18 Giugno 1991 Corleone (PA). Gaspare Palmeri, 61 anni, e Stefano Siragusa, 32 anni, operai della Forestale, furono assassinati insieme ad un collega, vero obiettivo dell’agguato.
Uccisi in un agguato la sera del 18 giugno 1991 a Corleone Gaspare Palmeri, 61 anni, di Castellammare del Golfo, ed il collega Stefano Siragusa, di 32 anni, di Alcamo. Erano operai della forestale.
Erano in auto con il vero obiettivo dei killer, anche lui morto nell’agguato, Domenico Parisi, di 41 anni, di Alcamo, imparentato con una famiglia sospettata di opporsi alla mafia corleonese che voleva allargare il proprio controllo sulla cittadina trapanese di Alcamo.
Fonte: archiviolastampa.it
Articolo del 20 giugno 1991
Dopo la partita l’agguato dei killer
di Antonio Ravidà
I tre forestali uccisi nella faida di Alcamo
PALERMO
Tre morti e un ferito, tutti dipendenti dell’azienda regionale delle foreste, in un agguato a due passi dal bosco Ficuzza, epicentro del territorio del clan dei corleonesi capeggiato dal numero uno della mafia, il superlatitante Salvatore Riina. Le vittime sono di Alcamo e Castellammare del Golfo. Questa circostanza offre a carabinieri e polizia una difficile chiave di lettura. Quasi certamente è uno dei capitoli della faida di Alcamo che dal 16 gennaio a ora aveva fatto 14 morti e vari feriti. Se sarà confermato che anche quest’agguato, per quanto fuori zona, va inquadrato nella faida, allora i morti sono 17.
Le vittime sono state uccise martedì sera con colpi di mitraglietta e fucile a canne mozze caricato con i pallettoni della lupara esplosi contro una Golf guidata dall’unico superstite, l’agente della «forestale» Antonino Mercadante di 41 anni. Colpito all’addome, l’uomo è riuscito a trascinarsi dietro alcuni cespugli e, sanguinante, più tardi ha ottenuto un passaggio da un automobilista dando l’allarme ai carabinieri della piccola stazione rurale di Ficuzza. I tre uccisi, Domenico Parisi e Stefano Siracusa di 41 e 32 anni, operai stagionali di Alcamo, e l’agente tecnico Gaspare Palmeri di 52 anni di Castellammare del Golfo come Mercadante, sono stati bruciati nella Golf data alle fiamme subito dopo nelle campagne tra Corleone e Sancipirello. A Ficuzza avevano assistito all’ultimo incontro di calcetto della stagione tra il Ficuzza e la Carnei Roma, squadre di serie A.
Nell’ospedale di Corleone dov’è ricoverato, Mercadante è stato interrogato a lungo dai carabinieri del gruppo Palermo 2 al comando del colonnello Alfio Pettinato e dagli investigatori della polizia inviati dal questore di Trapani Matteo Cinque. Non si sa se il sopravvissuto stia collaborando o, impaurito, abbia deciso di tacere.
L’ipotesi prevalente per il momento è che la strage sia stata ordinata perché i dipendenti della «forestale» avevano favorito mafiosi facendo finta di non accorgersi che i loro animali pascolavano nel sottobosco, il che avrebbe mandato su tutte le furie altri pastori dei clan avversi. Non si esclude comunque che, al contrario, essi avessero rifiutato a pastori mafiosi i pascoli dell’azienda regionale delle foreste. Da qui la punizione.
Il collegamento con la faida di Alcamo è tra l’altro motivato da una coincidenza non si sa quanto fortuita: Domenico Parisi era parente di Antonino Greco, 26 anni, pastore che aveva deciso di atteggiarsi a boss, assassinato davanti all’alloggio della fidanzata il 16 gennaio scorso ad Alcamo. L’omicidio di Greco scatenò la faida che dal 13 maggio (quel giorno fu ucciso nel centro di Alcamo il pastore Vincenzo Viola di 51 anni, schedato come mafioso) non faceva vittime.
