16 Marzo 1990 Palermo. Scompare Emanuele Piazza, collaboratore del Sisde. Insieme a Nino Agostino sventò l’attentato dell’Addaura al giudice Falcone.

Foto da: .repubblica.it     

Emanuele Piazza era un poliziotto italiano. Entrò nelle forze dell’ordine come agente della Polizia di Stato. Successivamente, si dimise per trasferirsi nella sua città natale, operando poi come agente dei servizi (SISDE) e “cacciatore di latitanti”. Durante il suo ultimo incarico lavorò anche come autista e guardia del corpo per alcuni politici. Emanuele Piazza scomparve dalla sua abitazione di Sferracavallo, a Palermo, il 16 marzo 1990. Anni dopo la ricostruzione dei fatti avvenne grazie alle rivelazioni di due collaboratori di giustizia, tra cui il suo stesso assassino, Francesco Onorato: quel 16 marzo Emanuele venne attirato fuori dalla sua abitazione da Onorato, ex pugile e suo vecchio compagno di palestra, con la scusa di cambiare un assegno in un magazzino di mobili di Capaci (a pochi minuti di distanza da Sferracavallo). Onorato condusse Piazza in uno scantinato dove l’agente venne strangolato. In seguito il suo cadavere venne sciolto nell’acido in un casolare della campagna di Capaci. (Liberanet.org)

 

 

 

Articolo dell’11 settembre 1990 da ricerca.repubblica.it
ASPIRANTE 007 RAPITO DAI CLAN
di Francesco Viviano

PALERMO Il nome in codice era topo e collaborava con il Sisde, i servizi segreti del ministero dell’Interno. Il suo compito: infiltrarsi nelle cosche dei corleonesi, le potenti famiglie di Resuttana e San Lorenzo. Se riesci a farci catturare Totò Riina, Bernardo Provenzano gli avevano promesso non sarai più un collaboratore, diventerai un agente segreto a tempo pieno. Ma il collaboratore, Emanuele Piazza, 30 anni, ex poliziotto con l’aspirazione di diventare uno 007, che di quel mestiere aveva l’immagine rosea offerta dai film di James Bond, non sarà mai un effettivo dei servizi.

Figlio di un noto avvocato palermitano, è scomparso, inghiottito nel nulla, vittima della lupara bianca. È un giallo, sul quale indaga il giudice Giovanni Falcone. È avvenuto il 15 marzo scorso, ma sino a ieri, questo segreto, i servizi se lo sono tenuto ben stretto. Da sei mesi i familiari di Emanuele non si danno pace. Il padre, l’avvocato Giustino Piazza, dopo mesi di doloroso silenzio, esplode: Mio figlio è morto. È stato ucciso, mandato allo sbaraglio. L’avvocato Piazza spara a zero su chi ha indotto il proprio figlio e su chi è responsabile di averlo utilizzato senza nessuno scrupolo. Mio figlio è morto, perché è stato illuso che prima o poi sarebbe diventato un vero agente segreto, ed il mio povero Emanuele c’è caduto.

L’avvocato Piazza, come parte offesa, e così come prevede il nuovo Codice di procedura penale, ha chiesto di essere tenuto al corrente dello sviluppo delle indagini e di essere messo a confronto con il capo del Sisde che a Palermo gestiva Emanuele. Dopo la scomparsa di mio figlio afferma l’avvocato Piazza quelli del Sisde hanno tentato di minimizzare il suo ruolo, ma non hanno potuto fare a meno di ammettere che Emanuele lavorava per loro. So che mio figlio era inserito nei loro libri paga. Il giovane, secondo il padre, veniva pagato con un compenso di un milione, un milione e mezzo di lire al mese.

Emanuele Piazza fu visto l’ultima volta il 15 marzo scorso. Lo prelevarono nella sua villa di Sferracavallo, una località balneare alla periferia occidentale di Palermo, dove abitava da solo, con il suo fedele cane Ciad, un aggressivo rottweiler. Due giorni dopo il mio compleanno dice l’avvocato Piazza diedi una cena, e quella sera, il 18 marzo scorso, Emanuele non si fece sentire, neanche per farmi gli auguri. Non avendo più sue notizie andai a cercarlo nella sua villetta a Sferracavallo. Il cancello di ferro del giardino era chiuso, ma la porta d’ingresso della villetta era accostata. Ciad era stranamente tranquillo, aveva forse capito che il suo padrone non sarebbe più tornato. In casa ho trovato il frigorifero aperto ed un piatto con la carne che Emanuele aveva preparato per Ciad. La sua motocicletta, una Suzuki 1100, e la sua automobile, erano regolarmente parcheggiate davanti la villetta. Segni evidenti che Emanuele era stato chiamato fuori da qualcuno di cui si fidava. Un suo informatore o chissà chi.

Nella villetta di Emanuele furono trovate carte che provavano il ruolo del giovane all’interno del Sisde. La polizia rinvenne tra l’altro afferma l’avvocato Piazza una lista di latitanti della mafia, un elenco su carta intestata del ministero degli Interni ed altri documenti che sono stati sequestrati. Su un comodino venne trovata anche la sua pistola. Se ci fai catturare uno di questi avevano detto a mio figlio ti assumeremo subito. Emanuele ci ha creduto, si fidava di quella gente e si era buttato anima e corpo nella caccia ai latitanti. Ma era soltanto un ragazzo, lasciato solo, utilizzato come un kamikaze, come carne da macello. Alto poco meno di un metro e ottanta, robusto, atletico, esperto di lotta libera e karate, Emanuele Piazza aveva un passato di poliziotto.

