18 aprile 2011 Nicotera (VV). Santa Tita Buccafusca (37 anni), moglie di un capomafia di ‘ndrangheta, muore, apparentemente suicida, dopo aver ingerito acido muriatico. Aveva manifestato l’intenzione di collaborare con la giustizia.

Foto da: quicosenza.it

Santa Tita Buccafusca, 37 anni, morì il 18 aprile del 2011 all’ospedale di Polistena, dove era stata ricoverata due giorni prima dopo aver ingerito dell’acido muriatico. Madre di un bambino di 16 mesi, era la moglie di uno dei più potenti capimafia della ‘ndrangheta calabrese, Pantalone Mancuso dello “Luni Scarpuni”. L’arresto del marito e una serie di tremendi lutti familiari la fecero cadere in uno stato di profonda depressione dal quale sembrò uscire con la nascita di suo figlio. Ma la presenza asfissiante della malavita, alla vigilia di una tremenda stagione di omicidi che sconvolse il Vibonese, le toglieva il respiro. La donna si decise così a collaborare con la giustizia e a chiedere protezione. Ma Tita non firmò mai il verbale con le sue dichiarazioni, preda di un estenuante conflitto interiore. I Carabinieri, ai quali si era rivolta, furono dunque costretti a restituirla ai suoi familiari che la riportarono a casa. Il 16 aprile del 2011 la donna ingerì una quantità letale di acido muriatico che non le lasciò scampo.

Fonte: vivi.libera.it

 

 

Fonte:  pourfemme.it
Articolo del 18 aprile 2014
Tita Buccafusca, vittima della ‘ndrangheta prima che di se stessa
di Fabrizio Capecelatro
Le mafie non sono solo un cancro della società, ma sono anche un cancro delle persone: hanno la stessa capacità di uccidere, corrodere, stremare gli uomini e le donne che, in qualche modo, ne fanno parte.

Il cancro è una malattia che genera autonomamente il nostro corpo: non è un virus o un batterio che arriva dall’esterno e ci attacca. Il cancro è un tessuto, una cellula di noi che impazzisce e comincia a corroderci dall’interno. È sempre stato lì, è nato insieme a noi, lo abbiamo addirittura generato noi: fino a qualche giorno prima stava lì “buono” e poi da un momento all’altro diventa il nostro principale nemico. Il cancro è una parte di noi che ci ruba la vita e ci uccide con una sofferenza che nessun altro saprebbe mai infliggerci, se non noi stessi.

Le mafie allora non sono solo un cancro della società, ma sono anche un cancro delle persone: hanno la stessa capacità di uccidere, corrodere, stremare gli uomini e le donne che, in qualche modo, ne fanno parte. E non ci si può fermare alla convinzione che sia sufficiente tenersi alla larga da quell’ambiente per non ammalarsi, perché il cancro, se vuole, ti prende e ti trascina nella sua sofferenza, presentandosi sotto le migliori sembianze: l’amore, ad esempio.

A Tita Buccafusca, all’anagrafe Santa, figlia di una famiglia di pescatori “per bene”, il cancro si presentò quando aveva solo 15 anni, nel 1989, sotto forma di un uomo, ma ci mise molto tempo a palesarsi come un male e ancora di più a ucciderla. Quell’uomo era Pantaleone Mancuso, detto “Luni Scarpuni”, uno dei capimafia più potenti della ‘ndrangheta calabrese. Tita si innamorò di quell’uomo e soltanto un altro amore, ancora più grande, avrebbe potuto farle capire che il suo Luni era il male e l’avrebbe trascinata con la forza verso la morte. Ma ormai sarebbe stato troppo tardi.

