17 Novembre 1920 Gibellina (TP). Assassinato Stefano Caronia, arciprete.

 

Foto: wikipedia.org

Il 17 novembre del 1920 a Gibellina (TP) fu ucciso l’arciprete Stefano Caronia. Era un prete sociale. Aveva contribuito a fondare la Cooperativa di Consumo e si era impegnato nella battaglia contro i feudatari a favore della popolazione locale.

 

Fonte: wikipedia.org

Arciprete impegnato per la sua attività di “prete sociale”, legata all’insegnamento di Leone XIII e all’azione di Don Sturzo.

Vecchio esponente del Partito Popolare Italiano e sostenitore dell’azione delle cooperative popolari si impegnò nella battaglia contro feudatari locali a favore della popolazione di Gibellina, domandando a Roma l’esproprio dei feudi circostanti, a favore della locale Cooperativa Agricola, sollecitando all’azione i suoi compaesani con queste parole:

« A tutta la classe dei borghesi e degli agricoltori perché non restino indifferenti,
perché non si lascino turlupinare dai feudatarii, né dagli intermediarii,
grossi gabelloti già arricchitisi col frutto del sudore dei lavoratori. »
(S. Caronia)

Nell’agosto 1920 320 persone si erano già inscritte nella sezione locale del PPI in appoggio a questa battaglia, che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere di carattere amministrativo. Venne ucciso con tre colpi di rivoltella, nel pomeriggio tardo del 17 novembre 1920, in pieno centro paese, vicino alla Cooperativa di Consumo che aveva contribuito a far crescere.

Le modalità del delitto non lasciarono dubbi sull’intenzione intimidatoria dello stesso, oltre che alla necessità mafiosa di eliminare un abile organizzatore della lotta contro i poteri feudatari mafiosi. L’anno seguente nelle province di Trapani, Agrigento e Caltanissetta il PPI subirà una flessione alle elezioni politiche.

 

 

Fonte:  centroimpastato.it
Chiesa, mondo cattolico e mafia
di Umberto Santino

Mentre la Chiesa cattolica ha compiuto i primi passi per il processo di beatificazione di padre Puglisi, il parroco di Brancaccio ucciso nel settembre del 1993 (sulla lapide nella sua chiesa non c’è la parola mafia ma nessuno ha mai dubitato che sia stato ucciso da mano mafiosa), la Cassazione ha definitivamente assolto padre Frittitta, condannato in primo grado per favoreggiamento aggravato nei confronti del capomafia Pietro Aglieri, assolto in appello e definitivamente scagionato dalla Suprema Corte “per aver commesso il fatto nell’esercizio di un diritto”, cioè per avere esercitato il suo ministero di sacerdote visitando il boss latitante e dicendo messa nel suo nascondiglio, debitamente arredato con un altarino.
Al di là di scelte personali, che possono portare al martirio o all’incriminazione per favoreggiamento, nella lunga vicenda dei rapporti con la mafia la Chiesa cattolica e più in generale il mondo cattolico hanno assunto atteggiamenti diversi, che vanno dal silenzio alla denuncia, dalla complicità all’impegno, dalla condivisione alla condanna.
Nella mia Storia del movimento antimafia ho ricostruito questi rapporti, cercando di essere il più possibile obiettivo e dando spazio a eventi e figure dimenticati.

