15 Maggio 1985 Verona. Si è suicidato Marco Padovani, 28 anni. Era stato rapito il 13 Dicembre del 1982 e tenuto segregato, al buio, fino al 23 Maggio del 1983, in una grotta sull’Aspromonte. Suicidio per mafia.

Marco Padovani aveva 26 anni, quando il 13 Dicembre del 1982 era stato rapito da un commando a Brendola (VI), davanti all’industria di laterizi del padre, e portato in Calabria, tenuto in prigionia in una grotta sull’Aspromonte, senza poter parlare con qualcuno o vedere la luce, se non quella di un flash per una foto poi fatta recapitare ai genitori. Era stato liberato il 23 Maggio dell’anno successivo. Aveva cercato di riprendere a vivere ma non ce l’ha fatta. A pochi giorni dall’anniversario della sua liberazione, il 15 Maggio 1985, si è tolto la vita lasciando questo messaggio: “Non credevo che l’esaurimento nervoso fosse una bestia così brutta. Vado a cercare la pace in un altro mondo, vado a Bardolino: un posto che come nessun altro mi ha dato pace”

 

 

Articolo del 18 Maggio 1985 da ricerca.repubblica.it
‘ME LO HANNO UCCISO QUEI TERRIBILI MESI IN MANO AI RAPITORI’

