano ucciso così, senza una ragione?».

Luigino con la scuola non ci andava tanto d’accordo. Per lui era una perdita di tempo. Aveva dieci anni e frequentava ancora la prima elementare. Preferiva scorazzare per il suo popoloso quartiere con altri suoi coetanei. Si sentiva libero, senza vincoli, come un uccellino che vola tra i rami di un albero. La maggior parte del tempo lo impiegava a giocare a pallone con gli amici. Il calcio era la sua passione. Il suo sogno era quello di diventare calciatore e magari giocare proprio nella sua squadra del cuore, il Napoli. Abitava con la famiglia nel popoloso quartiere del rione Siberia, dalle parti di Poggioreale. Un quartiere che poco più di dieci anni fa è stato raso al suolo e gli abitanti trasferiti in case edificate in un altro rione a poche centinaia di metri.

Luigino abitava al primo piano di un casermone grigio, isolato 6. Tutt’intorno fiorivano attività illegali con tanta gente che faceva i mestieri più disparati per “arrangiarsi”, per cercare di arrivare al giorno dopo. La vita da quelle parti non garantiva il futuro, ma solo il giorno per giorno. Luigino era l’ultimo di dodici figli. Nella sua famiglia nessuno era andato a scuola. Solo il primo dei suoi fratelli, Antonio, ventinove anni, aveva fatto la quinta elementare. La mamma, Maria Sarnataro, cinquantadue anni, vendeva bibite e cianfrusaglie a bordo di un furgone. Girava per tutta la città per cercare di vendere la sua mercanzia, accompagnata da altri quattro figli. Il padre, Gennaro Cangiano, cinquantacinque anni, faceva il muratore a giornata presso una ditta impegnata nella ricostruzione del dopo terremoto. La tragedia si consumò quasi alle dieci di sera del 15 dicembre del 1983, quando mancavano pochi giorni al Natale.
Due poliziotti in borghese della sezione narcotici arrivarono nel quartiere a bordo di un’auto civetta. Cercavano spacciatori di droga. Bloccarono due persone in via Cannola al trivio, proprio davanti all’abitazione di Luigino. Gli agenti li perquisirono dopo averli identificati. Gli trovarono addosso quindici dosi di droga e una pistola. I due erano Antonio Cangiano, il primo dei fratelli di Luigino, e Stanislao Spavone, un ragazzo di venti anni. Antonio era disoccupato. Sposato con due figli. L’altro ragazzo, invece, era incensurato.

«Arrivarono all’improvviso», racconta la sua versione dei fatti Antonio Cangiano, oggi cinquantasei anni, mentre sorseggia un caffè nell’abitazione della mamma. «Io ero in auto con Stanislao Spavone, abitava anche lui nel quartiere. Ci fermarono e trovarono della droga nell’auto. Era di Stanislao. Era un forte consumatore, tant’è che è morto proprio di overdose. Io all’epoca facevo furti e altre piccole illegalità per andare avanti. Ma la droga no, non la toccavo. Ci perquisirono e ci diedero tante di quelle botte», dice con linguaggio colorito, «che ancora oggi non me le dimentico. Urlavamo perché il dolore era forte. Le nostre grida si sentivano anche nelle case. All’improvviso, poco più in là, dei ragazzini spararono dei mortaretti.
Mancava poco al Natale e in quel periodo si usava sparare i botti. I poliziotti, evidentemente, si impressionarono perché pensarono a colpi di pistola che qualcuno gli stava sparando contro. Tirarono fuori le armi di ordinanza e cominciarono a sparare a loro volta. Sparavano ad altezza d’uomo nella direzione in cui avevano sentiti i botti. Dal palazzo di fronte risposero al fuoco quando s’accorsero che da sotto c’era qualcuno che sparava contro di loro. All’epoca c’era molta tensione tra il clan della Nuova Famiglia e i cutoliani. I poliziotti erano senza divisa e così si generò un gran casino nato dalla tensione che c’era in giro».

