19 Giugno 1991 Capaci (PA). I fratelli Giuseppe e Salvatore Sceusa, piccoli impreditori Edili, uccisi e sciolti nell’acido

I fratelli Giuseppe e Salvatore Sceusa, imprenditori di Cerda (PA), vennero uccisi e poi sciolti nell’acido il 19 giugno del 1991 perché si erano ribellati al pagamento del pizzo che gli veniva imposto dalla cosca mafiosa di Nino Giuffrè .

 

 

 

 

Fonte:  archivio.unita.news – Articolo del 4 luglio 1991

 

 

Fonte: archiviolastampa.it  – Articolo del 4 luglio 1991

 

 

 

Articolo di La Repubblica sez. Palermo dell’8 Aprile 2001
Sciolti nell’ acido per gli appalti
di Enrico Bellavia

Sparirono nel nulla un pomeriggio di giugno di dieci anni fa. Attirati in un tranello, uccisi e sciolti nell’ acido. A due anni e mezzo dalla prima udienza, un verdetto nel cuore della notte racconta che a volere quel duplice omicidio fu il boss di Caccamo, Nino Giuffrè.

Le vittime, i fratelli Giuseppe e Salvatore Sceusa, piccoli imprenditori edili di Cerda, smaniosi di compiere il salto di qualità nel mondo degli appalti, furono consegnati ai loro carnefici da un mafioso in doppiopetto. Fu Giuseppe Biondolillo, già sindaco di Cerda e garante dell’ascesa dei due fratelli, a consegnarli ai carnefici. Li accompagnò in una villetta di Carini e li lasciò in balia dei boia di Resuttana. Questo ha stabilito la corte d’assise presieduta da Roberto Murgia, giudice a latere Maria Letizia Barone, che ha accolto dieci delle undici richieste di ergastolo del pm Giuseppe Fici.

I giudici mandano assolto Rosolino Rizzo, mediatore finanziario, indicato come componente del commando omicida dal pentito Onorato. Rizzo (difeso dall’avvocato Luigi Mattei) era già in libertà come Biondolillo, che è stato arrestato nella sua casa di Termini un quarto d’ora dopo la lettura del verdetto. Per lui, arrestato come gli altri nel 1996, era arrivato il proscioglimento del gip all’udienza preliminare. L’accusa aveva fatto ricorso in appello e il 29 giugno del 1999 era stato rinviato a giudizio. Gli altri nove ergastoli sono stati inflitti, oltre che a Giuffrè, a Salvatore Biondino, Michelangelo Pedone, Antonino Troia, Antonino Erasmo Troia, Giovanni Battaglia, Simone Scalici, Salvatore Biondo “il lungo” e “Salvatore Biondo “il corto”.

Il padre dei fratelli Sceusa, le mogli, anche nell’interesse dei figli di uno dei due, si erano costituiti parte civile, assistiti dall’avvocato Massimo Motisi. La corte ha riconosciuto loro una provvisionale immediatamente esecutiva di cento milioni ciascuno. Le indagini sugli imprenditori, spariti dopo un viaggio a Palermo il pomeriggio del 19 giugno del 1991, avevano avuto un iter travagliato. Le ricerche dei due fratelli, iniziate dal padre e proseguite dalla polizia, avevano portato solo alla scoperta delle due auto. Quella di Giuseppe, un’Alfa 164, fu trovata a Buonfornello quasi subito. L’altra, identica alla prima, di proprietà di Salvatore, fu ritrovata in piazza Mandorle a Tommaso Natale, il 15 luglio del 1991. I testimoni raccontarono di averla notata parcheggiata lì almeno da una ventina di giorni.

Ricostruendo gli appuntamenti degli Sceusa, si accertò che erano stati presso lo studio dell’ingegnere Salvatore Lanzalaco, grand commis degli appalti spartiti in provincia. Con loro, ma si scoprirà dopo, c’era anche Giuseppe Biondolillo. Le indagini puntarono sulla responsabilità di Lanzalaco e di Pietro La Chiusa, entrambi poi divenuti collaboratori di giustizia. Ma nel 1996 Giovambattista Ferrante e Francesco Onorato, raccontarono di avere partecipato direttamente all’eliminazione degli Sceusa. Su richiesta dell’accusa gli indiziati furono scagionati e si aprì l’ inchiesta che ha portato alle condanne.

