15 Gennaio 1994 Acquaro (VV). Giuseppe Russo, giovane di 22 anni, scompare. Ucciso perché un boss della ‘ndrangheta non lo voleva come fidanzato di sua cognata.
Giuseppe Russo era un giovane di 22 anni. Fu rapito e ucciso ad Acquaro, in provincia di Vibo Valentia, il 15 gennaio del 1994. Il suo cadavere fu rivenuto in una fossa solo mesi dopo, il 21 marzo, e solo grazie alle rivelazioni di uno dei suoi assassini, che si decise a collaborare con la giustizia.
Le dichiarazioni dell’uomo permisero di appurare che il rapimento e l’omicidio di Giuseppe furono decisi da un boss della ‘ndrangheta che non accettava il fidanzamento del giovane con sua cognata. Nelle sentenze si parla di “visone distorta delle ragioni di onore familiare, tipiche di chi con atteggiamento mafioso vuole dimostrare la supremazia sul territorio”.
I pentiti, che poi sono anche gli esecutori materiali del delitto, appartenevano a una cosca della Piana di Gioia Tauro. In sede processuale hanno riferito che l’omicidio è stato compiuto da loro per fare un favore al boss che aveva ordinato il delitto.
Fonte: memoriaeimpegno.it
Nota da Dedicato Alle Vittime Delle Mafie (Facebook)
Ricordiamo GIUSEPPE RUSSO, vittima innocente della violenza ‘ndranghetista. nato il 29 agosto del 1972
scomparso di casa il 15-01-1994 (è anche la data del suo omicidio). Ritrovato il suo cadavere il 21-03-1994.
Ha vissuto ad Acquaro, prov. di Vibo Valentia.
La storia di Giuseppe, è la storia di un giovane di 22 anni che s’innamora di una ragazza, con la quale sta per iniziare un rapporto.
“Giuseppe di cognome andava Russo. Porta il nome di suo padre Giuseppe appunto, che morì, alla stessa età (22 anni), in un incidente sul lavoro quando ancora mamma era incinta.
Mamma, rimasta vedova, conobbe l’attuale papà, che non esitò a prendere anche Giuseppe e costruirono la loro famiglia.
Giuseppe scompare di casa il 15 gennaio del 1994. Era un sabato e uscì dalla casa di nonna dove era andato a dormire la sera prima perché da un periodo non stava bene, per andare a Vibo Valentia.
Quando all’ora di pranzo non tornò a casa, cominciammo a preoccuparci. Col passare delle ore e non avendo notizie, prima che facesse sera, avvisammo i Carabinieri.
Iniziarono subito le ricerche. Ma di Giuseppe nessuna traccia.
Passarono due mesi, quando il 21 marzo del 1994 in una località in aperta campagna nel Comune di Dinami, in una buca fu ritrovato il cadavere.
E’ stato possibile risalire al posto dove era stato sepolto, ”grazie” alla collaborazione di uno degli assassini, che si pentì e iniziò la sua collaborazione con la giustizia.
Questo collaboratore, che oggi vive ancora nei programmi di protezione, raccontò tutta la vicenda.
In seguito si “pentirono”altri due di loro.
I pentiti raccontarono e confermarono in sede di processo, che Giuseppe doveva morire perché il cognato di quella ragazza, un boss di una cosca del vibonese, non accettava questo fidanzamento, e quindi doveva fare un’azione eclatante per dimostrare a tutti “chi è che comanda sulla famiglia e sul territorio”.
Infatti, nelle Sentenze si parla di “visone distorta delle ragioni di onore familiare, tipiche di chi con atteggiamento mafioso vuole dimostrare la supremazia sul territorio” di sua competenza.
I pentiti, che poi sono anche gli esecutori materiali del delitto, appartengono ad una cosca della Piana di Gioia Tauro. In sede processuale hanno riferito che l’omicidio è stato compiuto da loro, per fare “un favore” al boss che aveva ordinato il delitto.