A nulla servì l’arresto del padre, un uomo “per bene” finito nelle maglie della malavita proprio a causa di quel suo amore sbagliato, la morte della madre straziata per la sorte che sarebbe toccata alla figlia, gli anni di solitudine mentre Luni, ormai ai vertici della criminalità organizzata calabrese, era rinchiuso in carcere. E non era certo lo status di imprenditrice o i conti in banca a far restare Tita fedele a quell’uomo, quanto l’amore nei suoi confronti. Altrimenti non avrebbe sopportato di cadere, per colpa di quell’uomo, in una profonda depressione che nel 2008 la portò a ben due ricoveri nell’ospedale psichiatrico di Polistena. Altrimenti non avrebbe aspettato la sua scarcerazione per sposarlo e mettere al mondo un figlio.

Un figlio, quell’unico amore che le avrebbe permesso di mettere in secondo piano l’amore per il marito e togliere dai suoi occhi quella patina che le offuscava la vista. Ma soprattutto quell’amore che l’avrebbe portata ancora più rapidamente verso la morte. Fu, infatti, proprio la nascita di suo figlio e la voglia di offrirgli un futuro migliore rispetto a quello che era toccato a lei che la convinse a cambiare vita, a denunciare e a collaborare con la giustizia.

Tutto quello che ha fatto, o che non ha fatto, Tita di sicuro l’ha fatto per amore. E non a caso è proprio il giorno di San Valentino del 2011, con in braccio il figlio, si è recata alla stazione dei Carabinieri di Nicotera Marina per denunciare se stessa, il marito e uno dei più potenti e sanguinari sistemi criminali.

Ma Tita non si è limitata a denunciare: ha voluto sfidare il marito e, protetta dagli agenti, gli telefonò per dirgli che avrebbe cambiato vita, che avrebbe collaborato con la giustizia, che lo avrebbe mandato in galera, questa volta per sempre. Forse, però, quello fu un altro, l’ultimo, gesto d’amore verso Luni: Tita probabilmente voleva convincerlo a seguirla in questa ribellione, voleva metterlo di fronte alla difficile scelta fra la sua nuova e la sua vecchia famiglia.

Anche un carrarmato, se avesse la coscienza, sarebbe indebolito più di tutto dai sensi di colpa, che hanno il potere di immobilizzare chiunque debba fare una scelta. E furono proprio i sensi di colpa a fermare Tita poco prima di firmare le sue deposizioni. Anche se si è convinti a voler cambiare vita, denunciare l’uomo che si è amato e che forse si amerebbe ancore se solo quell’amore non fosse pericoloso per il proprio figlio non è una scelta facile.

Cosi Tita rimase in preda ad un estenuante conflitto interiore: un giorno firmò solo la prima pagina del verbale di deposizione, che rimase a metà proprio come la sua vita, il giorno dopo tornò a casa dal marito, finché il 16 aprile 2011 non decise di uccidersi ingerendo l’acido muriatico e il 18 aprile morì.

L’acido muriatico sì, quello sì che corrode davvero dentro: come la solitudine, come la paura, come il senso di colpa, come l’incertezza, come il cancro, come il cancro della mafia.

 

 

 

 

Tita Buccafusca riaperto il caso ok
LaC TV Pubblicato il 24 mag 2016

 

 

 

Fonte: ilvibonese.it
Articolo del 24 maggio 2016
Morte di Tita Buccafusca, la Dda riapre il caso e indaga per omicidio
Moglie di Pantaleone Mancuso, alias “Scarpuni”, la donna morì nel 2011 dopo aver ingerito acido muriatico. La notizia è stata data oggi pomeriggio nel corso della trasmissione di LaC “I fatti in diretta”.

“Poteva ingerire, volontariamente, una simile quantità di acido muriatico? E’ l’interrogativo attorno al quale ruota la nuova inchiesta istruita dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro sulla morte di Tita Buccafusca. Nata a Nicotera il 7 febbraio del 1974, all’anagrafe era Santa. Per tutti, sin da bambina, invece, Tita. Il pm antimafia Camillo Falvo, disponendo una serie di quesiti sul quadro emerso dall’esame autoptico, indaga sull’ipotesi di omicidio”.