Ferrante e Onorato poco sapevano del perché i due dovessero morire. A entrambi fu dato l’ordine da Biondino. Si trattava di una cortesia da fare agli amici di Caccamo. E infatti ad attendere i due c’era Nino Giuffrè. Uno degli Sceusa fu strangolato nella villa di un professore universitario che era stata affittata fino a essere nella disponibilità di Erasmo Troia, catturato a Toronto, nel dicembre del 1998. L’altro fu ucciso in giardino. Biondolillo glieli aveva portati dopo aver discusso con loro nello studio di Lanzalaco. Li aveva attirati in trappola sostenendo di dovergli mostrare un lotto di terreno dove potevano essere fatti degli investimenti.

Lo squadrone della morte attendeva da giorni l’appuntamento per la consegna dei due fratelli. Appena giunti nella casa di contrada Giampaolo, Biondolillo, si allontanò rapidamente, preoccupandosi di costituirsi un alibi. Prima una sosta al distributore di benzina di Caracoli, poi un incontro fino a tarda sera con alcuni bancari di Cerda. Dallo studio di Lanzalaco era andato via alle 16, congedandosi e lasciando lì gli Sceusa. Intorno alle 17.30 era già a Caracoli. A riempire quel buco di un’ora e mezza c’è il racconto dei collaboratori di giustizia che lo videro arrivare davanti alla villa con i due da uccidere e andarsene via con Nino Giuffrè. Delle vittime i pentiti non sanno neppure i nomi, ma ricordano che uno dei due portava al polso un Cartier Santos.

 

 

 

Articolo del Corriere della Sera del 9 Ottobre 2002
Prima udienza del collaboratore di giustizia più importante degli ultimi anni. «Ho assassinato quei fratelli perché non avevano pagato la tangente»
«Con Provenzano dovevo ristrutturare la mafia»
di Giovanni Bianconi
Esordisce in aula il «pentito» Giuffrè: «In cella ho rivisto il film della mia vita e ho deciso di parlare».

PALERMO – L’uomo chiamato «Manuzza» dai mafiosi e «nuovo Buscetta» dagli inquirenti che stanno raccogliendo le sue confessioni, è seduto davanti a un microfono e due portacenere. La telecamera piazzata nel «sito riservato» da cui parla lo riprende di spalle mentre declina le proprie generalità di imputato e di numero due di Cosa Nostra: «Sono Giuffrè Antonino, nato a Caccamo il 21/7/1945, professione perito agrario. Ho collaborato con Bernardo Provenzano per più di vent’ anni. Diciamo che ero il suo principale collaboratore, e da lui avevo ricevuto incarico di ristrutturare Cosa Nostra su vasta scala».

Il biglietto da visita del primo pentito della seconda Repubblica viene recapitato in video-conferenza nell’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo dove si celebra il processo per l’assassinio dei fratelli Giuseppe e Salvatore Sceusa, due imprenditori strangolati nel giugno 1991. Giuffrè è già stato condannato in primo grado all’ergastolo, e adesso, davanti ai giudici d’appello, dice: «Ho partecipato manualmente a quell’omicidio. Ogni omicidio è un errore, e io ne ho commessi anche altri… C’è quello che colpisce di più e quello che colpisce di meno. Questi due imprenditori non avevano chiesto la dovuta autorizzazione e non avevano pagato la dovuta tangente per effettuare dei lavori in una certa zona. Oggi non mi sembra un motivo valido per eliminare due vite umane». Oggi no, ma allora sì.

Allora e anche più tardi, per il mafioso Giuffrè c’erano validi motivi per commettere tanti altri crimini. Un anno dopo quel duplice omicidio ci furono le stragi del 1992, e da lunedì il «nuovo Buscetta» ha cominciato a rispondere ai magistrati di Caltanissetta che indagano sugli eccidi in cui morirono Falcone e Borsellino. Interrogatori dai quali filtra l’indiscrezione sul ruolo preminente affibbiato da Giuffrè a Totò Riina in quella stagione di terrore. Il neo-pentito coinvolge Riina anche nella punizione inflitta dalla mafia ai fratelli Sceusa, ma al di là di quei due morti strangolati «Manuzza» ci tiene a utilizzare la prima uscita pubblica per accreditarsi come uno che può davvero aiutare lo Stato nella lotta a Cosa Nostra.