E’ risultato che le varie cosche fra loro si scambiano di questi “favori”.
Omicidi compiuti in altre zone che poi sarebbero stati ricambiati con altri omicidi.
“Favori”per “favori”.
La data del 21 marzo per noi è una Giornata particolare. E’ il giorno che con Libera li ricordiamo, ma è anche il giorno in cui è stato ritrovato il cadavere di Giuseppe Russo.
Nel mese di dicembre dello scorso anno, poco prima di Natale, un giorno ci arriva una lettera Raccomandata inviataci da uno Studio Legale.
Quella lettera è stata inviata per conto di uno degli assassini di Giuseppe, che dal carcere ha scritto una lettera a mano, con un memoriale.
Nella lettera viene raccontata e rivissuta fin nei minimi particolari tutta la fase che portò al delitto, attimo dopo attimo, l’omicidio, le sevizie fatte sul corpo di Giuseppe e l’occultamento del cadavere.
Nella lettera, questa persona ch scrive che ha avuto una condanna a ventuno anni di reclusione, chiede a mamma e alla famiglia il perdono. Chiede perdono perché si è macchiato di un delitto. Chiede pedono per aver partecipato all’omicidio di un ragazzo innocente.
Alla lettera non abbiamo ancora risposto. Abbiamo risposto il giorno che io stesso sono stato ospite della trasmissione ‘ A Sua Immagine’ di RaiUno, che noi non siamo nulla per dare perdono.
Non abbiamo mai parlato di vendetta, di odio, di rancore, di pena di morte o altro.
Nella Fede abbiamo meditato ed elaborato il nostro dolore. La nostra coscienza ci dice cosi.”
si ringrazia il fratello MATTEO LUZZA per la storia e per la foto di Giuseppe Russo
Articolo del 21 Aprile 2011 da mezzanioggi.wordpress.com
Racconti di vita storie di resistenza ed antimafia
Continuiamo, sempre più motivati, la nostra collaborazione con Libera, l’associazione antimafia presente da qualche anno anche sul territorio di Parma.
Lunedi 14 aprile, approfittando della presenza nella nostra città di Matteo Luzza, fratello di Giuseppe Russo, ucciso dalla n’drangheta 17 anni fa, abbiamo organizzato, insieme all’amministrazione comunale di Mezzani, un’assemblea pubblica per continuare a parlare di mafia ed antimafia, con lo scopo di informare e far conoscere il modus operandi mafioso, riscontrabile purtroppo in forme diverse, anche nella nostra Parma.
Conoscere è il primo passo per combattere, poiché la mafia teme più l’informazione delle forze dell’ordine.
Noi non ci tiriamo indietro e ringraziamo, come sempre, il referente di Libera Parma, Giuseppe La Pietra, che ci propone interessanti spunti di dibattito tenendoci aggiornati e procurandoci testimonianze e materiale su cui riflettere.
La serata di lunedi è stata incentrata appunto su una testimonianza, quella di Matteo Luzza, calabrese, proveniente da una famiglia che con la n’drangheta non ha mai avuto a che fare, sino ad un terribile 15 gennaio di diciassette anni fa, quando il fratello di Matteo, Giuseppe (detto Pino) di venti anni appena, sparì misteriosamente da casa, lasciando disperati e sgomenti i familiari.
Che fine aveva fatto Pino?
Di lui non si ebbero notizie per mesi, fino a quando la testimonianza di un pentito, fece finalmente chiarezza sulla scomparsa, e purtroppo sulla morte, del giovane calabrese (teniamo presente che il settanta per cento circa dei familiari di vittime di mafia non viene mai a conoscenza del nome dei mandanti dell’assassinio).
Pino fu rapito da alcuni sicari, portato lungo una ferrovia, buttato in una fossa, cosparso di benzina e dato alle fiamme; mentre il suo corpo bruciava qualcuno infierì sparando contro di lui.