Chiesa cattolica e movimento contadino
Nell’oltre mezzo secolo che vide la contrapposizione tra il movimento contadino, le forze politiche di sinistra e i proprietari terrieri e i mafiosi, dall’ultimo decennio del XIX secolo agli anni ’50 del XX, la Chiesa è stata, quasi unanimemente, dalla parte di chi deteneva il potere, considerando quelle lotte, in nome del socialismo e del comunismo, un grave attentato all’assetto socio-politico in cui era pienamente inserita.
Durante i Fasci siciliani, l’unica voce che in un primo momento mostrò di comprendere “le ragioni del malcontento popolare” fu quella del vescovo di Caltanissetta Guttadauro che in una lettera pastorale dell’ottobre 1893 scriveva: “Le ragioni del malcontento esistono e non si possono dissimulare. Il ricco per lo più abusa delle necessità del povero, che viene costretto a vivere di fatica, di stento, di disinganno”. Il vescovo invitava i parroci a reclamare presso i proprietari e i gabelloti, direttamente o indirettamente legati alla mafia, perché si ristabilisse la giustizia e l’equità nei contratti, la giusta proporzione tra il lavoro e il capitale, venisse diviso equamente il raccolto, si desse ai lavoratori la giusta mercede, cessasse l’usura. Ma successivamente, nel febbraio del 1894, quando la parabola dei Fasci siciliani si era chiusa nel sangue (108 morti in un anno), per l’azione congiunta dei campieri mafiosi e dei militari inviati da Crispi, monsignor Guttadauro muta registro e si unisce al coro dei prelati che scagliano fulmini contro i Fasci: le plebi sono state illuse da istigatori malvagi e da ree dottrine, come il socialismo e la massoneria. Il vescovo di Noto propone di rinchiudere “caritatevolmente” i socialisti in manicomio e definisce “stoltizia” l’aspirazione a ordinamenti democratici e a un’equa distribuzione dei beni. Il cardinale arcivescovo di Palermo tuona contro i “mestatori anarchici e socialisti” e riceve nel palazzo arcivescovile il generale massacratore Morra di Lavriano che lo ringrazia per la pubblicazione della sua pastorale.
Eppure negli anni successivi nasceranno all’interno del mondo cattolico nuove forme di apostolato sociale, associazioni e istituti “diretti a sollevare la povertà del popolo”, germogli siciliani dell’Opera dei Congressi, che si proponeva di avviare un intervento delle parrocchie nella vita sociale.
Si profila così quella che sarà la strategia dei cattolici più avveduti di fronte al movimento contadino: condanna esplicita del socialismo e delle lotte ad esso ispirate, promozione di iniziative volte ad alleviare le condizioni di vita degli strati più disagiati. Così, per fronteggiare l’usura, don Sturzo, fondatore del Partito popolare, si prodiga per lo sviluppo delle casse rurali cattoliche, all’interno di una visione che poggia su un’analisi abbastanza lucida del fenomeno mafioso, salito alla ribalta nazionale con il delitto Notarbartolo del febbraio del 1893, ma sulla chiusura verso la lotta di classe. I cattolici erano favorevoli alle affittanze collettive, che miravano ad eliminare il gabelloto mafioso sostituendolo nell’affitto dei feudi con le cooperative di lavoratori, e puntavano l’attenzione verso i ceti medi: piccoli proprietari coltivatori, mezzadri e fittavoli. In concreto le casse rurali cattoliche nascono in contrapposizione con le casse agrarie socialiste e raccolgono soggetti non proprio raccomandabili. Così a Santo Stefano Quisquina, in provincia di Agrigento, si consuma una vicenda esemplare: la contrapposizione tra la Cassa agraria cooperativa, organizzata dal dirigente socialista Lorenzo Panepinto, e la Cassa rurale cattolica, legata ai gabelloti, si inserisce in uno scontro, avviato negli anni dei Fasci e continuato successivamente, che porta nel maggio del 1911 all’omicidio di Panepinto, destinato come tantissimi altri a rimanere impunito. Ma anche in un centro di vitale importanza per le lotte contadine e lo scontro con la mafia, come Corleone, vengono segnalati legami della locale Cassa rurale con mafiosi: affiliati alla cosca dei “fratuzzi” venivano impiegati come campieri nelle affittanze e godevano del credito agrario e commerciale.