Ormai ha riempito e riletto talmente tanti verbali che quando parla sembra dettare le risposte a un cancelliere: «Molteplici sono i motivi che mi hanno spinto a collaborare con la giustizia, dopo un non breve periodo in cui mi sono trovato detenuto nel carcere di Novara e ho potuto rivedere il film della mia vita… Alcuni sono prettamente intimi e personali». E gli altri? «Tra gli altri c’è che ho tentato di salvare la vita a diverse persone. Perché finché io ero libero, con la mia influenza ho cercato il più possibile di salvaguardare le possibili vittime di fatti delittuosi. Ma dopo il mio arresto ho capito che per queste persone stava arrivando la loro ora». Il pubblico ministero chiede chi sono queste persone, ma il presidente della corte lo blocca: «Atteniamoci ai fatti del processo».

Del progettato attentato al deputato diessino Giuseppe Lumia s’è già saputo, altri nomi di persone che dovevano essere uccise – quasi tutti mafiosi – sono scritti nei verbali ancora segreti. Il «nuovo Buscetta» racconta di essere stato «combinato» nel 1980, e di essere diventato capomandamento di Caccamo «ufficiosamente nell’85 e ufficialmente nell’87». Da allora «il mio ruolo personale si è molto esteso non solo nella provincia di Palermo, ma anche altrove».

Dunque di fatti ne può svelare tanti Nino Giuffrè, che al riparo del segreto istruttorio ha cominciato a parlare anche di mafia e politica. Ma poi sembra quasi mettere le mani avanti quando spiega che «siccome tra me e Provenzano i rapporti erano ottimi, poteva anche succedere che per qualche omicidio la responsabilità se la prendeva lui direttamente», superando la regola mafiosa che per ogni cosa che avveniva nel proprio territorio serviva il suo assenso. Per le esecuzioni e forse anche per qualche altra scelta strategica di Cosa Nostra? La domanda non può essere posta nel processo per lo strangolamento dei poveri imprenditori Sceusa, sul quale il neo-pentito si dilunga con dovizia di particolari.

Dopo averli uccisi perquisì personalmente i cadaveri «per leggere i bigliettini che avevano addosso e togliere gli orologi e gli oggetti d’oro». Al momento di scioglierli nell’acido l’uomo mandato da Riina gli disse che poteva andare: «A me sembrava poco bello per una questione di principio, ma lui ha insistito e io me ne sono andato». Un altro pentito ha raccontato che Giuffrè si accanì contro le vittime «sputando contro di loro e maltrattandoli». Ma questo, il «nuovo Buscetta» che s’è pentito anche perché «in Cosa Nostra c’è stata una caduta di valori», non lo dice nemmeno ora che è diventato collega di quel collaboratore.

 

IL «PENTITO» CHI E’
Nino Giuffrè , 57 anni, è considerato il vice del boss Bernardo Provenzano. Arrestato il 16 aprile scorso, è pentito dal 16 giugno
GLI ARRESTI
Le sue dichiarazioni hanno fatto arrestare 29 fiancheggiatori e favoreggiatori della mafia nel mondo politico e imprenditoriale

 

 

 

Fonte: archivio.unita.news
Articolo del 9 ottobre 2002
La galleria degli orrori del boss della montagna
In videoconferenza al processo Sceusa la prima uscita pubblica del capomafia Giuffrè
di Saverio Lodato
Partecipai manualmente all’uccisione dei fratelli Sceusa, imprenditori edili che si erano messi in testa di non pagare il pizzo.
L’amicizia con Provenzano: vent’anni di ottimi rapporti con il ricercato numero uno del crimine organizzato: Ero il suo principale collaboratore.