Cosa poteva mai aver combinato Pino di così tremendo da meritarsi una fine di questo tipo?
La risposta è sconcertante ed incredibilmente banale; si era semplicemente innamorato della ragazza sbagliata, la cognata di un boss locale che per la giovane aveva invece già organizzato un matrimonio d’interesse per rafforzare i patti di sangue tipici dei rapporti tra famiglie mafiose.
Difficile per i familiari farsi una ragione per una morte così; dove trovare la forza di reagire in un paese dove l’indignazione per questi reati non è sentimento conosciuto a tutti?
Solo grazie all’incontro con Don Ciotti e la sua organizzazione Libera, Matteo ed i suoi genitori hanno trovato la chiave per andare avanti, capendo che l’unico modo per affrontare il dolore era diffondere e far conoscere, soprattutto ai giovani, la storia di Pino.
Ogni volta che Matteo racconta del fratello lo sente ancora presente, come se parlasse per sua volontà ed ogni volta che qualcuno lo ascolta, partecipando al suo dolore, alla sua rabbia, o solamente si mostra interessato a sapere, è come se lui e la sua famiglia fossero accolti in un abbraccio collettivo, caloroso e consolatorio.
Mezzani ha potuto donare a Matteo uno di questi abbracci e noi, di questo, siamo onorati e fieri.
Ringraziamo l’amministrazione comunale di Mezzani, sindaco ed assessori, per averci dato appoggio e strumenti per la realizzazione della serata.
Grazie a Matteo per l’importante testimonianza.
Invitiamo tutti i comuni che già non lo facessero, specialmente quelli limitrofi, a cogliere la grande opportunità di collaborare con Libera, abbandonando perplessità e paure infondate, perchè così facendo, donerebbero ai loro cittadini una possibilità enorme di arricchimento interiore.
Conoscere è imparare, condividere è crescere.
30 minuti – Russo: una morte innocente
LaC TV
Pubblicato il 30 ott 2015
Ucciso perché fidanzato con la cognata di un boss che per lei aveva altri progetti. È avvenuto nel 1994 il drammatico e barbaro omicidio del giovane Giuseppe Russo. Ne parliamo con il fratello Matteo Luzza, attuale coordinatore regionale di Libera Memoria.
Fonte: ilmanifesto.it
Articolo del 1 luglio 2016
Assassini di innamorati
di Angelo Mastrandrea
Mafie. Storia di Giuseppe Luzza, il ventiduenne trucidato dalla ’ndrangheta perché amava una ragazza che, per sua sfortuna, era la cognata di un boss del vibonese. La concezione proprietaria della donna radicata nella cultura diffusa mafiosa
A 22 anni, l’esistenza di Giuseppe Luzza poteva essere riassunta in un solo aggettivo: irreprensibile. Per quale motivo, dunque, il giovane scomparve nel nulla, il 15 gennaio del 1994? L’unica foto che circola in rete lo vede in posa a torso nudo, probabilmente al mare, il volto poco più che adolescente, sereno, sotto una folta capigliatura scura. All’epoca era innamorato di una coetanea, a sua volta imparentata con un boss della ‘ndrangheta: Antonio Gallace, uno dei protagonisti della cosiddetta «faida delle Preserre vibonesi» tra i comuni di Gerocarne e Acquaro, ancora oggi non sopita del tutto. Da quasi trent’anni affiliati, familiari e a volte persone innocenti vengono catturati, portati nei boschi, interrogati sotto tortura, massacrati e sepolti senza lasciare tracce, andando a ingrossare le fila dei desaparecidos di casa nostra. Il 28 settembre del ’93, pochi mesi prima di Giuseppe Luzza, era toccato a Placido Scaramozzino, di professione parrucchiere: fu sequestrato, tramortito a colpi di zappa e, a detta di un pentito che aveva partecipato al rapimento, sepolto in una fossa scavata per l’occasione mentre ancora respirava.