Per due anni aveva indossato la divisa, aveva frequentato il corso speciale delle teste di cuoio ad Abbasanta, in Sardegna. Poi era stato assegnato al servizio di piantonamento di alta sicurezza. Ma lui voleva fare il poliziotto vero racconta il padre e dopo alcuni mesi riuscì a farsi trasferire alla sezione narcotici della squadra mobile di Roma.
Era contento del lavoro che faceva, mi raccontò che aveva attivamente partecipato alla cattura del trafficante thailandese Ko Bak Kin, il corriere utilizzato dalla mafia per importare dal paese asiatico ingenti quantitativi di eroina in Sicilia.

Nel 1985 Emanuele lasciò la polizia, ma non aveva alcuna intenzione di cambiare mestiere. Trascorsi alcuni mesi entrò in contatto con uomini dei servizi. All’inizio non ricevette neanche una lira, poi quando cominciò a portare le prime notizie e a far concludere le prime operazioni, ottenne un compenso fisso. Emanuele mi aveva accennato alcune volte al tipo di lavoro che stava accingendosi a fare, ma io non gli davo ascolto, non credevo che era già stato agganciato dai servizi. Quando ho capito, quando ho avuto la certezza che Emanuele faceva sul serio, ho tentato di dissuaderlo. Un lavoro del genere non si può fare senza un’adeguata copertura, senza avere ufficialmente una struttura alle spalle. Ed Emanuele è stato mandato allo sbaraglio. Appena ebbe affidato l’incarico, topo cominciò a frequentare gli ambienti della malavita di San Lorenzo, Resuttana e dello Zen. Faceva piccoli favori in cambio di informazioni. Riferiva a quelli del Sisde ed ai commissariati di San Lorenzo e Mondello. Ma non godeva di molta stima, era considerato uno che parlava troppo.

 

 

Fonte:  archivio.unita.news
Articolo del 31 ottobre 1990
Il poliziotto fu ucciso con la moglie nell’agosto del 1989 in Sicilia
Poco dopo morì anche un agente del Sisde: c’è un collegamento?
Nuove ipotesi sul caso Agostino
di Francesco Vitale
Gli omicidi di Antonino Agostino, 25 anni, poliziotto, ed Emanuele Piazza, 32 anni, collaboratore del Sisde, potrebbero essere strettamente collegati. Piazza sarebbe stato ucciso perché aveva scoperto gli autori dell’omicidio del poliziotto. Si tratta di un’ipotesi investigativa contenuta in un rapporto presentato dagli investigatori alla Procura della Repubblica. L’avvocato dei familiari dell’agente ucciso: «Seguite questa pista».

PALERMO Due gialli palermitani che si intreccino. Le storie parallele di due giovani, un poliziotto ed un agente segreto, uccisi dalla mafia a distanza di pochi mesi. Antonino Agostino, 25 anni, agente del commissariato San Lorenzo, venne ucciso assieme alla sua giovane moglie, Ida Castelluccio, davanti all’uscio della casa di villeggiatura dei genitori nell’agosto del 1989. Emanuele Piazza, 32 anni, ex poliziotto, una tessera del Sisde in tasca, fu inghiottito dalla lupara bianca sette mesi più tardi. Qualcuno che il ragazzo conosceva bene lo invitò ad un appuntamento e gli tese la trappola mortale.

Due episodi apparentemente senza nessun legame ma che, invece, potrebbero avere un clamoroso collegamento. Per questo l’avvocato difensore della famiglia Agostino, Vincenzo Gervasi, ha sollecitato la Procura della Repubblica ad approfondire questo aspetto dell’indagine sull’uccisione dei due giovani investigatori. Ma quale sarebbe il collegamento tra l’assassinio del poliziotto e la scomparsa dell’agente segreto? Emanuele Piazza aveva forse scoperto l’autore dell’omicidio di Antonino Agostino e di sua moglie. Si tratta di un’ipotesi investigativa contenuta in un rapporto sull’omicidio dell’agente, presentato dal commissariato San Lorenzo al sostituto procuratore Alfredo Mordillo, titolare delle due inchieste. Cosa scrivono i poliziotti in questo rapporto? Pochi giorni prima dell’agguato al giovane investigatore, lo 007 del Sisde venne a conoscenza di un particolare interessante, un pregiudicato, molto vicino ai corleonesi, aveva chiesto ad un meccanico in odor di mafia di preparare una motocicletta per «un lavoro mollo urgente». Nel gergo mafioso «lavoro urgente» è sinonimo di omicidio. Siamo nei primi giorni dell’agosto dello scorso anno. I killer che uccisero Antonino Agostino e sua moglie si servirono proprio di una motocicletta di grossa cilindrata, poi ritrovata bruciata a pochi chilometri dal luogo del delitto.