Il mafioso della montagna è un incantatore di serpenti che lascerà una scia lunga nella storia passata e recente di Cosa Nostra. Il mafioso della montagna parla con la tranquillità di chi ha già vuotato il sacco e ora si sottopone al rituale esame delle ripetizioni all’infinito. Si vede subito che il mafioso della montagna è perfettamente a suo agio. Una voce, la sua, che non si incrina mai, non conosce alti e bassi. Una calamita sonora, se ci è consentita l’espressione, che tiene inchiodati tutti gli ascoltatori.

La sua professione ufficiale? Perito agrario. Ma il perito agrario, almeno negli ultimi vent’anni della sua vita, ha avuto ben altro da fare.

Il mafioso della montagna non ha fretta, non precipita la descrizione degli eventi, dondola sulla sedia, usa la mano sinistra chiudendo incerchio l’indice e il pollice quando vuole rifinire un particolare, prendere meglio la mira da un punto di vista concettuale, e dondola, dondola ancora, a volte avanti e indietro, più spesso da sinistra verso destra. Fa solo una pausa, in quasi quattro ore di lento lavorio verbale, per bere una sorsata d’acqua.

Il mafioso della montagna usa il linguaggio della montagna, non scandito dalla frenesia dei tempi moderni, ma dai mesi, dagli anni, dalle stagioni, persino, se necessario, dalla lentezza delle fasi lunari. Un linguaggio, quello della montagna, che innanzitutto prevede l’intera ripetizione della domanda, poi l’inevitabile corollario «se ho capito bene» e infine la risposta, altrettanto lenta e inesorabile, con l’altro inevitabile corollario: «ma non vorrei sbagliare», e, per concludere con un definitivo «sono stato chiaro»?

E non ha volto, non ha faccia. Lo vediamo solo di spalle, il mafioso della montagna. Forse, in qualche momento, crediamo persino di intravedere un pezzettino d’una giacca che potrebbe essere a quadrettini, color nocciola. Uno spicchio di testa appena sospeso nel bordo inferiore di uno schermo, uno spicchio di testa è tutto quello che riusciamo a vedere di Antonino Giuffrè, classe1945, nato a Caccamo, Madonie, montagne appunto. I suoi capelli dovrebbero essere brizzolati, se non stiamo ascoltando una controfigura, un clone, un replicante.

Il mafioso della montagna entrerà nella galleria del pentitismo storico? Quante pagine gli saranno riconosciute, alla fine, in quell’autentica Treccani del crimine costituita dagli atti dei processi di mafia nella storia d’Italia e di Sicilia?  Presto per dirlo.  Qualcuno – questo è certo –  ha già avuto modo di rompere l’uovo di Pasqua e rendersi conto della «sorpresa» che contiene. Ma siamo appena alle scaramucce preliminari. Sarà il Buscetta del nuovo millennio, avevano annunciato gli inquirenti in conferenza stampa, qualche settimana fa, rendendo di dominio pubblico la sua collaborazione.  Non sappiamo se la definizione, alla fine, si rivelerà azzardata. Sarà un Francesco Marino Mannoia? Sarà un Giovanni Brusca dei tempi moderni? Un fatto è certo: siamo comunque ad alte quote del pentitismo mafioso. Giuffrè, anche dopo la deposizione di ieri, la prima in veste ufficiale di collaboratore di giustizia, in un’aula bunker  di  Pagliarelli  (la  stessa  in  cui Andreotti fu assolto e intitolata a Vittorio Bachelet), dove si celebrava il processo  d’appello  (corte  d’assise  presieduta da Innocenzo La Mantia) per il duplice omicidio dei fratelli Sceusa, Salvatore e Giuseppe – avvenuto nel giugno 1991 -, si  è  confermato  uomo  enigma,  uomo del mistero; perché, per tanti versi, enigmatica e misteriosa resta la grande provincia interna siciliana della quale il mafioso della montagna era il dominus in-discusso.