«La zona del vibonese è conosciuta come quella dove le persone spariscono senza lasciare traccia», scrive Umberto Ursetta nel suo Vittime e ribelli, un libro nel quale ricostruisce numerosi casi di femminicidi e omicidi legati al codice d’onore della ‘ndrangheta: donne uccise perché tradivano il marito in carcere o perché volevano evadere dalla gabbia della logiche mafiose, uomini spariti nel nulla perché amanti della donna sbagliata, coppie di amanti trucidate per gli stessi motivi. Un lungo elenco che ha il suo acme nella scomparsa, a Milano e non in Calabria, di Lea Garofalo da Petilia Policastro, cittadina di minatori e ‘ndranghetisti, portata in televisione da Marco Tullio Giordana, ma pieno di vittime non assurte agli onori della cronaca: Annunziata Pesce da Rosarno uccisa dal fratello perché sospettata di tradire il marito, Giuseppina Stricagnolo di Cirò fatta ammazzare dal consorte detenuto in Germania, Francesca Bellocco da Rosarno eliminata dal figlio a causa di una relazione extraconiugale. Di Santino Panzarella da Acconia, frazione di Curinga, che aveva circuito la moglie del boss Rocco Anello che aveva il compito di proteggere, sarà ritrovata solo una clavicola nel luogo dov’era stato sepolto.
L’unico torto di Giuseppe Luzza fu quello di essersi innamorato di una ragazza che, per sua sfortuna, era la cognata del boss Gallace di Gerocarne, un piccolo comune del vibonese. Il codice di ‘ndrangheta non contempla i matrimoni misti con ragazzi “normali”, che provengono da una famiglia non affiliata, e neppure ha cancellato il delitto d’onore, come solo nel 1981 aveva fatto il diritto penale italiano. Inoltre, per la giovane erano già state stabilite nozze d’interessi con il rampollo di un’altra famiglia malavitosa, che sarebbero dovute servire a rafforzare i rapporti con quest’ultima. Per questo Luzza era un ostacolo che andava rimosso.
Boschi insanguinati
Ancora oggi, a caso risolto, Matteo non si stanca di raccontare quello che accadde a suo fratello, due anni più grande di lui. Erano cresciuti insieme e per lui andare in tutta Italia a raccontare la sua storia e impegnarsi contro la ‘ndrangheta che voleva cancellare ogni traccia della sua esistenza è un modo per continuare a tenerlo in vita. Lo ascolto a Polistena, nel palazzo confiscato ai boss Versace e consegnato alle associazioni antimafia, tra le quali Emergency che vi ha aperto un ambulatorio per gli africani di Rosarno e Libera, della quale lui stesso è referente per la Calabria. Non omette i particolari, ormai diventati verità giudiziaria grazie al fatto che tre dei sette componenti il commando che il 15 gennaio del ’94 lo prelevò da casa sua ad Acquaro, inviati dalle cosche della Piana di Gioia Tauro in uno “scambio di favori” con quelle del vibonese, si sono pentiti, svelando dettagli e retroscena dell’agghiacciante omicidio. Tra questi, pure il killer al quale fu affidato il compito di dare il colpo di grazia a Giuseppe: un ragazzo di 17 anni al suo “battesimo di fuoco”, una “prova di coraggio” necessaria per cominciare la carriera nell’organizzazione malavitosa.
A Giuseppe Luzza, condannato a morte dalle cosche perché non era uno di loro, fu riservata una sorte analoga a quella toccata pochi mesi prima al parrucchiere Scaramozzino: «Portarono mio fratello fra i boschi, scavarono una fossa e lo buttarono dentro, cospargendolo di benzina. Mentre bruciava vivo, i più grandi misero una pistola in mano al minorenne e gli chiesero di fare fuoco». Il killer gli scaricò addosso l’intero caricatore, superando la prova del fuoco di uccidere un altro uomo senza mostrare esitazioni. Poi riempirono la fossa di terra e ricoprirono il cadavere affinché i poveri resti non fossero mai più ritrovati. Il caso sarebbe stato archiviato come l’ennesima lupara bianca se, appena due mesi dopo, uno degli autori dell’efferato assassinio non si fosse pentito e avesse fatto ritrovare il corpo indicando agli inquirenti dove scavare. Era il 21 marzo del 1994, primo giorno di primavera. Una giornata che sarà poi consacrata da Libera alle vittime innocenti delle mafie.
