15 Settembre 1990 Bresso (MI). Restano uccisi Piero Carpita, portinaio di 45 anni seduto ad un bar, e Luigi Recalcati, 70 anni pensionato che stava passando in bicicletta. Vittime innocenti in un regolamento di conti.

Il 15 settembre del 1990 a Bresso, periferia nord di Milano, Piero Carpita, 46 anni, sposato e due bambine piccole, al bar con amici era andato a comprarsi delle sigarette, e Luigi Recalcati, un pensionato di 70 anni che in bicicletta stava andando a trovare dei parenti, restarono uccisi in una guerra di mafia tra due clan contrapposti della ‘ndrangheta lombarda. Una guerra che in tre mesi fece 25 morti.

 

 

 

Articolo del 16 Settembre 1990 da ricerca.repubblica.it
MILANO, ‘BATTAGLIA’ TRA BANDE RIVALI UCCISI DUE PASSANTI
di Luca Fazzo

MILANO – Morire ammazzati alle tre di un sabato pomeriggio, senza altra ragione che la violenza cieca di due bande di criminali impegnate in un regolamento di conti. Un portinaio padre di famiglia e un pensionato sono caduti ieri pomeriggio sotto i colpi esplosi all’impazzata da tre sconosciuti in una strada di Bresso, un comune industriale alle porte di Milano. Piombati su due auto di grossa cilindrata nel centro della cittadina i due gruppi rivali si sono affrontati a duello in mezzo alla gente prima ancora che qualcuno potesse capire cosa stava accadendo. Le pallottole sparate dai revolver dei giovanissimi banditi hanno costretto decine di persone a gettarsi a terra, riparandosi dietro le auto e tra i tavolini di un bar. Una pallottola è andata a conficcarsi nel parabrezza di un camion, un’altra nel sedile di un’auto. Due hanno ucciso due passanti innocenti. Le vittime designate sono riuscite a fuggire incolumi, gli assassini sono spariti nel nulla lasciando i feriti ad agonizzare sui marciapiedi.

Via Roma è una strada stretta del centro storico di Bresso, costruita prima che il paese venisse ingoiato dalla metropoli. Alle tre di ieri pomeriggio, quando scoppia l’inferno, la strada è ancora sonnacchiosa. Le saracinesche dei negozi sono quasi tutte abbassate. La gente è raccolta di fronte al bar Roma, all’angolo della strada. Dentro, a giocare a briscola con tre amici, c’è anche Piero Carpita, 46 anni, sposato e padre di due figlie. È il marito della portinaia del palazzo. Attilio Mento, ferramenta, era il suo avversario di partita: “Avevamo finito di giocare – racconta, ancora pallido – io avrei dovuto andare ad aprire il negozio, invece ho tardato un po’ ed è stata la mia fortuna. Pietro invece si è alzato, ha preso un caffè ed è uscito per andare a comprare le sigarette. Un attimo dopo è scoppiata l’iradiddio, abbiamo sentito i colpi e abbiamo cercato di ripararci. Poi gli spari sono cessati ed è rientrato il Pietro, aveva un buco sopra il cuore e diceva chiamate un’ambulanza, aiutatemi”. L’abbiamo fatto appoggiare a una sedia. Poi non ho più avuto la forza di guardare.

Negli stessi istanti, sul marciapiede di fronte, un uomo di settant’anni in sella ad una bicicletta smette di pedalare, impallidisce e si porta una mano all’addome. Si chiama Luigi Recalcati, è un pensionato nato a Bresso ma che ora vive a Milano; è partito mezz’ora prima da casa per venire a trovare i parenti. Deve arrivare al numero 56 di via Roma, è a un passo dalla casa quando una pallottola lo coglie in pieno fegato. Non cade neppure, resta in piedi per qualche minuto mormorando incredulo: Mi hanno sparato. Poi lo convincono a sedersi sul bordo del marciapiede, attende per dieci minuti l’arrivo dell’ ambulanza senza perdere conoscenza. Ma quando Recalcati arriva finalmente nella sala operatoria dell’ospedale di Niguarda i chirurghi scoprono che la pallottola ha avuto effetti devastanti. Luigi Recalcati muore sotto i ferri.