La «Svizzera di Cosa Nostra», l’aveva definita Giovanni Falcone questa parte della provincia. Una Svizzera dove rarissimamente si metteva mano alla pistola o all’acido muriatico. Dove gli «uomini d’onore» si conoscevano tutti fra loro ma, evitando inutili ostentazioni, riuscivano a rimanere sconosciuti alle forze dell’ordine. E una volta, a un presidente di Tribunale che gli contestava    conoscenze palermitane troppo paramafiose, Vito Ciancimino se la cavò dicendo: «signor Presidente, ho vissuto a Palermo. Se fossi vissuto in Svizzera avrei frequentato direttori di banca, produttori di cioccolato al latte e fabbricanti di cronometri di precisione».  Deve essere proprio vero che la verità sta nel mezzo.

Dicevamo di «questa» Svizzera, made in Sicily, in cui Giuffrè era il dominus, certo, ma non da solo. In eterna compagnia di Bernardo Provenzano. Con il quale, manco a dirlo, i suoi rapporti erano «ottimi»: «per più di vent’anni ho collaborato con Bernardo Provenzano. Ero il collaboratore principale. Da lui ero stato autorizzato a muovermi in questo senso, cercare di ristrutturare Cosa Nostra su vasta scala». Una medaglia, dunque, a due facce. Al punto che persino nel territorio di Giuffrè, il mandamento di Caccamo e delle Madonie, Provenzano poteva ordinare qualche delitto e informarne Giuffrè a cose fatte, tanto era cieca la fiducia fra i due. Ovvio che da un pentimento del genere, oggi che Provenzano è ancora latitante, ci si aspetti molto. Due facce di una stessa medaglia, allora. E anche Provenzano, col tempo, è diventato un grande mafioso della montagna. Ieri, tutta la trafila è stata consumata. Non solo e non tanto con la riproposizione in aula, da parte del mafioso della montagna, delle ormai risapute regole delle iniziazioni, delle presentazioni, degli apprendistati, dei gradi gerarchici via via ricoperti, il perché del perché ci si pente, le vite che si salvano in questo modo, Cosa Nostra che da tempo non è più quella di una volta, canovaccio infinito – e alquanto stucchevole – di mille pentimenti di mafia.  Ma intanto con qualcosa in più. Un agghiacciante pezzo dell’orrore: il modo in cui i fratelli Sceusa, furono attirati in un’imboscata, strangolati, sciolti nell’acido.

Il Procuratore Generale Alberto Di Pisa, nel ruolo di Pm, chiede: «Giuffrè lei partecipò a questo duplice delitto in qualità di mandante o partecipò operativamente?». «Partecipai manualmente, signor Procuratore Generale», è la risposta del mafioso della montagna. Gelo in aula. Anche perché, come qualcuno ricorderà, Giuffrè, negli ambienti di mafia, era ed è soprannominato «manuzza». Campionario degli orrori, dicevamo. I due imprenditori edili s’erano intestarditi nel voler fare una strada in quel di San Mauro Castelverde ignorando le regole dei «pizzi» e dei «permessi» dei «passa parola» e delle «appartenenze».  Si innescò una lunga spirale che durò anni. Ma dall’esito scontato.

E Giuffrè: «quando vidi che i due fratelli erano immobilizzati per le mani e per le gambe – c’erano almeno una decina di “uomini d’onore” a fare il lavoro – ho deposto la pistola e ho stretto il cappio al collo di uno dei due». E una volta cadaveri – è sempre il mafioso della montagna a parlare -, li ho perquisiti e controllati tutti e due, per vedere se avevano intasca biglietti sospetti, ma non ho trovato niente.

E poi? E poi ho tolto loro gli orologi d’oro e li ho consegnati ad Antonino Troina, «zu Nino», responsabile della zona dove era stato commesso il delitto. Un avvocato azzarda: «signor Giuffrè di che marca erano gli orologi?». E il pentito della montagna: «Avvocato, non avevo nessun interesse a guardare la marca dell’orologio». E continua. Perché facemmo sparire i corpi? Perché non volevamo fare rumore.

E dire che, fra i tanti che si diedero da fare per questo che era «un lavoro complesso», Salvatore Biondo, Giuseppe Biondolillo, ex sindaco di Cerda erano stati condannati in primo grado, mentre Rosolino Rizzo, capo della famiglia mafiosa di Cerda, era stato assolto. Ora il signore della montagna lo ha ripreso per la collottola e lo ha ripiombato nell’inferno delle sue responsabilità. Per la precisione: anche Giuffrè, in primo grado, era stato condannato all’ergastolo in contumacia.