E piange. Piange Maria Sarnataro e non sa darsi pace. Seduta in cucina nella sua casa popolare nel quartiere di Poggioreale, rivive la tragedia con la stessa sofferenza di ventisette anni fa. Le lacrime non si fermano. Urla, come se stesse urlando ai poliziotti. Si accalda. Si deve fermare mentre racconta perché le lacrime prendono il sopravvento. «Luigino era un bambino di cuore. Ogni tanto si presentava a casa con qualche ragazzino della sua età e mi chiedeva: “Mamma, gli dai un cioccolatino anche a lui? Mamma, pettina pure a lui. Mamma, abbraccia pure lui perché la mamma non ce l’ha”». «Guardate, guardate quant’era bello», dice mostrando una foto del ragazzino ucciso. E poi continua il racconto dove l’ha interrotto il figlio Antonio: «Avevamo appena finito di guardare in TV una puntata della telenovela Anche i ricchi piangono. Vennero a chiamarlo due suoi amichetti più piccoli. Abitavamo tutti su uno stesso pianerottolo. Erano case popolari. “Luigino, vuoi venire a comprare i botti?”. Lo lasciai andare con la promessa che sarebbero tornati subito. E mentre stavamo parlando in famiglia di come organizzare il pranzo di Natale, sentimmo delle grida provenire dalla strada: era mio figlio Antonio e l’altro ragazzo che chiedevano aiuto perché i poliziotti li stavano picchiando. La gente del quartiere cominciò a scendere in strada. Mia nuora venne ad avvisarmi per dirmi che i poliziotti avevano preso due persone. Potevano pure evitare di picchiarli nel quartiere davanti ai genitori e agli amici. Credo che sia naturale cercare di difendere il sangue del proprio sangue. Se proprio volete picchiarli, portateli in Questura, lontano da tutti e, come si dice: “Uocchie ca nun vede, core ca nun sente”  (“Occhio che non vede, cuore che non sente”)», cita un proverbio napoletano la signora Sarnataro. «Improvvisamente sentii sparare. Abitavamo al primo piano e i poliziotti erano a poco più di venti metri.

Gli agenti erano accovacciati dietro un muro da dove vedevo piccole fiammate uscire dalle pistole. Pochi attimi dopo vidi un ragazzino si era messo davanti ad altri due bambini per proteggerli dal fuoco delle pistole. Il ragazzino venne colpito. Si aggrappava vicino ad un’auto ma non ce la faceva a restare in piedi e cadeva a terra. Dissi: “Povera la mamma di quel bambino. Chissà chi dovrà piangere”. Maria Sarnataro si ferma ancora una volta. Scoppia in lacrime, abbassa la testa sul tavolo della cucina. Si tiene il petto. Riesce a dire tra le lacrime: «Quella mamma ero io e non lo sapevo». Non ce la fa a continuare il racconto. Il dolore è come se le arrivasse al viso e volesse uscire. La faccia diventa rossa. Prende la foto di Luigino che è sul tavolo della cucina e la guarda. La bacia. E nuovamente le lacrime le solcano il viso. Poi, piano piano, riprende a raccontare: «Uscì anche mio marito Gennaro che mi diceva: “Maria non scendere, è pericoloso”. “Ma lì c’è un bambino a terra, Gennà. L’hanno sparato, io non ce la faccio a stare qui. Devo scendere ad aiutarlo”. I poliziotti gridavano: “Signora, andate via, non scendete”. Ma io scesi con lo sdegno di una mamma, pur non sapendo che il bambino lì a terra era mio figlio. Quando mi resi conto che il corpo era quello di Luigino, mi prese la disperazione. “Figliu mio, figliu mio”, cominciai a gridare. Gli arrivai vicino, ma i poliziotti mi gridavano ancora: “Iatevenne! Iatevenne!”. Io non obbedivo. “Perché me ne devo andare? Lì a terra c’è il mio bambino. Non mi muovo da qui”.