Preti uccisi dalla mafia e la “famiglia sacerdotale” di don Calò Vizzini
Negli anni precedenti l’avvento del fascismo il movimento contadino vive una nuova stagione di lotte anch’essa conclusa nel sangue. Tra i caduti ci sono il dirigente contadino Nicolò Alongi e il segretario del sindacato dei metalmeccanici di Palermo Giovanni Orcel, che avevano sperimentato le prime forme di collegamento tra lotte contadine e operaie, entrambi assassinati nel 1920. In quegli anni tra le vittime di omicidi ci sono dei preti. Alcuni di essi possono essere caduti per avere svolto attività non gradite agli ambienti mafiosi. Giorgio Gennaro, ucciso nel 1916 nella borgata palermitana di Ciaculli, regno della dinastia mafiosa dei Greco, aveva denunciato il loro ruolo nell’amministrazione delle rendite ecclesiastiche. Così pure Costantino Stella, arciprete di Resuttano, in provincia di Caltanissetta, ucciso nel 1919, e Stefano Caronia, arciprete di Gibellina, in provincia di Trapani, ucciso nel 1920, sono “preti sociali”, la cui attività si lega all’insegnamento di Leone XIII e all’azione di don Sturzo. Ma accanto ad essi troviamo preti legati alla mafia, come l’arciprete di Castel di Lucio (Messina) Gian Battista Stimolo, ucciso sempre nel corso degli anni ’20, e altri come i cinque ecclesiastici della famiglia di Calogero Vizzini, capomafia per molti anni, che non risulta abbiano mai avuto nulla da ridire sulle imprese del loro congiunto. Due di essi, zii di don Calò, sono vescovi, un altro zio è arciprete, e due fratelli sono preti e uno, monsignor Giovanni, per poco non ha indossato anche lui i panni episcopali. Calogero Vizzini, mafioso-imprenditore, gabelloto di feudi e di miniere di zolfo, è il protagonista della sparatoria sulla piazza di Villalba, del 16 settembre 1944, in cui rimase ferito Girolamo Li Causi, da poco arrivato in Sicilia per riorganizzare il Partito comunista. Di casa Vizzini il vescovo di Caltanissetta Giovanni Jacono scriveva che era una famiglia “veramente sacerdotale” e non nascondeva che aveva aiutato il capomafia a scampare al carcere. Il vescovo aveva speso la sua autorità anche per altri mafiosi, congiunti di sacerdoti, arrestati o confinati.

Il cardinale Ruffini: i comunisti fuori legge
Nell’ultima fase del movimento contadino, nel secondo dopoguerra, non troviamo traccia di un ruolo dei cattolici, se non dall’altro lato delle barricate. La figura più rappresentativa della Chiesa siciliana è certamente il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini, mantovano ma ben presto ambientatosi nel clima isolano. Dopo la strage di Portella della Ginestra del primo maggio 1947, eseguita dalla banda Giuliano ma voluta dagli agrari, dai mafiosi e dai partiti conservatori, battuti alle elezioni regionali del 20 aprile in cui per la prima e ultima volta vinsero le sinistre raccolte nel Blocco del popolo, Ruffini inviò una lettera al Papa, in cui parlava di inevitabile resistenza e ribellione “di fronte alle prepotenze, alle calunnie, ai sistemi sleali e alla teorie antiitaliane e anticristiane dei comunisti”. E dopo la vittoria della Dc alle elezioni del 18 aprile 1948, chiese per iscritto al ministro degli Interni, il siciliano Mario Scelba, e a voce al presidente del consiglio Alcide De Gasperi, di mettere fuori legge il PCI. I nemici sono loro, i comunisti, scomunicati come il nuovo Anticristo, e in nome della lotta anticomunista tutto è lecito o giustificabile. E negli anni ’40 e ’50 ci saranno manovre per indebolire le lotte contadine, con la scissione sindacale, la creazione della Coldiretti, e la Chiesa, che nel maggio ’47 aveva salutato come un fatto positivo la rottura della coalizione antifascista al governo nazionale, avrà un ruolo di primissimo piano nella costruzione di un quadro politico ermeticamente sbarrato a sinistra.
Nel dicembre del 1951 il pontefice Pio XII rivolse un invito ai vescovi radunati nel concilio plenario siculo a “provvedere all’assistenza religiosa e materiale della plebe proletaria” e a favorire “con tutti i mezzi le Associazioni cristiane dei lavoratori e i loro liberi Sindacati”, ma il tentativo del vescovo di Agrigento Giovanni Battista Peruzzo di inserire nei canoni conciliari un capitolo sull’apostolato sociale, riprendendo la dottrina sociale della Chiesa su temi come il pieno impiego, il salario familiare, la bonifica delle terre, la riforma della proprietà terriera, l’assistenza alla piccola proprietà, sempre tenendo ben fermo il distacco dalle organizzazioni comuniste, compresa la CGIL, cadde nel vuoto, per il timore che anche soltanto parlare di “questione sociale” potesse portare acqua al mulino comunista.
Assolutamente isolata rimase la voce di don Primo Mazzolari che in un libretto sulla Sicilia scriveva che “il cristiano non può rimanere indifferente di fronte ai conflitti e alle contese di classe e di casta”. In compenso continuano le convivenze con la mafia anche sotto lo stesso tetto familiare. A Caccamo, in provincia di Palermo, il fratello del capomafia è l’arciprete Teotista Panzeca e in quella zona cadranno Filippo Intile, un contadino che si batteva per l’attuazione del decreto che disponeva la divisione del prodotto a favore dei coltivatori, e il sindacalista Salvatore Carnevale, mentre la Dc raggiungerà percentuali da monopolio.