La notizia è stata data questo pomeriggio nel corso della trasmissione di LaC “I fatti in diretta”, dedicata anche al caso di Maria Chindamo, la donna di Laureana di Borrello scomparsa lo scorso 6 maggio tra Limbadi e Nicotera, e al giallo relativo alla morte di Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte, i due netturbini assassinati per caso il 24 maggio del 1991 a Lamezia Terme.

Sposa di Pantaleone Mancuso alias “Scarpuni”, ritenuto tra i boss della ’ndrangheta più potenti e sanguinari, oggi recluso in regime di 41bis, Tita Buccafusca spirò il 18 aprile 2011 all’ospedale di Polistena. Due giorni prima aveva ingerito dell’acido muriatico nella sua casa di Nicotera Marina.

La sua morte, secondo l’ipotesi al vaglio della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, dopo quasi un lustro dall’archiviazione dell’inchiesta per istigazione al suicidio, sarebbe strettamente correlata alla fuga della donna dalla casa coniugale, un mese prima, per chiedere riparo e protezione allo Stato. La moglie del boss ad un passo, allora, dal divenire una testimone di giustizia.

Era la mattina del 14 marzo 2011 quando Tita, con in braccio il suo bambino, chiese riparo alla Stazione carabinieri di Nicotera Marina. Due giorni prima, a San Calogero, era stato assassinato il supernarcos Vincenzo Barbieri, il re della cocaina importata dai cartelli sudamericani. Tita, bussando ai carabinieri, disse: «Si ammazzano come cani…». E poi: «Andate a casa e prendete il Pc prima che sparisce…».

I carabinieri la trasferirono nella sede del Comando provinciale di Catanzaro. Tita, nel suo atto di ribellione, telefonò al marito, a cui disse che non si sarebbero più rivisti, che lei collaborava con la giustizia e che lui doveva fare altrettanto. Tita non firmò, però, il verbale. Era stanca, stremata, non aveva neppure assunto il farmaco che giornalmente la sosteneva nella lotta disperata contro un’esistenza che non le apparteneva più.

Il giorno dopo, al risveglio, era più consapevole, era pronta a firmare, mentre l’Arma e i magistrati di Catanzaro si erano tutti radunati attorno a lei, assistita anche da personale medico psichiatrico, alla luce di un passato segnato da una “reazione paranoide acuta”. Ma Tita non era ancora pronta. Ciò mentre i magistrati si riunirono tutti nell’abitazione del procuratore Vincenzo Antonio Lombardo per studiare le soluzioni possibili: se non avesse firmato per entrare nel programma speciale di protezione, Tita sarebbe tornata dalla famiglia o sarebbe stata accompagnata in una struttura di assistenza sociale.

Gli altri ufficiali dell’Arma rientrarono in fretta incaserma e le diedero il verbale. Duepagine: lasciò a metà la firma sulla prima, non vergò la seconda.

Un ufficiale del Ros, a quel punto, in modo «chiaro e fermo» – si legge in una relazione alla Dda – la invitò a compiere una scelta perché in caso contrario avrebbe dovuto lasciare quel presidio dell’Arma, non essendoci i presupposti per il programma di protezione. Tita chiese quindi di parlare con la sorella. Una telefonata dai toni pacati e affettuosi, al termine della quale disse ai carabinieri: «Non firmo, non firmo proprio». Furono chiamati così la sorella e il cognato, che a sera ormai inoltrata del 15 marzo 2011 arrivarono a Catanzaro per prendere Tita e riportarla a casa dal marito, Pantaleone Mancuso.

Lo stesso Pantaleone Mancuso che un mese dopo, il 16 aprile, bussò ai carabinieri di Nicotera Marina spiegando che la moglie aveva ingerito acido muriatico.