Questioni d’onore
Al processo, tre pentiti del commando che aveva sequestrato Giuseppe Luzza, tra i quali il ragazzo di 17 anni che aveva finito il ventiduenne di Acquaro, hanno raccontato che Antonio Gallace non aveva accettato il fidanzamento della sorella di sua moglie con un “ragazzo normale” e aveva deciso un’azione eclatante per dimostrare «chi comanda sulla famiglia e sul territorio». Nella sentenza che ha condannato quest’ultimo all’ergastolo come mandante dell’assassinio si parla di «visione distorta delle ragioni di onore familiare». Il vocabolario mafioso la indica con un sostantivo, «dignitudine», che non è altro che un sinonimo di «reputazione ‘ndranghetistica». Se un affiliato la perde, si sgonfia tutto d’un colpo: non è più un uomo di rispetto e svanisce qualsiasi timore reverenziale nei suoi confronti. È l’adesione a queste regole, oltre a una concezione proprietaria della donna, che spinge a commettere efferate uccisioni. Sull’adesione al codice d’onore e sul maschilismo di cui la ‘ndrangheta, secondo l’esperto di mafie Antonio Nicaso, è «la più sicura roccaforte», si innestano poi gli immancabili affari, vera ragion d’essere delle cosche malavitose. Per non veder compromesso tutto ciò, Gallace ordinò l’eliminazione del giovane fidanzato della cognata.
Il killer chiede perdono
Ventidue anni dopo, il killer all’epoca diciassettenne è stato condannato a 21 anni di reclusione e dal carcere lo scorso Natale ha pure inviato una lettera alla famiglia invocandone il perdono. La famiglia Luzza se l’è vista recapitare a sorpresa e Matteo è convinto che l’assassino, «se avesse avuto un lavoro e l’opportunità di frequentare una biblioteca», forse non avrebbe ucciso suo fratello. Come a dire che la sottocultura che alimenta la ‘ndrangheta si sconfigge a scuola e offrendo opportunità ai giovani, sottraendoli a un destino segnato.
Piuttosto, quello che ha fatto più male alla famiglia Luzza è stato l’atteggiamento di molti loro concittadini: «In paese dicevano che Giuseppe non si era fatto i fatti suoi, che era andato a donne o che comunque qualcosa doveva aver fatto per essere stato punito in quel modo», quasi a giustificare i carnefici e colpevolizzare le vittime facendo loro «provare un senso di vergogna». È anche su questa capacità di invertire l’onere di attribuire le responsabilità che si regge il controllo sociale, e dunque il potere, delle organizzazioni mafiose.
Fonte: memoriaeimpegno.it
Postato il 14 gennaio 2017
Perchè sono vivi – Il ricordo di Giuseppe Russo
Era un sabato quel 15 gennaio.
Pino uscì di casa. E non vi fece più ritorno. Per lui, e su di lui, le forze del male avevano concentrato le attenzioni.
Per Pino, ‘altri’ avevano pensato e immaginato che la sua morte avrebbe portato loro un ritorno in termini di ‘potere’ e ‘onore’.
La chiamano dignitudine.
“Dimostrare di avere il controllo sulla famiglia equivale a dimostrare di avere il controllo sul territorio” – “parlano così tra di loro, parlano dell’onore e della dignitudine, cioè della considerazione che gli altri hanno di te; la dignitudine è quella sorta di intersezione tra i concetti di onore e di riconoscimento pubblico e privato….la dignitudine è ciò che deve essere tutelato nella percezione altrui” (Onore e Dignitudine – Falco Editore-Garofalo/Ioppolo).