La mafia? Un’invenzione dei comunisti!
Una volta sconfitto il movimento contadino e apertasi la strada all’emigrazione, la lotta alla mafia negli anni ’60 e ’70 è condotta da una sinistra ormai minoritaria. Nei primi anni ’60 si scatena una sanguinosa guerra di mafia e dopo la strage di Ciaculli, del 30 giugno 1963, il pastore della piccola comunità valdese di Palermo Pietro Valdo Panascia fa affiggere un manifesto in cui condanna esplicitamente la violenza mafiosa. A nome del Papa Paolo VI, il sostituto della Segreteria di Stato scrive al cardinale di Palermo, segnalando la presa di posizione di Panascia e invitandolo, con lo studiato linguaggio della diplomazia vaticana, a promuovere un’azione “per dissociare la mentalità della così detta “mafia” da quella religiosa e per confortare questa ad una più coerente osservanza dei principi cristiani”.
La risposta di Ruffini è molto meno diplomatica: non si può neppure lontanamente supporre un rapporto tra mentalità mafiosa e religiosa: questa è una calunnia dei comunisti. Il manifesto dei valdesi è solo “un ridicolo tentativo di speculazione protestante”; si parla tanto di mafia, ma sono solo delinquenti comuni, come ce ne sono dappertutto. E la Chiesa cattolica è impegnata quotidianamente in mille opere di bene.
L’anno successivo Ruffini pubblica una pastorale dal titolo Il vero volto della Sicilia, in cui dice che la mafia è formata da “gruppi di ardimentosi” mobilitati da alcuni capi, che la Sicilia ha dato i natali a tanti uomini illustri ma è purtroppo denigrata da personaggi come Danilo Dolci e da un romanzo come Il Gattopardo. Il documento del cardinale mantovano si può annoverare tra le pagine più emblematiche del sicilianismo, un’ideologia a forte tasso di filomafiosità. Non mancheranno all’alto prelato occasioni per continuare a tempestare contro i comunisti: è opera loro la montatura inscenata contro i monaci di Mazzarino – scriveva Ruffini a Giovanni XXIII – ma i frati saranno condannati come complici di mafiosi responsabili di estorsioni e di omicidi. Invano a loro difesa si erano levate le voci di avvocati come Giovanni Leone e Francesco Carnelutti, che sostenne che i frati erano dei santi, perché cercavano di persuadere gli estorti a pagare il pizzo, per evitare guai peggiori. Un esempio di francescanesimo riscritto in chiave mafiosa.