Ma c’è un altro particolare inquietante.II giorno dell’omicidio Antonino Agostino avrebbe dovuto fare il turno pomeridiano al commissariato e soltanto all’ultimo momento aveva chiesto un permesso per poter partecipare alla festa di compleanno della sorella nella casa di villeggiatura dei genitori. I killer lo aspettavano davanti al portone. E ancora. Agostino e Piazza lavoravano entrambi nella stessa zona, quella compresa tra Partanna Mondello e San Lorenzo. Avevano scoperto qualcosa di importante? Un fatto è certo poco prima di essere uccisi i due investigatori avevano confidato ai familiari di sentirsi in pericolo. Emanuele Piazza, il cui nome in codice era «Topo», su ordine del Sisde riuscì ad infiltrarsi nela cosca mafiosa dello Zen. Scopo della sua missione mettersi sulle tracce dei grossi latitanti di Cosa nostra. Un’Impresa che lo 007 palermitano non riuscì a portare a termine e che anzi pagò con a vita. Dieci giorni prima della sua scomparsa, la squadra mobile aveva scoperto un covo di killer mafiosi allo Zen, sequestrando armi, motociclette e automobili risultate rubate Subito dopo quell’operazione di polizia, Piazza si sentì franare il terreno sotto i piedi. Era stato lui a svelare agli investigatori l’esistenza del covo?

 

 

 

Articolo del 31 ottobre 1990  da ricerca.repubblica.it 
IL MISTERO DELLO 007 CHE SAPEVA TROPPO
di Francesco Viviano

PALERMO L’uccisione del poliziotto Antonino Agostino, assassinato in un agguato il 5 agosto 1989 assieme alla giovane moglie Ida, potrebbe essere strettamente collegato alla scomparsa di Emanuele Piazza, ex poliziotto e collaboratore del Sisde, avvenuta sette mesi dopo. Due vicende che potrebbero far parte di un unico giallo che ha per protagonisti i Servizi segreti, aspiranti 007, infiltrati nelle cosche e agenti di polizia. L’ipotesi è dell’ avvocato Vincenzo Gervasi, legale della famiglia dell’agente Agostino che ha presentato un’istanza alla Procura della Repubblica chiedendo un approfondimento delle indagini per verificare se Agostino e Piazza si conoscessero, se avessero lavorato assieme a qualche operazione top secret e se Piazza avesse indagato sulla morte del poliziotto.

Sembra che Topo (questo il nome in codice del collaboratore del Sisde) avesse individuato il presunto killer dell’ agente Agostino. In un rapporto di polizia consegnato al sostituto procuratore della Repubblica Alfredo Morvillo, titolare dell’indagine sulla scomparsa di Topo, viene ipotizzato che Piazza avesse scoperto che alcuni giorni prima dell’uccisione dell’ agente Agostino, un pregiudicato ritenuto vicino agli ambienti mafiosi dello Zen e di Partanna Mondello, aveva chiesto ad un meccanico in odor di mafia di preparare una motocicletta di grossa cilindrata per un lavoro urgente. L’ unico lavoro urgente compiuto nell’agosto dello scorso anno, sostengono gli investigatori, fu l’eliminazione dell’agente Agostino e della moglie.

Piazza sarebbe entrato in possesso di queste informazioni infiltrandosi in una cosca dello Zen dopo che il Sisde lo aveva contattato affidandogli l’incarico di dare la caccia ai latitanti di Cosa nostra. La zona in cui Topo operava era quella controllata dalle famiglie di San Lorenzo, quelle più vicine ai corleonesi. La stessa zona in cui lavorava Agostino. Sia Piazza, sia Agostino avevano paura di essere uccisi ed avevano manifestato i loro timori il primo ai propri genitori, l’altro alla sua ragazza. Perché avevano paura? Cosa avevano scoperto? Pochi giorni prima di essere ucciso Antonino Agostino aveva confidato ad un collega (la circostanza è contenuta in un rapporto di polizia) che stava lavorando su qualcosa di molto importante. Ma la versione ufficiale fornita dopo il delitto affermò che Agostino non era mai stato impegnato in indagini di rilievo.

Ma c’è un altro particolare. Il giorno dell’omicidio Agostino sostengono i suoi familiari aveva chiesto di essere spostato al turno di mattina perché nel pomeriggio avrebbe dovuto partecipare alla festa della sorella a casa dei genitori. Una festa conclusasi tragicamente perché i killer lo attendevano davanti al cancello della villetta dei suoi familiari. Anche la scomparsa di Emanuele Piazza, del quale non si hanno più notizie dal 15 maggio scorso, presenta molti punti oscuri. Dieci giorni prima della sua misteriosa sparizione la Squadra mobile aveva scoperto allo Zen un covo. L’operazione era stata pilotata dal Sisde e il covo secondo gli investigatori era utilizzato dalla cosca nella quale Topo si era infiltrato. La scoperta di quel covo preoccupò molto Piazza che si sentiva bruciato. Dodici giorni dopo Emanuele Piazza scomparve nel nulla. Il padre di Topo, l’ avvocato Giustino Piazza denunciò che il figlio era stato mandato allo sbaraglio utilizzato dal Sisde come un kamikaze, come carne da macello.

 

 

 

Articolo del 7 aprile 2000 da  ricerca.repubblica.it 
Misteri del Sisde a Palermo Piazza a caccia di Aglieri
di Salvo Palazzolo

In dieci anni di indagini, la Procura di Palermo non è riuscita a ottenere dai servizi segreti una spiegazione ragionevole sul ruolo svolto da Emanuele Piazza. E adesso che si è arrivati al processo contro i presunti sicari di mafia che lo uccisero nel ’90, le contraddizioni sfilano in aula. Quale incarico riservato e inconfessabile gli era stato affidato? «Cercava latitanti del calibro di Totò Riina e Salvatore Lo Piccolo hanno detto i pentiti per questo Cosa nostra decise la sua eliminazione». Ma, ieri mattina, due degli esponenti più qualificati del Sisde hanno offerto alla Corte d’assise versioni diverse.