Pino vittima innocente di questa mentalità. Una sub – cultura mafiosa che storpia il vero significato dei termini e delle parole, per conseguire consenso. Usare strategicamente la violenza, colpendo un ragazzo innocente, per conseguire “potere, onore e dignitudine”.
Dopo quel tragico evento, nulla è stato più come prima.
Per me, che cresciuto all’ombra di Pino, (lui più grande di me di due anni), è stato come perdere parte della tua stessa vita ed esistenza.
Siamo cresciuti in simbosi. I ricordi. Le uscite. Le piccole liti… ma Pino per me era il ‘leader’.
E’ successo a tutti noi che abbiamo avuto un fratello maggiore. Ricordo che quando litigavo da bambino con i coetanei… “beh ora lo dico a Pino. Pino mi difenderà”. Lui è più forte.
Ricordi ed emozioni che sono sempre lì. Che ti tormentano le notti.
Che ti rincuorano allo stesso tempo, per il sol fatto che ci sono. I ricordi appunto. La memoria.
Il tragico evento, che ti cambia. Ti trasforma. Ti fa provare tanta rabbia, tanto dolore. Tanti perchè… “perchè a noi, perchè alla nostra famiglia. Perchè a Pino”.
E il dopo.
I giorni dopo. I mesi dopo. Gli anni dopo.
I giorni dopo, fatti di lacrime. Silenzi. Dolore.
I mesi dopo, fatti di prime elaborazioni. E più i mesi passano più questa tua metamorfosi si manifesta. Inizi, o meglio, riesci, con fatica, con dolore, a far uscire dalle tue labbra qualche piccola sommessa parola su di lui. Ma funziona come il mantice della fisarmonica. A piccole aperture, seguono veloci chiusure.
Parli di lui… ma subito ti chiudi. E nuovi silenzi.
Gli anni dopo, fatti di tante cose belle. E’ vero. Quando uccidono un familiare, anche il resto della famiglia viene colpito a morte.
Ma la straordinarietà del dopo è altro.
Se hai la fortuna di incontrare sul tuo cammino persone speciali.
Altri che come te hanno subito lo stesso dolore e le stesse sensazioni ed emozioni.
Se hai la fortuna di incontrare sul tuo percorso tanti bei volti e tante belle persone.
E da loro e con loro, tutti quei perchè impari a trasformarli in altro.
Si trasformano in impegno. Impegno a tenere viva e alta la memoria che non va assolutamente dispersa. Memorie, evvero sì, private, ma che messe tutte assieme, diventano per forza di cose, per dovere e senso civico, memorie collettive.
Sarebbe peccato mortale e grave, ucciderli una seconda volta.
La si darebbe vinta alle forze del male, che preferiscono il silenzio e la rassegnazione.
Ti rendi conto che tutti quei perchè, non restituiscono dignità alcuna nè a Pino nè a tutte le vittime innocenti della criminalità organizzata.
Quei perchè devono per forza diventare altro. Devono essere altro.
E appunto il ‘dopo’. Il dopo fatto di percorsi. Il dopo fatto di impegno. Il dopo fatto di un camminare lungo i sentieri della speranza per ribadire sempre con forza che vince sempre la vita. Vince sempre il bello. Vince sempre la voglia di fare di più.
Il dopo fatto di voglia di mettersi in gioco. Il dopo fatto di belle esperienze che vivi e costruisci.
Il dopo fatto dai volti e dagli sguardi di centinaia e centinaia di ragazzi che incroci, che dicono una cosa sola.
Ci siamo. Siamo con voi. Siamo vicini al vostro dolore e assieme possiamo essere comunità. Fare rete. Elaborare e definire programmi e progettualità per costruire una società più attenta e più responsabile.