 

 

Fonte:  quicosenza.it
Articolo del 23 giugno 2018
La moglie del boss vuole cambiare vita, rientra dalla caserma e muore suicida
di Maria Teresa Improta
Non aveva firmato il verbale ed era tornata dal marito. Dopo un mese muore per aver ingerito dell’acido muriatico, caso archiviato

LIMBADI (VV) – Archiviata anche la seconda inchiesta sul suicidio di Santa Buccafusca. Tita, come la chiamavano tutti, aveva 38 anni ed era la moglie del boss di Nicotera e Limbadi Pantaleone Mancuso alias ‘Luni Scarpuni. Si era innamorata di lui da adolescente, ancora quindicenne. Aveva aspettato che fosse scarcerato per sposarlo e mettere su famiglia. Un omicidio ‘eccellente’ nel 2011 la terrorizza. Vincenzo Barbieri, ‘U’ Ragioniere’, noto narcotrafficante in grado di trattare con i Sudamericani per conto dei clan del vibonese, viene ucciso da un commando armato nel centro di San Calogero con una raffica di colpi di mitra e fucili a pompa. E’ in corso un sanguinoso regolamento di conti e Tita teme il peggio per la sua famiglia. E’ consapevole della posizione pericolosa in cui si trova il marito. I soldi della cocaina a Nicotera Marina, secondo il collaboratore di giustizia Andrea Mantella, transitavano proprio nella pescheria a lei intestata. Ha paura e vuole cambiare vita. Con il bimbo in braccio a poche ore dal delitto si presenta dai carabinieri di Nicotera Marina sollecitandone l’intervento: “Si ammazzano come i cani, mettere posti di blocco dappertutto”.

Il tempo le darà ragione. Nei mesi successivi il cugino di Scarpuni, Domenico Campisi broker del narcotraffico affiliato ai Mancuso, viene trucidato in pieno giorno a Nicotera Marina in risposta all’uccisione di Barbieri. Nel frattempo, però, Tita si è suicidata. Non ha sottoscritto le dichiarazioni rese ed è tornata a casa dal marito che dopo un mese, il 16 aprile del 2011 avvisa quegli stessi carabinieri a cui lei si era rivolta informandoli che aveva ingerito dell’acido. Muore dopo due giorni di agonia trascorsi tra gli ospedali di Polistena e Reggio Calabria. Viene aperto un fascicolo contro ignoti per istigazione al suicidio. Il caso, inizialmente archiviato, è stato riaperto nel 2016 dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Dagli elementi anatomo patologici emersi dall’autopsia la donna sembrerebbe avesse ingerito una quantità di acido muriatico superiore a quella umanamente sopportabile. Un dettaglio che lasciava ipotizzare una sorta di coercizione. Ed è il pm Camillo Falvo a chiedere se fosse possibile che Tita avesse agito da sola, volontariamente. L’inchiesta è riarchiviata in quanto non vengono riscontrati elementi tali da elevare accuse per istigazione al suicidio.

Santa aveva previsto anche questo. “Voglio preliminarmente specificare – aveva affermato nel verbale mai firmato – che nella famiglia di mio marito da tempo hanno insinuato che io sia pazza e sicuramente mi aspetto che sosterranno ciò quando apprenderanno la notizia della mia scelta di cambiare vita”. Tita assumeva farmaci stabilizzatori dell’umore ed era stata ricoverata cinque giorni in Psichiatria per reazione paranoide acuta il 12 febbraio 2008. Era anche quello un periodo di forti dissidi all’interno dei clan del vibonese, mesi in cui finanche Romana Mancuso e il figlio furono vittime di un agguato. Nelle testimonianze rese durante le ore trascorse tra la caserma dei carabinieri di Nicotera Marina e il Comando Provinciale di Catanzaro, Santa Buccafusca parla di una fase di fibrillazione e di straordinaria violenza in seno alla cosca. Afferma di avere paura di Scarpuni e di voler essere protetta dallo Stato. Arriva fino al punto di telefonare al marito Pantaleone Mancuso implorandolo di seguirla nella scelta di collaborare con la giustizia.