L’ex vice capocentro dei servizi segreti a Palermo, Massimo Grignani, spiega che era solo una «fonte in esperimento per tre mesi, rinnovabili. Iniziò a dicembre ’89. Il nome in codice era Noto». «Il suo compito dice il tenente colonnello era solo ascoltare ciò che dicevano alcuni pregiudicati dello Zen. Niente altro. Per questo gli furono corrisposti due compensi da 600 mila lire, per i mesi di dicembre e gennaio».

Notizie diverse offre invece l’ex dirigente dell’unità centrale informativa del Sisde, Luigi De Sena. Spiega che sin dall’87 ’88 il servizio ebbe contatti con Emanuele Piazza: questi si disse subito in grado di offrire indicazioni utili per la cattura di alcuni latitanti. Uno in particolare, Pietro Aglieri. «Sono passati dieci anni, non ho un ricordo nitido», si scusa poi De Sena con il pubblico ministero Nino Di Matteo che lo incalza con le domande facendo rilevare alcune contraddizioni fra le dichiarazioni rese nel ’90 e quelle di oggi. «Ci sarà un errore nel verbale», aggiunge l’investigatore. Di certo ci fu, lo ammette lui stesso, un significativo incontro all’Hotel delle Palme, probabilmente nell’88. A organizzarlo fu Vincenzo Di Blasi, poliziotto amico di Piazza ed ex autista di De Sena a Catania: «Mi chiese un incontro per presentarmi un giovane che voleva entrare nei servizi». Nel bel salotto dell’Hotel delle Palme, per mezz’ora, si intrattennero in tre.

Danno battaglia le parti civili, Giustino e Andrea Piazza, padre e fratello di Emanuele. Il tema dei servizi segreti interessa particolarmente anche le difese. Ma non tutte le domande possono avere una risposta. «Da quanti elementi era composta all’epoca la struttura di Palermo?», chiede l’avvocato Giuseppe Seminara. «Notizie riservate», si limita a dire il colonnello Grignani. Altrettanto sfortunato è il pm, quando al termine dell’interrogatorio chiede dell’esistenza di una rete di informatori cacciatori di latitanti alle dipendenze del Sisde. La risposta è: «Non ricordo~ intrattenevo contatti solo con Piazza».

 

 

 

Articolo del 27 Maggio 2000 da ricerca.repubblica.it
Il collaboratore Onorato rivela l’atroce fine di Piazza

Al processo per l’omicidio di Emanuele Piazza, il padre e il fratello della vittima, parti civili e avvocati, si trovano faccia a faccia con gli assassini. Loro raccontano del delitto e di una talpa ancora senza nome che spifferò ai boss l’attività di ricerca di latitanti avviata da Piazza. I killer Francesco Onorato e Giovambattista Ferrante, oggi collaboratori di giustizia, alle domande del pubblico ministero Nino Di Matteo, rievocano le fasi del sequestro e dell’omicidio del giovane collaboratore dei servizi segreti, assassinato nel marzo di dieci anni fa.

Onorato, amico della vittima, ignaro del suo ruolo all’interno di Cosa nostra, spiega di avere saputo che Piazza si stava dando da fare per intercettare i latitanti che si rifugiavano intorno a San Lorenzo e che nella zona godevano di protezione e appoggi. «Lo seppi ma non ne parlai con nessuno», ha spiegato accennando al suo rapporto personale con la vittima. Quando però Salvatore Biondino «fu informato da uomini delle istituzioni» della attività di Piazza scattò immediata la vendetta.

Piazza venne prelevato a casa da Onorato e Ferrante, condotto a Capaci, nello scantinato del mobilificio di Antonino Troia e lì interrogato e poi strangolato. Il cadavere fu invece disciolto nell’acido. Ad occuparsene, secondo i due collaboratori di giustizia, furono lo stesso Troia e Giovanni Battaglia. L’acido fu poi versato in un terreno a poca distanza dal mobilificio e del corpo non rimase più traccia. Anche dalla trasferta romana non è venuto molto di più sulla talpa che venne in possesso dell’informazione che decretò la condanna a morte di Piazza. Il giovane gravitava intorno al commissariato Mondello. Per i servizi segreti era in prova. Ma il Sisde ha ammesso solo dopo parecchi anni il rapporto di lavoro instaurato con Piazza.

 

 

 

Articolo di La Repubblica del 20.10.2010
“Dopo l’Addaura Emanuele mi disse:  in quell’attentato c’entra la polizia”
Parla Gianmarco Piazza, suo fratello con un collega salvò Falcone. “Non ne ho parlato fino ad ora perché avevo paura, non mi fidavo di quelli che indagavano”
di Attilio Bolzoni e Francesco Viviano

Cosa le ha confidato Emanuele?

“Mio fratello mi ha detto che ad organizzare il fallito attentato contro il giudice Falcone non era stata la mafia, ma era coinvolta la polizia. Ricordo ancora le sue parole: “C’entra la polizia”… “.

E perché ha tenuto nascosto tutto questo per tanto tempo?

“Perché avevo paura, perché quello che sapevo avrei dovuto riferirlo proprio alla polizia che indagava sul fallito attentato e sull’uccisione di mio fratello”.

