2 Ottobre 2008 Patti (ME). Si suicida Adolfo Parmaliana. Suicidio per mafia ma non solo.

Foto da espresso.repubblica.it

Il 2 ottobre 2008 si ammazza in Sicilia Adolfo Parmaliana, cinquantenne professore di chimica industriale all’università di Messina, considerato uno dei massimi esperti internazionali nella ricerca delle nuove fonti di energia rinnovabile. All’impegno accademico Adolfo Parmaliana ha unito per trent’anni un accanito impegno civile.
Iscritto giovanissimo al Pci, ha difeso le ragioni della legalità, della correttezza, del buongoverno nella sua piccola patria, Terme Vigliatore, un paesino che si trova a pochissimi chilometri da Barcellona Pozzo di Gotto, zona franca dei grandi boss di Cosa Nostra, da Santapaola a Provenzano, fondamentale snodo del Gioco Grande, lì dove confluiscono e s’intrecciano mafia, massoneria, alta finanza, pezzi rilevanti delle Istituzioni. Così il piccolo professore amante dei libri, dei vestiti eleganti, della Juve e idolatrato dai suoi allievi diventa, quasi a sua insaputa, un testimone scomodo da zittire, soprattutto dopo che le sue denunce hanno portato allo scioglimento del Comune di Terme per infiltrazioni mafiose. Emarginato dal suo stesso partito, subisce la vendetta di quel Partito Unico Siciliano che lui per anni ha indicato quale connivente con il peggio della società. Il suicidio, spiegato da una terribile lettera d’accusa alla magistratura locale, appare, allora, l’unico strumento per non darla vinta ai persecutori e riaffermare la superiorità del Bene sul Male. (Tratto dalla recensione del libro Io che da morto vi parlo Passioni, delusioni, suicidio del professor Adolfo Parmaliana di Alfio Caruso Ed. Longanesi)

 

 

 

Articolo del 23 ottobre 2008  da  espresso.repubblica.it
Dossier suicidio
di Riccardo Bocca
Magistrati. Politici. Affaristi. In un rapporto dei carabinieri gli intrecci tra potere e mafia nel messinese. Come quelli denunciati dal professore che si è tolto la vita un mese fa.

La lettera è datata primo ottobre 2008, ma i carabinieri l’hanno trovata il giorno dopo. In mattinata, il docente universitario di Chimica industriale si era buttato da un viadotto dell’autostrada Messina-Palermo. Trentacinque metri nel vuoto, accompagnati da parole che spalancano scenari angoscianti: “La magistratura barcellonese e messinese”, scrive Adolfo Parmaliana, “vorrebbe mettermi alla gogna, vorrebbe umiliarmi, delegittimarmi (…) perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati”.

E’ sconvolto, il professore, dopo il rinvio a giudizio per l’accusa di diffamazione presentata da Domenico Munafò, ex vicesindaco e attuale presidente del consiglio comunale di Terme Vigliatore, paesino di 7 mila anime in provincia di Messina (il cui Comune è stato sciolto per mafia nel dicembre 2005, grazie anche alle denunce di Parmaliana). “Chiedete all’avvocato Mariella Cicero, le ragioni del mio gesto”, scrive prima di uccidersi, “chiedetelo al senatore Beppe Lumia, all’avvocato Fabio Repici e al maggiore Cristaldi”. Nomi per lui cruciali. Soprattutto quest’ultimo, sconosciuto ai più ma essenziale nella lotta alla criminalità messinese. Proprio Domenico Cristaldi, carabiniere di Barcellona Pozzo di Gotto, ha infatti concluso nel luglio 2005 con la sua squadra un’allarmante informativa. Titolo: ‘Tsunami’. Il quadro patologico di come magistratura e politici, affaristi e mafiosi hanno distrutto legalità e territorio.

“Per anni il comune di Terme Vigliatore è stato amministrato da un gruppo di persone che (…) si associano stabilmente al fine di procurare a se stessi, parenti, soci (…) ingiusti vantaggi patrimoniali in danno alla Pubblica amministrazione”, premette Cristaldi (allora capitano). Sindaco, in quella fase, è Gennaro Nicolò, ma l’uomo forte secondo i carabinieri è un altro: Bartolo Cipriano, classe 1960, dirigente provinciale della Margherita, capogruppo di maggioranza in consiglio comunale e personaggio in “tentacolare posizione di snodo tra poteri economici ‘famelici’, poteri politici ‘malati’ e poteri istituzionali ‘deviati'”. Agli atti, mentre scrive il capitano Cristaldi, ci sono 33 procedimenti penali a carico di Cipriano. E frequentazioni con soggetti pericolosi: da Francesco Carmelo Salamone, “pregiudicato per associazione a delinquere, droga e altro”, a Francesco Giorgianni, “pregiudicato, imputato nel noto procedimento penale Mare Nostrum”. Relazioni che lo rendono forte agli occhi di molti, ma diventano ingombranti quando a Terme Vigliatore si insedia (11 aprile 2005) la Commissione prefettizia, che deciderà se sciogliere il Comune per mafia. Il telefono di Cipriano viene puntualmente intercettato, ma serve a poco. I carabinieri ascoltano episodi marginali: la richiesta di una raccomandazione, la telefonata di un tale che “chiede di mediare, al Comune, per accelerare il pagamento di due fatture”. Sciocchezze, in confronto al “numero eccezionale di irregolarità scoperte e segnalate” dagli inquirenti.

Il perché è semplice: Cipriano sa di essere intercettato, scrive il capitano Cristaldi. E si sarebbe alleato, per sviare gli inquirenti, con Santi Pino: luogotenente della Guardia di Finanza, allora in servizio alla polizia giudiziaria di Barcellona Pozzo di Gotto. Pino, ad esempio, invita Cipriano ad alzare il volume della radio mentre parlano in macchina (chiedendosi, scrive Cristaldi, “dove possa essere stata installata – verosimilmente – la microspia”). E sempre Pino, spiega l’informativa ‘Tsunami’, “intrattiene intensi rapporti di frequentazione, nonché contatti telefonici” con il sostituto procuratore Olindo Canali, operativo a Barcellona Pozzo di Gotto. Proprio dove il professor Parmaliana presentava le denunce.

La cosa è sgradevole, per un rappresentante delle istituzioni. Pino, infatti, “opera in condizioni di virtuoso equilibrismo tra gli ambienti giudiziari e quelli politici, imprenditoriali e mafiosi”, scrive Cristaldi. Gli investigatori indicano una “mole impressionante di contatti con persone ‘controindicate'”. Come il medico Salvatore Rugolo, figlio dell’ex “capo indiscusso della mafia barcellonese”, cognato del boss Giuseppe Gullotti (al 41 bis perché mandante dell’omicidio del giornalista Beppe Alfano) e sospettato di “avere preso le redini della ‘famiglia’” . O come Michele Rotella, titolare di una società che “lavora materiale inerte”, con “precedenti e pregiudizi penali” dal falso alla truffa, dalla corruzione alle minacce, dalla violenza privata alla detenzione di materiale esplosivo. Quanto al pm Canali (definito dai carabinieri “personaggio quantomai controverso”), frequenta almeno in un’occasione Rugolo, pranzandoci (assieme a un carabiniere) il 21 gennaio 2005, “in un ristorante di Merì (Messina, ndr)”.

Abbastanza perché il pm Canali, e le persone a lui prossime, finiscano nel mirino degli investigatori. La commissione prefettizia, intanto, è in azione a Terme Vigliatore, le intercettazioni danno i primi risultati e la tensione in zona è tanta. Letteralmente, Canali “è fottuto dalla paura”, scrive Cristaldi riferendo le parole del pm Andrea De Feis, titolare dell’inchiesta. Anche perché emergono dettagli inediti. Ad esempio, il fatto che nel 1998 il pm Canali avrebbe convocato due capitani dei carabinieri chiedendo “se fossero interessati acché Cipriano divenisse loro confidente”. Entrambi avevano rifiutato, visto che Cipriano in quel momento era sindaco, e la funzione pubblica rendeva “inammissibile” il ruolo di “fonte confidenziale”. Ma l’episodio non era stato dimenticato.

Forse per questo, o forse perché pensa che “la propria posizione sia già irrimediabilmente compromessa”, Canali e gli altri protagonisti dell’informativa ‘Tsunami’, sprofondano in un “clima di preoccupazione”. La mattina del 4 maggio 2005, lo stesso Canali fa “insolitamente incursione all’interno della sala intercettazioni, dove si stanno svolgendo le attività tecniche”. Il motivo ufficiale, scrive Cristaldi, è che deve “conferire con il collega De Feis”, ma intanto “passa in rassegna con lo sguardo tutti gli operatori presenti”. Dopodiché, spiega l’informativa ‘Tsunami’, De Feis avrebbe riferito ai carabinieri un episodio sconcertante: durante una riunione a cui ha partecipato con il procuratore capo di Barcellona Rocco Sisci, il pm Canali e l’allora sostituto procuratore generale di Messina Franco Cassata, “quest’ultimo, in accordo con Canali, ha più volte manifestato la volontà di ‘bloccare’ l’informativa del 29 aprile 2005 (su Terme Vigliatore e il resto)”. Assicurando, anche, “un intervento nell’ambito dell’Arma dei carabinieri per mezzo di un non meglio precisato colonnello”.

A quel punto, scrive Cristaldi, De Feis si sente “scorato e intimidito”, ma non ancora sconfitto. Scrive anche, il capitano, che secondo il pm “il contenuto dell’informativa del 29 aprile” avrebbe comportato “certamente per il dottor Canali l’instaurazione a suo carico di un procedimento penale ovvero disciplinare”. Di fatto, però, Olindo Canali è ancora sostituto procuratore a Barcellona Pozzo di Gotto. Franco Cassata è diventato procuratore generale di Messina. Bartolo Cipriano, colui che per i carabinieri era al vertice di intrecci oscuri, siede sulla poltrona di sindaco al Comune di Terme Vigliatore (quello sciolto per mafia tre anni fa). Mentre il luogotenente Santi Pino è placidamente andato in pensione. Solo il professor Adolfo Parmaliana, fonte di infinite notizie per gli inquirenti, autore di coraggiose denunce su Terme Vigliatore e dintorni, non c’è più. Tocca al procuratore capo di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, destinatario degli atti sul suicidio del docente, fare in modo che non sia stata una morte inutile. Sul tavolo, ha l’informativa ‘Tsunami’.

 

 

Tratto dal Blog AdolfoParmaliana.it per non dimenticare
L’ultima lettera

La Magistratura barcellonese/messinese vorrebbe mettermi alla gogna, vorrebbe umiliarmi, delegittimarmi, mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati.

Non posso consentire a questi soggetti di offendere la mia dignità di uomo, di padre, di marito, di servitore dello Stato e docente universitario.

Non posso consentire a questi soggetti di farsi gioco di me e di sporcare la mia immagine, non posso consentire che il mio nome appaia sul giornale alla stessa stregua di quello di un delinquente.

Hanno deciso di schiacciarmi, di annientarmi.

Non glielo consentirò, rivendico con forza la mia storia, il mio coraggio e la mia indipendenza.

Sono un uomo libero che in maniera determinata si sottrae ad un massacro ed agli agguati che il sistema sopra indicato vorrebbe tendergli.

Chiedete all’Avv.to Mariella Cicero la ragioni del mio gesto, il dramma che ho vissuto nelle ultime settimane, chiedetelo al Sen. Beppe Lumia, chiedetelo al Maggiore Cristaldi, chiedetelo all’Avv.to Fabio Repici, chiedetelo a mio fratello Biagio. Loro hanno tutti gli elementi e tutti i documenti necessari per potervi fare conoscere questa storia: la genesi, le cause, gli accadimenti e le ritorsioni che sto subendo.

Mi hanno tolto la serenità, la pace, la tranquillità, la forza fisica e mentale.

Mi hanno tolto la gioia di vivere. Non riesco a pensare ad altro. Chiedo perdono a tutti per un gesto che non avrei pensato mai di dover compiere.

Ai miei amati figli Gilda e Basilio, Gilduzza e Basy, luce ed orgoglio della mia vita, raccomando di essere uniti, forti, di non lasciarsi travolgere dai fatti negativi, di non sconfortarsi, di studiare di qualificarsi, di non arrendersi mai, di no essere troppo idealisti, di perdonarmi e di capire il mio stato d’animo: Vi guiderò con il pensiero, con tanto amore, pregherò per voi, gioirò e soffrirò con voi.