Dagli anni ’80 ad oggi: emergenze, impegno e compromesso
Le vicende degli ultimi decenni dovrebbero essere meglio note ma non mi pare che sia in corso una riflessione adeguata. Con la montagna di morti dell’ultima guerra di mafia (1981-83) e soprattutto con i grandi delitti e le stragi dei primi anni ’90, si è riscoperta ancora una volta la mafia (una storia che si ripete, dal delitto Notarbartolo ai nostri giorni) e c’è stata una reazione che ha portato alla legislazione antimafia, agli arresti e alle condanne e alla mobilitazione della società civile. La Chiesa, attraverso la parola del cardinale di Palermo Pappalardo e del Papa, ha preso posizione, c’è stato un impegno, meno visibile ma prezioso, di preti e credenti che ha portato al martirio di don Puglisi e di don Diana in Campania; si è parlato di mafia in termini nuovi, come “peccato sociale” e “struttura di peccato”, si sono gettate le basi per una “pastorale antimafia”. Ma anche la Chiesa e il mondo cattolico non sono sfuggiti al limite di fondo che hanno avuto istituzioni e società civile, attivate in una logica d’emergenza, cioè di risposta alla sfida mafiosa, con il ripiegamento e il ritorno alla “normalità” una volta che i mafiosi più accorti hanno messo da parte la strategia stragista. Se la mafia viene considerata soprattutto o esclusivamente una fabbrica di omicidi, un’emergenza straordinaria coincidente con la stagione dei delitti eccellenti, è facile passare all’equazione secondo cui una mafia che non uccide più, o uccide meno, comunque non uccide personaggi di primo piano, è una mafia alle corde, di cui non preoccuparsi eccessivamente.
E poi, tenendo conto di quello che rappresentano Chiesa e mondo cattolico nel nostro Paese, e non solo, non si poteva andare oltre un certo punto. Così le omelie del cardinale Pappalardo e del Papa si sono fermate quando era chiaro che bisognava affrontare il nodo del potere democristiano e del ruolo della Chiesa al suo interno. Le reazioni all’omicidio di don Puglisi sono state sottotono, la Curia e la parrocchia non si sono costituite parte civile al processo contro i mafiosi incriminati dell’assassinio, con una giustificazione inquietante: alla Chiesa interessa la conversione dei peccatori e quindi la giustizia terrena non ha molta importanza, una valutazione che rischia di somigliare al non riconoscimento del monopolio statale della forza e della giustizia teorizzato e praticato dai mafiosi.
A cosa alludeva il sostituto della segreteria di Stato nella lettera al cardinale Ruffini del 1963 quando parlava di mentalità mafiosa e mentalità religiosa? Il discorso allora non fu sviluppato ma successivamente non sono mancati contributi significativi. Teologi, moralisti, sociologi hanno sottolineato che c’erano e ci sono concezioni, linguaggi, riti, pratiche, che spiegano come in società ufficialmente cristianizzate si possano affermare e istituzionalizzare comportamenti e organizzazioni criminali. I mafiosi devoti, da Michele Greco ad Aglieri, assidui lettori della Bibbia e di testi edificanti e con altarino da latitanza, come pure i sicari di Medellín che pregano Maria Ausiliatrice prima di recarsi a compiere il loro omicidio quotidiano, condividono una religiosità che è fatta di pratiche esteriori, di elemosine e processioni, di frequentazioni con uomini di Chiesa che li esortano al pentimento, assicurando che Dio non farà mancare il suo perdono. Qualcuno ha visto nel culto dei santi come intermediari tra Dio e gli uomini qualcosa di molto simile al clientelismo, una sorta di proiezione celeste della pratica della raccomandazione; certamente l’autoritarismo della struttura gerarchica non aiuta a promuovere la partecipazione democratica e un’etica che dà maggiore importanza agli “atti impuri” che ai comportamenti sociali non stimola i fedeli a diventare cittadini impegnati per il rinnovamento della società.
Chiesa e mondo cattolico erano e rimangono una realtà composita, in cui convivono don Puglisi e padre Frittitta, la teologia della liberazione e le spregiudicate operazioni finanziarie di monsignor Marcinkus (su cui non si è mai fatta chiarezza). E se gli occhi sono rivolti al cielo, i piedi sono ben piantati sulla terra. La Chiesa fa politica, amministra consenso, assegna preferenze. In passato l’azione politica dei cattolici osservanti aveva come collante l’anticomunismo, e in suo nome si sono fatti compromessi e ingoiati rospi; ora, rottamata l’unità politica, può bastare la condivisione di concezioni e interessi, che vanno dalla condanna dell’aborto al finanziamento delle scuole private. Nessuna sorpresa se su questa base si trovano consonanze con il centro-destra, verso cui vanno le simpatie del Vaticano e della Conferenza episcopale italiana. La “questione morale” può attendere. Dopo mezzo secolo di Andreotti, ben venga Berlusconi, anche se della sua compagnia fa parte un certo Bossi che preferisce la acque del Po all’acqua benedetta.
Come pure non bisogna sorprendersi se già sono cominciate le gare di salto sul carro del vincitore. Alle elezioni regionali siciliane si è candidata con Forza Italia una dirigente delle Acli, una delle più popolari organizzazioni cattoliche, che a suo tempo fu nominata referente regionale di Libera. Scelta che non fu condivisa da noi del Centro Impastato, da alcuni del Centro sociale San Saverio dell’Albergheria e da qualche altro, che pure non aveva fama di estremista, e sulla base di argomentazioni non peregrine. Le Acli in Sicilia avevano avuto un ruolo nel movimento per la pace dei primi anni ’80, avevano fatto parte del Coordinamento antimafia, costituitosi a Palermo nel 1984 su proposta del Centro Impastato, ma il loro impegno doveva fare i conti con la compartecipazione al potere democristiano (per cui in privato si poteva dire tutto il male possibile di Salvo Lima, ma in pubblico bisognava tenere la lingua a posto) e con le compatibilità del sistema clientelare. Osservazioni che caddero nel vuoto.
Allora, in nome di scelte discutibili, si produssero lacerazioni che non hanno certo giovato al movimento antimafia. Ora chi predicava l’educazione alla legalità ha pensato bene di traslocare in condomini più accoglienti, porta a porta con personaggi sotto processo per mafia (ma si può scommettere sulla loro assoluzione, dopo il diritto all’impunità proclamato da un voto che, anche per effetto di un sistema elettorale aberrante, somiglia a un plebiscito). Queste vicende, in un quadro in cui la lotta antimafia rischia di essere archiviata e le istituzioni sono in mani certamente poco affidabili, saranno un’occasione per riflettere o si dirà che sono soltanto un incidente di percorso?