Luigino stringeva ancora tra le mani i botti che poco prima aveva comprato per spararli insieme ai suoi amici. Il suo corpicino era rivolto faccia a terra ma si muoveva ancora. I poliziotti non mi volevano far avvicinare. Lo trattavano come se fosse un cane. Avete mai visto quando un cane viene investito da un’auto in mezzo alla strada?», cerca di spiegare Maria Sarnataro. «C’è sempre qualcuno che lo toglie da lì, lo mette sotto il marciapiede e aspetta che va in putrefazione per pulire tutto. E con mio figlio sembrava stessero facendo la stessa cosa. Ma quello era mio figlio, non era un cane». «Luigino rimase lì a terra inspiegabilmente per alcune ore», ricorda anche Antonio Novelli, classe 1973, coetaneo e amico del piccolo ucciso. «Rammento tutto molto bene di quella sera. Luigino fu sparato sotto il mio balcone. Stava a terra con un lenzuolo addosso, come se fosse morto. I poliziotti non facevano avvicinare nessuno. Poteva essere salvato». «Solo dopo la mezzanotte portammo Luigino in ospedale», riprende a raccontare l’anziana madre. «Lo presi in braccio e salii nell’auto dei poliziotti. Ci dirigemmo verso l’ospedale Don Bosco, al rione Doganella, ma la strada era interrotta. Così andammo verso il Loreto Mare. Mio figlio continuava a perdere sangue. Fu colpito ad un braccio e all’addome. Me lo sentivo morire in braccio. Lo accarezzavo, gli parlavo mentre il sangue continuava a colare sui miei vestiti. Finalmente arrivammo in ospedale, ma fu una corsa inutile. Morì una diecina di minuti dopo il ricovero. Il medico mi disse che era morto dissanguato e che, soccorso in tempo, si poteva salvare».

Ma la notte era ancora lunga. Di quelli che spararono contro gli agenti, nessuna traccia. Tutti scomparsi nel dedalo di abitazioni e strade del quartiere che di sera diventano nascondigli impenetrabili. «I poliziotti andarono casa per casa a fare i rastrellamenti. Sembrava come nelle Quattro giornate di Napoli. Io me li ricordo bene quei giorni», dice la signora Maria con le lacrime agli occhi, «quando i tedeschi giravano di casa in casa. E mi sembrava di vivere le stesse scene di allora».

Maria fu interrogata in Questura, dove c’era l’altro figlio, Antonio, arrestato insieme a Stanislao Spavone. «Mi tennero per molte ore in Questura insieme a mio marito. Prima mi fecero vedere mio figlio, Antonio, con la faccia tumefatta e piena di sangue. L’avevano picchiato. Poi volevano sapere da me chi avesse ucciso mio figlio. “Siete stati voi poliziotti. Siete degli assassini. Siete degli assassini”, gridavo forte. Poi mi calmarono. E uno di loro mi fece questo discorso: “Signora, voi avete un figlio morto e uno in carcere. Cercate di aiutare quello che è ancora vivo, perché per quello morto non c’è più niente da fare. Badate a quello che dichiarate”. Quel poliziotto voleva intendere: “Parlate e non abbiate paura perché se qualche delinquente vi ha pagato per farvi stare zitta e cambiare versione dei fatti, state sbagliando”. Io gli risposi con parole in dialetto napoletano: “I figli nun se venneno e nun s’accattano. ’O sangue è na radice. Comme scorre accussì s’acconcia”. Per dire che nessuno poteva comprare la mia versione dei fatti. Solo una mamma può capire cosa vuol dire perdere un figlio».