Stamane intanto a Palermo il prefetto Mario Iovine presiede una riunione con i prefetti, i questori e i comandanti dei carabinieri e della Guardia di finanza di tutta la Sicilia occidentale. E’ il primo vertice da quando nei giorni scorsi il ministro dell’Interno, con il parere favorevole del presidente della Regione Nicolosi, gli ha conferito poteri di coordinamento e indirizzo nella lotta alla mafia nelle province di Palermo, Agrigento, Trapani e Caltanissetta.
Ringraziamo gli AmiciDiLiberaCaravaggio (amicidilibera.blogspot.it) per il prezioso aiuto nella ricerca di nomi e storie delle vittime innocenti delle mafie.
Articolo da La repubblica del 20 giugno 1991
I CORLEONESI ALL’ ATTACCO DI ALCAMO
di Francesco Viviano
PALERMO I corleonesi hanno lanciato la loro massiccia offensiva per avere il controllo totale di Trapani e della sua provincia. Tutte le famiglie, così come è già accaduto a Palermo, debbono piegare la testa. E chi non obbedisce e si ribella muore. Sarebbe questa la chiave di lettura degli investigatori per l’agguato compiuto lunedì sera nelle campagne di Corleone (la patria dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina e Bernardo Provenzano, latitanti da oltre vent’ anni) nel quale sono stati uccisi, da un commando mafioso, tre operai della forestale.
Sotto il piombo di una mitraglietta e di tre calibro 38 sono caduti Gaspare Palmeri, di 61 anni, di Castellammare del Golfo, Stefano Siracusa di 32 e Domenico Parisi di 41, entrambi di Alcamo. La quarta vittima doveva essere Antonino Mercadante, 41 anni, anche lui operaio della forestale che pur raggiunto da numerosi proiettili allo stomaco e al torace è miracolosamente scampato all’ agguato.
Mercadante guidava la Golf con a bordo gli altri suoi amici che è stata affiancata dal commando di killer sulla strada provinciale che porta a Ficuzza, nelle campagne di Corleone. I quattro secondo gli investigatori erano vicini all’antica ed una volta potente famiglia dei Rimi, l’unica, che secondo gli inquirenti sta tentando di arginare l’influenza dei corleonesi nel Trapanese.
Una delle tre vittime, Domenico Parisi è cognato di Lorenzo Greco, latitante e ritenuto da polizia e carabinieri l’uomo fidato dei Rimi ad Alcamo, una famiglia che ormai è stata decimata dagli uomini delle cosche che hanno giurato fedeltà a Totò Riina e Bernardo Provenzano. Un cugino di Lorenzo Greco, Antonio, fu la prima vittima che diede inizio alla campagna di morte scatenata ad Alcamo. E che la strage di lunedì sera sia riconducibile alla faida che dall’inizio dell’anno ha provocato oltre quindici morti soltanto ad Alcamo, è confortata da un’antica e consolidata regola mafiosa. Nessuno può uccidere in un determinato territorio controllato da una famiglia senza che questa ne dia il suo assenso.
Figuriamoci ha detto un inquirente da anni impegnato in indagini di mafia se qualcuno poteva permettersi di uccidere tre persone e per giunta a casa di Riina e Provenzano. L’agguato contro gli uomini della famiglia Rimi è stato compiuto lo stesso giorno in cui il questore di Trapani, Matteo Cinque, aveva reso noto di avere redatto una dettagliata mappa degli undici clan mafiosi che controllano le attività illegali nel Trapanese. Si tratta di un voluminoso rapporto con nomi e cognomi di capi e soldati che agiscono soprattutto ad Alcamo, Castellammare del Golfo, Mazara del Vallo, Partanna, Paceco ed in altri centri del Trapanese. Una mappa che il questore di Trapani illustrerà oggi al prefetto di Palermo Mario Jovine che dopo la nomina a coordinatore delle forze dell’ ordine nella Sicilia occidentale, terrà un vertice con polizia e carabinieri di Palermo e Trapani.