In via Roma, intanto, nugoli di carabinieri cercano di ricostruire l’accaduto. E la scena che prende forma man mano è quella di un dramma che non ha precedenti nella storia recente di Milano. Questi comuni sono disseminati di morti, da anni piccoli e grandi pregiudicati vengono falciati nei regolamenti di conti nelle strade dei quartieri dormitorio. Ma mai si era letto nei comportamenti dei killer tanto feroce disprezzo per la vita degli altri, degli innocenti: l’unico precedente nelle cronache di questi anni è quello di Mimmo Falcone, il giovane barista fulminato a Bollate nel marzo scorso solo per avere tagliato la strada a un sicario che fuggiva dopo un’esecuzione. Ma la sparatoria di ieri pomeriggio è, se possibile, ancora più brutale. I protagonisti, questo è certo, sono tutti molto giovani: venti, venticinque anni. Facile pensare alle gang di spacciatori che si contendono con ogni mezzo il controllo del ricco mercato dell’eroina a nord di Milano.

Due di loro, le vittime predestinate, arrivano in via Roma a bordo di un’auto: si tratta probabilmente di una Porsche nera che resterà abbandonata al termine della sparatoria. I loro avversari li seguono a bordo di una Thema metallizzata e appena li vedono scendere dalla Porsche decidono di entrare in azione. Anche la Thema si ferma, scende un giovane che stringe in mano una calibro 9 e, incurante della gente ferma davanti al bar, apre il fuoco da almeno dieci metri di distanza contro i ragazzi della Porsche. Forse i due cercano di rispondere al fuoco (un testimone racconterà di averli visti armati) di sicuro badano soprattutto a scappare, sempre inseguiti dalle pallottole del killer. Ce li siamo visti passare di fronte – racconta Antonio, un altro degli uomini che avevano appena finito di giocare a briscola col portinaio – uno aveva una tuta, l’altro una camicia. Si sono infilati in un androne, poi hanno scavalcato una rete e hanno cercato di rubare l’auto a un ragazzo. Poi sono spariti. Anche l’uomo con la calibro 9 sparisce, a bordo della Thema lanciata verso Milano.

In via Roma restano le auto bucate dai colpi e i due uomini feriti a morte. Si precipita per strada dalla portineria anche la moglie di Pietro Carpita: Era un uomo buono, lavorava undici ore al giorno, è tutto quello che riuscirà a dire. Carpita lascia due bambine, di quattro e sette anni. Un’ora dopo, la polizia telefona anche alla anziana moglie di Luigi Recalcati: Signora, a suo marito è accaduto un incidente….

 

 

 

 

Articolo del 26 Gennaio 2012 da ilfattoquotidiano.it
Storie di mafia: il boss, l’amante e il marito ammazzato per quel doppio taglio di capelli
di Davide Milosa
Secondo il Ros di Milano, Giuseppe Flachi, arrestato il 14 marzo 2011, ha un relazione sentimentale con Antonella Tencia, sorella della moglie. La donna è la vedova di Luigi Batti ucciso nel 1990. All’esecuzione partecipò lo stesso Flachi

A volte capita d’inciampare in storie di mafia che rassomigliano un po’ alla vita normale. Storie che escono dal rigore criminale dell’onore, rientrando nel più classico copione da commedia all’italiana: lui, lei, l’altro. Ma con qualche lieve differenza. In fondo sempre di mafia si tratta. Meglio: di ‘ndrangheta, l’organizzazione più forte, più ricca e soprattutto la più capace a stare in equilibrio tra modernità e tradizioni arcaiche. E questa storia compete all’arcaico, vale a dire alle regole, a quello che non si può fare, a ciò che bisogna rispettare.