Alla mia amatissima compagna di vita, alla mia Cettina, donna forte, coraggiosa, dolce, bella e comprensiva: Ti chiedo di fare uno sforzo in più, di non piangere, di essere ancora più forte e di guidare i Ns figli ancora con più amore, di essere più brava e più tenace di quanto no lo sia stato io.

Ai miei fratelli, Biagio ed emilio, chiedo di volersi sempre bene, di non dimenticarsi di me: vi ho voluto sempre bene, Vi chiedo di assistere con cura ed amore i Ns genitori che ne hanno tanto bisogno.

Alla mia bella mamma ed al mio straordinario papà: Vi voglio tanto bene, Vi mando un abbraccio forte, Vi porto sempre nel mio cuore, siete una forza della natura, mi avete dato tanto di più di quanto meritavo.

A tutti i miei parenti, ai miei cognati, ai miei zii, ai miei cugini, ai miei nipoti, a mia suocera: vi chiedo di stare vicini a Gilda, a Basilio ed a Cettina. Vi chiedo di sorreggerli.

Ai miei amici sarò sempre grato per la loro vicinanza, per il loro affetto, per aver trascorso tante ore felici e spensierate.

Alla mia università, ai miei studenti, ai miei collaboratori ed alle mie collaboratrici saro sempre grato per la cura e la pazienza manifestatami ogni giorno. Grazie. Quella era la mia vita. Ho trascorso 30 anni bellissimi dentro l’Università, innamorato ed entusiasta della mia attività di docente universitario e di ricercatore. I progetti di ricerca, la ricerca del nuovo erano la mia vita. Quanti giovani studenti ho condotto alla laurea. Quanti bei ricordi.

Ora un clan mi ha voluto togliere le cose più belle: la felicità, la gioia di vivere, la mia famiglia, la voglia di fare, la forza per guardare avanti.

Mi sento un uomo finito, distrutto.

Vi prego di ricordarmi con un sorriso, con una preghiera, con un gesto di affetto, con un fiore. Se a qualcuno ho fatto del male chiedo umilmente di volermi perdonare.

Ho avuto tanto dalla vita. Poi, a 50 anni ho perso la serenità per scelta di una Magistratura che ha deciso di gambizzarmi moralmente.

Questo sistema l’ho combattuto in tutte le sedi istituzionali. Ora sono esausto, non ho più energie per farlo e me ne vado in silenzio. Alcuni dovranno avere qualche rimorso di aver ingannato un uomo che ha creduto ciecamente, sbagliando, nelle istituzioni.

Un abbraccio forte, forte da un uomo che sino ad alcuni mesi addietro sorrideva alla vita.

Adolfo Parmaliana

 

 

 

Io che da morto vi parlo
Passioni, delusioni, suicidio del professor Adolfo Parmaliana

di Alfio Caruso

Ed. Longanesi

Il 2 ottobre 2008 si ammazza in Sicilia Adolfo Parmaliana, cinquantenne professore di chimica industriale all’università di Messina, considerato uno dei massimi esperti internazionali nella ricerca delle nuove fonti di energia rinnovabile. All’impegno accademico Parmaliana ha unito per trent’anni un accanito impegno civile.

Iscritto giovanissimo al Pci, ha difeso le ragioni della legalità, della correttezza, del buongoverno nella sua piccola patria, Terme Vigliatore, un paesino che si trova a pochissimi chilometri da Barcellona Pozzo di Gotto, zona franca dei grandi boss di Cosa Nostra, da Santapaola a Provenzano, fondamentale snodo del Gioco Grande, lì dove confluiscono e s’intrecciano mafia, massoneria, alta finanza, pezzi rilevanti delle Istituzioni. Così il piccolo professore amante dei libri, dei vestiti eleganti, della Juve e idolatrato dai suoi allievi diventa, quasi a sua insaputa, un testimone scomodo da zittire, soprattutto dopo che le sue denunce hanno portato allo scioglimento del Comune di Terme per infiltrazioni mafiose. Emarginato dal suo stesso partito, subisce la vendetta di quel Partito Unico Siciliano che lui per anni ha indicato quale connivente con il peggio della società. Il suicidio, spiegato da una terribile lettera d’accusa alla magistratura locale, appare, allora, l’unico strumento per non darla vinta ai persecutori e riaffermare la superiorità del Bene sul Male.

 

 

 

Fonte: adolfoparmaliana.it
Interrogazione del Sen. Giuseppe Lumia sul caso Parmaliana
Senato della Repubblica – XVI Legislatura
69° Seduta (pomeridiana) del 8 Ottobre 2008

Al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro della giustizia

Nella mattina del 2 ottobre 2008 il professore Adolfo Parmaliana, docente ordinario di Chimica industriale all’Università di Messina, cinquantenne, si è tolto la vita lanciandosi nel vuoto dal viadotto Patti Marina dell’autostrada Messina-Palermo, dopo aver lasciato la propria autovettura sulla corsia d’emergenza; il professor Parmaliana era nato

e viveva a Terme Vigliatore, paese di circa 7.000 abitanti confinante con Barcellona Pozzo di Gotto (Messina); fin da ragazzo il professor Parmaliana aveva dispiegato un appassionato impegno politico, che lo aveva portato negli anni a militare nel Partito comunista italiano e poi, fino a pochi anni fa, ad assumere il ruolo di segretario della locale sezione dei Democratici di sinistra; la militanza politica e civile del professor Parmaliana è stata spesa sempre e coerentemente al servizio della difesa della legalità, della tutela del territorio, della ricerca della giustizia e della lotta contro la criminalità politica e le infiltrazioni della mafia in seno alle istituzioni;

per il suo atteggiamento integerrimo e coraggioso, il professor Parmaliana si è spesso ritrovato isolato a lottare contro poteri forti che condizionano il corretto andamento delle pubbliche amministrazioni e perfino degli organismi di controllo, in primis l’autorità giudiziaria;

in particolare, da molti anni e fino all’ultimo il professor Parmaliana ha lamentato l’inerzia di cui si è sempre resa responsabile la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto a fronte delle denunce che egli aveva nel tempo formulato circa i reati commessi da pubblici amministratori, professionisti e altri personaggi di rilievo di Terme Vigliatore;

delle inerzie degli organi giudiziari competenti il professor Parmaliana investì anche il Consiglio superiore della magistratura, cui inviò un esposto in data 3 dicembre 2001, con il quale rappresentò di aver più volte segnalato alla Procura di Barcellona reati di pubblica amministrazione e cointeressenze mafiose relative alla gestione dell’ente Terme e di avere, preso atto dell’immobilismo della Procura di Barcellona, interessato invano la Procura generale di Messina, nelle persone dell’allora dirigente dell’Ufficio e del sostituto dottor Antonio Franco Cassata, per sollecitare l’avocazione, e riferì altresì che l’avvocato Nello Cassata, figlio del dottor Cassata, aveva ricevuto incarichi professionali tra il 1999 ed il 2000 dal Comune di Terme Vigliatore;

in conseguenza di tale esposto, il professor Parmaliana l’11 marzo 2002 venne audito dalla Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura nell’ambito del procedimento per incompatibilità ambientale allora pendente sul dottor Antonio Franco Cassata, poi – a parere dell’interrogante, con decisione errata – purtroppo archiviato, tanto che nella scorsa estate, pur a seguito di altro atto di sindacato ispettivo dell’interrogante (4-00105, Resoconto n. 13 del 4 giugno 2008), è stata deliberata la nomina del dottor Cassata il 29 luglio 2008 quale attuale Procuratore generale presso la Corte di appello di Messina;

nel corso di quell’audizione al Consiglio superiore della magistratura, il professor Parmaliana ribadì le sue doglianze sulle disfunzioni dell’amministrazione della giustizia nel suo territorio, sulle inerzie della Procura di Barcellona a fronte delle sue documentate denunce, sulle inerzie della Procura generale di Messina a fronte delle sue sollecitazioni all’avocazione delle indagini e, infine, sugli incarichi fiduciari conferiti dall’amministrazione comunale di Terme Vigliatore al figlio del dottor Cassata, avvocato Nello Cassata;

l’infaticabile attività di denuncia del professor Parmaliana sull’illegalità dominante nelle amministrazioni comunali succedutesi nel tempo a Terme Vigliatore trovò comunque positivo riscontro nel decreto del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, del dicembre 2005, con il quale venne disposto lo scioglimento dell’amministrazione comunale di Terme Vigliatore per il condizionamento mafioso accertato dalla commissione prefettizia all’esito, tra l’altro, proprio delle segnalazioni del professor Parmaliana;

come risulta da plurime recenti fonti di stampa, in parallelo con l’inchiesta amministrativa sul Comune di Terme Vigliatore, si svilupparono delle indagini curate dai carabinieri della Compagnia di Barcellona Pozzo di Gotto, nel corso delle quali furono rilevate, in un’informativa denominata “Tsunami”, insieme a innumerevoli irregolarità amministrative e penali nella gestione del Comune, allarmanti condotte poste in essere, fra l’altro, proprio da due dei magistrati dei quali il professor Parmaliana aveva lamentato inerzie e omissioni, il dottor Olindo Canali, sostituto procuratore della Repubblica a Barcellona Pozzo di Gotto, ed il dottor Antonio Franco Cassata, attuale Procuratore generale presso la Corte di appello di Messina;

anche in epoca successiva, il professor Parmaliana ha formulato numerose puntuali denunce sulle pesanti irregolarità che continuava a registrare nella gestione della cosa pubblica a Terme Vigliatore;

tuttavia, il professor Parmaliana fino all’ultimo ha continuato a registrare l’immobilismo della Procura di Barcellona;
per converso, da ultimo il professor Parmaliana vide mutare la sua posizione da quella di indefesso ed integerrimo accusatore in quella di accusato;

nel settembre 2008, infatti, gli venne notificato un decreto di citazione a giudizio emesso dalla Procura di Barcellona per il delitto di diffamazione aggravata in danno di tale Domenico Munafò, attuale Presidente del Consiglio comunale di Terme Vigliatore e già vicesindaco nell’amministrazione comunale sciolta per mafia nel 2005;

le imputazioni di quel decreto sono tali e destano tale sgomento che ne è doveroso fare in questa sede una valutazione sostanziale al di fuori del competente ambito giudiziario e senza, quindi, intralciare l’autonomia e l’indipendenza degli organi competenti;

in particolare, con quell’atto la Procura di Barcellona ha addebitato al professor Parmaliana di aver compiuto il delitto di diffamazione con tre successive condotte e precisamente: per aver esultato al decreto del Presidente della Repubblica Ciampi con il quale venne sciolta per mafia l’amministrazione comunale, facendo affiggere nella sua veste di segretario della locale sezione dei Democratici di sinistra un manifesto riportante il seguente testo:

“Il Consiglio Comunale è stato sciolto per ingerenza della criminalità organizzata! Giustizia è stata fatta: la legalità ha vinto! Tanti dovrebbero scappare … se avessero dignità”;

per aver esultato al provvedimento emesso dal Tribunale amministrativo regionale di Catania con il quale era stato rigettato il ricorso presentato da alcuni esponenti dell’amministrazione infiltrata dalla mafia per l’annullamento del decreto di scioglimento del Presidente della Repubblica Ciampi, facendo affiggere nella sua veste di segretario della locale sezione dei Democratici di sinistra un manifesto riportante il seguente testo:

“Rassegnatevi non siete legittimati a rappresentare le istituzioni. Il Tar ha respinto il ricorso proposto da alcuni ex Consiglieri Comunali ‘sciolti’ e da ex amministratori rimossi dal Presidente della Repubblica. Il Tar ha attestato la necessità e la giustezza del decreto presidenziale. Il ns. Comune è stato oggetto di infiltrazioni della criminalità organizzata. La protervia, l’arroganza, il disprezzo delle leggi e le amicizie politiche non hanno fatto breccia. La legalità continua a vincere”;

infine, per un articolo del professor Parmaliana pubblicato sul sito Internet www.imgpress.it, nel quale, tra l’altro, era contenuto il seguente brano: “Sembra che stanti le palesi illegittimità tecniche e procedurali sia stato avviato il procedimento per l’annullamento in autotutela di alcuni piani di lottizzazione che vedono interessati ex amministratori rimossi e consiglieri sciolti sia come progettisti che come titolari dell’iniziativa edilizia. Pertanto qualche ex amministratore rimosso, coinvolto in tali lottizzazioni, ha partecipato all’Autorità Giudiziaria la vicenda biasimando anche la Commissione Straordinaria per non aver rimosso il Funzionario preposto. Sono evidenti l’imperizia e il disagio del tale; perché non ha promosso la rimozione del funzionario quando era in carica? Aveva evidenze di danno per la comunità e non è intervenuto? Perché sollecita la rimozione solo ora?”;

l’interrogante non può fare a meno di rilevare, peraltro, che per tale articolo l’imputazione è stata mossa solo al professor Parmaliana e non anche al giornalista responsabile della testata e gestore del sito, che materialmente aveva curato la pubblicazione dello scritto del professor Parmaliana, concorrendo nella divulgazione di esso e concorrendo quindi in ipotesi nell’eventuale reato;

il professor Parmaliana ha vissuto quel decreto di citazione a giudizio non solo come un’infamia ma anche come l’inizio della rappresaglia giudiziaria avviata contro di lui proprio dall’ufficio, la Procura di Barcellona, che era stato oggetto della maggior parte delle sue denunce;

come riportato dalla stampa, il professor Parmaliana, prima di togliersi la vita, ha lasciato in casa uno scritto nel quale ha spiegato le ragioni del suo drammatico gesto, fra le quali ci sarebbe, principalmente, proprio il decreto di citazione a giudizio dal quale era stato raggiunto;

come detto, il professor Parmaliana ha posto in essere il suicidio in territorio di Patti Marina e quindi nel circondario di competenza della Procura di Patti, circostanza che fa credere all’interrogante che egli per il suo gesto si sia scientemente allontanato dal comune di residenza, ricadente nel circondario della Procura di Barcellona, per scongiurare la competenza territoriale di tale ufficio giudiziario;

essendo stato, però, l’ultimo manoscritto del professor Parmaliana sequestrato nella sua casa di Terme Vigliatore, esso è stato immediatamente trasmesso per la convalida del sequestro alla Procura di Barcellona;

così come risulta personalmente all’interrogante, in quell’ufficio il manoscritto del professor Parmaliana è giunto quindi a conoscenza del suddetto dottor Olindo Canali, magistrato di turno alla Procura di Barcellona il giorno 2 ottobre 2008; è con sconcerto, allora, che l’interrogante ha registrato nel pomeriggio del 3 ottobre scorso la comparsa sul sito giornalistico www.imgpress.it (lo stesso sul quale non raramente erano apparsi interventi del professor Parmaliana, ivi compreso quello per il quale era stato imputato) di una nota a firma del dottor Olindo Canali, con la quale lo stesso ha rappresentato ai lettori la propria versione sui suoi rapporti con il professor Parmaliana, affermando, tra l’altro, “ho fatto il possibile come magistrato per andare fino in fondo e cercare di capire le sue denunce” e “mi stimava”;

il giorno 5 ottobre il “Giornale di Sicilia” ha pubblicato un articolo sulla morte del professor Parmaliana dal titolo «Barcellona, la Procura sul caso Parmaliana – “Noi non facciamo inchieste sulla mafia”», nel quale sono state riportate le parole dell’attuale Procuratore capo di Barcellona (insediatosi da poco più di un mese e del tutto estraneo alle inerzie giudiziarie lamentate dal professor Parmaliana), che, al riguardo del decreto di citazione a giudizio che aveva colpito il professore, si è detto convinto – spiacevolmente, a parere dell’interrogante – che “il magistrato incaricato di valutare gli elementi a carico del professore, denunciato per diffamazione, abbia operato in massima serenità, prima di chiedere il rinvio a giudizio”;

l’immensa e commossa partecipazione popolare al funerale del professor Parmaliana, celebrato il 4 ottobre 2008, costringe l’interrogante a ritenere che i cittadini onesti hanno compreso e, seppure in modo postumo, condiviso le battaglie, le denunce e le valutazioni del professor Parmaliana sul malaffare nella politica locale, sulla complice inerzia praticata dai locali uffici giudiziari e sulla rappresaglia giudiziaria da lui subita,si chiede di sapere:

se il Ministro in indirizzo, per quanto di propria specifica competenza, non ritenga che debba essere disciplinarmente valutato il comportamento del dottor Canali, il quale, dopo aver avuto contezza in ragione del suo ruolo di magistrato di turno alla Procura di Barcellona del manoscritto lasciato dal professor Parmaliana (che da quasi un decennio lamentava le gravissime inerzie della Procura di Barcellona e, tra gli altri, personalmente del dottor Canali), ha provveduto a far pubblicare sul sito internet www.imgpress.it, ovvero lo stesso sul quale comparve lo scritto per il quale il professor Parmaliana era stato rinviato a giudizio, una sua nota nella quale quel magistrato ricostruisce a modo proprio il tenore dei suoi rapporti con il professor Parmaliana, come nell’intento di precostituire una personale difesa;

se non ritenga necessaria, improcrastinabile e doverosa l’adozione di attività ispettiva di propria competenza presso la Procura della Repubblica di Barcellona Pozzo di Gotto, al fine di poter assumere le eventuali necessarie determinazioni in materia disciplinare su tutti i fatti descritti in premessa.

 

 

 

Articolo del 3 Dicembre 2011 dal Corriere della Sera
«Il dossier anonimo era del procuratore» Rinviato a giudizio
di Alfio Sciacca
L’ inchiesta Il Pg di Messina accusato di aver diffamato un prof suicida

MESSINA – Accogliendo il pm arrivato da Reggio per indagare sulle calunnie nei confronti del defunto professor Adolfo Parmaliana, il procuratore generale Franco Cassata fu particolarmente cordiale. Tanto da mettere a disposizione del collega il suo ufficio perché potesse comodamente procedere con i testi convocati. E fu così che tra un interrogatorio e l’ altro, il pm notò il carteggio all’ interno di una vetrinetta. Nella stanza del procuratore generale di Messina c’ era proprio quel dossier anonimo sul quale stava indagando. Tra i foglietti persino un appunto a penna con la scritta «da spedire». Insomma, il presunto corvo che ha infangato la memoria del povero Parmaliana potrebbe essere proprio Cassata, che da ieri è formalmente imputato per «diffamazione con l’ aggravante dei motivi abietti di vendetta». Forse è la prima volta che un magistrato finisce a processo per aver diffamato un morto. Cassata avrebbe elaborato il dossier di 30 pagine per demolire la credibilità di un personaggio scomodo che aveva denunciato le infiltrazioni mafiose nei palazzi di giustizia messinesi e che, evidentemente, faceva paura anche da morto. Parmaliana, 50 anni, ordinario di chimica a Messina, si suicidò il 2 ottobre 2008 lanciandosi da un ponte. Lasciò una lunga lettera. «La magistratura barcellonese e messinese vorrebbe mettermi alla gogna – scrisse – vorrebbe delegittimarmi, mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando la mafia e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati… Dovranno provare rimorso per aver ingannato un uomo che ha creduto, sbagliando, nelle istituzioni». Non viene citato Cassata, ma quel nome Parmaliana lo aveva fatto più volte, anche davanti al Csm, parlando di un sistema di potere che avrebbe il suo epicentro a Barcellona Pozzo di Gotto e nel circolo «Corda Fratres». Nel tempo tra i soci ci sono stati faccendieri, mafiosi e pezzi delle istituzioni. Cassata è di Barcellona ed è stato anche presidente del Corda Fratres. Il suicidio di Parmaliana fu dunque un gesto estremo per richiamare l’ attenzione dei media su quel grumo di potere. Ne venne fuori anche un libro di Alfio Caruso dal titolo profetico Io che da morto vi parlo . «Con la nomina Cassata – scrive Caruso – diventa tangibile l’ egemonia di Barcellona su Messina attraverso il sindaco Buzzanca, il procuratore generale e il politico più influente Domenico Nania. Tutti e tre provengono da Barcellona e dalla Corda Fratres, l’ associazione della quale hanno fatto parte anche Pino Gullotti, il capo riconosciuto della famiglia mafiosa, e l’ enigmatico Saro Cattafi». Guarda caso il dossier su Parmaliana salta fuori a poche settimane dall’ uscita del libro che qualcuno, hanno accertato i pm, avrebbe voluto bloccare. E infatti Caruso è il primo a ricevere l’ anonimo nel quale Parmaliana viene accusato di aver preso soldi per consulenze di favore e persino di essere un violento. Una campagna d’ odio alla quale reagisce la vedova che presenta querela contro ignoti. Nessuno però poteva immaginare che si arrivasse al procuratore generale. Altro riscontro: uno dei documenti allegati al dossier risulta spedito da una cartoleria di Barcellona e indirizzato al suo fax. Ma anche i pentiti hanno cominciato a fare il nome di Cassata come persona vicina al boss Gullotti e Cattafi. Mentre qualche mese fa il suo ufficio è stato perquisito dai Ros nell’ ambito di un’ indagine per mafia che coinvolgerebbe magistrati messinesi.

 

 

 

Articolo del 6 Febbraio 2012 da antimafiaduemila.com
Suicidio Parmaliana: inizia il processo per diffamazione a carico del procuratore Franco Cassata
di Fabio Repici

Stamattina, davanti al Giudice di pace di Reggio Calabra, si è aperto il processo sicuramente più stupefacente d’Italia. Imputato è un alto magistrato, il Procuratore generale di Messina, dr. Antonio Franco Cassata, che è chiamato a rispondere di diffamazione pluriaggravata commessa con la diffusione di un dossier anonimo a mezzo del quale venne buttata una mole immonda di fango contro la memoria di Adolfo Parmaliana.

Molti ricorderanno che Adolfo, stimatissimo docente universitario di chimica all’università di Messina, prima di togliersi la vita, aveva lasciato una “ultima lettera” con la quale aveva lanciato la sua denuncia finale contro la “Magistratura barcellonese/messinese”. Proprio quella lettera di Adolfo è stata riportata dalla Procura di Reggio Calabria nel capo d’imputazione addebitato al dr. Cassata, al quale si imputa di aver composto, insieme ad altri, il dossier anonimo per motivi abietti di vendetta contro il testamento mo1rale di Adolfo.

Non si era mai visto in Italia un processo a un alto magistrato per un dossier anonimo ai danni di una persona defunta, per di più con lo scopo di tentare di ostacolare la pubblicazione di un libro. Il volume che si tentò di non far giungere nelle librerie, “Io che da morto vi parlo”, è la biografia di Adolfo Parmaliana e il racconto dettagliato delle sue battaglie spesso solitarie, delle sue sconfitte, della sua morte e delle nefandezze compiute ai suoi danni. Lo scrisse nel 2009 Alfio Caruso e in tanti cercarono di sventarne la pubblicazione. Così, quello iniziato oggi è uno strano processo per una ripugnante diffamazione compiuta col metodo dei peggiori “corvi” ed è anche la storia di come nel 2009, dopo aver provato a infangare la memoria di Adolfo, si tentò pure di praticare una oscena censura alla sua biografia.

Viste le peculiarità del processo, il suo avvio è stato subito anomalo. Infatti, appena dopo l’apertura dell’udienza, il Giudice, Giandomenico Foti (che è anche il capo dell’ufficio del Giudice di pace di Reggio Calabria), ha immediatamente dichiarato di astenersi, in considerazione dei suoi “rapporti di amicizia e di frequentazione personale e familiare” con il dr. Cassata, cioè con l’imputato. Ergo, rinvio a nuovo ruolo in attesa della decisione del Presidente del Tribunale sull’astensione del Giudice e dell’individuazione di un nuovo Giudice. Sperando che non ci siano soverchie difficoltà a trovare a Reggio Calabria un Giudice che non abbia rapporti di amicizia con il Procuratore generale di Messina e che dunque il processo non vada alle calende greche.

Poiché con la sua “ultima lettera” Adolfo mi diede, insieme ad altri, l’onere di difenderne la memoria, raccontare puntualmente tutto quanto accadrà nel processo sull’infame dossier ai danni della sua figura mi sembra il modo migliore di onorare quell’impegno. Almeno fino a quando l’informazione democratica di questo paese non si attivi spontaneamente.

 

 

Foto da: blogtaormina.it

 

Articolo del 30 Marzo 2012 da blogtaormina.it
Processo Cassata: prima udienza col nuovo giudice
Riprende a Reggio Calabria il dibattimento contro il procuratore generale di Messina: è indagato per un dossier anonimo contro il professore Adolfo Parmaliana.

Il processo al Procuratore generale di Messina, Antonio Franco Cassata, finalmente, ha avuto inizio. Prima udienza nelle scorse ore innanzi al nuovo Giudice di pace di Reggio Calabria, Lucia Spinella.

L’alto magistrato messinese, ricordiamo, viene chiamato a comparire davanti al Giudice di pace di Reggio per rispondere dell’accusa di concorso in diffamazione pluriaggravata, nell’ambito delle indagini sui contenuti di un dossier anonimo che infangava la memoria del prof. Adolfo Parmaliana. Secondo il sostituto procuratore Federico Perrone Capano, titolare dell’indagine, il pg Cassata si sarebbe reso responsabile, in concorso con gli esecutori materiali allo stato ignoti, dell’invio dell’esposto anonimo intitolato “A quanti odiano la verità”.