In queste ore gli investigatori stanno tentando di sapere dal sopravvissuto all’agguato, modalità ed indicazioni sull’identità del commando che ha ricevuto l’incarico di uccidere Siracusa, Palmeri e Parisi. Antonino Mercadante è stato sottoposto ad intervento chirurgico, le sue condizioni non sono gravi. Non collabora però con i carabinieri. Agli investigatori ha detto che lunedì sera dopo aver assistito a una partita di calcetto a Ficuzza, stava tornando ad Alcamo con i suoi tre amici. Dopo aver percorso una decina di chilometri la sua Golf è stata affiancata dal commando di killer che l’ha speronata costringendola a fermarsi. Appena la Golf è stata bloccata i killer hanno cominciato a sparare con una mitraglietta e tre calibro 38. Secondo gli inquirenti lo squadrone della morte era composto da almeno sei persone.
Mercadante ferito allo stomaco e al torace è riuscito ad aprire lo sportello della sua Golf ed è fuggito nelle campagne circostanti. I killer lo hanno inseguito ma inutilmente. Prima di fuggire i sicari hanno dato alle fiamme la Golf con all’interno i tre cadaveri. Antonino Mercadante sanguinante ha raggiunto la caserma dei carabinieri di Ficuzza dando l’allarme. Soccorso dai militari è stato accompagnato in ospedale mentre altre pattuglie dei carabinieri si sono dirette nella zona dell’agguato dove hanno trovato i cadaveri carbonizzati all’interno dell’automobile.
Fonte: Emeroteca Associazione Messinese Antiusura onlus
Giornale di Sicilia 12 Aprile 2003
Mafia e omicidi nella faida di Alcamo
Ergastolo per cinque “corleonesi”
di Umberto Lucentini
PALERMO. Il “tribunale” di Cosa Nostra li riteneva responsabili di tradimento. Si erano schierati – era un sospetto, solo un sospetto – contro i “corleonesi” di Totò Riina nella guerra scatenata dai fedelissimi del clan alcamese, dei Greco. E per questo, su ordine di Riina, venne deciso di eliminarli. Ieri dopo 12 anni da quei delitti, sono arrivate le condanne: sei boss sono stati ritenuti colpevoli di aver ucciso cinque alcamesi; era la primavera del ’91.
Così, adesso, la morte di Leonardo e Domenico Ferrantelli (padre e figlio uccisi il 22 aprile nei pressi di Camporeale dove avevano un podere) e quella di Domenico Parisi, Stefano Siragusa e Gaspare Palmeri della Forestale assassinati il 19 giugno mentre tornavano dal bosco della Ficuzza del Corleonese dove avevano assistito ad una partita di calcetto) ha dei responsabili.
La corte d’assise di Palermo (presidente Colaudio Dell’Acqua, a latere Roberto Binenti) ha condannato Riina, Salvatore Madonia, e tre “soldati” alcamesi Giuseppe Agrigento, Antonino Alcamo, Simone Bennati, per quegli omicidi: ergastolo la pena comminata. Due gli assolti: Biagio Montalbano e Agostino Lentini. Per Brusca, a quei tempi sicario scelto di Riina per regolare quel “conto” con i cinque alcamesi, e oggi collaboratore di giustizia, la corte ha deciso la condanna a 14 anni. Tutti i condannati sono adesso obbligati a risarcire il danno alle parti civili, ai familiari delle vittime di quel massacro.
È stato proprio il racconto di quei due fatti di sangue. A cavallo fra Alcamo e Palermo si combatteva una guerra senza esclusione di colpi per il dominio sul territorio e il diktat di Riina non prevedeva omissioni: chiunque si fosse opposto al predominio dei “corleonesi” andava ucciso. Anche se solo sfiorato dal sospetto di appartenere ad una cosca rivale.