Si diceva: lei, lui e l’altro. Come al cinema, così nella vita. Perché in fondo anche i padrini ne hanno una. E in questa vita un tipo tosto come Giuseppe Flachi, boss di prima grandezza delle cosche milanesi e governatore in pectore della Comasina, ha deciso di sparigliare in fatto di sentimenti scegliendo la sorella di sua moglie, vedova di un marito ammazzato e alla cui esecuzione partecipò lo stesso boss.

Flachi dal canto suo nega la liaison. Non sono dello stesso avviso i Ros di Milano che in un’informativa agli atti dell’indagine Caposaldo dello scorso anno scrivono: “I fatti riscontrati dimostravano invece che tra i due non esisteva solo un vincolo di parentela”. E i fatti in questione riguardano l’ultimo arresto del padrino avvenuto il 14 marzo 2011, quando i carabinieri si presentano all’alba in un appartamento della Comasina. Quella non è la residenza di don Pepè Flachi. Lui apre in ciabatte e vestaglia. In fondo alla casa il letto disfatto. Di lato sulla poltroncina gli abiti del capo-mafia. Sotto le coperte Antonella Tenace. Lei è la sorella di Licia che con Giuseppe Flachi si sposa il primo luglio 1987 dopo un ricevimento da mille e una notte tra le tovaglie bianche e i bicchieri di cristallo del Griso, ristorante con piscina nel Lecchese. Matrimonio d’amore e d’interesse.

In quell’anno si sancisce la grande alleanza tra Flachi e Franco Coco Trovato, il numero due della ‘ndrangheta lombarda. Ma per un sodalizio che nasce, un altro va a morire ed è quello con la vecchia “batteria” di don Pepè. Capita sempre ai tavoli del Griso, quando Michele Raduano antico compare di Flachi insulta Franco Coco. Una brutta lite che finisce per i lotti popolari della Comasina: Trovato e Flachi in smoking a bordo di una Ferrari e l’altro in fuga. Raduano non muore quel giorno, ma nel 1989, quando gli sbirri lo trovano crivellato di colpi a bordo della sua macchina in via Spezia.

Ventiquattro anni dopo molto, ma non tutto è cambiato. Coco Trovato studia giurisprudenza al 41 bis di Ascoli, mentre i suoi uomini comandano ancora buona parte di Milano. Don Pepè, smessa la giacca a quadrettoni e indossato il piumino all’ultima moda, dopo che nel 2009 ha ottenuto i domiciliari, prosegue a fare il boss con una passione in più: il tradimento (amoroso, naturalmente).

E che il legame con Antonella Tenace vada oltre “il vincolo di parentela” lo dimostra la reazione della stessa donna quando il marzo scorso i carabinieri si presentano in via Spadini. Ecco cosa annota il luogotenente Romeo Tenuta nel suo rapporto: “Quando Antonella Tenace veniva invitata ad alzarsi dal letto e consegnare i suoi documenti di identità, si scagliava con foga nei confronti degli operanti, manifestando contrarietà per l’accaduto e chiedendo con insistenza il motivo della nostra presenza. Lo scrivente prima, ed in seguito anche Flachi, provvedevano con tono forte da parte di quest’ultimo a rabbonire la donna”.

Ma chi è veramente Antonella Tenace? Perché tanta foga nel difendere l’uomo che il 18 settembre 1990 contribuì all’omicidio di suo marito Luigi Batti detto Ciro? Batti, infatti, è la prima vittima di una faida che in pochi mesi collezionerà 17 morti. Milano si scopre sotto assedio. Da una parte Trovato e Flachi, dall’altra la famiglia Batti, napoletani legati alla Nco di Raffaele Cutolo. Tutto nasce per la droga. Dopo la cerimonia al Griso don Pepè e Franco Coco sono diventati i primi della classe. Gli altri, Batti compresi, per sopravvivere si devono adeguare. Il calcolo però non torna a Salvatore Batti che fa la pensata della vita: uccidere Franco Coco Trovato. Ci prova il 15 settembre a Bresso. Individua l’obiettivo: una porsche nera. Quel giorno, però, il boss non c’è. Batti spara lo stesso, ammazzando due cittadini innocenti: Piero Carpita e Luigi Recalcati. Quattro giorni dopo arriva la risposta: il marito di Antonella Tenace viene ucciso. Come, lo racconta il pentito Salvatore manomozza Annacondia: “Flachi mandò a chiamare Ciro Batti, che era suo cognato in quanto conviveva con la sorella di Licia Tenace, moglie di Flachi”. L’incontro avviene vicino a uno sfasciacarrozze. “Flachi disse chiaro che Salvatore aveva tentato di uccidere Coco, ma Ciro insisteva a negare che ciò fosse vero. A quel punto, Coco si era imbestialito e gli aveva esploso un colpo di pistola alla testa”. Dopodiché lo stesso Trovato “mi descrisse come Ciro lo aveva fatto imbestialire con quel suo doppio taglio di capelli”. Alla fine il corpo di Luigi Batti viene messo dentro un’auto poi “ridotta a scatoletta”.