Nella sua bella casa di Palermo Gianmarco Piazza, avvocato civilista, quarantasei anni, uno dei quattro fratelli di Emanuele – l’agente dei servizi scomparso nel marzo del 1990 mentre cercava di scoprire cosa era accaduto all’Addaura – in quest’intervista con Repubblica svela per la prima volta un segreto su quei candelotti di dinamite piazzati nel giugno del 1989 davanti alla villa di Giovanni Falcone. Emanuele sapeva molto anche sull’uccisione di Vincenzo Agostino, il poliziotto assassinato con sua moglie Ida neanche tre mesi dopo il fallito attentato. Sia Piazza che Agostino – secondo le ultime inchieste – sarebbero stati colpiti perché avevano salvato Falcone da chi lo voleva morto. L’avvocato Gianmarco Piazza, un paio di settimane fa, ha consegnato una memoria ai procuratori di Palermo sui misteri dell’Addaura. Nei prossimi giorni sarà interrogato anche dai magistrati di Caltanissetta che indagano sulle stragi.

Avvocato, Emanuele le disse proprio quelle parole: c’entra la polizia…

“ConEmanuele avevo un rapporto molto stretto, avevamo vissuto insieme dal 1986 al 1988 in quella casa di Sferracavallo dove lui viveva quando è scomparso. Fra la fine di giugno e l’inizio di luglio del 1989, a Palermo si parlava tanto del fallito attentato contro Falcone, ne parlavamo naturalmente anche a casa, tra noi fratelli, con mio padre. Sulla vicenda Emanuele mi raccontò che lui era sicuro che non era stata Cosa Nostra a fare quell’attentato”.

E lei gli chiese chi era stato?

“Prima lui lasciò intendendere che quella notizia l’aveva appresa per motivi di servizio. Poi, quando gli feci la domanda, rispose secco, senza fare altri commenti: “C’entra la polizia, c’entra qualcuno della polizia…”. Io lo sapevo che Emanuele era un collaboratore del Sisde, che era a conoscenza di tante cose… “.

Non le disse altro Emanuele?

“Non mi disse altro. Io non ho mai saputo un nome o un cognome, sono vent’anni che penso a quella frase di Emanuele sulla polizia, mi arrovello, mi tormento”.

Quella confidenza non l’ha mai comunicata a nessuno, perché? Solo per paura?

“Dopo la scomparsa di Emanuele, tutti i rapporti fra noi e la polizia li ha tenuti mio padre. Dal 1990 nessuno mi ha mai chiesto niente, né sulla scomparsa di mio fratello né sull’attentato all’Addaura. Io, fin dal primo momento, non ho voluto raccontare queste cose agli inquirenti semplicemente perché non avevo fiducia in loro. Come potevo avere fiducia di un commissario – Salvatore D’Aleo – che per scoprire gli assassini di mio fratello seguiva una pista passionale? Come potevo avere fiducia quando un altro poliziotto, grande amico di mio fratello – Vincenzo Di Blasi – dopo la scomparsa di Emanuele non venne mai a trovarci. Mio fratello era legatissimo a lui, non venne a salutarci neanche una volta. A volte, per capire, bastano pochi dettagli. E quello fu un dettaglio che a me diceva tutto. L’unico di cui si fidava mio padre – e ci fidavamo tutti – era Falcone”.

Furono in molti che cominciarono a depistare, a sviare le indagini sulla morte di suo fratello?

“Cominciarono con me, qualche ora dopo la scomparsa di Emanuele. Mi accorsi che qui, vicino a casa mia, un’agente donna mi seguiva e mi stava fotografando con un teleobiettivo. Ero sconcertato. Perché seguivano me? Perché cominciavano le indagini proprio da me? Perché non cercavano invece di salvare Emanuele, che in quei giorni di marzo forse era ancora vivo? Poi, per anni, a casa nostra siamo stati tempestati di telefonate, qualcuno faceva squillare il telefono e poi non rispondeva mai. É come se ci volessero avvertire perennemente. E non erano certo mafiosi”.

Lei ha idea di cosa avesse scoperto Emanuele sul fallito attentato all’Addaura?

“Io so soltanto che dal giorno dell’Addaura mio fratello era diventato sempre più taciturno. E poi, dall’autunno del 1989, sempre più cupo. Era preoccupatissimo. Passava quasi tutti i giorni da casa di mio padre, arrivava di umore nero e di umore nero se ne andava. Poi fece due stranissimi viaggi, lui che non amava viaggiare, gli piaceva stare a Palermo. Nell’estate del 1989 partì per la Tunisia. Ritornò in Tunisia anche nel dicembre di quell’anno. Io credo che abbia fatto quei viaggi per allontanarsi da qui”.

Torniamo agli amici di Emanuele: perché quel poliziotto, così legato a suo fratello, secondo lei non venne mai a trovare voi familiari dopo la scomparsa?

“Fin dall’inizio della sua collaborazione con i servizi segreti, Emanuele naturalmente non parlava molto del suo lavoro. Si limitava a dirci con chi era in contatto. Ci parlava di un capitano dei carabinieri e di due angeli custodi, così li chiamava lui… uno era quel poliziotto, Enzo Di Blasi, con il quale erano stati compagni in palestra, facevano lotta libera a 18 anni. E poi si ritrovarono tutti e due a Roma in polizia. Mio fratello gli voleva bene, ma lui – dopo la scomparsa di Emanuele – non lo abbiamo più visto”.