Il volto e lo sguardo di altrettanti ragazzi e adulti, che nel percorso della loro vita hanno sbagliato e stanno pagando per le conseguenze di quegli errori.
E anche lì, una parola di speranza. Si parla. Si chiacchiera. Ci si racconta e si racconta un dramma e un vissuto.
E si ascolta. Si ascoltano storie e altrettanti drammi.
E ci si sforza di capire. Comprendere il percoso riparativo. La pena.
Tutto ha un senso.
Il senso per me, di non vedere dall’altra parte solo la persona che ha sbagliato. Solo il criminale. Solo l’assassino.
Ho bisogno e abbiamo bisogno di non alzare muri.
Ho tantissimo rispetto della sensibilità e dei percorsi dei miei cari amici e fratelli e sorelle, familiari di vittime innocenti della criminalità che vivono in altro modo situazioni così. Le comprendo. Le accetto. Gli voglio bene.
Io sento solo il bisogno, da persona che vive una comunità, quale è Libera, di andare oltre con lo sguardo. Con la mente. Con il cuore.
Andare oltre quella barriera, per non precludere e me stesso, a Pino e a tutti quei nomi e quei volti la possibilità di guardare l’infinito fatto delle tante cose belle di cui prima.
Perchè sono ancora vivi. Sono vivi in noi. Sono vivi con noi e per noi.
Sono vivi in quell’infinito fatto di speranza e civiltà.
Matteo Luzza
fratello di Giuseppe
Chi era Giuseppe Russo
Giuseppe Russo era un giovane di 22 anni. Fu rapito e ucciso ad Acquaro, in provincia di Vibo Valentia, il 15 gennaio del 1994. Il suo cadavere fu rivenuto in una fossa solo mesi dopo, il 21 marzo, e solo grazie alle rivelazioni di uno dei suoi assassini, che si decise a collaborare con la giustizia.
Le dichiarazioni dell’uomo permisero di appurare che il rapimento e l’omicidio di Giuseppe furono decisi da un boss della ‘ndrangheta che non accettava il fidanzamento del giovane con sua cognata. Nelle sentenze si parla di “visone distorta delle ragioni di onore familiare, tipiche di chi con atteggiamento mafioso vuole dimostrare la supremazia sul territorio”.
I pentiti, che poi sono anche gli esecutori materiali del delitto, appartenevano a una cosca della Piana di Gioia Tauro. In sede processuale hanno riferito che l’omicidio è stato compiuto da loro per fare un favore al boss che aveva ordinato il delitto.
La mafia uccise l’amore, la storia di Pino Russo
LaC Dossier – 14 dicembre 2017
Morire a ventidue anni, agnello sacrificale di una logica di ndrangheta atavica e surreale ma ancora pulsante, per essersi innamorato della cognata di un boss destinata ad un altro. Questa è la storia di Pino Russo, ragazzo di Acquaro pulito, onesto, lavoratore, condannato senza processo dal Tribunale della ‘ndrangheta perché di ostacolo alla costruzione di nuovi intrecci e alleanze criminali.
Fonte: quotidianodelsud.it
Articolo del 21 maggio 2018
Proiettili per la famiglia di una vittima di mafia
Minacce shock per i congiunti di un giovane vibonese
VIBO VALENTIA – Una busta con proiettili è stata recapitata questo pomeriggio all’abitazione di Acquaro, nelle Preserre Vibonesi, della signora Teresa Lochiatto, madre di Giuseppe Russo, ucciso il 15 gennaio del 1994, riconosciuto vittima di mafia. La donna, ha ricevuto la busta chiusa consegnata dal postino, intorno alle 14,30 e alla vista dei proiettili si è subito messa in contatto con i carabinieri di Arena per sporgere denuncia.