E nonostante tutto questo, undici anni dopo ritroviamo Antonella Tenace in piedi all’alba a tirar pugni e urlare contro gli “sbirrazzi” che vogliono arrestare l’uomo che con la scusa della parentela portò Luigi Batti davanti al suo killer. Eppure, la mattina del 14 marzo 2011 don Pepè minimizza. Nessuna relazione sentimentale con quella donna dai capelli biondi e dallo sguardo duro. E davanti ai carabinieri prova l’ultima sortita. Indica il divano. Dice di aver dormito lì. Laconica la conclusione dell’annotazione dei Ros: “Si dà atto che il divano letto sito nella sala da pranzo non era per niente disfatto e non vi erano presenti segni, oggetti, cuscini, coperte ecc.., che potesse far pensare che una persona vi avesse dormito sopra”.

 

 

 

Articolo del 28 Settembre 2013 da ilfattoquotidiano.it
Mafia: la storia di un omicidio scoperto dalla figlia attraverso un libro
di Giuseppe Catozzella

Capita che i libri siano portatori di miracoli. Anzi, un libro, quando brucia fino in fondo la distanza con il lettore – quando è amato per davvero da chi lo legge – lo fa sempre: il suo miracolo è quello di cambiare la vita di chi lo ha amato, di salvargli la vita. La letteratura salverà il mondo, credeva Ugo Riccarelli. Ed Erri De Luca, in una recente intervista, puntualizza che la letteratura o salva la vita adesso, oppure non lo farà mai. Non si tratta di un’utopia, ma di una realtà.

Ma come salva la vita? Lo fa, in quei fortunati e rari casi, facendoci vivere nel sogno. Un sogno che al risveglio illumina e dà un senso nuovo a tutto quello che abbiamo fatto e che faremo. Tutta la nostra vita, dopo che si è chiusa l’ultima pagina di un libro amato, acquista una nuova luce, uno splendore inedito. Talmente forte e reale da farci credere che tutto è possibile, che l’esistenza è una cosa meravigliosa e che qualunque possibilità ci è aperta, che siamo figli delle stelle e della terra, con i pori spalancati verso il migliore dei futuri. Tutto quadra, tutto torna, i dubbi si dissolvono, la chiarezza si fa strada e infonde energia pura.

Poi, a volte, rarissime, accade che un libro illumini davvero una parte della nostra vita. Non è soltanto il fatto che un libro ci parla, che sembra parli solo e soltanto a noi, che ci tocchi, che ci illumini e dia energia. E il fatto che parla proprio di noi, parla proprio di me, con il mio nome e il mio cognome. E a quel punto qualcosa scatta per forza.

È odioso per uno scrittore parlare dei propri libri, come di una persona parlare troppo di sé. Eppure è quello che a me è accaduto, in quanto scrittore, e non posso fare a meno di raccontarlo. Il miracolo è accaduto, e questa volta al contrario. Io, autore, sono stato colpito dalla luce riflessa da un lettore. Una lettrice, per la precisione.