“La sentenza giuge alla fine di un processo celebrato grazie ai collaboratori di giustizia” commenta il sostituto procuratore Massimo Russo, arma fondamentale di contrasto a Cosa nostra. È bene ricordarlo, anche in un momento in cui il tema mafia è completamente sottratto all’attenzione dell’opinione pubblica.
Le condanne sanciscono la responsabilità degli autori di questi delitti che hanno insanguinato il territorio tra Alcamo e Palermo in una guerra che mieté molte vittime, molti innocenti, a volte solo sfiorati dal sospetto di dare appoggio ai Greco. Vicenda che dimostra ancora una volta la volontà di Cosa nostra nel controllo del territorio per mantenere il potere nelle zone che sono il suo zoccolo duro.
Fonte: alqamah.it
Articolo del 18 maggio 2017
Castellammare: Una via per Gaspare Palmeri, vittima innocente di mafia: “Tenere viva la memoria e rinnovare l’impegno”
di Emanuel Butticè
CASTELLAMMARE DEL GOLFO. Sarà intitolata una via di Castellammare a Gaspare Palmeri, ucciso dalla mafia ventisei anni fa. Lo ha stabilito l’amministrazione comunale guidata dal sindaco Nicolò Coppola che, su indicazione della commissione toponomastica, intitolerà a Gaspare Palmeri la via P/2 traversa senza uscita della via Sandro Pertini, nella zona nuova della città.
Gaspare Palmeri fu ucciso il 18 giugno 1991 ma solo nel 2003 è stato riconosciuto come vittima innocente di mafia. Il castellammarese Gaspare Palmeri, tecnico della forestale, fu ucciso in un agguato insieme ad altre due persone mentre rientrava da Ficuzza. Lasciò la moglie e due figli Filippo e Giovanni che oggi fanno parte di “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”.
“É doveroso intitolare una via di Castellammare ad un cittadino vittima innocente della mafia. – afferma il sindaco Nicolò Coppola in un comunicato -. La tragica vicenda è costata ulteriore sofferenza alla famiglia di Gaspare Palmeri, persona onesta che si è trovata al momento sbagliato con persone che non conosceva neanche. Fatto accertato con molto ritardo. Ma anche noi amministratori avremmo dovuto prestare maggiore attenzione al suo ricordo. Ringraziamo Libera Castellammare che lo scorso anno ha organizzato al cimitero comunale la commemorazione per i 25 anni dall’uccisione di Gaspare Palmeri. Abbiamo riflettuto sulla sua tomba davanti la moglie ed i figli di Palmeri, Filippo e Giovanni. Ricordare il nostro concittadino significa tenerne viva la memoria così come merita una vittima innocente di mafia – conclude il sindaco Nicolò Coppola – e rinnovare l’impegno di tutti contro la mafia che produce solo morte e impoverimento, sociale e culturale”.
Il Sindaco Coppola ha quindi confermato l’impegno preso durante la commemorazione dell’anno scorso, ovvero fare di più per ricordare il concittadino per anni dimenticato. Un’iniziativa accolta con piacere dalla famiglia Palmeri che ringrazia l’Amministrazione.
Soddisfazione anche da parte del presidio di Libera Castellammare:
“Esprimiamo soddisfazione per la scelta di ricordare una persona che ha subìto per anni un immeritato oblio. Gaspare Palmeri – spiegano i referenti del presidio di Libera – merita di essere ricordato per la sua vita esemplare dedita al lavoro, alla famiglia e alle persone con cui ha condiviso momenti della sua vita, prima di essere strappato dall’affetto dei suoi cari dalla mano vigliacca e violenta di mafiosi. Ci auguriamo – concludono – che questo momento di Memoria di una vittima innocente di mafia diventi stimolo per tutta la cittadinanza all’Impegno quotidiano per cancellare le mafie dalla nostra società.”