 

 

 

Fonte:  tp24.it
Articolo del 29 novembre 2017
Don Stefano Caronia, un prete siciliano, vittima di mafia, da ricordare e imitare

A Gibellina la sera del 27 Novembre 1920, a soli 44 anni, venne barbaramente ucciso, per mano mafiosa, don Stefano Caronia, “l’arciprete sociale” e strenuo ed incisivo difensore dei contadini. Il ricordo di Don Stefano Caronia nelle parole di don Francesco Fiorino. Nella lapide della sua tomba vi fu scritto:

“Si distinse per studio e disciplina nel Seminario di Mazara. Fu sacerdote il 23 Maggio 1900 e zelò con amore la Chiesa di S. Nicolò. Campione fervente dell’Azione Cattolica portò la democrazia ai poteri e Partanna alla testa del movimento. Eletto Arciprete di Gibellina il 6 Luglio 1914 fu accolto da tutti qual messo da Dio. Pastore colto e zelante tenne alta la fede nel popolo la dignità nel clero. Apostolo instancabile organizzò una florida sezione del Partito Popolare Italiano”.

Tutta l’attività di don Caronia fu legata all’insegnamento di Leone XIII e all’azione di Don Sturzo. Don Caronia aveva alzato la voce a favore dei contadini fino a chiedere che le terre della Chiesa fossero strappate dalle mani dei gabelloti mafiosi. Una testimonianza davvero forte e coraggiosa che non deve essere dimenticata, ma anzi deve essere conosciuta e riproposta. Di questi preti che in un contesto difficilissimo hanno rappresentato una resistenza alla mafia non è rimasta memoria forse perché il loro ricordo richiama un impegno di credibilità forte a cui non possiamo sottrarci. La lotta alla mafia, alla sua perversa ed invasiva mentalità deve continuare ed essere più decisa, con una forte dimensione educativa. Don Stefano, un martire della fede operosa e coraggiosa, ci sia da sprone e da esempio.

 

 

 

Fonte  diario1984.it
Articolo del 25 novembre 2018
L’omaggio del poeta Fabio Strinati all’Arciprete Caronia ucciso dalla mafia il 17 novembre 1920

Gibellina. Il poeta Fabio Strinati, collaboratore del Diario, ha scritto una poesia dedicata all’Arciprete Stefano Caronia, ucciso con tre colpi di rivoltella il 17 novembre 1920, su commissione della mafia, per la sua coraggiosa battaglia contro i feudatari locali e a favore della povera gente di Gibellina.