In un libro, “Alveare” (Rizzoli 2011, in ri-uscita l’8 gennaio 2014 nell’Universale Economica di Feltrinelli), mettendomi completamente a nudo ho raccontato la mia storia e la mia esperienza di nato e cresciuto in un territorio (la periferia nord di Milano, Bresso, per la precisione) colmo di ‘ndrangheta. E in quel libro, quindi, non ho potuto non raccontare l’episodio che ha fatto scaturire tutto, che per sempre mi ha cambiato la vita: il fatto di aver assistito, a quattordici anni, a un duplice omicidio, in una via centrale di Bresso, un sabato pomeriggio. Duplice omicidio in cui sono rimasti uccisi – anziché i due boss potentissimi che dovevano rimanere per terra, nelle intenzioni dei killer – due passanti innocenti, Piero Carpita e Luigi Recalcati.

Quella violenza inaspettata e improvvisa mi aveva sconvolto. Per giorni e notti non ho potuto togliermi quei suoni, quei rumori, quelle visioni, quella violenza, quella banalità del male, dalla testa. In Alveare ho quindi raccontato quel giorno, poi ricostruito attraverso studi e interviste, insieme a tutto quello che lo aveva preceduto – nelle dinamiche dei clan che si stavano facendo la guerra a due passi da casa mia nel silenzio totale – e a quello che è seguito (una faida che in circa tre mesi ha visto morire 25 persone).

Ma ecco il miracolo. Mai avrei potuto immaginare che quel racconto, che reputavo così privato, andasse invece a illuminare così precisamente la vita di un’altra persona, lontana da me e mai incontrata, e di cui neppure sospettavo l’esistenza.

Qualche giorno fa Emanuela Carpita, la figlia di Pietro, mi ha scritto questo messaggio su facebook, che riproduco con il suo consenso: “Salve sono Emanuela Carpita, il mio cognome non le risulterà nuovo. Sono la figlia di Piero Carpita ucciso dalla criminalità organizzata il 15-09-1990. La contatto solo per ringraziarla. Ho letto il suo libro, “Alveare“, e finalmente sono riuscita a capire le ragioni della morte di mio padre. A Bresso ho vissuto solo fino ai sei anni perché poi mia madre ha deciso di allontanare me e mia sorella da quell’ambiente. La ringrazio perché di quel maledetto giorno ho pochi ricordi (avevo solo 4 anni) e ora e tutto più chiaro. Qualche volta ritorno a Bresso, forse con la stupida idea di poter incontrare e conoscere mio padre, (magari proprio nel bar di Dina dove il sabato pomeriggio andava a prendere il caffè) il cui ricordo è sempre più sfocato. I suoi libri sono una grande fonte a cui tutti dovrebbero attingere per aprire gli occhi e vedere e capire la situazione economica e politica del Nord. Complimenti!!! Spero,un giorno, di poterla conoscere. La ringrazio nuovamente! A presto Emanuela Carpita.”

Ecco, di nuovo, il miracolo. Ecco cosa è passato attraverso il filo invisibile di un libro, quello che lega chi lo scrive a chi lo legge. Quando Emanuela mi ha scritto quello stesso dardo ha colpito con la medesima potenza me. Un libro può davvero illuminare una vita, ora ne ho la certezza.

Anzi, due. Grazie, Emanuela.

 

 

 

Tratto da wikimafia.it

Il tentato omicidio di Franco Coco Trovato e la morte di Luigi Recalcati e Piero Carpita

La risposta del gruppo Batti al tentato omicidio del loro capo sarebbe stata la volontà di uccidere Franco Trovato. Il 15 settembre 1990, a Bresso, due persone scesero rapidamente dalla propria auto ed iniziarono a sparare contro due individui nei pressi di una Porsche. L’agguato non andò a buon fine, ma morirono due passanti: Luigi Recalcati e Piero Carpita. Dalle indagini emerse che la Porsche era intestata alla società G.M.T. di Malgrate, che sarebbe stata amministrata da Vincenzo Musolino, fratello di Eustina, moglie di Franco Trovato. Egli ammise che la Porsche era stata da lui data in prestito proprio a Trovato, e che dunque uno dei due aggrediti sarebbe stato proprio il boss, appena uscito dal proprio parrucchiere, che aveva il negozio in quella via. Reazione di Trovato a questo tentato omicidio sarebbe stata, secondo l’ordinanza “Wall Street”, l’omicidio di Luigi Batti, ucciso con un colpo in testa e poi “pressato” dentro la sua auto il 18 settembre 1990.