Fonte: globalist.it
Articolo del 15 maggio 2018
“Così la mafia mi ha ucciso il padre e mi ha venduto la bara”
di Roberta Sangiorgi
Testimonianza di Filippo Palmeri, persicetano, rilasciata il 12 maggio 2018 al Peppino Festival, Circolo Arci Akkatà in collaborazione con Associazione Libera, San Giovanni in Persiceto.
“Voglio raccontare la mia storia partendo dalle parole di Peppino Impastato. La mafia è una montagna di merda. Prima ti uccide e poi ti toglie anche la dignità”. Per 12 anni Filippo Palmeri e la sua famiglia a Castellammare del Golfo sono stati additati come mafiosi, sono stati isolati, evitati come la peste. Solo al processo del 2003 la Corte d’Assise di Palermo sentenziò che Gaspare Palmeri, padre di Filippo, agente tecnico della Forestale, ucciso a 61 anni in un agguato, non era un mafioso, ma una vittima della mafia. Vittima di quella guerra tra i corleonesi di Totò Riina e il clan alcamese dei Greco che negli Anni ’90 insanguinò la Sicilia. Era sull’auto sbagliata, di ritorno da una partita di calcetto a Ficuzza, quel 18 giugno del 1991. Insieme a lui morì un’altra vittima di mafia, Stefano Siragusa (32 anni), entrambi tecnici della Forestale. Furono assassinati insieme a Domenico Parisi, cognato di Lorenzo Greco, il vero obiettivo dell’agguato. Il commando che li doveva uccidere appiccò un fuoco sulla strada provinciale che porta a Ficuzza, nelle campagne di Corleone, per obbligare l’auto a rallentare, e poi li crivellò con più di 150 colpi di mitraglietta, kalashnikov e pistola. L’unico sopravvissuto fu Antonino Mercadante, 41 anni, anche lui della Forestale che, pur raggiunto da numerosi proiettili allo stomaco e al torace, fingendosi morto, riuscì miracolosamente a scampare all’agguato e a dare l’allarme. Partirono carabinieri, polizia. Nel frattempo però l’incendio aveva raggiunto l’auto che prese fuoco. “Mio padre e le altre due persone sono rimasti carbonizzati”. A Filippo si spezza la voce. “Questa è la seconda volta che racconto ciò che successe quel giorno. Quando arrivo a questo punto devo fare uno stacco perché è una cosa che mi chiude dentro. Ho trovato il coraggio di dirlo. Ecco per me è una liberazione riuscire a raccontarlo”.
La crudeltà della mafia non si limitò a quell’agguato brutale su quella strada per Ficuzza, in cui venne spezzata la vita di Gaspare. Successe un fatto che dà idea di come il termine crudeltà sia inadeguato per spiegare l’orrore. “Abitavo a Bologna e quando mi informarono che mio padre era morto presi il primo aereo per Palermo. Con mio fratello mi recai alla Medicina Legale. Quando arrivammo ci fecero entrare in una stanza dove c’erano tre bare di zinco con tre persone sistemate come era possibile. Io e mio fratello ci siamo guardati in faccia: non si riusciva a distinguere chi fosse mio padre e chi gli altri due. Dopo un’ora siamo riusciti a riconoscerlo attraverso una sua particolarità”. Filippo fatica a parlare. “Scusate quando racconto io ritorno al momento dell’accaduto. Quello che mi è successo mi ha cambiato la vita”.
Ricorda quei momenti in cui gli vennero consegnati i poveri resti del padre. Ma la beffarda crudeltà dell’orrore mafioso doveva ancora arrivare. “Chiamo l’impresa di pompe funebri, che la sera prima aveva raccolto mio padre. Gli dico: ‘Prendiamo la bara e lo portiamo a Castellammare’. Mi risponde: “Io non posso”. Non capivo. Per quale motivo? “Vicino all’ospedale ci sono delle pompe funebri, ti puoi rivolgere a loro”. Torno all’ospedale e mi faccio dire a chi mi dovevo rivolgere, perché lì i morti se li passano l’un con l’altro. Mi dicono “A dieci metri c’è l’impresa di pompe funebri, andate lì”. “Vado con mio fratello. Abbiamo preso una bara e abbiamo portato mio padre in paese. L’impresa di pompe funebri era di proprietà di Giuseppe Madonia. Dopo 12 anni, alla fine del processo, siamo venuti a sapere che ad uccidere mio padre era stato, tra gli altri, proprio Giuseppe Madonia, colui che ci aveva venduto la bara”.