A STEFANO CARONIA
Lo sguardo buono sulle cose,
gli occhi giusti come calore sulle rose
e quel velo d’amore spento
da mani ingiuste e minacciose
in un terreno concimato
col sudore dei lavoratori;
lottatore vero, “prete sociale”
che per mano ha preso
gli agricoltori come semi
da piantare per un nuovo sole
sopra Gibellina, terra fertile
e dal clima d’oro che rassomiglia
al tuo cuore in rima.
FABIO STRINATI

Chi era Stefano Caronia? Era un arciprete impegnato per la sua attività di “prete sociale”, legata all’insegnamento di Leone XIII e all’azione di Don Sturzo.
Esponente del Partito Popolare Italiano di Sturzo e sostenitore dell’azione delle cooperative popolari si impegnò nella battaglia contro feudatari locali a favore della popolazione di Gibellina, domandando a Roma l’esproprio dei feudi circostanti, a favore della locale Cooperativa Agricola, sollecitando all’azione i suoi compaesani con queste parole:
«A tutta la classe dei borghesi e degli agricoltori perché non restino indifferenti,
perché non si lascino turlupinare dai feudatarii, né dagli intermediarii,
grossi gabelloti già arricchitisi col frutto del sudore dei lavoratori.»
(S. Caronia)
Nell’agosto 1920, 320 persone si erano già iscritte nella locale sezione del PPI in appoggio a questa battaglia, che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere di carattere amministrativo. Venne ucciso con tre colpi di rivoltella, nel pomeriggio tardo del 17 novembre 1920, in pieno centro paese, vicino alla Cooperativa di Consumo che aveva contribuito a far crescere.
Le modalità del delitto non lasciarono dubbi sull’intenzione intimidatoria dello stesso, oltre che alla necessità mafiosa di eliminare un abile organizzatore della lotta contro i poteri feudatari mafiosi.L’anno seguente nella provincia di Trapani il PPI subirà una flessione alle elezioni politiche.[senza fonte]
Nella lapide fu scritto [1]:
«Si distinse per studio e disciplina nel Seminario di Mazara. Fu sacerdote il 23 maggio 1900 e zelo con amore la Chiesa di S. Nicolò. Campione fervente dell’Azione Cattolica portò la democrazia ai poteri e Partanna alla testa del movimento. Eletto Arciprete di Gibellina il 6 luglio 1914 fu accolto da tutti qual messo da Dio. Pastore colto e zelante tenne alta la fede nel popolo la dignità nel clero. Apostolo instancabile organizzò una florida sezione del Partito Popolare Italiano. Lui Duge si ….. la prima radiosa vittoria in Provincia mentre maturava i più ardui problemi per l’immegliamento religioso ed economico delle classi. Colpito da mano assassina cadde la sera del 17 novembre 1920 e fu martire dell’idea della pace!»

 

 

 

Fonte:  giornalekleos.it
Articolo del 15 marzo 2020
Don Stefano Caronia martire della genuina idea di carità
Da “Gocce e segni indelebili della Chiesa di Mazara”di Don Pietro Pisciotta

(Riduzione a cura di Nino Passalacqua)

Cenni biografici

Nato a Partanna l’11 agosto 1876 da una famiglia di modeste condizioni economiche, entrò ancora giovinetto nel Seminario Vescovile di Mazara distinguendosi per amore allo studio e profonda responsabilità. A ventiquattro anni, il 23 maggio 1900, fu ordinato presbitero per la Chiesa di Mazara. Eletto nel 1913 arciprete di Gibellina, vi trovò la morte il 27 novembre 1920 per mano assassina.

Attività sociale a Partanna

Ordinato sacerdote, nella sua Partanna il Caronia si rivelò subito un vero pioniere nel progetto per organizzare il laicato cattolico, secondo le direttive della Rerum Novarum e sensibilizzare i lavoratori nell’istituzione delle Casse Rurali e dei Circoli Cattolici. La Cassa Rurale di Partanna sorse in questo arco di tempo grazie all’impegno di don Stefano oltre che di don Giuseppe Nastasi e del dott. Luigi Parisi Asaro. Questa divenne floridissima e il Circolo Cattolico fu frequentato da molti giovani tanto da riuscire, superando ostacoli d’ogni sorta, a pubblicare il periodico “La Bandiera Bianca”. Erano gli anni in cui imperversava l’anticlericalismo massonico e veniva agitata la bandiera del libero pensiero.