Il delitto, però, pagava. Eccome se pagava. Infatti: «Tutti gli appalti, o buona parte, venivano controllati da Cosa Nostra e affidati a persone che dicevamo noi.  Sono stato esauriente, signor Procuratore Generale?».

Appalti e pizzo, pizzo e appalti.  E politica? Calma, calma. Il mafioso della montagna non ha fretta.

Per ora si è fermato al primo capitolo, quello degli orrori. Lo ha fatto ripetendo quasi in burocratese: «Tenga presente…tengo a precisare…il suddetto…i suddetti…quando presi possesso della carica di capo mandamento… -on sono in grado di andare a distinguere… penso di non andare a commettere errori…»

Per il resto ci sarà tutto il tempo necessario.

Forse ci sarà anche il tempo di parlare di padre Pio, la cui beatificazione, a suo tempo, pare lo abbia notevolmente suggestionato. Un accenno fugace, ieri, in aula: «Sono molteplici i motivi del mio pentimento.  Alcuni intimi e miei personali…».

Il mafioso della montagna ieri ha posto una solida base per le sue rivelazioni future. Una schiacciasassi che va piano e, con ogni probabilità, andrà lontano.

 

 

 

 

Articolo del Giornale di Sicilia del 10 Marzo 2004
tratto dall’Emeroteca Associazione Messinese Antiusura onlus
Omicidi a Cerda, annullati otti ergastoli
La cassazione conferma  15 anni al “pentito”
di Riccardo Arena

Palermo. Otto condanne all’ergastolo annullate con rinvio dalla Cassazione, per il duplice omicidio dei fratelli di Cerda Giuseppe e Salvatore Sceusa, fatti sparire nel giugno del 1991 col metodo della lupara bianca. I due imprenditori si erano ribellati al controllo mafioso degli appalti e alla ferrea legge del pizzo.

Il processo dovrà essere rifatto, in grado di appello, per un boss come Salvatore Biondino, ma anche per l’ex sindaco di Cerda Giuseppe Biondolillo e per Rosolino Rizzo , indicato come il capomafia del paese: l’unico imputato per il quale la condanna (a 15 anni) è diventata definitiva è Nino Giuffré, l’ex boss di Caccamo, che nel dibattimento di secondo grado aveva fatto il proprio esordio come collaboratore di giustizia, deponendo e accusando i coimputati.

Il dispositivo della sentenza apre una serie di interrogativi sui motivi degli annullamenti, che saranno noti solo tra qualche settimana, nella migliore delle ipotesi. Potrebbe trattarsi di ragioni tecniche, ma queste non spiegherebbero la conferma della sentenza per il solo Giufffré: le questioni formali, infatti, di regola si estendono a tutti gli imputati. Se si trattasse di ragioni di merito, invece, si tratterebbe di una bocciatura non solo del contributo di “Manuzza” (già severamente criticato, per la sua genericità, dal gup Piergiorgio Morosini), ma anche di altri collaboratori ritenuti di spessore, come Giovan Battista Ferrante e Francesco Onorato.

L’annullamento con rinvio riguarda, oltre a Biondino, Biondolillo e Rizzo, i due cugini che si chiamano entrambi Salvatore Biondino (e che vengono definiti “il lungo” e “il corto”, per distinguerli), Antonino Troia, Giovanni Battaglia e Antonino Erasmo Troia. Erano difesi dagli avvocati Franco Inserillo, Valerio Vianello, Michele Giovinco, Luigi Mattei, Alfredo Gaito, Giuseppe Oddo, Filippo Giacalone. I familiari degli Sceusa sono parte civile, con l’assistenza dell’avvocato Massimo Motisi.

Rosolino Rizzo, in primo grado, il 7 Aprile del 2001, era stato assolto. Poi arrivarono le dichiarazioni di Giuffré e la sentenza nei suoi confronti, l’11 dicembre 2002, venne ribaltata. Con il rinvio in Cassazione occorrerà poi valutare se qualcuno degli imputati possa fruire dei nuovi limiti della custodia cautelare (tre anni dalla sentenza di primo grado, per arrivare a una decisione definitiva), stabiliti dal tribunale del riesame di Palermo.