Prima ancora che iniziasse a dirigere il dibattimento – racconta l’avvocato Fabio Repici nella sua cronaca riportata da Enrico Di Giacomo -, tuttavia, il nuovo giudice ha dovuto, suo malgrado, assistere alla prima anomalia. Ricordiamo che il primo giudice di questo processo era stato Giandomenico Foti, coordinatore dell’ufficio dei Giudici di pace di Reggio Calabria, e che questi si era astenuto in ragione dei propri rapporti di amicizia e frequentazione con Cassata.

Naturalmente, poiché a giudicare non può essere un amico dell’imputato, la richiesta di astensione di Foti era stata immediatamente accolta dal Presidente del Tribunale di Reggio Calabria, che aveva designato il giudice Antonio Scordo, il quale a sua volta, per raggiunti limiti di età, ha dovuto presto abbandonare il processo.

È stato quindi designato, questa volta proprio da Giandomenico Foti, un nuovo giudice, per l’appunto Lucia Spinella, che stamattina, entrando in udienza, è stata preceduta dallo stesso Foti, il quale, prendendo la parola, ha voluto presentare alle parti del processo il nuovo giudice. Garbatamente, chi scrive ha segnalato all’avv. Foti come non fosse molto opportuno (e ritengo fosse anche un po’ ingeneroso per la stessa Spinella) che il nuovo giudice venisse “presentato” (evenienza sconosciuta al codice di procedura penale) dall’amico dell’imputato.

Finito questo siparietto, il processo ha avuto regolarmente inizio e, ribadito dal nuovo giudice il provvedimento sull’ammissione delle prove richieste dalle parti, è stato sentito il luogotenente dell’Arma Giuseppe Musarra, primo testimone indicato dal pubblico ministero. Musarra ha raccontato come, comandando al tempo la Stazione dei carabinieri di Patti, ebbe notizia, il 2 ottobre 2008, dell’avvistamento dell’auto di Adolfo Parmaliana sul viadotto autostradale di Patti Marina e del rinvenimento del cadavere di Adolfo, quaranta metri più giù.

Sull’auto vennero ritrovati due post-it, con i quali Adolfo aveva segnalato che la sua “ultima lettera”, nella quale aveva spiegato le ragioni del suo suicidio, si trovava sulla scrivania del suo studio. Lì – ha proseguito Musarra – il testamento morale di Adolfo Parmaliana venne nel pomeriggio di quel triste giorno prelevato dai carabinieri della Compagnia di Barcellona Pozzo di Gotto, e in particolare dal Tenente Salvatore Ferraro. Proprio il Tenente Ferraro sarà esaminato alla prossima udienza, che si terrà giovedì prossimo.

 

 

 

Articolo del 6 Luglio 2012 da  soniaalfano.it
“Impressioni d’udienza” dal processo Cassata/11
di Fabio Repici

Oggi al processo a carico del dr. Cassata, unico Procuratore generale al di qua delle Alpi (forse perfino al di là) imputato, a sentire i testimoni si è rischiata la labirintite. Mi spiego. Il dr. Cassata è imputato di diffamazione ai danni della memoria di Adolfo Parmaliana commessa con un infame dossier anonimo. E la labirintite si è rischiata proprio sulla figura di Adolfo Parmaliana.

Premessa prima: il dr. Cassata, interrogato in qualità di indagato dall’allora Procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone, si difese dicendo di non avere nulla contro Adolfo e che mai nessun cattivo pensiero aveva fatto al suo riguardo. Dimenticando, forse, quanto aveva scritto perfino in atti rivolti all’A.g., oltre a ciò che aveva detto (“Parmaliana era un poco di buono”) pure a un poliziotto avvicinato al fine di tentare di stoppare la pubblicazione del libro di Alfio Caruso “Io che da morto vi parlo – Passioni, delusioni, suicidio del professor Adolfo Parmaliana”.

Premessa seconda: il dossier anonimo per il quale Cassata è oggi imputato innanzi al Giudice di pace di Reggio Calabria Lucia Spinella conteneva una valanga di melma fetida su Adolfo Parmaliana, con accuse le più varie, dalla sua presunta ignoranza della lingua inglese alla sua presunta amicizia con Cuffaro.

Ora, la labirintite processuale di oggi è stata proprio sulla figura di Adolfo Parmaliana, soprattutto a sentire due testimoni: il primo è uno scienziato, professore di chimica all’Università di Torino e vicerettore di quell’ateneo, il prof. Salvatore Coluccia; il secondo è un giovane avvocato, nemico giurato e doppiamente imputato di diffamazione ai danni di Adolfo Parmaliana, tale Vito Calabrese. Nell’ascoltarli sembrava parlassero di due persone diverse; invece si trattava sempre di Adolfo.

Salvatore Coluccia ha spiegato che il suo collega Adolfo Parmaliana era uno scienziato quotato, che con lui aveva condiviso innumerevoli pubblicazioni sulle riviste più illustri (pubblicazioni rigorosamente scritte da Adolfo Parmaliana – e da Coluccia – in lingua inglese) e che Adolfo era apprezzato conferenziere tanto in sede nazionale che internazionale.

Poi, invece, Vito Calabrese ha tracciato un profilo biografico pressoché paracriminale su Adolfo, sforzandosi continuamente di rispondere contumelie nei confronti di Adolfo alle domande riguardanti il dr. Cassata. Col quale, pure, Vito Calabrese ha dovuto ammettere i suoi contatti, così come ha dovuto ammettere anche i suoi rapporti, pure telefonici e pure nell’attualità, con il dr. Olindo Canali, pubblico ministero che nel 2008 aveva proposto richiesta di archiviazione in un procedimento nato dalla querela di Adolfo Parmaliana proprio contro Vito Calabrese. E poi il giovane legale, inframmezzando le sue risposte con i dinieghi ogni volta che si trattava di qualche argomento che avesse pur lontane connessioni con i processi a suo carico, ha dovuto riferire sul contenuto dell’informativa Tsunami, firmata nel 2005 dal maggiore Domenico Cristaldi e riguardante l’operato di due magistrati: putacaso, Antonio Franco Cassata e Olindo Canali. Prima della conclusione della sua testimonianza, Vito Calabrese è riuscito a far sbottare il pubblico ministero, che lo ha redarguito e invitato a rispondere secondo verità e senza svicolare dalle domande.

Ma fra la testimonianza del prof. Coluccia e quella dell’avv. Calabrese c’è stata una sorta di cabaret processuale. Infatti, dopo la rapida testimonianza di tre cancellieri della Procura generale di Messina, sembrava di essere piombati in una commedia di Plauto, per effetto della testimonianza di un commesso della Procura generale di Messina, tale Ciro Alemagna. Il quale, a dire il vero, sarebbe un ex commesso della Procura generale di Messina, essendo andato in pensione il 31 ottobre 2010, ma ha tenuto a precisare che ancora oggi, due o tre volte a settimana gli capita di frequentare l’ufficio diretto dal dr. Cassata. E perché? Questo non si è capito del tutto, visto che, fra un’espressione in vernacolo napoletano e un turpiloquio (“minchia!”, ha esclamato a un certo punto), Alemagna ha spiegato di avere difficoltà e, nel motivare le ragioni della sua frequentazione della Procura generale (dove, ha sostenuto, ancora oggi chi lo incontra gli chiede incombenze d’ufficio), ha utilizzato l’espressione “sbarcare il lunario”. Cosa c’entrasse il suo “sbarcare il lunario” con le visite da buon pensionato all’ufficio diretto dal dr. Cassata non è stato ben compreso. Sarà per un’altra volta.

Intanto, quel che è sicuro, nelle parole di Ciro Alemagna, è che lui ha grande devozione per “sua eccellenza” il dr. Cassata e questo ha tenuto a ribadirlo a ogni pie’ sospinto. Aggiungendo di essere stato proprio lui ad aprire presso la Procura generale il plico contenente il famoso dossier anonimo contro Adolfo Parmaliana. E qui il suo slancio ha avuto forse fervore eccessivo: dopo aver raccontato di essersi presentato di corsa davanti al dr. Cassata senza passare dal protocollo, allorché nell’aprire la busta (secondo lui mancante di indicazioni nominative sul destinatario) e nel leggere il documento il suo occhio era caduto sul nome di Adolfo Parmaliana (“avevo sentito discorsi su magistrati, Parmaliana, Repici…”), tomo tomo quatto quatto Cassata parrebbe averlo spedito a fare qualche copia dell’anonimo prima di portare il documento alla rituale protocollazione, adempimento che secondo regola mai avrebbe dovuto essere scavalcato. Solo che, dopo aver ripetuto decine di volte la stessa versione, alle volte con toni esilaranti, è rimasto un po’ spiazzato quando si è accorto che la busta che lui stesso aveva detto di aver aperto riportava nello spazio del destinatario il nome del dr. Cassata e che quindi la storia che aveva raccontato era diventata un colabrodo. E però bisogna rendere omaggio alla dedizione di Alemagna a Cassata, perché la sua versione dei fatti, curiosamente sconosciuta perfino a Cassata quando fu interrogato dal Procuratore Pignatone dopo che copie del dossier non protocollato erano state sequestrate dentro l’ufficio del dr. Cassata all’interno di una vetrinetta, era un’evidente giustificazione per il Procuratore generale, tanto più che, con il solito slancio affettivo, Alemagna è arrivato ad affermare che quella vetrinetta non era mai chiusa a chiave, implicitamente quasi accusando di falsa testimonianza il capitano del Ros di Reggio Calabria, che qualche mese fa aveva riferito al Giudice che, quando, insieme al pubblico ministero Federico Perrone Capano, si erano accorti di quella carpetta dall’inquietante dicitura (“copie esposto Parmaliana da spedire”), la ormai famigerata vetrinetta era chiusa a chiave e senza chiavi a vista.

L’udienza di oggi è terminata a pomeriggio inoltrato. Il processo Cassata proseguirà il prossimo 19 luglio. Quel giovedì a Palermo e in molti posti d’Italia sarà ricordato un eroico magistrato nel ventennale del suo assassinio (e di quello dei cinque poliziotti che lo scortavano). A Reggio Calabria qualcuno forse ricorderà Adolfo ma qualcun altro con grande probabilità riverserà ulteriore fiele contro di lui e tributerà onori in vita all’unico Procuratore generale d’Italia imputato.

 

 

Articolo del 19 Luglio 2012 da soniaalfano.it
Impressioni d’udienza dal processo Cassata/12
di Fabio Repici

Venti anni fa, proprio nei minuti in cui scrivo, mafiosi e forse anche apparati dello Stato uccidevano in via D’Amelio a Palermo un eroico magistrato e cinque altrettanto eroici poliziotti. Oggi, anziché partecipare alle iniziative palermitane in ricordo di Paolo Borsellino, mi è toccato occuparmi a Reggio Calabria di un magistrato molto meno eroico, l’unico Procuratore generale d’Italia imputato, Antonio Franco Cassata. Il quale, accusato della divulgazione di un nauseabondo dossier anonimo per infangare la memoria del prof. Adolfo Parmaliana (altro eroe defunto: Brecht sosteneva quanto fosse sfortunato quel paese che ha bisogno di eroi; io aggiungo che è proprio maledetto un paese come il nostro, che gli eroi li riconosce solo dopo la morte), ha continuato a mantenersi contumace e oggi è rimasto a Messina ad assistere umilmente seduto nel pubblico alla commemorazione di Borsellino tenutasi al palazzo di giustizia, rigorosamente escluso (perfino nelle locandine) dal novero dei relatori, immagino per ragioni di opportunità.

All’udienza di oggi è stato il turno degli ultimi testimoni della difesa, persone evidentemente non ostili al Procuratore generale imputato. In effetti, il primo di essi è stato suo nipote, l’avvocato Giovanni Celi, la cui testimonianza è stata incentrata sulle manovre avviate dal dr. Cassata nel settembre 2009 al fine di contattare lo scrittore Alfio Caruso e così incidere (secondo quanto emerso nel processo finora, per impedirne o condizionarne l’uscita) sul libro “Io che da morto vi parlo – Passioni, delusioni, suicidio del professor Adolfo Parmaliana”, in epoca pericolosamente coincidente con l’elaborazione e la divulgazione dell’infame dossier anonimo. Tentativo di condizionamento che – va detto, e così ha riferito anche Celi – non ha avuto esito per la risoluta indisponibilità dell’autore del libro. Ciò detto, Giovanni Celi, che ha lealmente sottolineato l’elevatissima stima intellettuale che egli nutriva e nutre per la figura di Adolfo Parmaliana, ha anche aggiunto che la teoria secondo cui suo zio Franco Cassata fosse caduto in crisi depressiva a causa del libro e avesse fatto ricorso a psicofarmaci è “un’infame bugia”. Detto per inciso: credo che Celi abbia proprio ragione. Immagino che la sua dichiarazione non sarà molto gradita allo zio, visto che era stato proprio Cassata a riferire la circostanza, forse per indurre a pietà il funzionario di polizia per il tramite del quale aveva tentato di agganciare Alfio Caruso.