Lei sostiene di non avere mai avuto fiducia negli inquirenti. Ci sono stati altri episodi che l’hanno spinta a non dire niente in tutti questi anni?

“Molti. E soprattutto uno. Dopo la scomparsa di Emanuele è sparito anche un vigile del fuoco molto amico suo, Gaetano Genova. Si vedevano sempre con Emanuele. Una sera venne a casa mia un giovanissimo poliziotto per cercare di capire cosa sapevo io del loro rapporto. Anche in quella occasione sentii di non fidarmi. Non gli dissi nulla”.

Perché oggi ha deciso di raccontare quello che sa?

“Perché stanno affiorando frammenti di verità sulla morte di Emanuele e sull’Addaura. Perché, vent’anni fa, a parte la sfiducia nei confronti degli inquirenti, non potevo sapere che la morte di mio fratello potesse essere in qualche modo collegata al fallito attentato contro il giudice Falcone”.

 

 

 

 

 

Articolo del 22 Marzo 2011 daantimafiaduemila.com
Omicidio Piazza: nuove rivelazioni dal poliziotto-talpa

Palermo. Potrebbero emergere nuovi retroscena sulla scomparsa dell’agente dei servizi segreti Emanuele Piazza, rapito ed ucciso nel 1990 da un comando di Cosa Nostra.

La novità è racchiusa nelle motivazioni della sentenza di condanna (emessa dal Tribunale di Palermo il 14 dicembre 2010 per concorso esterno in associazione mafiosa), depositate qualche giorno fa, a carico dell’ex assistente capo della polizia Vincenzo Di Blasi, oggi in pensione, detenuto da mesi nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere.

Il Gup Marina Petruzzella ha infatti segnalato la presenza del poliziotto Di Blasi, all’epoca in servizio al commissariato di Mondello, nell’ultima operazione sotto copertura di Piazza, come rivelano le stesse dichiarazioni del pentito Francesco Onorato. “Il mafioso aveva conosciuto Di Blasi a casa di Piazza, qualche mese prima del suo omicidio – ha scritto il giudice nelle motivazioni – e Di Blasi gli aveva detto di essere a sua disposizione per qualsiasi notizia relativa ad indagini o blitz concernenti le famiglie di Pallavicino e Partanna”. In quella occasione Onorato avrebbe dato un milione di lire al poliziotto. Solo dopo il suo arresto Di Blasi ha confermato di aver “incrociato”Onorato a casa di Piazza, “ma ha negato – ha scritto il gup – di aver mai assunto impegni e ricevuto denaro”.

Un tassello importante che va ad integrare le recenti dichiarazioni di Gian Marco Piazza, il fratello di Emanuele. Questi oltre a fare esplicito riferimento al Di Blasi e al rapporto di amicizia che li legava, ha detto che il fratello e il Di Blasi erano stati compagni di palestra, a 18 anni facevano lotta libera, poi si sono ritrovati entrambi in polizia, ma dopo la scomparsa di Emanuele Piazza, il poliziotto non sarebbe mai andato a trovare la famiglia Piazza. Un comportamento che stando alle dichiarazioni del fratello non è passato inosservato.

 

 

 

Videoinchiesta La Repubblica
Addaura, nuova verità sul Capaci
A 20 anni di distanza capovolta la scena dell’agguato mafioso all’Addaura. Nel commando c’erano uomini dei servizi segreti. I poliziotti che salvarono il giudice furono uccisi
di ATTILIO BOLZONI, FRANCESCO VIVIANO

 

 

 

Articolo dell’ 11 Novembre 2015 da antimafiaduemila.com
Capaci bis: ”Mio figlio indagava sulla scomparsa dell’agente Agostino”
di Miriam Cuccu
Parla il padre di Emanuele Piazza, cacciatore di latitanti per i servizi ucciso nel ’90

“Mio figlio mi disse che stava svolgendo degli accertamenti sulla scomparsa dell’agente Nino Agostino. Mi disse di avere dei sospetti, stava cercando di capirci qualcosa, ma non si mostrò mai preoccupato”. Sono i ricordi di Giustino Piazza, padre di Emanuele (agente del Sisde che dava la caccia ai latitanti, assassinato il 16 marzo 1990 in circostanze mai del tutto chiarite) durante il processo Capaci bis sull’attentato al giudice Falcone, alla moglie Francesca Morvillo ed agli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Nino Agostino fu ucciso insieme alla moglie Ida Castelluccio il 5 agosto 1989. Di lui lo stesso Falcone disse: “Io a quel ragazzo gli devo la vita”. Una delle ipotesi investigative vuole infatti che sia Piazza sia Agostino si trovassero all’Addaura il 21 giugno ’89, il giorno in cui fallì l’attentato a Falcone. Secondo le indagini, i due agenti avrebbero svolto un ruolo nell’impedire lo scoppio dell’esplosivo che avrebbe potuto uccidere il giudice. “Credo di ricordare – aggiunge Giustino Piazza – che venne usata una motocicletta appartenuta ad Emanuele” forse per l’esecuzione di un omicidio, ma “ne ho un’idea molto vaga”.

All’indomani dell’assassinio dell’agente, continua il padre “seppi dal dottore Falcone che dal Sisde cercavano di negare la sua appartenenza al Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica, mentre Falcone accertò poi questa circostanza” quando “decise di andare a Roma per svolgere alcuni interrogatori. A metà delle audizioni gli pervenne una lettera a firma del prefetto di Roma Malpica (ex capo del Sisde, ndr) che confermava la collaborazione di mio figlio con i servizi. Ma nessuno dal Sisde si è mai fatto vivo con me o con la mia famiglia. Falcone in precedenza aveva convocato il responsabile del Sisde di Palermo e questo glissò tutte le sue domande”.