E’ una sentenza altamente problematica, dunque, quella di ieri pomeriggio. La Procura di Palermo aspettava la prima conferma, in una sentenza definitiva, della attendibilità di Giuffré, e invece la decisione della Corte d’Assise d’appello non è passata in giudicato. alla base dell’annullamento potrebbero esserci due questioni formali: una riguarda la sostituzione di un giudice, in primo grado; un’altra l’aver riunito due giudizi formalmente separati, riguardanti imputati che avevano chiesto il giudizio ordinario e l’abbreviato.

Gli Sceusa furono uccisi nel 1991, perché si erano aggiudicati “senza autorizzazione” lavori sull’autostrada Palermo-Messina, senza pagare il pizzo alla cosca di San Mauro Castelverde. Secondo l’accusa, Giuseppe Biondolillo, ex sindaco di Cerda, non affiliato a Cosa Nostra, avrebbe attirato le vittime in un tranello. Per non creare problemi nel territorio madonita, fu scelta come luogo dell’esecuzione una villa di Capaci, procurata da Antonino Troia. Biondolillo avrebbe “dato la battuta” con tre squilli sul telefonino di Nabuzza, avvertendo dell’arrivo dei due fratelli. Erano le tre del pomeriggio del 19 Giugno 1991. Gli Sceusa furono strangolati e poi sciolti nell’accido.

 

 

 

Articolo del 19 Aprile 2005 da repubblica.it 
Ergastolo per omicidio all’ ex sindaco di Cerda

Ha passeggiato per tutta la mattina avanti e indietro nell’atrio del palazzo di giustizia per dimostrare che era lì e non aveva alcuna intenzione di fuggire, cercando di evitare un nuovo ordine di arresto che i giudici della Corte d’assise d’appello avrebbero potuto emettere in caso di condanna se avessero ritenuto valido il pericolo di fuga. L’ergastolo per Giuseppe Biondolillo, ex sindaco di Cerda tornato libero da pochi giorni dopo la scadenza dei termini di custodia cautelare, è arrivato nel pomeriggio. Insieme con altre sei condanne a vita: i giudici della Corte d’assise d’appello hanno infatti ritenuto colpevoli per l’omicidio dei fratelli Giuseppe e Salvatore Sceusa anche il boss Salvatore Biondino, Rosolino Rizzo, Salvatore Biondo (detto “il corto”), Antonino Troia e Giovanni Battaglia. Sono stati assolti invece Antonino Erasmo Troia e Salvatore Biondo. Gli Sceusa, imprenditori di Cerda, vennero uccisi e poi sciolti nell’ acido nel 1991 perché si erano ribellati al pagamento del pizzo che gli veniva imposto dalla cosca mafiosa di Nino Giuffrè, già condannato con pena definitiva a 15 anni. In aula, alla lettura della sentenza, erano presenti i familiari, difesi dall’ avvocato Massimo Motisi.

 

 

 

Fonte: palermo.meridionews.it
Articolo del 19 giugno 2018
Omicidi Sceusa e Bruno, per loro nessuna cerimonia
«Li ho uccisi con le mie mani, non pagavano il pizzo»
di Silvia Buffa
Nessun ricordo ufficiale per i delitti avvenuti nel 1991 a Capaci e nel 1997 in corso Calatafimi a Palermo. Né una targa. E di questi imprenditori che non si piegarono al racket mafioso delle estorsioni non restano oggi che le loro storie di (stra)ordinaria civiltà.

«Ho assassinato quei due fratelli perché non avevano pagato la tangente». Non si erano piegati, i fratelli Sceusa, Giuseppe e Salvatore, piccoli imprenditori edili di Cerda. A raccontarlo è il pentito Nino Giuffrè, ex numero due di Provenzano, in video collegamento dal sito riservato all’aula bunker del Pagliarelli nel 2002, in occasione del processo d’appello per quel duplice omicidio. «Ho partecipato manualmente a quell’omicidio. Questi due imprenditori non avevano chiesto la dovuta autorizzazione e non avevano pagato la dovuta tangente per effettuare dei lavori in una certa zona. Oggi non mi sembra un motivo valido per eliminare due vite umane». All’epoca sì, evidentemente. Vengono uccisi il 19 giugno di 27 anni fa. È il 1991 quando spariscono nel pomeriggio, a Capaci. Nessuna traccia di entrambi, svaniti nel nulla. E svaniti lo sono davvero, in un certo senso. Attirati in un tranello, vengono strangolati e poi sciolti nell’acido.