di Enrico Bonerandi

VERONA – “Marco, perchè mi hai lasciata sola? Barbara”. La ragazza con la camicetta di pizzo e la gonna lunga, un paio di occhialoni da sole in mano, gli occhi rossi di lacrime, segue in silenzio il feretro ornato di garofani. Piange sommessa, senza alcuna teatralità, struggente come il necrologio che ha scritto per il suo fidanzato suicida. Si dovevano sposare, Barbara e Marco, stavano insieme da cinque anni, prima ancora del rapimento, quando Marco era stato costretto a rimanere cinque mesi legato a una catena nell’oscurità. I funerali di Marco Padovani, in questa Verona invasa dai turisti e in festa per la vittoria nel campionato di calcio, sono avvenuti in sordina. Nessun rilievo sui giornali locali: l'”Arena” non ha pubblicato una riga, solo tre colonne di necrologi. Alla parrocchia della Santissima Trinità, una deliziosa chiesetta del 1100 non rovinata dai restauri, ieri pomeriggio sono venuti in molti, più di trecento. Parenti, amici, amici dei parenti del ragazzo morto, molte facce umili e popolari, pochi curiosi. La parola suicidio è stata letteralmente bandita. Anche il sacerdote, durante la funzione religiosa, non ne ha fatto cenno. La fotografia di Marco che sta in testa ai necrologi e anche sulla sua tomba, è completamente diversa da quella diffusa dai quotidiani nel maggio di due anni fa, quando l’ostaggio venne liberato dopo 160 giorni di prigionia, nei pressi di un autogrill modenese. Molto più vecchio dei suoi 28 anni, calvizie accentuata, baffi, gli occhi dilatati. “Era molto provato fisicamente, l’avevano tenuto in cantina senza luce per cinque mesi, legato a una catena, come un cane, in un ambiente umido e malsano, senza alcun contatto con anima viva”, racconta lo zio di Padovani, medico, “Marco, però dopo qualche giorno reagì positivamente. Un periodo di riposo, e almeno fisicamente, tornò come prima. Lo mandammo anche da uno psicologo, per precauzione, ma la sintomatologia era così scarsa, e così forte la sua voglia di dimenticare, di ricominciare la vita, che la famiglia non ritenne utile fargli proseguire la cura”. Continua lo zio: “Lo vedevo quasi tutti i giorni. Sulle scale, in ascensore. Ciao, come va? Bene, rispondeva, tutto ok. Sorrideva sempre, tutte balle quelle che hanno scritto, che era diventato strano, che aveva gli occhi spiritati. Del sequestro non ha mai voluto parlare. Finiti gli interrogatori della polizia, la curiosità dei giornali, Marco il rapimento l’aveva cancellato dalla memoria; se qualcuno gliene parlava, ne accennava soltanto, lui scantonava, cambiava discorso. Brutto segno? A noi non sembrava. Aveva ricominciato a lavorare con impegno, stava sempre con la stessa morosa, usciva con gli amici. Un ragazzo normale. L’altra settimana ci siamo riuniti a cena noi fratelli, e abbiamo parlato di mio nipote Marco. E sa cosa abbiamo detto? Marco ce l’ha fatta a superare lo choc, si è rimesso a posto. O eravamo ciechi e sordi, o non so proprio che pensare. Ma quel che Marco aveva in testa non lo avevamo proprio capito, neanche noi che gli volevamo bene”. Il ritratto di Marco che fanno amici e familiari è a tutto tondo: un bravo ragazzo vecchio stampo, casa e lavoro, niente grilli per la testa e molta concretezza. Religioso, ma senza fanatismi, non impegnato in politica, gentile con tutti, forse un po’ timido. Anche riservato, timoroso di aprirsi. Un tipo calmo, senza squilibri. La sua passione, il suo hobby era il giardinaggio: nella villetta di Bardolino, sulla riva del lago di Garda coltivava l’orto e i fiori. Ci andava spesso, in primavera e in estate, certe volte si fermava a dormire e tornava la mattina a Verona per lavorare. Probabilmente avrebbe voluto viverci. E invece proprio lì, alle dieci del mattino di mercoledì scorso, una splendida giornata di sole, Marco si è ammazzato. E’ salito sul terrazzino che dà sull’orto, si è legato un cappio al collo, assicurando la fune al ferro dello sbarramento, e si è lanciato nel vuoto. Impiccato nel posto che più amava. Così lo ha trovato un’ora più tardi il padre, accorso a Bardolino dopo aver letto l’ultimo messaggio del figlio. Marco, infatti, poco prima di ammazzarsi aveva telefonato a Brendola, in provincia di Vicenza, dove c’è la ditta del padre, che produce materiali per edilizia. Aveva parlato con la segretaria “Dica a mio padre che se guarda nel cassetto della mia scrivania c’è un messaggio per lui”. La segretaria aveva riferito, e il geometra Aimone Padovani si era precipitato a leggere. “Non credevo che l’esaurimento nervoso fosse una bestia così brutta – dice il messaggio – vado a cercare la pace in un altro mondo, vado a Bardolino: un posto che come nessun altro mi ha dato pace”. Seguivano i baci per la madre e le sorelle, e un addio, firmato Marco. Mentre il padre leggeva la lettera, Marco si stava lanciando dal terrazzino. Inutile il consulto frenetico con gli altri della famiglia, inutile la corsa con la vecchia “Saab” verso il lago. Nessuno se lo aspettava, un gesto così disperato. “Certo, avevamo pagato due miliardi per il suo rilascio. Un bel colpo per le finanze del padre e di tutti noi – dice lo zio – ma ci eravamo risollevati. Una botta riassorbita, ormai. Posso comprendere il suo senso di colpa, sapevamo che poteva sentirsi male per quello che era successo, e ci stavamo attenti. Niente, invece, tutto tranquillo fino a mercoledì. Ci creda anche se le sembra impossibile: è la verità”. Un’idea un po’ diversa, viene però sfogliando le raccolte dei giornali, tornando a quel 13 maggio di due anni fa, quando Marco Padovani venne rilasciato dall’Anonima sequestri. Disse il ragazzo ai cronisti: “Odio, sì, provo odio per quello che mi hanno fatto. Un sentimento strano per me”. E poi: “Dentro mi sento svuotato: sembro calmo, ma sono cambiato. Penso che questa esperienza lascerà il segno. Ho avuto troppe preoccupazioni. E’ stato un logoramento continuo, senza un attimo di tregua”. Incatenato al buio, con gli stessi vestiti per cinque mesi, sfamato con carne in scatola e pane, mai una notizia, in centosessanta giorni l’unica luce il flash di una Polaroid servita a produrre l’instantanea per dimostrare alla famiglia che era ancora vivo. Marco non ha retto, dopo due anni, quasi al secondo anniversario della sua liberazione. Spiega una psicoterapeuta, Raffaella Guglielmotti: “La segregazione in assenza di stimoli, senza la concezione del tempo, può causare un deterioramento nervoso gravissimo. Se poi si tratta di soggetti con predisposizione di base, si scatenano nel tempo eventi drammatici. Il senso di colpa si cova a lungo e cresce lentamente, prima di esplodere nel gesto folle”. Secondo la psicologa, scrivere al padre, per Marco, comunicargli l’intenzione di uccidersi, “era l’ultimo disperato tentativo di un contatto”. Difficoltà familiari, la convinzione, forse, che padre e fratelli ce l’avessero con lui perchè aveva causato la perdita di così tanto danaro. E l’assurda decisione di togliersi la vita, facendo ripiombare tutti in una seconda, irrimediabile tragedia.

 

Articolo del 22 Marzo 1987 da ricerca.repubblica.it
PER VENDETTA PARLANO LE DONNE DELLE COSCHE ANONIMA IN TRAPPOLA
di Pantaleone Sergi