Finita la testimonianza di Celi, l’udienza ha virato verso la dimensione teatrale, nel senso del teatro dell’assurdo beckettiano nel caso della testimonianza dell’avv. Felice Recupero e in quello di Martoglio (con evidenti echi guareschiani) nel caso della testimonianza di Salvatore Isgrò. Recupero è riuscito a non rispondere (forse aspettava Godot) pressoché ad alcuna domanda e ha perfino affermato di non ricordare alcunché degli atti e dei documenti delle cause da lui patrocinate contro Adolfo Parmaliana. Fra i vuoti di memoria, Recupero ha rischiato pure di dimenticare che suo suocero fosse corrispondente della Gazzetta del Sud da Terme Vigliatore. E di certo chi ha letto il testamento morale di Adolfo Parmaliana ricorderà la citazione di un articolo di giornale – era proprio della Gazzetta del Sud – che aveva divulgato la notizia della sua incriminazione folle da parte della Procura di Barcellona Pozzo di Gotto per aver Adolfo gioito di un decreto dell’allora Capo dello Stato (epoca in cui il Capo dello Stato faceva decreti rientranti nelle proprie attribuzioni e non su vicende nelle quali potesse essere personalmente coinvolto, come invece accade al giorno d’oggi). Ma Recupero ha chiuso la sua audizione citando un fatto che, da sé solo, dimostra l’astio che il povero Adolfo ha continuato a raccogliere pure dopo il suo suicidio: il vicesindaco dell’amministrazione di Terme Vigliatore sciolta per infiltrazioni mafiose dal Presidente Ciampi nel dicembre 2005, Domenico Munafò, infatti, assistito proprio dall’avv. Recupero, ha fatto causa agli eredi di Adolfo per il contenuto della sua “ultima lettera”: quel documento con cui l’indimenticato docente universitario spiegava le ragioni del suo suicidio, senza sapere che ci sarebbe stato chi avrebbe tentato di perseguitarne pure la memoria.

Con Salvatore Isgrò in aula è sembrato di ascoltare Peppone (nel senso di Guareschi) in salsa siciliana. La sua testimonianza è parsa irrilevante ai più ma di certo ha tirato su l’umore di tanti dei presenti, che hanno avuto molta difficoltà (anzi, non ci sono proprio riusciti) a reprimere i sorrisi a ogni parola di Isgrò. Il quale si è capito che ha in odio i peccatori trasformati in santi: l’esempio da lui citato ha riguardato Francesco Forgione, meglio noto come Padre Pio; ma tutti hanno capito che il suo pensiero andava ad Adolfo Parmaliana, seppure Isgrò non ha avuto il coraggio di farne il nome. Futilità un po’ così, in fondo, rispetto alla notizia che un anno fa Isgrò e altri avversari politici di Adolfo Parmaliana oggi militanti in Rifondazione Comunista sono riusciti a fare una mostra di documenti e articoli di stampa a Barcellona Pozzo di Gotto e tra questi, come per riflesso pavloviano, immancabili ce ne sono stati di critica nei confronti di Adolfo: raro caso di antagonismo politico postumo, visto che Adolfo era già morto da oltre due anni.

Ma evidentemente la memoria di Adolfo ancora oggi rimane immanente nei pensieri non propriamente affettuosi di alcuni, ivi compreso il dr. Cassata. Il processo a carico del quale, calato il sipario sull’udienza di oggi, è stato rinviato al prossimo 20 settembre, allorché rimane da capire se l’imputato sarà ancora Procuratore generale a Messina.

 

 

 

Articolo del 25 Gennaio 2013 da soniaalfano.it
Impressioni d’udienza dal processo Cassata/18
di Fabio Repici

Queste impressioni d’udienza, scritte in piena notte, sono le ultime sul giudizio di primo grado a carico del Procuratore generale di Messina Antonio Franco Cassata, imputato di diffamazione ai danni della memoria di Adolfo Parmaliana. Ieri sera, infatti, il Giudice di pace di Reggio Calabria Lucia Spinella ha emesso la sentenza di primo grado. Una sentenza storica.

Il magistrato più potente del distretto giudiziario di Messina degli ultimi decenni è stato condannato. Sì, proprio condannato, perché riconosciuto come il corvo che nel settembre 2009 inviò un infame dossier anonimo allo scrittore Alfio Caruso (in quel periodo impegnato nella stesura di “Io che da morto vi parlo”, ed. Longanesi, lucidissima analisi della vita di Adolfo Parmaliana e delle traversie da lui patite fino al suo suicidio del 2 ottobre 2008) e al senatore Beppe Lumia, l’unico esponente politico che Adolfo ebbe vicino fino al suo ultimo giorno di vita.

Cassata è stato condannato. Ma non c’è solo questo. Il giudice, che pure ha concesso all’imputato le attenuanti generiche, ha ritenuto sussistenti a suo carico pure le circostanze aggravanti dei motivi abietti di vendetta rispetto all’ultima lettera lasciata da Adolfo e dell’attribuzione di fatti determinati.

Chiunque conosca il ruolo di Cassata sa bene che la sentenza di oggi è storica davvero. Ed è ben più dell’inizio della fine per il quasi ex Procuratore generale di Messina. “Quasi ex” perché di certo nemmeno il Csm questa volta potrà fare finta di niente; ma “quasi ex” anche perché le voci meglio informate del palazzo di giustizia di Messina avevano già preannunciato che il pensionamento anticipato di Cassata sarebbe arrivato subito dopo l’inaugurazione dell’anno giudiziario e, nel suo auspicio, subito dopo l’assoluzione a Reggio Calabria. Ora, invece, l’inaugurazione dell’anno giudiziario si celebrerà domani e sicuramente a latere della manifestazione non si parlerà d’altro che della condanna di Cassata. Condanna che è stata pronunciata in contumacia di Cassata, come in sua contumacia è facile prevedere si svolgerà domani l’inaugurazione dell’anno giudiziario a Messina. Perché di certo per lui sarebbe un po’ faticoso reggere tutti gli sguardi a lui rivolti e al suo ruolo di unico Procuratore generale d’Italia non più solo imputato ma addirittura pure condannato in primo grado.

Qui va detta una cosa urticante: e cioè che ha avuto ragione Adolfo. Ha avuto ragione, purtroppo, nel ritenere che fosse necessario il suo cadavere per ribaltare l’onnipotente sistema “barcellonese-messinese” che garantiva impunità impensabili e si era dedicato ad avviare la rappresaglia ai suoi danni. Lo si ribadisce per l’ennesima volta e lo si farà in eterno: sarebbe stato ben meglio che quel sistema mantenesse il suo strapotere e che Adolfo fosse ancora vicino ai suoi cari. Ma è certo che quel sistema cominciò a subire crepe che mai più sarebbero state rimaneggiate proprio a partire dal suicidio di Adolfo. E la condanna di Cassata di ieri è l’icona più significativa di un tracollo epocale del sistema nel suo complesso e di quella sua fondamentale componente definita nell’ultima lettera di Adolfo con la locuzione “magistratura messinese-barcellonese”. Già pochi minuti dopo la sentenza iniziava a giungere l’eco reboante della caduta del santo patrono di Barcellona Pozzo di Gotto (il copyright è dello scrittore Alfio Caruso).

Del resto è una sentenza davvero epocale. Non si ha ricordo di un precedente analogo. Per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana un Procuratore generale è stato condannato. Su un piano sostanziale, poi, per la provincia di Messina è una delle sentenze più rilevanti degli ultimi decenni. Da domani la storia giudiziaria messinese sarà scissa in due fasi: prima della condanna di Cassata e dopo di essa.

E, allora, quando l’avvenimento è ancora nella dimensione della cronaca e prima che si incardini nella storia, qualche ulteriore considerazione di dettaglio si impone.

La prima riguarda la giudice, la dr.ssa Lucia Spinella, umile giudice onoraria: con quella sentenza, pronunciata nelle condizioni note a chi per tutto l’ultimo anno ha letto queste impressioni d’udienza, ha dimostrato schiena dritta come decine e decine di giudici togati tutti insieme sarebbero stati incapaci di fare.

La seconda riguarda la moglie, i figli, i genitori e i fratelli di Adolfo. Ieri non hanno riottenuto indietro la preziosa persona del loro congiunto ma hanno visto lo Stato restituire una volta per tutte l’onore al loro caro Adolfo, quell’onore che chi aveva avuto la fortuna di incrociarlo aveva colto all’istante ma che l’intera nazione aveva avuto la possibilità di conoscere solo un anno dopo il suo suicidio, grazie al libro “Io che da morto vi parlo”, scritto da un giornalista e scrittore a sua volta con la schiena dritta come Alfio Caruso.

La terza riguarda chi scrive e la propria collega Mariella Cicero, che per tutto quest’anno hanno avuto la ventura di tutelare processualmente la memoria di Adolfo Parmaliana. Hanno avuto una di quelle fortune che capitano raramente, servire una causa giusta, e vincerla, e sapere dunque che la loro professione ha avuto un senso nobile e che potrebbero smettere anche domani di esercitarla avendo comunque concorso a realizzare vera giustizia, quella sensazione che certi presunti principi del foro non raggiungeranno mai, nemmeno dopo centinaia e migliaia di cause vinte e proporzionati guadagni.

La quarta riflessione, poi, riguarda Adolfo Parmaliana, figlio mirabile di questa Sicilia disgraziata, inseguito dalla persecuzione di iene e sciacalli perfino dopo la sua morte. Da ieri sera le infamie contro di lui svaniranno in fretta. Pazienza se la sua terra non è stata capace di riconoscerlo in tempo, lui scienziato indiscusso e cittadino integerrimo e coraggioso, prima che si trovasse costretto a togliersi la vita. Pazienza se la politica, pure quella soi-disant moralmente corretta fu così cieca che nella sua Terme Vigliatore, a uno come Adolfo venne preferito, e portato al Parlamento, uno come Scilipoti. E pazienza perfino se ancora in questa tornata elettorale una lista che con qualche azzardo è stata chiamata Rivoluzione Civile è stata capace di candidare al Senato in Sicilia uno dei suoi più accaniti detrattori, dopo la sua morte ancora più che in vita di Adolfo, non a caso finito fra i testimoni indicati dalla difesa di Cassata nel processo conclusosi ieri. Pazienza, e viene un groppo in gola a scriverlo. Ma da ieri tutto il fango che per decenni la figura composta di Adolfo, e poi il suo cadavere, avevano calamitato per invidia, per intolleranza, per convenienza, per vendetta o per altre miserrime ragioni lascerà il posto al non più contrastato riconoscimento della sua grandezza umana, professionale e politica.

Una cosa posso arrogarmi la facoltà di dirla in prima persona. Caro Adolfo, quell’enorme onere morale, pesante molto più di un macigno, che ci assegnasti con la tua ultima lettera (“Chiedete all’Avv.to Mariella Cicero le ragioni del mio gesto, il dramma che ho vissuto nelle ultime settimane, chiedetelo al senatore Beppe Lumia, chiedetelo al Maggiore Cristaldi, chiedetelo all’Avv.to Fabio Repici, chiedetelo a mio fratello Biagio. Loro hanno tutti gli elementi e tutti i documenti necessari per farvi conoscere questa storia: la genesi, le cause, gli accadimenti e le ritorsioni che sto subendo”), io per la mia parte l’ho adempiuto, così come sono certo anche tutte le altre quattro persone per la parte loro.

Anche in questo, caro Adolfo, hai avuto ragione.

 

 

 

Fonte: antimafiaduemila.com
Articolo del 1 ottobre 2018
La vera storia di Adolfo Parmaliana e del procuratore generale pregiudicato
di Fabio Repici
Sono trascorsi 10 anni da quel maledetto 2 ottobre 2008 quando il professor Adolfo Parmaliana decise di morire. In questo lasso di tempo la giustizia ha fatto il suo corso condannando l’ex Procuratore Generale di Messina, Franco Cassata, autore del falso dossier anonimo contro Parmaliana. Cassata è stato costretto a dimettersi dalla magistratura nel disprezzo generale. Per onorare la memoria del prof. Parmaliana riproponiamo il ricordo dell’avvocato Fabio Repici, suo grande amico e attento conoscitore delle motivazioni che hanno portato alla morte di questo straordinario luminare. Per non dimenticare.