Assistita da psichiatri trascorre la notte in una struttura dell’Arma riservandosi per l’indomani di formalizzare il tutto e chiedere di essere sottoposta al programma di protezione. E’ tesa e angosciata. Intrattiene ripetuti colloqui con i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro e UPG. Alterna momenti di maggiore decisione a momenti di incertezza, accetta di sottoscrivere solo la prima pagina. Poi tentenna, ha un repentino ripensamento, si rifiuta di firmare il secondo foglio. Un ufficiale del Ros le ricorda che se non firma dovrà lasciare la caserma. Il suo stato d’ansia aumenta e chiede di poter usare il telefono. Dall’altro capo c’è sua sorella, al termine della conversazione saluta dicendole: “Non firmo, non firmo proprio”. Alle cinque del mattino Antonietta Buccafusca raggiunge il Comando Provinciale dei Carabinieri di Catanzaro e riporta sua sorella a casa dal marito insieme al figlio. L’uomo durante una delle udienze del processo Black Money nel 2017 farà delle gravissime affermazioni: “Non ho colpe, ho fatto di tutto perchè mia moglie vivesse e lei (riferendosi ai soldi della cocaina nella pescheria citati da Mantella ndr) non ha mai ricevuto soldi da nessuno. E’ ora che gli inquirenti la smettano e si mettano l’anima in pace perché mia moglie non ha rilasciato dichiarazioni a nessuno”. In realtà le dichiarazioni esistono, ma non furono mai ufficializzate.

 

 

 

Fai silenzio ca parrasti assai
Il potere delle parole contro la ‘ndrangheta
di Marisa Manzini
Rubettino Editore

Fonte: cn24tv.it
Articolo del 4 febbraio 2019
‘Ndrangheta, minacciò Pm in udienza: sott’inchiesta Pantaleone Mancuso
Un’udienza passata alla storia della lotta alla criminalità organizzata e divenuta lo spunto per un libro che sta spopolando in libreria.

Di quelle minacce rivolte in Aula alla pm della Distrettuale antimafia Marisa Manzini, nel corso di un’udienza del processo Black Money (LEGGI) a Vibo Valentia, ora il boss Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni”, dovrà rispondere davanti a giudici.

La Procura della Repubblica di Salerno lo ha infatti messo sotto inchiesta chiedendone il rinvio a giudizio.

Era il 10 ottobre 2016 quando Pantaleone Mancuso dal carcere tuonava contro la Manzini: “Statti zitta ca parrasti assai, hai capito ca parrasti assai. Fammi parrari a mia”, aveva esclamato “Scarpuni” al magistrato.

Per quelle parole il sostituto procuratore campano, Vincenzo Senatore, ha chiesto al gip – che ha già fissato un’udienza per il 21 febbraio – il rinvio a giudizio dell’imputato che deve rispondere di oltraggio a magistrato nel corso dell’udienza, aggravata dalle modalità mafiose.

Da quanto emerge nel capo d’imputazione, Mancuso “nel prendere la parola offendeva il prestigio del pubblico ministero presente che era intervenuto per far rilevare al collegio che l’intervento dell’imputato non era attinente al procedimento in atto”.

Marisa Manzini ovviamente si costituirà parte civile nel procedimento. L’oggetto della discussione era Tita Buccafusca, la moglie di Pantaleone Mancuso, morta suicida nell’aprile 2011 quando ingerì mezza bottiglia di acido dopo aver reso alcune dichiarazioni e aver avvertito che la famiglia del marito avrebbe voluto farla passare per pazza.

Una donna che aveva avuto, prima della sua fine, un lungo colloquio con la Manzini. Colloquio del quale il magistrato parla diffusamente nel suo libro, “Fai silenzio ca parrasti assai”, pubblicato nei mesi scorsi.