Pino Russo, fu ammazzato poco più che ventenne, per essersi innamorato di una ragazza, sorella del boss Antonio Gallace, oggi all’ergastolo con sentenza resa definitiva dalla Corte di Cassazione. Il giovane fu ucciso brutalmente dai killer della Piana. Dopo essere stato stordito fu gettato in una buca, cosparso di benzina e bruciato insieme a dei tappetini di gomma d’auto e, ancora non soddisfatti, i killer a turno sparavano sul suo corpo.
Russo scomparve il 15 gennaio 1994. Il 21 marzo successivo il suo corpo fu ritrovato in una buca nella campagna di Dinami su indicazioni dell’esecutore materiale del delitto, nel frattempo diventato collaboratore di giustizia.
Fonte: ilvibonese.it
Articolo del 31 marzo 2019
“Finalmente Libera”, a Vibo la pièce teatrale in ricordo di Pino Russo – Video
di Stefano Mandarano
Il giovane di Acquaro ucciso 25 anni fa per aver intrapresa una relazione con la cognata del boss Gallace. Gli alunni della scuola “Murmura” hanno messo in scena l’opera nell’auditorium del liceo “Morelli”
Ucciso per amore. Innamorato della donna sbagliata che, nelle mire della ‘ndrangheta, doveva essere il gancio per stringere nuove alleanze e creare nuovi ponti all’interno della rete della criminalità organizzata. Giuseppe Russo aveva solo ventidue anni quando scomparve misteriosamente dopo avere iniziato da poco a frequentare la cognata del boss Gallace. Un amore impossibile finito ancor prima di iniziare. Stroncato dai metodi mafiosi. La storia del giovane di Acquaro è rivissuta in una rappresentazione messa in scena nell’auditorium del liceo “Morelli” dagli alunni dell’Istituto comprensivo “Murmura” di Vibo Valentia nella ricorrenza del 25esimo anno dalla sua morte.
Quelle ore terribili. Uscito di casa per andare a Vibo, Pino non avrebbe mai fatto ritorno dai suoi cari. Si sarebbe scoperto solo dopo, grazie ad un pentito, che era stato attirato in una trappola, ucciso con un colpo di pistola alla testa, gettato in una buca, il suo corpo dato alle fiamme. E mentre il fuoco ardeva, sparato ancora, per sfregio. Due mesi dopo i suoi resti sarebbero stati ritrovati in una zona impervia di Monsoreto di Dinami. È l’ex latitante Gaetano Albanese a confessare e a riconsegnare alla famiglia ciò che rimane del corpo di Pino. È lui a raccontare quanto era accaduto, delle dinamiche messe in moto da quell’amore ancora acerbo, appena sbocciato tra Pino e la giovane cognata del boss. Sempre lui a permettere che la vicenda non divenisse l’ennesimo caso di lupara bianca. Condannati mandanti ed esecutori, la famiglia non ha mai smesso di parlare, di raccontare quanto accadutole, di portare il suo messaggio di legalità. Matteo Luzza, fratello di Pino, è responsabile regionale di Libera Memoria, che si occupa proprio di onorare il ricordo delle vittime di mafia. Grazie a lui il nome di Pino continua a risuonare in tutta la Calabria e in tutta Italia.
Leggere anche:
vivi.libera.it
Articolo del 14 gennaio 2020
Pino Russo. Amore oltre la ‘ndrangheta
di Maria Joel Conocchiella
” […] Lo uccidono, inveiscono sul corpo e lo gettano in fosso.
Un messaggio eclatante: il boss deve mostrare di avere il controllo sulla sua famiglia e quindi, sul territorio. Non c’è spazio alla spensieratezza di un primo amore vissuto tra i vicoli stretti di quella cittadina nell’entroterra calabro, di quei sorrisi accennati e la fierezza di un giovane uomo che si affaccia alla vita.
Pino è colpevole d’amore. […]”
vivi.libera.it
Giuseppe Russo
Pino è un ragazzo calabrese pulito e perbene, ucciso ad appena 22 anni per un distorto senso dell’onore, punito per un amore concepito come merce di scambio da sacrificare sull’altare degli interessi e del potere criminale.