La ricostruzione della polizia, anche sulla base della posizione del corpo del ragazzo, aveva avvalorato in un primo momento l’ipotesi che il piccolo fosse stato colpito alle spalle da una pallottola degli sconosciuti che avevano sparato contro gli agenti. Sul luogo dove avvenne la sparatoria furono sequestrati oltre dieci bossoli calibro 7,65 sparati dagli sconosciuti con una mitraglietta. La polizia sparò con pistole calibro 9. «A mio figlio l’hanno ucciso i poliziotti», dice categorica la signora Maria Sarnataro, «e lo portano sulla coscienza. Perché se lo avessero portato prima al pronto soccorso, non sarebbe morto dissanguato». La perizia balistica agli atti del processo ha stabilito che furono i poliziotti a colpire Luigino. Nel giorno dei funerali in chiesa c’era una folla strabocchevole. La mamma, Maria, con il volto pieno di graffi. Se l’era fatti da sola. La disperazione la portava anche a questo. «Non avevamo nemmeno i soldi per fare il funerale», dice la signora Maria. «Dovetti farmi prestare un milione di lire per seppellirlo».

La morte tragica di Luigino scosse tutti. Al funerale parteciparono anche molti agenti della Questura di Napoli. Il quotidiano del Vaticano, «L’Osservatore romano», in un editoriale, il giorno dopo la morte del ragazzo, scriveva: «L’“abitudine” ad avvenimenti come la morte del piccolo Luigi Cangiano, colpito da un proiettile durante una sparatoria tra malviventi e polizia non può impedirci di pensare che in ogni città, in ogni quartiere, a qualunque ora del giorno e della notte tutti hanno diritto di vivere, di camminare, di parlare, di incontrarsi». E ancora: «In questa “abitudine” sta forse la tragedia più grave. E la morte di un ragazzino di dieci anni può forse almeno suonare come un campanello d’allarme per le nostre coscienze».

Luigino Cangiano, dieci anni, ora riposa in una tomba al cimitero di Poggioreale. Con lui, nello stesso loculo, da cinque anni c’è anche il padre, Gennaro. In pochi si ricordano di lui. «Gli amici della scuola popolare che frequentava dal parroco», dice la mamma, «ogni anno il 15 dicembre gli fanno dire una messa. Vengono qui a casa a prendermi e mi portano in chiesa con loro. Apprezzo molto questo gesto. Sono già ventisei anni che fanno questo». Per il resto, Luigino è solo nel ricordo della mamma e dei suoi numerosi fratelli. «Da grande voleva fare il calciatore», dice ancora la signora Maria, «ma quella sera con Luigino hanno ucciso anche i suoi sogni».

 

 

 

 

Fonte: napolitan.it
Articolo del 15 dicembre 2017

Napoli,15 dicembre 1983: Luigi Cangiano, un bambino di 10 anni, ucciso da proiettile vagante mentre gioca in strada

Rione Siberia (Napoli), 15 dicembre 1983 – Il Rione Siberia è uno dei tanti quartieri “grigi” e periferici di Napoli, poco distante dal carcere di Poggioreale.

Luigi Cangiano, detto Gigi, è un bambino di 10 anni, uno dei tanti della scuola della pace della Comunità di Sant’Egidio. Aveva smesso di andare a scuola ed aiutava la mamma che per mantenere la famiglia faceva la venditrice ambulante. Negli anni successivi al terremoto del 1980, molti bambini napoletani avevano abbandonato la scuola e Gigi era uno di loro. Per questo, la scuola della pace era una grande scoperta e un luogo di affetto e di pace. Gigi la frequentava con entusiasmo e lì stava imparando a leggere e scrivere.
Quel giorno giocava con un gruppetto di amici, quando scoppiò un conflitto a fuoco che vide coinvolta la polizia su un fronte e una banda di spacciatori sull’altro.

Tre agenti della sezione narcotici della squadra mobile della questura, in abiti civili, bloccarono due persone, trovate in possesso di un quantitativo di droga e di una pistola. Mentre gli agenti procedevano alla loro identificazione, da un pianerottolo al piano ammezzato di un isolato adiacente, alcuni sconosciuti aprirono il fuoco. Gli agenti risposero con le pistole di ordinanza. Alla fine dell’intensa sparatoria venne trovato sul terreno il corpo di Luigi, trovatosi sulla traiettoria di un proiettile e rimasto accidentalmente colpito da una o più pallottole. Soccorso e trasportato immediatamente nell’ospedale ” Nuovo Pellegrini”, il piccolo morì dieci minuti dopo il ricovero.