Non ne sono certo, perché non ci capitò mai di parlarne, ma penso che ad Adolfo, cattolico dichiarato ma scienziato illuminista fino alla punta dei capelli, la data sarebbe piaciuta, almeno prima che nella tarda sera fosse lordata dal sangue delle inermi vittime procurato dall’ennesima strage ordita nella guerra alla razionalità, e quindi all’umanità, di questo nuovo medio evo oscurantista. ​E comunque – dicevo – la data di giovedì scorso, che ricordava la presa della Bastiglia e il trinomio di libertà e uguaglianza e solidarietà (più o meno l’intero spettro degli ideali politici del berlingueriano Adolfo), gli sarebbe piaciuta. Per questo motivo, quando avevo ricevuto la notifica della fissazione dell’udienza sul ricorso dei difensori del dr. Cassata contro la condanna, pure in appello, per la famigerata diffamazione compiuta con la divulgazione di un lurido dossier anonimo, la data dell’udienza mi era sembrata un buon presagio. Poi, come sempre capita, il terrore che qualcosa non andasse per il verso giusto aveva preso il sopravvento. E così la giornata di giovedì scorso si è risolta in un crescendo parossistico di ansia e nervosismo. ​Alla fine, il sollievo è arrivato poco prima delle otto e mezza di sera, quando, nella lettura del dispositivo di sentenza, forte e chiara è suonata la parola “rigetto”. In quell’esatto momento, la memoria di Adolfo Parmaliana riceveva definitivo ristoro e lo statuto giuridico dell’ex Procuratore generale di Messina, il barcellonese Antonio Franco Cassata, assumeva il profilo del pregiudicato. ​Erano passati sette anni, nove mesi e dodici giorni da quel pumbleo 2 ottobre 2008, il giorno in cui Adolfo aveva deciso di mettere fine alla sua vita. Quasi otto anni da una data che ha terremotato per sempre gli equilibri della provincia di Messina, e più miseramente anche della mia vita, soprattutto da quando lessi, con il cuore in gola, una decina di giorni dopo la sua morte, l’ultima lettera di Adolfo. Il contenuto di quel documento – non mi stancherò mai di ripeterlo, dovrebbe essere fatto leggere ogni anni a tutti gli studenti della provincia di Messina -, che mi designava, insieme ad altre quattro persone, quasi esecutore del testamento morale di Adolfo (“Chiedete all’Avv.to Mariella Cicero le ragioni del mio gesto, il dramma che ho vissuto nelle ultime settimane, chiedetelo al senatore Beppe Lumia, chiedetelo al Maggiore Cristaldi, chiedetelo all’Avv.to Fabio Repici, chiedetelo a mio fratello Biagio. Loro hanno tutti gli elementi e tutti i documenti necessari per farvi conoscere questa storia: la genesi, le cause, gli accadimenti e le ritorsioni che sto subendo”), mi autorizza ora, ma forse mi impone, di raccontarla tutta, la storia che si è conclusa con questa sentenza, che ha fatto diventare definitiva la condanna del dr. Cassata: il primo Procuratore generale pregiudicato della storia, in fondo Cassata è sempre stato un uomo da record. ​Il primo che aveva conosciuto il testo dell’ultima lettera di Adolfo, dopo i carabinieri che ne avevano operato il sequestro sullo scrittoio nello studio di casa sua a Terme Vigliatore, era stato, per pura beffa, il dr. Olindo Canali, che quel 2 ottobre era il P.m. di turno alla Procura di Barcellona Pozzo di Gotto. Volete che Canali non ne abbia informato il suo amico e mentore e protettore del tempo (pensate che in una telefonata intercettata dalla Procura di Reggio Calabria, Canali e la moglie chiamavano Cassata “lo zio”, proprio così, Canali il brianzolo, come si usa in certa Sicilia)?

Già la settimana successiva, il palazzo di giustizia di Messina per certi versi era diventato un far west. Il 5 ottobre era stata trasmessa una puntata di Blu Notte di Carlo Lucarelli sulla mafia in provincia di Messina (e sugli omicidi di Graziella Campagna, Beppe Alfano e Matteo Bottari). Ne era scaturito un avvenimento inaudito: i muri di palazzo Piacentini erano stati tappezzati da manifesti dell’Anm (associazione nazionale magistrati) distrettuale che mi bollavano, con tanto di cognome, come mentitore: solo che, a proposito di menzogne, attribuivano a me parole dette in quella trasmissione da tutt’altro avvocato (in tutti questi anni più che solidale con Cassata e Canali). Non mi fu difficile capire che si approssimavano burrasche, ben mirate nei confronti miei (e delle altre quattro persone indicate nel testamento morale) ma soprattutto nei confronti della memoria di Adolfo. Di lì a poco ricevemmo notifica di ciò dalle pagine del settimanale messinese Centonove. A dire il vero, il 10 ottobre 2008 su quel giornale era comparsa una ricostruzione puntuale delle vicende di Adolfo, a firma della giornalista Manuela Modica (testimone nel processo concluso giovedì: da lei abbiamo appreso che, nel fare quel lavoro, era stata sollecitata dal suo capo, Enzo Basso, a interpellare Cassata e l’allora Procuratore generale ne aveva approfittato per intimarle di dare basso profilo al suicidio di Adolfo). Sennonché, nelle settimane successive la giornalista era stata sostituita da quel giornale nel trattare le questioni riguardanti, in qualunque modo, il sistema deviato barcellonese, dal collega Michele Schinella, e tutto era cambiato. Addirittura a maggio 2009 Schinella, su Centonove, era arrivato a infangare la memoria di Adolfo con un articolo calunnioso, più che oltraggioso. Dalle intercettazioni avviate nel giugno 2009 dalla Procura di Reggio Calabria (e personalmente dall’allora Procuratore capo Giuseppe Pignatone e dal sostituto al tempo in quell’ufficio Federico Perrone Capano) avemmo, in epoca successiva, certezza che Schinella era già al tempo giornalista di fiducia di Canali (e dagli articoli succedutisi per anni constatammo che era di fiducia anche del mafioso Rosario Pio Cattafi e del solito Cassata). È un caso se quell’articolo di Schinella fa parte del diffamatorio dossier anonimo per il quale è stato definitivamente condannato Cassata? ​Nel frattempo era accaduto un fatto che verrebbe da dire miracoloso. Un pomeriggio Cettina, la dolcissima moglie di Adolfo, cercava di far passare il tempo davanti alla tv, sintonizzata su Rai2, quando vide e sentì lo scrittore Alfio Caruso che, per cercare di spiegare una certa irredimibilità della Sicilia, aveva accennato al suicidio di Adolfo Parmaliana. Cettina sapeva bene quanto Adolfo stimasse Alfio Caruso, i cui libri sulla mafia (“Da cosa nasce cosa” e “Perché non possiamo non dirci mafiosi”) campeggiavano in primo piano sugli scaffali della sua libreria. Fu così che Cettina decise di contattare Alfio Caruso. Gli telefonò e gli disse che l’archivio del marito era a disposizione dello scrittore, se avesse avuto interesse a raccontare la storia di Adolfo Parmaliana. Qui è bene ricordare che Adolfo Parmaliana era un antico militante comunista (come detto, fervente berlingueriano) e Alfio Caruso è un autentico conservatore. Sennonché, quello fra il docente di chimica e lo scrittore fu l’incontro virtuale fra due italiani perbene. Ne sortì il libro “Io che da morto vi parlo”, biografia di Adolfo Parmaliana scritta da Alfio Caruso e pubblicata da Longanesi. E proprio nel paese in cui, quando riguarda propri amici e compagni, ci si spertica in labiali campagne a sostegno della libertà di informazione e del diritto alla manifestazione del pensiero (dei propri amici e compagni), la sentenza di condanna pronunciata a carico di Cassata ha certificato che il capo della magistratura requirente di Messina nel 2009 confezionò (insieme a più di un complice, rimasto impunito) il dossier anonimo proprio come ultimo disperato tentativo di impedire la pubblicazione del libro di Alfio Caruso sulla vita e sulla morte di Adolfo Parmaliana. Cosicché, oltre all’Associazione nazionale magistrati (non pervenuta), per il danno d’immagine arrecato alla categoria dalla condotta delittuosa e ignominiosa del Procuratore generale di Messina, anche la federazione degli editori, la categoria dei giornalisti (al tempo Caruso, oltre che scrittore, era ancora giornalista, e di meritata fama, allievo prediletto di Indro Montanelli) e naturalmente quella degli scrittori avrebbero potuto (o forse dovuto?) costituirsi parte civili. Invece, state tranquilli, siamo pur sempre il paese di don Abbondio, oltre che degli appelli a favore dei diritti degli amici (e certe volte pure degli amici degli amici), e nessuna di quelle categorie batté ciglio. ​Ma Cassata, invero, le provò tutte per ostacolare la pubblicazione del libro su Adolfo. Già a marzo 2009, in effetti, era diventata pubblica la notizia che Alfio Caruso stava lavorando alla redazione di quell’opera. Qualche settimana dopo Cassata si era rivolto al proprio amico scrittore Melo Freni, chiedendogli di intervenire su Caruso. Freni gli suggerì, per aver maggiori possibilità di raggiungere l’obiettivo, di parlare con il noto scrittore e giornalista agrigentino Matteo Collura, conosciuto da Cassata ma soprattutto grande amico di Caruso. Detto, fatto, ma il tentativo fu respinto con perdite: Collura, ben consapevole del carattere del suo amico Alfio Caruso, restio a ogni tentativo di accomodamento e tanto più di censura o di autocensura, buggerò Cassata dicendogli che il libro era ormai bell’e finito e pronto ad andare in stampa. Tutto falso, naturalmente: l’uscita del libro era prevista, e poi così fu, per il 19 novembre 2009. Cassata recepì chiaro e tondo che quello di Collura era stato un rifiuto. Si mise il cuore in pace, secondo voi? Manco per sogno.