 

 

 

Fonte:  memoriaeimpegno.it

In ricordo di Piero Carpita e Luigi Recalcati

Succede un giorno che una ragazza acquista un libro, un libro che racconta un territorio. Un libro che racconta della presenza della ‘ndrangheta a Nord di Milano.

E così la ragazza scrive allo scrittore del libro, Giuseppe Catozzella, e lo ringrazia. Perché attraverso quel libro una figlia scopre perché è cresciuta senza il suo papà.

Tra le tante storie raccontate c’è un episodio avvenuto il 15 settembre del 1990 a Bresso. Un sabato pomeriggio come tanti in un piccolo paese dell’hinterland milanese e all’improvviso gli spari.

I proiettili che tolgono la vita a Piero Carpita e Luigi Recalcati erano destinati a Franco Coco Trovato, il numero due della ‘ndrangheta lombarda. Quei proiettili, esplosi un sabato pomeriggio in una via centrale di Bresso, scatenarono una guerra di mafia che in tre mesi fece 25 morti.

Piero Carpita, 46 anni, era totalmente incensurato, nessun parente pregiudicato o legato alla criminalità organizzata. Era seduto al bar a bere un caffè. Luigi Recalcati, un pensionato, si trovava a passare in bicicletta.

 

 

 

Fonte: vivi.libera.it
Nota del 14 settembre 2020

Trent’anni fa la ‘ndrangheta spezzò due vite innocenti in Lombardia

30…continuo a ripetermi nella mente questo numero…30.
30 sono gli anni vissuti senza di te…di te, papà, ci è rimasto poco ma non ti preoccupare a quel poco ci siamo aggrappate con le unghie, con i denti.
Oggi ho aperto quell’album di fotografie che sta in fondo al cassetto, la polvere sulla copertina mi ricorda che in questi mesi l’ho sfogliato poche volte. Perdonami, non è mai facile guardare quelle foto di quella vita passata, di quella vita che profuma di amore dove siamo ancora insieme tutti e quattro. In quelle foto mamma sorride ancora, in quelle foto siamo ancora tra le tue braccia. Questo è quello che ci rimane di te, poche fotografie un po’ sfocate che portano con sé l’eco delle risate delle tue bimbe. Gli anni sono passati, siamo cresciute abbracciandoci per cercare di colmare quel vuoto dato dalla tua assenza. Siamo state l’una la forza dell’altra e come i vasi giapponesi puoi notare le nostre crepe che adesso non nascondiamo più, abbiamo imparano a non vergognarci più delle nostre cicatrici.
Il 15 Settembre del 1990 a Bresso la ‘ndrangheta ha spezzato la tua vita, non ha avuto pietà nè di te nè di Luigi, vi ha lasciati agonizzanti in un lago di sangue su un marciapiede. Non esistono le vittime “per caso” perchè non si muore “per caso”.
Loro hanno scelto da che parte stare nel momento in cui hanno deciso di privilegiare i loro traffici illeciti piuttosto che proteggere un bene così supremo come la vita. Hanno scelto di premere il grilletto incuranti di voi che stavate passando, incuranti di te che stavi tornando a casa da noi. Sai Pà… nei nostri sogni ti aspettiamo ancora e ti aspetteremo sempre.
Sono passati 30 anni da quel 15 settembre del 1990, ma come disse Albert : “Il tempo è relativo, il suo unico valore è dato da ciò che noi facciamo mentre sta passando”. Sappi Pà che noi stiamo vivendo e che tu vivi con noi, che fai parte di noi, ti ricordiamo e ricordiamo agli altri perchè non ci sei più.
Ciao Pà!
Con Amore
Maria e le tue bimbe Simona ed Emanuela

 

 

 

Foto da: vivi.libera.it

Fonte:  vivi.libera.it

Piero Carpita – 5 settembre 1990 – Bresso (MI)
Non esistono le vittime per caso, perché non si muore mai per caso. Le mafie al Nord sono un problema vero, reale, concreto, di cui è necessario avere consapevolezza. Tutti. Piero era un uomo semplice, aveva una famiglia che amava, dei sogni e dei progetti. La sua vita è stata spezzata e nessuno può dimenticarlo.