 

 

 

Fonte: corrieredellacalabria.it 
Articolo del 26 aprile 2019
Morire di ‘ndrangheta, il pentito parla del destino di Tita e Concetta
Le dichiarazioni di Raffaele Moscato sull’avvelenamento della moglie di Pantaleone Mancuso e di Cacciola. Il collaboratore di giustizia mette in relazione le “somiglianze” tra le due morti e riferisce le voci che circolavano negli ambienti criminali.

Lamezia Terme. Accomunate da un destino terribile. E legate da un filo di sangue che dal Vibonese arriva nella Piana di Gioia Tauro. Santa (“Tita”) Buccafusca e Maria Concetta Cacciola erano due giovani mamme che avevano vissuto in contesti di ‘ndrangheta e che probabilmente avrebbero voluto una vita diversa per i loro figli. Buccafusca era la moglie di Pantaleone “Scarpuni” Mancuso, considerato un boss dell’ala militare del casato mafioso di Limbadi. Cacciola apparteneva a una famiglia legata al clan Bellocco di Rosarno. Entrambe, poco più che trentenni, sono morte tra la primavera e l’estate del 2011 dopo aver ingerito acido muriatico, ma sul loro destino da anni aleggiano ombre inquietanti finora mai diradate.

Delle morti di Tita e Concetta parla anche il pentito Raffaele Moscato, ex componente della “società maggiore” di Piscopio (frazione alle porte di Vibo) che da quando – nl 2015 – ha deciso di collaborare con la giustizia ha riempito molti verbali ricostruendo omicidi e legami inconfessabili dei clan vibonesi (qui alcuni dettagli). Molte delle sue dichiarazioni sono ancora segrete perché evidentemente costituiscono materiale su cui gli inquirenti coordinati dalla Dda di Catanzaro stanno indagando a fondo. Ma Moscato fa comunque un ragionamento su quelle due morti così somiglianti che risulta tanto semplice quanto disarmante.

Il pentito spiega di aver visto Tita Buccafusca una sola volta al funerale di Michele Palumbo, un assicuratore ucciso nel marzo 2010 che secondo gli investigatori sarebbe stato un uomo di “Scarpuni” nelle frazioni marine di Vibo. L’ex Piscopisano mette subito in relazione il destino di Buccafusca con quello di Cacciola facendo notare che entrambe sono poi morte avvelenare.

Non si sono sparate né impiccate, fa notare Moscato, una cosa che appare strana agli occhi di uno ‘ndranghetista pentito perché quell’amore verso i figli che le avrebbe mosse sarebbe stato contraddetto dal fatto che la conseguenza del suicidio sarebbe stata proprio quella di lasciare i loro piccoli da soli in balia degli ambienti criminali in cui sarebbero cresciuti. E proprio in quegli ambienti criminali, secondo Moscato, si diceva, in particolare sulla morte di Buccafusca, che non si era suicidata ma che era stata ammazzata per impedirle di parlare. Moscato dice anche da chi. Le sue successive dichiarazioni sono coperte da omissis e forse serviranno a fare luce su una tragedia tuttora avvolta dal mistero. (spel)

 

 

 

Dal libro: Dead Silent  Life Stories of Girls and Women Killed by the Italian Mafias, 1878-2018 di Robin Pickering Iazzi University of Wisconsin-Milwaukee, rpi2@uwm.edu

 

 

 

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mafie.blogautore.repubblica.it
Articolo del 18 marzo 2020
Tita e le ragioni del cuore
di Ludovica Mazza

 

ilvibonese.it
Articolo del 30 Luglio 2020
Il decesso di Santa Buccafusca accolto con sollievo a Briatico: “La febbre è passata”
di Giuseppe Baglivo
Il clan Accorinti temeva conseguenze giudiziarie devastanti dalla collaborazione della moglie del boss Pantaleone Mancuso, poi morta ingerendo acido muriatico