Il 19 giugno fu Canali, in costante contatto, anche per interposta moglie, con l’amico magistrato, a telefonare personalmente a Caruso, prendendo il discorso largo e comprendendo, alla fine, che lo scrittore era impermeabile a ogni tentativo di addomesticarlo. In quel momento, come detto, i telefoni di Canali erano stato sottoposti a intercettazione dalla Procura di Reggio Calabria. E così il Procuratore Pignatone e il sostituto Perrone Capano sapevano bene di quella telefonata fatta da Canali a Caruso. È facile immaginare, allora, quanto i due magistrati dovettero sforzarsi per evitare di scoppiare a ridergli in faccia, quando Canali, qualche giorno dopo, presentandosi spontaneamente per un interrogatorio, disse loro che era stato Alfio Caruso a cercarlo al telefono. Peraltro, poiché l’eterogenesi dei fini è sempre in agguato sulle azioni di ciascuno, proprio nel corso di quella conversazione con Alfio Caruso, a Canali sfuggì una frase su Cattafi che ha provocato, involontariamente, la riapertura, a trentatré anni di distanza, del processo sull’omicidio del Procuratore di Torino Bruno Caccia, dove ora Canali è testimone. Ma questa, per dirla con Carlo Lucarelli, è un’altra storia. Cassata, però, se non sciascianamente di tenace concetto, è uomo di tenace volontà. Non rinunciò al tentativo di fermare la penna di Alfio Caruso e il libro su Adolfo Parmaliana. Solo che il tempo stringeva e si era ormai a due mesi dalla pubblicazione. A mali estremi, estremi rimedi, dovette pensare, e congegnò (con i suoi complici rimasti impuniti) una doppia manovra, a tenaglia, sullo scrittore catanese (ma da sempre abitante a Milano): da un lato, per il tramite del proprio nipote avvocato (Giovanni Celi) Cassata si rivolse a un sottufficiale della D.i.a. di Messina (quindi ufficiale di polizia giudiziaria sottoposto al Procuratore generale di Messina: è sempre bene farle valere, le gerarchie), amico del nipote ma ben conosciuto (come molti sottufficiali entrati alla D.i.a. di Messina) da lui stesso, Salvatore Caruso il suo nome e per puro caso cognato del fratello di Alfio Caruso, perché rendesse possibile un incontro fra il Procuratore generale e lo scrittore e comunque, in caso di rifiuto, lo informasse che Cassata voleva fargli avere un documento clamoroso, che avrebbe ribaltato l’idea ingiustificatamente positiva che Alfio Caruso si fosse fatta di Adolfo Parmaliana; dall’altro, all’indirizzo di Alfio Caruso si materializzò un documento clamoroso, per l’appunto il dossier anonimo. Un paio di giorni prima, il 22 settembre 2009, il dossier anonimo era già stato ufficialmente ricevuto dal Procuratore generale di Messina al proprio ufficio (un classico, l’anonimista che inserisce il proprio nome fra i destinatari, un po’ come la famosa pubblicità, “dal produttore al consumatore”, tutto chiuso circolarmente nella medesima persona) e dal Sindaco di Terme Vigliatore (uno a caso, Bartolo Cipriano: lo storico avversario politico di Adolfo Parmaliana; uno degli indagati nell’indagine nel 2005 condotta dal giovane sostituto della Procura di Barcellona Pozzo di Gotto Andrea De Feis, nel corso della quale era interveuto a gamba tesa, con un’intimidazione al giovane collega, proprio Franco Cassata; il Sindaco che aveva conferito incarichi legali al giovane avvocato Nello Cassata, figlio di cotanto padre, proprio in sincronia con l’inerzia di Cassata senior nell’avocare l’indagine su Cipriano e altri amministratori di Terme Vigliatore, scaduta e dimenticata in un cassetto dell’ufficio del dr. Olindo Canali alla Procura di Barcellona Pozzo di Gotto; condannato qualche anno fa per diffamazione di Adolfo Parmaliana con sentenza definitiva). In contemporanea con Alfio Caruso, il dossier anonimo raggiungeva pure l’abitazione palermitana del Senatore Beppe Lumia. I nomi dei destinatari mostravano da sé le ragioni della scelta: Cassata se l’era mandato per stornare i sospetti e allo stesso tempo per farne uso (come poi fece); al Sindaco di Terme Vigliatore era stato inviato perché il fango fetido contenuto in quel documento trovasse divulgazione in paese, a uso dei nemici più livorosi di Adolfo anche dopo la sua morte (e voglio chiarire che non era Cipriano tra questi, ma altri, stalinisti fetidi di idee e di comportamenti); a Lumia era stato destinato per cercare di disincentivarlo dal rendere omaggio alla memoria di Adolfo, come richiesto nell’ultima lettera, tanto più che per l’1 ottobre 2009 era prevista la sua presenza a una conferenza pubblica a Terme Vigliatore, in ricordo dello scienziato, in occasione del primo anniversario della sua morte. È necessario spiegare perché il dossier anonimo fu inviato ad Alfio Caruso, negli stessi giorni in cui egli era destinatario dell’attività di stalking di Cassata per interposto nipote avvocato (anche avvocato di Cassata in una causa civile contro di me)? L’ha raccontato lo stesso scrittore alla Procura di Reggio Calabria: “viene arrangiato e distribuito questo dossier pieno di veleni nei confronti di Parmaliana con lo scopo evidente non solo di metterlo in cattiva luce, ma anche di porre dei dubbi all’autore del libro e alla sua casa editrice. Infatti ricordo bene che per due giorni mi affannai a mettere in chiaro i vari episodi che infangavano il professore Parmaliana, preoccupato perché la veridicità di uno di essi potesse costringermi ad una riscrittura del libro e a una sua ritardata pubblicazione. Risultarono tutti falsi”. A Terme Vigliatore anche Biagio Parmaliana apprese del dossier e ne ricevette copia al Comune. Da Alfio avemmo il plico recapitato a lui. Esaminando quelle carte, Biagio si accorse di una imperdonabile gaffe fatta dagli anonimisti. Il plico conteneva un esposto contenente le false accuse contro Adolfo (che dal cimitero non poteva certo rispondere per confutarle, ma da qualche parte si dovette fare crasse risate già per il titolo, di netta matrice psichiatrica, di quel testo: “A QUANTI ODIANO LE FALSITA’”, così, a caratteri cubitali), elencate punto per punto, e dieci documenti allegati, che nelle intenzioni dovevano dare riscontro alle calunnie. Uno dei dieci allegati, come detto, era un articolo dell’apposito Schinella. Ma un altro si rivelò la prima buccia di banana sulla quale scivolò il piede dell’allora Procuratore generale, rendendo periclitante la sua posizione. Infatti, era allegata anche una sentenza emessa dalla Corte di cassazione l’1 ottobre 2008 (il giorno precedente al suicidio di Adolfo), con la quale era stato rigettato un ricorso proposto da Adolfo, quale parte civile, dopo che la condanna in primo grado di un tale Salvatore Isgrò per diffamazione era stata ribaltata da una sentenza assolutoria della Corte di appello di Messina. Solo che il documento ricompreso nel plico aveva una caratteristica pericolosissima per Cassata: si trattava della copia di un fax e in alcune pagine, nel margine superiore, era visibile il numero dell’utenza dalla quale il fax era stato trasmesso, insieme alla data, 14 novembre 2009, e all’ora. Capita raramente, ma alle volte il caso si mette di buzzo buono per dare una soluzione positiva alle cose del mondo. E il caso volle che quell’utenza corrispondesse a una cartoleria di Barcellona Pozzo di Gotto il cui titolare era conosciuto da Biagio, che poté quindi richiedere alla Telecom, per conto del cartolaio, il tabulato delle telefonate in uscita da quella utenza nella data fatidica. La risposta fu raggelante: il numero 090-770424 che aveva ricevuto il fax (quel fax) era intestato alla Procura generale di Messina. Da verifiche empiriche, scoprimmo che l’apparecchio fax ricevente si trovava proprio accanto alla postazione della dr.ssa Franca Ruello, funzionaria amministrativa presso quell’ufficio ma, soprattutto, moglie di Olindo Canali e amica fidatissima di Franco Cassata (“lo zio”). Ergo, il dossier anonimo, che conteneva quel documento, era stato confezionato alla Procura generale di Messina. A chiunque altro, ad altre latitudini, sarebbe potuta sembrare un’ipotesi manicomiale, ma noi (e soprattutto io, dopo aver conosciuto le vicende giudiziarie dell’omicidio di Graziella Campagna, dell’omicidio di Beppe Alfano, dell’omicidio di Attilio Manca) sapevamo che in certi uffici giudiziari può accadere davvero di tutto. La Procura di Reggio Calabria poco tempo dopo accertò che il giorno prima di quel fax, il 13 novembre 2009, un giovane avvocato, amico e sodale dell’imputato Isgrò, tale Vito Calabrese, altro nemico giurato di Adolfo, aveva ricevuto in Cassazione copia proprio di quella sentenza.