Piero e Maria si occupavano del servizio di portineria di un palazzo in via Roma. Siamo a Bresso, periferia nord di Milano, in quella pianura padana settentrionale ricca e industrializzata che garantiva benessere e lavoro. Avevano messo su una famiglia tranquilla. Simona, la maggiore delle due figlie di Piero e Maria, il 5 settembre del 1990 aveva compiuto sette anni. Emanuela, la più piccola, il 3 dello stesso mese, ne aveva compiuti quattro. Piero era un marito amorevole, un padre attento e un uomo buono. La sua vita si divideva tra gli impegni familiari, una partita a carte con gli amici e, soprattutto, il lavoro. Un lavoro cui si dedicava con scrupolosità e impegno, fino a undici ore al giorno.
A Bresso, nel 1990, si faceva fatica a sentire pronunciata la parola mafia. Cosa fosse la ‘ndrangheta in pochi lo sapevano e, soprattutto, nessuno pensava che lì, nella pianura padana a nord di Milano, ci si sarebbe mai potuto avere a che fare. E invece a Bresso la mafia c’era, e da tempo, già nel 1990. La ‘ndrangheta in particolare, che in quella zona aveva trovato nel traffico di droga un affare enorme, un’occasione imperdibile di ricchezza. La ‘ndrangheta aveva portato con sé non solo affari illeciti e ricchezza, ma anche le sue strategie e le sue modalità. La violenza, in particolare. Quella con cui i clan e le famiglie di mafia sono abituate a risolvere controversie e scontri, a imporre il proprio dominio sul territorio, a dimostrare chi comanda.

Il 15 settembre 1990

Il 15 settembre del 1990 era un sabato. Un sabato come tanti altri, nel quale Piero, in attesa di tornare al lavoro, intorno alle 15.00, si era intrattenuto con due amici nel bar Roma, sulla via omonima, nel centro storico di Bresso, per una partita a briscola. Di fronte a lui c’era seduto Attilio Merlo, un ferramenta. Anche lui di lì a poco sarebbe ritornato al lavoro nel suo negozio. A partita finita – racconta Attilio il giorno dopo al quotidiano La Repubblica – Piero si era alzato per un caffè e per tornare al lavoro. Un attimo dopo, il portinaio è fuori dal bar. Poi l’inferno. Arrivano due auto di grossa cilindrata. Una in particolare, una Porsche nera. Due gruppi rivali si affrontano, armi in pugno, sparando all’impazzata. Decine di persone si gettano a terra, terrorizzate. Qualche minuto dopo, Piero rientra nel bar. È ferito al torace e sanguina vistosamente. Muore poco dopo, a 46 anni. Negli stessi minuti, sul marciapiedi di fronte, un altro uomo, Luigi Recalcati, un pensionato di Bresso trasferitosi a Milano, è sulla sua bicicletta e si accascia al suolo, colpito al fegato da una pallottola. Non servirà a nulla la corsa in ospedale. Morirà anche lui sul letto della sala operatoria. È una strage. A Bresso, periferia nord di Milano, la ‘ndrangheta fa strage di innocenti.