Della ricerca di latitanti “mio figlio me ne aveva parlato senza troppi particolari, ma poi si seppe anche – aggiunge Piazza – per il ritrovamento di un elenco durante un accertamento della polizia”.
“Che io sappia non si conoscevano” dice ancora Piazza in aula, parlando di un probabile rapporto tra il figlio e Nino Agostino, aggiungendo di non ricordare di aver visto Emanuele il giorno del fallito attentato all’Addaura: “Ci vedemmo il giorno prima, il 20, il giorno del nostro trentesimo anniversario di matrimonio e abbiamo festeggiato a casa mia. Lui arrivò verso l’una e rimase con noi fino a circa le quattro di pomeriggio”. Dopo la sua scomparsa, prosegue il padre, “mi venne riferito da Di Blasi (agente di pubblica sicurezza amico di Emanuele, ndr) di un incontro tra il dottor D’Aleo, commissario di Mondello, e il dottor Montalbano, commissario di San Lorenzo, nel quale i due erano arrivati alla conclusione che Emanuele fosse scappato con qualche femmina”. Ma l’ipotesi della fuga non reggerebbe anche perché, spiega, “il giorno dopo la scomparsa di Emanuele sono andato alla sua casa di Sferracavallo (località balneare alla periferia occidentale di Palermo, ndr) e abbiamo trovato il rottweiler affamato e la pasta appena cotta lasciata nello scolapasta. Ci siamo resi conto che era uscito improvvisamente”.

Quando Giustino Piazza presentò la denuncia di scomparsa del figlio, racconta, erano presenti “il dottor Arnaldo La Barbera (all’epoca capo della Squadra Mobile di Palermo, ndr) e il dottor Savina, poi sono venuti altri agenti per chiedere informazioni”. Nelle indagini, però, Piazza nota delle incongruenze: “Chiamarono tutte le persone dell’elenco telefonico nell’agenda di Emanuele, ma in quell’occasione non è mai stato interrogato uno dei suoi assassini, Francesco Onorato (oggi pentito, colui che condusse Piazza in uno scantinato dove venne strangolato e poi sciolto nell’acido, ndr) del quale esistevano nell’agenda bigliettini da visita della sua attività di indoratore, e sebbene all’epoca già avesse scontato il carcere all’Ucciardone e fosse quindi una persona nota. Per errore hanno chiamato anche la moglie di uno che si stava facendo il processo di mafia, e la fecero andare subito via. Circostanze che non ho mai compreso”. Di questi episodi, afferma Piazza, “ne parlai sia con Morvillo che con Caselli, non fecero nessuna particolare osservazione”. Ma c’è di più. “Io feci formalmente denuncia – racconta il teste – per cui rimasi meravigliato del fatto che, quando dopo sei mesi si seppe sui giornali della soppressione di Emanuele, lo stesso giorno vennero i carabinieri della stazione Crispi e quelli di Tommaso Natale per sapere come mai non avevo denunciato la sua scomparsa. Venne fuori che la questura si era dimenticata di comunicare la scomparsa ai carabinieri”. Il giorno dopo, però, fecero marcia indietro: “Il maresciallo di Tommaso Natale mi disse che era tutto a posto e avevano la velina”.

“Con Falcone avevamo un rapporto di buona amicizia. Ma quello fu un periodo in cui non ragionavano in tanti, – ricorda Piazza, parlando delle primissime indagini svolte qualche giorno dopo – Falcone coscienziosamente dispose un accertamento nelle grotte intorno al golfo di Sferracavallo perché un mio coinquilino aveva detto che il corpo di Emanuele poteva giacere in una di quelle. La cosa mi impressionò, mi diede una grande disperazione perché mi resi conto che non avevano nulla in mano, mi sembrava che non avessero prove e che cercassero di mettere su qualcosa, tanto per dire che stavano agendo”. Al dolore per la perdita del figlio, Piazza aggiunge quello di aver assistito a episodi in cui alcuni millantavano ogni possibile legame con l’agente scomparso: “A una trasmissione televisiva un professore di ragioneria si vantava di essere stato insegnante di Emanuele. Lo telefonai, ma lui disse che aveva soltanto presenziato ai suoi esami di Stato”.

 

 

Uno sbirro non lo salva nessuno di G. Cacciatore

 

Uno sbirro non lo salva nessuno

La vera storia di Emanuele Piazza, il Serpico palermitano

Autore: Giacomo Cacciatore
Dario Flaccovio Editore, 2017

Questo libro racconta la vera storia della scomparsa da Palermo di Emanuele Piazza, un ragazzo di 29 anni, di ottima famiglia che ama anche la vita di strada: vie dritte e trazzere tortuose, gente giusta e gente sbagliata, quella che si muove tra lealtà e prepotenza. Quando decide di diventare un poliziotto, fa una scelta di campo. Ma è difficile strisciare inosservato fra due mondi. Questo giovane Serpico – come lo “sbirro” del cinema, suo eroe dell’adolescenza – è fuori dagli schemi: vive con una scimmia indiana, un pitone e un rottweiler, ama la lotta libera, le moto, le immersioni subacquee e quelle nella realtà criminale dei quartieri difficili. La sua esistenza “al limite” non conoscerà perdono in una Palermo dove uscire dal seminato significa dissolversi.