Per 12 anni, però, cioè sino al processo del 2003, Gaspare Palmeri a Castellammare è stato considerato uno che “se era lì, in quell’auto, qualche collusione con la mafia ce la doveva avere. Questo dicevano al paese” ripete il figlio Filippo, che ora ha l’età di suo padre quando venne ammazzato e vuole che tutti sappiano che era una persona onesta. “Mio padre e tutta la nostra famiglia siamo stati additati per 12 anni come mafiosi perché mio padre si trovava a bordo di quella macchina. Abbiamo trascorso 12 anni a farci domande senza risposta. Sono stato troppo in silenzio. Avevo paura che avessero ucciso mio padre perché aveva visto qualcosa. Avevo questa paura dentro che mi bloccava”.
La verità si seppe al processo con la testimonianza di Giovanni Brusca, collaboratore di giustizia. “Disse che il movente del triplice omicidio era colpire una sola persona, che era parente di un mafioso”. Gaspare Palmeri non c’entrava nulla: era vittima innocente. Per il triplice omicidio vennero condannati all’ergastolo Totò Riina, Salvatore Madonia (“colui che mi vendette la bara per mio padre”) e i tre “soldati” alcamesi Giuseppe Agrigento, Antonino Alcamo e Simone Bennati.
Filippo Palmeri, nonostante la riabilitazione del padre dopo le testimonianze al processo, per 20 anni ha taciuto. “Per 20 anni sono rimasto in silenzio perché non avevo a chi raccontare la mia storia. Soffrivo dentro di me maledettamente, perchè non potevo mettere in un cassetto la memoria di mio padre: sarebbe stata un’offesa che gli facevo. Mio padre è una persona onesta. Poi ho conosciuto Libera, altri familiari con cui ho condiviso la sofferenza, altre vittime innocenti e mi è scattata la volontà di fare testimonianza. Nel 2012 con Libera ho parlato per la prima volta in una scuola. E’ stato come far rivivere mio padre. E’ stata una liberazione ed anche una felicità. Per la prima volta potevo raccontare l’innocenza di mio padre. Quello che voglio dire ai giovani è che il silenzio alimenta le mafie. Con la vita di tutti i giorni, con le piccole cose, riusciamo a fare grandi cose. Peppino Impastato diceva: La mafia è una montagna di merda. E’ proprio così. La mafia mi ha ucciso il padre e mi ha venduto la bara. La mafia è proprio una montagna di merda”.