Nel commando dei killer ci sono Giovambattista Ferrante e Francesco Onorato, che raccontano ai magistrati di aver partecipato direttamente all’omicidio dei due fratelli, di cui non conoscevano neppure i nomi. Fu «una cortesia da fare agli amici di Caccamo». A partecipare all’omicidio infatti c’è proprio il boss Giuffrè. È lui a emettere la sentenza di morte. Ma a consegnarli al gruppo di carnefici, che attendono i due fratelli da giorni, è un mafioso in doppiopetto: Giuseppe Biondolillo, in passato sindaco di Cerda e garante dell’ascesa dei due fratelli. È proprio lui che li accompagna nella villa da cui non usciranno vivi.

La vicenda si trascina, a livello giudiziario, sino al 2004, anno in cui a sorpresa la Cassazione revoca ben otto ergastoli e conferma una sola condanna, che diventa quindi definitiva, quella a 15 anni per il boss che aveva deciso la morte degli Sceusa, Nino Giuffrè. Processo d’appello da rifare quindi per Salvatore Biondino, ex capomafia della famiglia di San Lorenzo, ma anche per l’ex sindaco di Cerda Giuseppe Biondolillo e per Rosolino Rizzo, ex capomafia del paese. E poi Antonino Troia e Antonino Erasmo Troia, Giovanni Battaglia e i due cugini omonimi Salvatore Biondino, soprannominati il lungo e il corto. Sono passati 14 anni da quella sentenza, e del processo d’appello bis non si trova alcun riferimento, alcuna notizia. Non se la sente di parlare neppure l’avvocato che all’epoca rappresentò i familiari dei due fratelli Sceusa, Massimo Motisi, i cui ricordi, a distanza di tutto questo tempo, sembrano essere sbiaditi.

A morire quello stesso giorno, ma sei anni più tardi, è anche un altro imprenditore palermitano, Angelo Bruno, omonimo del cosiddetto padrino gentile di Caltanissetta a capo di una famiglia mafiosa oltreoceano ucciso nel 1980 a Philadelphia. È il 19 giugno 1997 quando viene freddato con un colpo alla testa, in corso Calatafimi. L’ipotesi della famiglia è immediatamente quella della pista mafiosa, malgrado il costruttore non avesse mai apertamente parlato di aver subito richieste estorsive. A solo poche ore dalla sua morte, però, viene arrestato il boss Salvatore Grigoli, il killer di don Pino Puglisi. Se ne stava nascosto in un monolocale arredato in via Camarda, una traversa di via Pitrè. È latitante da quattro anni. In quella casa gli agenti sequestrano una pistola che servirà per confrontare i proiettili con il bossolo trovato nella testa di Bruno. Il boss di Brancaccio, però, nega ripetutamente di essere coinvolto in questo delitto. E i risultati della scientifica, poco tempo dopo, sembrano dargli ragione: il calibro è lo stesso, ma non è quella 7.65 Parabellum con silenziatore l’arma che ha ucciso il costruttore. A fare il suo nome però sono alcuni pentiti, a cominciare dai fratelli Di Filippo e da altri ex boss del gruppo di fuoco gestito a Brancaccio dai fratelli Graviano.

Al di là degli esiti giudiziari, fuori dalle aule dei tribunali non ci sono targhe sui luoghi in cui vengono uccisi i fratelli Sceusa nel ’91 e Angelo Bruno nel ’97. Eroi civili recenti che non si sono piegati, tutti e tre, al racket del pizzo. E per questo hanno pagato con la vita. Ma a ricordarli, oggi, non ci sono cerimonie ufficiali, né corone di fiori, né appelli.

 

 

 

 

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