Maria resterà a Bresso solo ancora un paio di anni dopo la morte di Piero, prima di decidere di lasciare per sempre quel posto. Una decisione che prenderà soprattutto per proteggere le sue due bambine. I ricordi, nella loro mente, sono sfocati. Lo shock per le sue due figlie di non vedere più il padre tornare a casa ha fatto sì che loro rimuovessero quasi tutto. Per anni, racconta Emanuela in un’intervista, ha vissuto con un enorme vuoto dentro, perché pensava che suo padre fosse semplicemente una vittima del caso. Poi l’incontro con Libera e un cammino lento di memoria e impegno, che riesce a cambiare forma a quel dolore. Per anni in casa Carpita non si è parlato di ciò che era successo. Maria, quel giorno, dalla finestra, vide gente in strada che correva e andò subito a tentare di soccorrere Luigi Recalcati, l’altra vittima innocente, che era agonizzante su una panchina. Subito dopo le fu detto che tra le vittime c’era anche Piero, che era riuscito a raggiungere un bar, ma che non c’era più nulla da fare.

Qualche anno prima, nel 2013, la storia di Piero era finita in un libro. Si intitola “Alveare” ed è stato pubblicato la prima volta nel 2011. Parla di ‘ndrangheta. E parla anche della strage di Bresso del 1990, cui l’autore Giuseppe Catozzella, all’epoca quattordicenne, aveva assistito personalmente. Anche quel libro servirà a Emanuela per trovare delle risposte alle sue tante domande.
“Qualche volta ritorno a Bresso – scriverà la figlia di Piero all’autore – forse con la stupida idea di poter incontrare e conoscere mio padre, (magari proprio nel bar di Dina dove il sabato pomeriggio andava a prendere il caffè) il cui ricordo è sempre più sfocato”.

Un mio dolce ricordo risale a un paio di settimane prima della sua morte.. Il mio ultimo compleanno con papà… Era il 3 settembre, avevo compiuto 4 anni e per l’evento mi aveva regalato la mia prima bicicletta. Io ero emozionatissima e non vedevo l’ora di usarla, andammo nella portineria dove lavorava e me la montò subito con rotelle annesse…ero felice!
Non gli diedero neanche il tempo di insegnarmi davvero ad andare in bicicletta, lo uccisero 12 giorni dopo.
Emanuela – figlia di Piero

Vicenda giudiziaria

Di killer e vittime designate, però, neanche l’ombra. Resta sul posto, abbandonata pur di scampare alla morte, quella Porsche nera. La macchina risulterà intestata a Francesco Coco Trovato, evidentemente l’uomo nel mirino dei killer. Lui e Giuseppe Pepè Flachi. Secondo gli inquirenti e secondo il racconto dei pentiti, sono due uomini d’onore, col tempo diventati padroni indiscussi della malavita che controllava l’area della Lombardia che va dalla periferia nord di Milano fino a Como e Lecco. Al centro dei loro affari, l’eroina. Ed è proprio il mercato della droga l’origine dello scontro con l’altra famiglia di mafia della zona, quella dei Batti. Uno di loro, Luigi Ciro Batti, si scoprirà, ha sparato quel 15 settembre, per rappresaglia dopo il fallito agguato a suo zio Salvatore e a sua figlia, avvenuto il 30 giugno in Campania. Insomma, una vera e propria guerra di mafia, nel profondo nord dell’Italia. Una guerra che, dopo la strage di Bresso, lascerà a terra un’altra ventina di morti ammazzati. Compreso Luigi Ciro, schiacciato in una pressa insieme alla sua macchina dal cartello vincente dei Trovato-Flachi-Schettini.
Memoria viva

Il presidio di Libera a Morbegno è dedicato alla memoria di Piero Carpita e di Luigi Recalcati.

“Quando è venuto a mancare mio padre avevo, da appena 10 giorni, compiuto 7 anni… Spesso mi chiedo cosa darei per poter ricordare tutti i momenti, le giornate trascorse insieme al mio papà e invece, davvero poco riaffiora nella mia mente. Un bellissimo ricordo che mi accompagnerà sempre è il viaggio dell’ultima estate tutti insieme, una lunga notte in macchina, in direzione della calda Sicilia( terra della nostra mamma) i profumi, le luci, la musica alla radio, l’autogrill. Da quel giorno, in ogni viaggio, rivivo parte delle emozioni che ho vissuto in quell’ultimo viaggio tutti insieme che rimarrà sempre nel mio cuore”.
Simona – figlia di Piero

 

 

 

 

 

 

 

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