 

 

 

Fonte: cosavostra.it
Articolo del 13 marzo 2019
Emanuele Piazza il cacciatore di latitanti
di Francesco Trotta

Emanuele Piazza. Si fa fatica a parlare, ancora oggi, di quel ragazzo. Come se il mare avesse eroso pure la memoria. Quella villa affacciata sul porto, un piccolo golfo con acqua apparentemente cristallina, la si vede a distanza di chilometri, puntino colorato da indicare col dito, ma piano, con una certa deferenza.

Come se ci fosse paura che anche le onde potessero far vedere gesti o far udire parole ad orecchie indiscrete. Eppure è una storia di quasi trent’anni fa. Trent’anni come l’età in cui morì Emanuele. Nome d’azione “topo”. Capelli scuri – come gli occhi – portati un po’ spettinati. Alto. Di bell’aspetto. Emanuele apparteneva ad una importante famiglia della Palermo centro. I Piazza. Suo padre, Giustino, è ancora oggi un noto avvocato del foro del capoluogo siciliano.

Fin da piccolo, quindi, Emanuele assapora una certa cultura, quella del diritto e della legge, certo che la strada da seguire fosse stata quella della giustizia. E non senza legittime aspirazioni e sogni, come li ha chiunque di noi. Divenuto poliziotto, voleva di più. Lui non era solo uno sbirro.

E quella Palermo, amara e crudele, era il palcoscenico in cui allora si combatteva la guerra tra Stato e Mafia. Una guerra sporca perché i nemici – almeno per chi fosse stato dal lato onorevole della battaglia – si annidavano dentro quelle stesse Istituzioni che combattevano Cosa Nostra.

“Diventerai uno di noi” gli dicevano gli emissari dei Servizi Segreti, che lo corteggiavano come si fa con una bella donna, con promesse che però non sarebbero mai state mantenute. “Ti assumeremo se ci catturi uno di questi qui” e intanto appoggiavano la lista degli allora latitanti mafiosi più pericolosi sulla scrivania.

Su tutti spiccava il nome di lui, il capo, u curtu, Salvatore Riina, per gli amici degli amici Zu’ Totò. Riina era quello che aveva prima fatto la guerra per prendersi Cosa Nostra e farla sua. E poi aveva alzato il tiro. “Scannamu Falcone” era l’imperativo categorico. Il giudice che lo aveva fatto condannare – anche se in contumacia – al Maxi-processo doveva morire.

E in quella guerra sporca, fatta di infami e attentati, di solitudine e di eroi, i giovani palermitani che ci credevano, quelli animati da un alto senso dello Stato e un briciolo di sana incoscienza, schierati tra le fila della giustizia, erano come carne da macello. Prima di Emanuele, morì Vincenzo. Nell’agosto dell’89. Prima ancora ci fu il fallito attentato dell’Addaura. Vittima designata sarebbe dovuto essere proprio Giovanni Falcone.

Emanuele tra l’89 e il febbraio del ’90 fu cacciatore di latitanti. Illuso che ci fosse un futuro ad attenderlo. In quel piccolo borgo di pescatori che è Sferracavallo, tutti sapevano e tutti parlavano, ma sottovoce, senza farsi sentire. E porre domande per cercare risposte fu la sua condanna a morte.

Fatto sparire una sera di marzo, il suo corpo – si disse – fu sciolto nell’acido. Non un segno di scasso fu rinvenuto in quella villetta che si affaccia sul mare. Emanuele Piazza aprì la porta ai suoi assassini. Li conosceva. Era loro “amico”. Perché il confine tra bene e male spesso non è così chiaro come sembra. Perché – come insegnava Beppe Montana – se vuoi fare il poliziotto, tu devi parlare con i mafiosi o con i loro amici. Ti devi far raccontare tutto per capire meccanismi e conoscere situazioni. Perché, alla fin fine, tutti sanno. E tutti parlano.

Alcuni assassini sono stati condannati – chi all’ergastolo chi a trent’anni. C’è stato anche chi è stato assolto. Nessun esponente dei Servizi ha pagato. Lo Stato Italiano si è auto-assolto. Dall’enorme responsabilità di aver mandato a morire un suo figlio. Un ragazzo. Si chiamava Emanuele Piazza. Faceva il cacciatore di latitanti.

 

 

Leggere anche:

  mafie.blogautore.repubblica.it
Articolo del 13 ottobre 2020

Emanuele Piazza e i “pezzi mancanti”
di Matteo Zilocchi (con la collaborazione di Andrea Piazza)

 

progettosanfrancesco.it
Articolo del 23 ottobre 2020

EMANUELE PIAZZA, il cacciatore di latitanti sciolto nell’acido
a cura di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco

 

palermotoday.it
Articolo del 16 marzo 2021
Il cacciatore di latitanti strangolato e sciolto nell’acido: 31 anni fa la tragica fine di Emanuele Piazza
di Alessandro Bisconti
Una storia di silenzi, dubbi, omertà, depistaggi e tradimenti. Oggi per ricordare il giovane 007 è stata sistemata una pietra in piazza Giovanni Paolo II con la speranza che possa essere la prima del “Marciapiede della memoria, delle vittime di mafia dimenticate dalle istituzioni”

 

 

 

 

 

 

 

 

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