 

 

 

Fonte:  napolinews24.net
Articolo del 9 dicembre 2019
In memoria di Luigi Cangiano – “I bambini vogliono la Pace”
di Dario Catania

Sabato 14 Dicembre sarà ricordato Luigi Cangiano, con l’evento pubblico “i bambini vogliono la pace” aperto a tutti, presso la Galleria Umberto I di Napoli alle ore 16.30 organizzato dai “Giovani per la Pace” della Comunità di Sant’Egidio.

Interverranno: Il procuratore della Repubblica presso il tribunale dei minori di Napoli, Dott.ssa Maria de Luzenberger Milnernsheim; Marisa Iavarone, madre di Arturo, vittima ingiustificata della violenza delle baby Gang.

IL FATTO:

Il 15 dicembre 1983, Gigi fu vittima innocente di una pallottola vagante durante una sparatoria tra poliziotti in borghese e spacciatori, negli anni della spietata guerra fra bande di camorra, per il controllo del mercato della droga e di altre attività illecite.

Luigi Cangiano, chiamato Gigi, era uno dei bambini che all’inizio degli anni ’80 frequentava la Scuola della Pace della Comunità di Sant’Egidio del quartiere di Poggioreale di Napoli.

Gigi era un bambino esile e dimostrava meno anni di quelli che aveva. Dopo due bocciature in terza elementare aveva smesso di andare a scuola e aiutava la mamma, che per mantenere la famiglia, faceva la venditrice ambulante. Non sapeva né leggere né scrivere. I minori napoletani all’epoca versavano in una condizione, segnata dall’abbandono scolastico e dall’incuria, ulteriormente peggiorata dopo il terremoto del 1980.

La Comunità di Sant’Egidio aveva iniziato nel quartiere un doposcuola, che allora si chiamava Scuola Popolare (quella che poi è diventata la Scuola della Pace). Gigi, che non frequentava la scuola, fu attratto da quell’andirivieni di studenti e di bambini. All’inizio si fermava fuori, in attesa che qualcuno si accorgesse di lui, e per farsi notare, scavalcava la cancellata e bussava alla porta di ferro per entrare. Nacque così un’amicizia e Gigi cominciò a frequentare la Scuola Popolare, in attesa di iscriversi alla scuola per il nuovo anno scolastico. La Scuola Popolare fu per lui una grande scoperta, un luogo di affetto e di pace. Gigi ci andava con entusiasmo e lì stava imparando a leggere e scrivere.

Finalmente nel settembre del 1983 Gigi riprese la scuola. Purtroppo non durò molto.

Dal 15 dicembre 1983 la mano di Gigi non ha più bussato alla porta della sua scuola.

Erano le nove di sera quando il bambino, che stava tornando a casa dopo avere acquistato un po’ di caramelle da una bancarella, fu vittima innocente di una pallottola vagante durante una sparatoria tra poliziotti in borghese e spacciatori, negli anni della spietata guerra fra bande di camorra per il controllo del mercato della droga e delle altre attività illecite.

La morte di Gigi è una ferita che non si è mai rimarginata, continua a sanguinare ogni volta che una mano violenta spezza altre giovani vite. Una strage degli innocenti dove Erode prende il nome e le sembianze di chi, in tanti luoghi di conflitti e di guerra, continua a rubare anni di vita a tanti piccoli e innocenti esseri umani.

La morte di Gigi è stata un motivo per rafforzare l’amore per i più piccoli, colpiti dalla violenza cieca in maniera indiscriminata, soprattutto nei quartieri più poveri.

La sua vita ha reso più grandi i sogni della Scuola della Pace, più forti le intenzioni. Da allora la Scuola della Pace cerca di trovare una risposta ponendo le basi per un mondo più umano, dove non si ripeta la disumanità di morire a 10 anni per uno sparo.

 

 

 

 

 

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