Chi è Filippo Palmeri. Il suo racconto
Voglio raccontare la mia storia personale. Nell’87 me ne sono andato da Castellamare del Golfo non per scelta mia, ma per la mafia. Avevo una impresa edile. Vedendo che lavoravo un giorno mi si affianca uno del paese e mi dice: “Vedo che gli affari ti vanno bene, possiamo fare qualcosa? Io ho due persone da mettere per lavorare”. Io che sono nato in un paese di mafia sapevo chi erano questi due. “Se mi devi mandare due persone che la mattina vengono a fare la presenza e poi non fanno niente, le puoi tenere a casa tua” gli rispondo. Ci rivediamo dopo alcuni giorni. Mi dice: “Visto che non hai accettato la proposta dei due ragazzi possiamo fare una piccola assicurazione”. “Ma l’assicurazione si fa per l’auto”, gli rispondo facendo finta di non aver capito. L’assicurazione era pagare il pizzo, i cui proventi servivano alla mafia per mantenere le famiglie dei killer uccisi nelle guerre di mafia. Mi sono rifiutato. Così sono cominciati i danni alla mia impresa edile. Allora sono stato costretto ad emigrare. Però, sapete una cosa? Nell’87 quando sono arrivato a Bologna pensavo di arrivare in un’isola felice. In realtà già esisteva la mafia qui. Quando uno nasce in un paese di mafia vede certe cose, certi comportamenti. Ho visto ragazzi di 20 anni che avevano imprese abbastanza grandine. Non era frutto del loro lavoro. Erano dei prestanome. Significa che la mafia già esisteva. Mi dicevano che avevo gli occhi ancora pieni di mafia. Poi nel 2013 è arrivato il processo Aemilia che ha svelato tutto. Ma dal 1987 sono passati tanti anni in cui la mafia ha potuto attecchire indisturbata. Nella ristorazione, nelle imprese edili ci sono loro. Ormai bisogna conviverci, però mai abbassare la testa. Io ho perso 20 anni, stando in silenzio, senza far conoscere la mia storia. Nel silenzio alimentiamo le mafie. Loro vogliono il silenzio.
A Castellammare, dove la mafia si vede, in un bar parlavano due collusi con la mafia e dicevano: “Lo sai che questi testimoni stanno rompendo andando nelle scuole? Noi abbiamo più paura delle scuole che della giustizia”. Vuol dire che con le nostre testimonianze iniziamo a dare fastidio. E’ importante sapere fino a che punto può arrivare la mafia. Può succeder anche qui. Qui lavorano indisturbati, sono invisibili e non fanno notizia. Ragazzi però dovete sapere che dove arriva la mafia distrugge città intere. La mafia non è solo in Sicilia, in Calabria o in Campania. L’abbiamo anche qui, sotto casa.
Fonte: mafie.blogautore.repubblica.it
Articolo del 4 maggio 2019
Gaspare, un altro innocente
di Filippo e Giovanni Palmeri
Quella di Gaspare Palmeri è una storia comune a molti: un innocente ucciso dalla violenza mafiosa senza pietà e soprattutto senza motivo. Era nel posto sbagliato al momento sbagliato? In realtà sono sempre i mafiosi ad essere nel posto sbagliato.
Era il 18 giugno 1991, e ad essere ucciso dai colpi di tre pistole calibro 38 un operaio della forestale con la passione per il calcio.
Da Ficuzza stava rientrando nella sua città, Castellammare del Golfo, quando il fuoco mafioso uccise lui e gli altri colleghi. Tra loro, come riveleranno diversi anni dopo alcuni collaboratori di giustizia, caddero due innocenti: Gaspare Palmeri e Stefano Siragusa. Per anni Gaspare è stato “etichettato”, la sua famiglia isolata. Marchiati a fuoco dal dubbio di essere vicini ad ambienti mafiosi. La vedova e i figli Giovanni e Filippo però non si sono mai arresi, hanno ottenuto verità e giustizia soltanto nel 2003, quando la Corte di Assise di Palermo ha stabilito l’innocenza di tre dei presenti, le due vittime e l’unico sopravvissuto, Antonino Mercadante. Oggi l’eredità di Gaspare cammina sulle gambe dei nipoti e dei suoi figli che incontrano i ragazzi delle scuole da nord a sud. A Gaspare Palmeri nel 2017 il Comune di Castellammare del Golfo ha intitolato una via.
(Emanuel Butticè)
Ciao a tutti,
Mi chiamo Gaspare Palmeri, ho 61 anni e vivo a Castellammare del Golfo in provincia di Trapani.Faccio l’agente tecnico della forestale alle dipendenze della Regione Siciliana. Sono sposato con Anna ed ho due figli Filippo e Giovanni. Sono una persona normale, che al mattino si alza presto per andare al lavoro, come tanti siciliani cerco onestamente di portare a casa il pane per mantenere la mia famiglia.