PALMI Le donne della mafia non più solo collaboratrici di mariti, padri e figli, spesso ispiratrici di vendette sanguinose, protagoniste sempre silenziose e comunque in disparte degli avvenimenti familiari, ma anche collaboratrici, per la prima volta forse, della magistratura. Collaboratrici per vendicarsi dei torti subiti dai loro uomini, delle liti, dei tradimenti. Per una sorta di rivolta delle casalinghe della mafia (almeno quattro mogli di pregiudicati hanno parlato) il procuratore della Repubblica di Palmi, Giuseppe Tuccio, ha potuto ricostruire la storia di una banda di sequestratori con centrali a Oppido Mamertina in Calabria, regione in cui gli ostaggi venivano custoditi, a Brugherio in provincia di Milano, a Reggio Emilia, dove c’ è una grossa comunità di oppidesi, in Liguria. Nella notte è scattata la retata. Duccio ha firmato trentasette ordini di cattura: trentaquattro sono stati eseguiti a Milano, Lodi, Monza, Savona, Brugherio e Oppido Mamertina, dei tre sfuggiti alla cattura due erano latitanti da tempo perché implicati in altri episodi criminali. Quella che il magistrato chiama collaborazione di familiari alle indagini, ma che nel mondo della malavita viene bollata come tradimento infame, segna un cambiamento di costume tra le donne della ‘ ndrangheta? Non proprio e non esattamente, ha spiegato il magistrato, anche perché la prima collaboratrice, quella che in un certo senso ha dato la svolta alle indagini, è una settentrionale, moglie di un pregiudicato calabrese. Ma la confessione della donna, trascurata e umiliata per le disattenzioni del marito, offesa dal suo modo di vita al di fuori della legge (almeno così ha detto), ha spinto anche altre a parlare,a fornire dettagli su alcuni sequestri, a consentire lo smantellamento della cosca che riciclava il danaro acquistando partite di droga o impiegandolo in modo pulito avendo ottenuto alcuni subappalti di opere pubbliche in Piemonte. L’ accusa per tutti gli arrestati è di associazione a delinquere di stampo mafioso finalizzata a sequestri di persona. E di sequestri la banda, almeno di quelli di cui agli atti del magistrato esistono certezze, ne ha commessi ben sette con otto ostaggi: quello di Pierangela Bombelli a Borgo San Giovanni in provincia di Milano, della dottoressa Fausta Rigoli e del figlioletto Rocco Lupini a Molochio in provincia di Reggio Calabria, di Marco Padovani prelevato da un commando a Brentola nel Vicentino, di Nicoletta Moretti a Bergamo, di Stefano Pellegrino e Giuseppe Misiti a Varapodio e Cinquefrondi nel Reggino, e quello ancora in atto della studentessa Angela Mittica, figlia del sindaco dc di Oppido Mamertina della quale da quaranta giorni non si hanno più notizie. Per molti dei sequestrati, tutti comunque portati sull’ Aspromonte (anche quelli prelevati al Nord), sarebbe stata usata la stessa cella e sarebbero stati utilizzati gli stessi carcerieri. La dottoressa Rigoli, a questo proposito, ha raccontato di avere trovato nascosta in un anfratto vicino alla grotta in cui fu tenuta prigioniera col figlio, biancheria intima che la Bombelli ha poi detto di avere nascosto durante la sua prigionia. Ma altre coincidenze e altri particolari sono stati verificati in due anni di indagini, partite da Messignadi, la frazione di Oppido dove aveva base l’ Organizzazione che si era poi diramata in molti centri del Nord. Il capo di questa anonima sequestri, in base alle indagini, sarebbe Domenico Zumbo, 54 anni, che rappresentava la componente calabrese. Zumbo appartiene alla famiglia accusata del primo rapimento effettuato in Calabria, quello del possidente Ercole Versace, avvenuto nel lontano 1953. Al Nord invece i punti di riferimento della banda, erano Francesco Punteri, residente a Brugherio e soprattutto Giuseppe Borzomì, imprenditore edile a Monza, entrambi arrestati nell’ operazione congiunta condotta dalla squadra mobile e dai carabinieri milanesi. Come si è arrivati agli arresti? Un coordinamento postumo di indagine su alcuni episodi criminosi, che non vuol dire però un semplice assemblaggio di notizie, afferma il procuratore Tuccio, la collaborazione di alcune donne, familiari degli inquisiti, una rilettura attenta di tante carte, una serie di riscontri inconfutabili ci hanno permesso di fare un discorso complessivo, di arrivare quindi a sgominare la cosca. Tra le tante cose è risultato infatti, per esempio, che un familiare di un sequestrato ha riconosciuto due giovani rapitori che si erano presentati nella sua casa di Brentola, chiedendo momentanea ospitalità e qualificandosi come due pittori che volevano ritrarre la campagna circostante. Il volume di affari della cosca è stato notevole. In base alle indagini solo in droga pesante una componente della banda avrebbe investito da 4 a 5 miliardi di lire. Inoltre è risultato che un’ altra parte della cosca ha ottenuto subappalti in Piemonte, i lavori derivanti da commesse pubbliche di notevole importo. Le indagini adesso vengono concentrate nella ricerca della prigione di Angela Mittica, sulla cui sorte si nutrono molti timori.

 

 

 

Si ringraziano gli  amicidilibera.blogspot.com per l’aiuto nella ricerca di nomi e storie da non dimenticare:

Fonte: Libera Presidio Castiglione delle Stiviere

 

 

Leggere anche:

 

 

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Articolo del 23 dicembre 2021
Marco Padovani: suicida per ‘ndrangheta
di Cosimo Sframeli
Il 13 dicembre del 1982, Marco Padovani, viene sequestrato e privato del suo radioso sorriso, della sua passione per le piante e la campagna e dei suoi progetti di vita. Poi, quando l’incubo sembrava finito, nel maggio del 1985, Marco si lascia cadere dal terrazzino, dopo essersi passato intorno al collo una corda lunga due metri. Nessuno comprende quel gesto, nessuno potrebbe.

 

 

 

 

 

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