Il Movimento Cattolico

Nel 1907 il Circolo Cattolico e la Cassa Rurale si resero protagonisti di due episodi degni di nota. Nel maggio di quell’anno, infatti, fu organizzato il primo riuscitissimo Congresso diocesano che vide convogliati in Partanna tutti i Circoli cattolici e i rappresentanti del Movimento cattolico della Diocesi, dove trovarono spazio tutte le sigle dei cattolici organizzati; numerosa si dimostrò, in quella occasione, la presenza del clero della diocesi e assai valida la partecipazione di propagandisti arrivati anche da Palermo. Felice fu soprattutto il Caronia che, da assistente spirituale, si era adoperato con la sua brillante eloquenza per la migliore riuscita della grande adunata. Non si fece attendere la risposta della massoneria che inviò subito a Partanna un conferenziere bruniano per organizzare un anticongresso. Il Caronia ed il dott. Asaro mobilitarono i giovani del Circolo ed in breve tempo il popolo di Partanna, in modo agguerrito ed organizzato, dimostrò che la Partanna cattolica non era assolutamente disposta ad ascoltare le ingiurie nefande e le bugie della setta massonica: la conferenza liberal-massonica si rivelò un disastro.

Arciprete di Gibellina

Come si è detto, nel 1913, il 6 luglio, don Stefano Caronia venne eletto arciprete di Gibellina, succedendo a don Giacomo Leone che aveva retto quella parrocchia per un decennio. Nella nuova sede, il Caronia tenne alta la fede del popolo riuscendo a superare beghe e pettegolezzi, frutto di acredine anche da parte del clero locale che mal sopportava un arciprete non del luogo. Apostolo instancabile, organizzò una florida sezione del Partito Popolare riuscendo a conseguire lusinghieri risultati e una prima radiosa vittoria a livello provinciale.

1920: anno della vittoria …

L’anno 1920 segnò due tappe della sua azione sociale che determinarono il suo Tabor e il suo Calvario. In quell’anno, infatti, il Partito Popolare di Gibellina affrontò due competizioni elettorali: quella comunale e quella provinciale. Con un programma di rinnovamento e di lotta contro ogni sopruso conseguì la piena vittoria sulle forze liberal-massoniche e socialiste. Nella diatriba pre-elettorale, sorta in quei giorni tra i partiti, l’arciprete Caronia divenne l’anima del Partito Popolare alla luce del concetto a lui caro di “carità” quale amore, servizio, condivisione e riscoperta della dignità della persona umana riuscendo a risvegliare le coscienze e contribuendo a segnare una doppia strepitosa vittoria per il Partito di don Sturzo. Le consultazioni elettorali del 12 settembre 1920, infatti, videro a livello provinciale l’elezione del prof. Liborio Santangelo e a livello comunale la conquista dell’amministrazione civica.

… ma anche anno del martirio

Duplice vittoria che risultò anche fatale per l’indomito arciprete al quale ignoti prepararono presto la croce. Colpito da mano assassina, cadde vittima la sera del 27 novembre 1920, martire di un’Idea: avere affermato il Movimento Cattolico della Sicilia, espressione della religiosità e della fede di un popolo. L’assassinio lasciò un vuoto profondo e tanta costernazione. Il settimanale “Il Popolo”, organo del P.P.I. per la provincia di Trapani in data 1° dicembre esordì con l’articolo “Ancora una vittima dell’idea e del dovere”. “Con un senso di raccapriccio registriamo la tragedia della quale fu funestata Gibellina la sera del 27 u.s. Il nostro povero amico e compagno di fede, il valoroso organizzatore Arciprete Stefano Caronia, sull’imbrunire veniva assassinato in pieno Corso con tre colpi di rivoltella. Ebbe appena il tempo di trascinarsi nei vicini locali della Cooperativa di Consumo, ove ricevette gli ultimi conforti religiosi, e dopo pochi minuti spirò. Il pastore buono ed operoso, l’infaticabile Apostolo è spento. Si volle in lui colpire l’araldo dell’idea, l’assertore delle forme più alte di essa, l’organizzatore abile e forte. L’arciprete Caronia fu essenzialmente un Parroco, e l’opera sociale svolta, non solo non diminuì la sua sacerdotale attività, ma quel che è più in niente svalutò la mitezza e la bontà del suo carattere di Sacerdote di Cristo e di padre di tutti”. Del rammarico generale si fece interprete in modo particolare don Luigi Sturzo, segretario e fondatore del P.P.I., con incisive espressioni dettate in un telegramma.

 

 

 

 

 

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