Il 18 giugno 1991, con un collega di Castellammare partiamo a bordo della mia Fiat 127 per andare a Ficuzza, vicino a Corleone, per assistere alla partita di calcetto nella quale gioca la squadra di cui è presidente un dirigente del Corpo Forestale di Trapani. Il programma è di trascorrere qualche ora in compagnia e di divertirsi guardando la partita per poi tornare a casa.
Ma questo non è un giorno come tanti.
Raggiungiamo Alcamo, dove nella piazza principale abbiamo appuntamento con altri due colleghi, Siragusa Stefano e Parisi Domenico, quest’ultimo lo conosco solo di vista, in quanto non lavoriamo insieme. Saliamo sulla Golf nuova di Siragusa e ci dirigiamo verso Ficuzza dove ci attende la partita di calcetto. Dopo la partita ci fermiamo in un bar di Ficuzza a festeggiare la vittoria della squadra locale e la fine del campionato e poi, verso le 18 ripartiamo alla volta di casa, percorrendo lo stesso tragitto fatto all’andata.Ad un certo punto, dopo l’incrocio con la strada che porta al Santuario della Madonna di Tagliavia, l’auto rallenta perché c’è del fuoco ai bordi della carreggiata e un attimo dopo sento il crepitio di colpi di arma da fuoco, una mitraglietta e delle pistole, non capisco…che mi colpiscono…e poi più nulla. Siamo state vittime di un agguato in piena regola. Degli occupanti di quell’auto solo una persona miracolosamente si salva, protetta dal corpo di un collega che gli ha fatto da scudo e che, appena tutto finisce riesce, con grande difficoltà a raggiungere il vicino ospedale di Corleone per farsi soccorrere e dare l’allarme.
Io non c’è l’ho fatta. Ero seduto sul sedile posteriore della Golf e sono morto senza neanche rendermene conto, “attinto da diversi colpi concentrati nell’emitorace anteriore destro ed alla regione scapolare sinistra e al braccio sinistro”, come scriverà poi, durante il processo, il medico legale. Non so perché è accaduto.
Le indagini e il processo, apertosi nel 2003, grazie alle dichiarazioni di alcuni collaboratori, hanno chiarito che la ragione del triplice omicidio era colpire uno degli occupanti dell’auto, imparentato con il clan Greco che si era contrapposto ai Corleonesi di Totò Riina e che le altre due vittime “Il Siragusa e il Palmeri erano cadute nell’agguato sol perché quel giorno si trovavano nella stessa auto in cui viaggiava Parisi Domenico, obiettivo dei killer”.
Per l’omicidio, l’11 aprile del 2003 la 1° sezione della Corte d’Assise di Palermo ha condannato Agrigento Giuseppe, Benenati Simone, Madonia Salvatore e Riina Salvatore alla pena dell’ergastolo e Brusca Giovanni, divenuto collaboratore di giustizia, alla pena di 14 anni di reclusione.
Chi ha detto che i mafiosi si ammazzano tra di loro e che la cosa, a noi persone normali, non ci riguarda? Cosa c’entravo io in questa faccenda?
All’inizio, prima del processo, e ancora oggi, c’è gente che pensa e dice che quello che è capitato è in qualche modo anche colpa mia, che me lo sono andato a cercare e che, se è successo un motivo deve pur esserci…Il motivo è che la mafia, cosa nostra, non guarda in faccia a nessuno, per perseguire i suoi obiettivi e annientare gli avversari non ha esitato a uccidere due innocenti e a rovinare due famiglie che nulla avevano a che fare con gli affari dei boss.Ogni anno, il 21 marzo il mio nome, insieme a quello di tanti altri, viene letto in una piazza di questo Paese durante la Giornata della memoria e dell’impegno organizzata da Libera per ricordare le vittime innocenti di tutte le mafie,
Mi chiamo Gaspare Palmeri e questa è la mia storia.
(Questa lettera è stata scritta dai figli Filippo e Giovanni e da alcuni ragazzi di Castellammare del Golfo)