Nel frattempo, giusto per permetterci di ricondurre puntualmente a Cassata le attenzioni ostili contro la memoria di Adolfo, alla conferenza dell’1 ottobre 2009 intervennero tre disturbatori dal pubblico. Uno di loro era un addetto – udite udite – del museo Cassata (già, a Barcellona c’è pure quello; qualcuno auspicherebbe pure l’autodromo e l’ippodromo Cassata, e con l’attuale sindaco Roberto Materia, che a Cassata è devoto come a Padre Pio, qualche speranza può perfino averla) e pretese la parola per dire quanto probo e pio (non Pio, quello è un altro, a Barcellona Pozzo di Gotto) fosse il Procuratore generale, rivolgendosi in particolare al Senatore Lumia, presente lì a ricordare Adolfo, lui che nell’ultimo periodo era stato l’unico personaggio politico di cui il professore si fidasse. Del resto, Lumia a certe sortite aveva ormai fatto il callo, visto che quasi un anno prima – nell’imminenza della conferenza su “La crisi della giustizia a Messina”, organizzata da Sonia Alfano il 9 novembre 2008 per discutere pubblicamente del significato del suicidio di Adolfo Parmaliana – per scongiurarne, invano, l’intervento gli erano stati trasmessi infervorati appelli per posta elettronica dal figlio di Cassata, l’avvocato Nello (quello che aveva preso incarichi dal Sindaco di Terme Vigliatore, molto impegnato professionalmente in materia di sinistri stradali), e da un’amica di Cassata, moglie di un ex senatore del Pds. Ricordo come fosse oggi il giorno in cui depositai, per conto di Cettina Parmaliana, la querela contro gli autori del dossier anonimo presso la Compagnia dei carabinieri di Barcellona Pozzo di Gotto. Era il pomeriggio del 17 dicembre 2009. Il fascicolo fu trasmesso subito alla Procura di Reggio Calabria, perché c’era da investigare su quella triangolazione fax-Procura generale-Ruello. Qui va fatta una puntualizzazione. Fra il 2008 e il 2012 la Procura di Reggio Calabria fu guidata dal dr. Giuseppe Pignatone. Non avevo certo ragioni di simpatia personale per lui. Tuttavia, deve essere riconosciuto, per mero rispetto del principio di realtà, che in quegli anni la competenza della Procura reggina sulle ipotesi di reato riguardanti i magistrati del distretto giudiziario di Messina fu effettiva e non ridotta a mera parvenza o, ancor peggio, ispirata a logiche deviate. Lo sa bene anche Olindo Canali, sottoposto a processo per falsa testimonianza, condannato in primo grado per falsa testimonianza il 14 marzo 2012 e poi assolto in appello con una motivazione davvero simpatica (confermata peraltro in Cassazione). Ora, il Procuratore Pignatone assegnò il fascicolo relativo al dossier anonimo, come era stato per il procedimento a carico di Canali, a se stesso e a un suo giovane sostituto, Federico Perrone Capano, che alla serietà e alla competenza professionali abbinava non comuni doti di umanità. Un caso davvero straordinario, si deve riconoscere: un fascicolo per un reato di competenza del Giudice di pace aveva come pubblici ministeri titolari il Procuratore della Repubblica e un magistrato della Direzione distrettuale antimafia. Le indagini furono rivolte a ricostruire il percorso del famoso fax ricevuto dalla Procura generale. E così il 17 novembre 2010 il dr. Perrone Capano, accompagnato dal Capitano Leandro Piccoli, si trovò nella stanza personale del Procuratore generale di Messina, cordialmente messagli a disposizione per sentire tutti i cancellieri dell’ufficio protocollo, la stanza del fax. Il giovane pubblico ministero e il giovane ufficiale avevano quasi finito le audizioni programmate e stavano facendo due passi nella stanza di Cassata per sgranchire le gambe quando, rivolgendo gli occhi verso una vetrinetta, si sentirono precipitare in una scena da film. Davanti ai loro occhi, nell’armadietto personale di Cassata, in quella che in quel momento si sarebbe dovuta definire “vetrinetta Parmaliana”, si trovavano, una accanto all’altra, una carpetta della Procura generale contenente il dossier anonimo che Cassata si era mandato in ufficio e un’altra carpetta della Procura generale con una scritta, vergata dalla mano di Cassata, che dovette raggelare quei due giovani rappresentanti dello Stato: “copie esposto Parmaliana da spedire”, con le ultime due parole proprio sottolineate. Perrone Capano telefonò al proprio capo e Pignatone chiamò colui che in quel momento era il magistrato più potente del distretto giudiziario di Messina. Ci piacerebbe in futuro vedere quella telefonata trasposta in un film. “Buongiorno, Eccellenza. Sono Giuseppe Pignatone. Mi spiace disturbarla”. “Oh, carissimo Procuratore, dica pure, lei non disturba mai”. “Eh, no. Temo di deluderla. Credo che questa volta la disturbo davvero e me ne dolgo ma ho da adempiere a un obbligo istituzionale. Il mio collega Perrone Capano ha appena avvistato nella vetrinetta della sua stanza, uno strano fascicolo informale con una scritta sgradevolmente significativa. Mi ha detto che è sua intenzione sequestrarlo e io non posso che essere d’accordo con lui. Ora, poiché quel fascicolo si trova nella sua stanza personale e nel suo armadio personale in Procura generale, chiuso a chiave, devo chiederle se vuole essere così gentile da far aprire l’armadio in questione – se ritiene il mio collega è ben disponibile ad aspettare che lei rientri in ufficio -, in modo da evitarci una soluzione diversa, che è sempre nei nostri poteri”. Dall’altro capo del telefono devono esserci stati secondi di silenzio lunghi come secoli. Nella mente del Procuratore generale la sensazione di sprofondare nel baratro. I suoi piedi e le sue ginocchia iniziano a cedere. Si siede per cercare di prendere fiato. “Mah… mah… posso spiegare tutto. Anzi, verrò di persona da lei a spiegare tutto. Ora, però, non me la sento di rientrare in ufficio, mi capisce. Telefono subito a una persona fidata, la persona più fidata che ho in ufficio, la dr.ssa Franca Ruello, che ha la chiave dell’armadietto, e le dico di mettersi a disposizione del suo sostituto”. “Grazie, eccellenza. Mi dispiace di essere stato costretto a questa telefonata, ma anche lei mi capisce. Naturalmente, il mio collega, come è previsto dalla legge, consegnerà alla dr.ssa Ruello una copia del verbale di sequestro di ciò che preleverà nella sua vetrinetta”. Così in effetti fu. Vennero sequestrate le due carpette, peraltro le uniche presenti in quella vetrina, ecco perché “vetrina Parmaliana”. La prima, per l’appunto, conteneva il dossier ufficialmente giunto in Procura generale, regolarmente protocollato, sul quale proprio Cassata di pugno aveva apposto il burocratico “Visto atti”. Sennonché, pur essendo passato oltre un anno, quel fascicolo, anziché essere in archivio, insieme a tutti gli altri analoghi, si trovava nella stanza personale del Procuratore generale. Il contenuto dell’altra carpetta, con quella scritta già spaventosa di suo, era impressionante, davvero al di là del bene e del male. C’erano quattro copie originali del dossier anonimo, prive della stampigliatura meccanografica del protocollo e prive anche della copia della busta che conteneva quello ufficialmente giunto in Procura generale. Su due delle quattro copie del dossier anonimo erano appiccicati due post-it gialli sui quali erano stati vergati sempre dalla mano di Cassata due dei futuribili destinatari: “Procura ME” e “Procura Reggio C.”. Un terzo post-it era scivolato via dai dossier anonimi ed era finito su una delle tre copie di un documento che completava il contenuto della carpetta: putacaso un’ordinanza del Gip di Barcellona Pozzo di Gotto emessa il 7 settembre 2009 in un procedimento in cui Adolfo Parmaliana era stato il querelante e indagato era stato un giovane avvocato di Terme Vigliatore, Vito Calabrese, sempre lo stesso. Il pubblico ministero in quel procedimento era stato Olindo Canali, del quale si apprese a dibattimento la stretta amicizia con l’allora indagato Vito Calabrese. Canali aveva chiesto l’archiviazione per l’amico Calabrese. L’avviso della richiesta di archiviazione proposta da Canali era stato notificato ad Adolfo a metà settembre 2008. Nell’occasione, Adolfo aveva dovuto arrendersi all’idea che una persona che, a corrente alternata, gli si dichiarava amico, l’avvocato Ugo Colonna, era uno dei suoi traditori, e infatti aveva assunto, contro Adolfo, la difesa di uno dei querelati. Con la mia collega Mariella Cicero, Adolfo aveva depositato l’opposizione alla richiesta di archiviazione. Al Gip il fascicolo era giunto dopo la morte di Adolfo. E con quel provvedimento, ritrovato in triplice copia nella “vetrinetta Parmaliana” nell’ufficio di Cassata, il gip aveva accolto solo parzialmente la richiesta di archiviazione, mentre aveva ordinato al pubblico ministero di mandare a processo Vito Calabrese per uno degli episodi contestati e di svolgere ulteriori indagini in relazione a un altro episodio. Com’era finito a Cassata quel provvedimento? L’interessato nel corso del tempo ha fornito due risposte diverse. Una prima volta, pochi giorni dopo il sequestro, su carta intestata del suo ufficio, Cassata aveva scritto a Pignatone per dirgli che per errore gli era stato sequestrato un provvedimento che era in suo possesso in relazione al controllo che il Procuratore generale deve fare sulle misure cautelari emesse nell’ambito del distretto giudiziario. Sennonché, quel provvedimento non era una misura cautelare ma un’ordinanza su una richiesta di archiviazione. Ergo, Cassata aveva scritto un falso, evidentemente con l’intento di indurre la Procura di Reggio Calabria a una risposta, dalla quale magari avrebbe potuto capire quali fossero le intenzioni dei pubblici ministeri. Nel corso del successivo processo, da una memoria firmata da Cassata si apprese che quel documento era stato consegnato da Vito Calabrese all’avv. Nello Cassata, perché venisse recapitato al Procuratore generale. Per quale motivo e perché nella “vetrinetta Parmaliana” ci fossero tre copie di quel documento, Cassata non è stato in grado di spiegarlo. Avrebbe dovuto confessare l’attività di dossieraggio svolta su Adolfo. Con il sequestro di quella documentazione, il destino di Cassata fu segnato. I pubblici ministeri, dopo due interrogatori di Cassata, ormai iscritto nel registro degli indagati, nei quali Pignatone e Perrone Capano riuscirono a ottenere dall’anziano magistrato ulteriori prove a suo carico, svolsero un solo altro adempimento d’indagine. Avevano, infatti, colto un’allarmante somiglianza delle parole manoscritte sulle buste recapitate alla Procura generale, al Sindaco di Terme Vigliatore e ad Alfio Caruso con la grafia di Cassata. A osservarle con attenzione, c’erano alcuni elementi che sembravano un vero marchio di fabbrica (o di museo). Nonostante questo, tuttavia, la grafologa milanese incaricata dalla Procura di Reggio Calabria per svolgere la consulenza tecnica concluse il suo lavoro affermando che quelle scritte sì, erano simili alla grafia di Cassata, ma non erano stato apposte dalla sua mano. Certo, occorre aggiungere che la consulente, deponendo a dibattimento, dovette ammettere di aver utilizzato un atteggiamento particolarmente riguardoso nei confronti dell’indagato e pure che nel saggio grafico era evidente che Cassata avesse artatamente falsato la propria grafia. Ma, aggiunse la grafologa, era stato chiaro il nervosismo di Cassata nel rilasciare il saggio grafico perché, insomma, mica si trattava di un delinquente. Magari oggi l’esperta dovrebbe cambiare idea. Tanto più che una grafologa successivamente incaricata da me, Mariella Cicero e Biagio Parmaliana, che nel processo abbiamo svolto il ruolo di difensore delle parti civili per tutti i familiari di Adolfo, ha attestato in modo davvero inequivocabile gli elementi che imponevano di ricondurre quelle scritte alla mano di Cassata. Ma, tant’è, cassata franco web3 bisCassata finì imputato “solo” come ideatore e determinatore del dossier diffamatorio, in concorso con altri esecutori materiali rimasti ignoti. Il dibattimento, innanzi al Giudice di pace di Reggio Calabria, si doveva aprire il 6 febbraio 2012, come disponeva il decreto di citazione a giudizio firmato personalmente dal Procuratore Pignatone, oltre che dal dr. Perrone Capano. Ma ci fu subito la prima sorpresa: il giudice, che era anche il capo dell’intero ufficio, tale Giovandomenico Foti, si astenne perché, effettivamente, non era molto imparziale: Cassata era un suo amico – disse – e i due si frequentavano insieme alle rispettive famiglie. In fondo, fra Messina e Reggio Calabria c’è la distanza di un mare, ma si tratta di quello più Stretto d’Italia. La successiva udienza si svolse davanti a un altro giudice, ma anche quest’ultimo durò solo per un’udienza: quiescenza per anzianità. Il terzo inizio del processo fu quello buono. Tuttavia, quella mattina del 29 marzo 2012, prima del nuovo giudice (anzi, della nuova giudice, la dr.ssa Lucia Spinella), fece capolino in udienza, davanti allo sguardo sbalordito del pubblico ministero Perrone Capano (e anche mio, confesso), il giudice Foti. Sì, quello che si era dovuto astenere perché amico dell’imputato ci teneva a presentare alle parti la dr.ssa Spinella, quasi che ella fosse sotto tutela dell’amico dell’imputato, che, del resto, come capo dell’ufficio del Giudice di pace di Reggio Calabria, continuava a mantenere una posizione ingombrante rispetto al processo. La sentenza di primo grado fu emessa il 24 gennaio 2013, dopo una lunga istruttoria dibattimentale. Testimoniarono Cettina, il Prorettore dell’Università di Torino (e amico di Adolfo) Salvatore Coluccia, Alfio Caruso, il Sen. Lumia, il nipote avvocato Giovanni Celi, il poliziotto suo amico (e cognato del fratello di Alfio Caruso) che era stato peggio che stalkerizzato (ma, almeno in parte, con il suo consenso), l’amico di Cassata e Canali avvocato Vito Calabrese e molti altri ancora. Soprattutto, testimoniò un personaggio che sembrava uscito da un film con Tomas Milian (quello che solitamente faceva la parte dell’amico del protagonista). Ciro Alemagna, questo il suo nome, era un commesso della Procura generale di Messina ma soprattutto era un uomo dichiaratamente al servizio di Cassata. In uno sgargiante slang napoletano, testimoniò provando a fornire un alibi falso al suo dante causa. Dante causa non è un eccesso, stando alle parole sue e dello stesso Cassata. Alemagna: “Le dirò di più ancora, io già ero in pensione, però il Dottore Cassata, dato che io ho avuto sempre un ottimo rapporto e anch’io per sbarcare il lunario, perché ho problemi economici, vado ogni tanto in ufficio, lui mi accoglie sempre come si deve, anche i colleghi”. Cassata: “premetto che Alemagna da circa una ventina di giorni [è in pensione, n.d.a.] nonostante le mie pressioni e del colleghi del ministero di farlo restare ancora un po’, lui continua a venire alla procura generale, perché sbriga qualche cosetta per me”. Quindi, utilizzando le stesse parole degli interessati, Alemagna, “per sbarcare il lunario”, “sbriga qualche cosetta” per Cassata. Nella specie, sbrigò una falsa testimonianza fornendo un falso alibi. Non testimoniarono, invece, ma solo perché si avvalsero della facoltà di non rispondere, gli impiegati della Procura generale. In sostanza, pressoché l’intero ufficio giudiziario – in primis la moglie di Canali, Franca Ruello – si era astenuto dal deporre. Del resto, il Procuratore generale, in qualità di imputato, si era mantenuto contumace, rifiutandosi di comparire davanti al giudice e, conseguentemente, di sottoporsi alle domande delle parti. Peccato, sarebbe stata sicuramente un’occasione interessante. Nella fase conclusiva, dopo la mia arringa, accaddero eventi surreali, come una riunione nell’ufficio del Presidente della Corte di appello di Reggio Calabria (anch’egli amico dell’imputato e perfino originariamente indicato come testimone a discolpa dalla difesa di Cassata), con la dr.ssa Spinella, l’immancabile Giovandomenico Foti e il Presidente del Tribunale di Reggio Calabria. Per far cosa, non si è riusciti a capirlo. L’unica cosa che si è capita è che in quei giorni l’amico di Cassata, capo dell’ufficio del Giudice di pace di Reggio Calabria, in qualche modo dunque superiore della dr.ssa Spinella, era iperattivo, freneticamente in movimento intorno al processo a carico del suo amico, nonostante la sua immagine un po’ alla Danny De Vito in avanti con gli anni. Cassata, come si sa, fu condannato. Quando la sentenza, quel giovedì, anche quella volta un giovedì, venne letta dalla dr.ssa Spinella era già sera. La mattina del sabato successivo, 26 gennaio, si tenne al palazzo di giustizia di Messina (e nelle Corti d’appello di tutta Italia) l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Una spettacolare foto di Enrico Di Giacomo riprese il banco del Procuratore generale: c’erano persino una bottiglietta d’acqua e il bicchiere, ma la sedia era fantasmagoricamente vuota, preannuncio della fuga di Cassata verso il pensionamento, al fine di sventare l’ignominioso trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale e funzionale. Il pensionamento del Procuratore generale, però, fu officiato due mesi dopo con una cerimonia solenne, alla presenza di tutte le autorità del distretto e degli amici di Cassata, stavolta presente. Ci furono discorsi di elogio (potevano mancare?) del pensionando. Non uno, invece, che rivolgesse un pensiero al mio amico Adolfo. Cassata, naturalmente, propose appello contro la sentenza di condanna. Il giudizio di secondo grado si sarebbe svolto davanti al Tribunale di Reggio Calabria, in composizione monocratica. Si perse un po’ di tempo per il susseguirsi di trasferimenti di due giudici, fino a quando il processo d’appello iniziò davanti al dr. Alberto Romeo, con fama di magistrato in assoluto fra i più preparati e fra i più garantisti a Reggio Calabria: una garanzia per ogni imputato innocente e pure per ogni imputato per il quale nel processo manchi la prova piena della colpevolezza. La sentenza di secondo grado giunse il 22 giugno 2015, anche in questo caso in serata. La condanna di Cassata fu confermata. Quando fu depositata la motivazione della sentenza, constatammo che il dr. Romeo aveva pure indicato, con tanto di nome e cognome, almeno alcuni dei probabili complici di Cassata: “Olindo Canali, marito della funzionaria Franca Ruello – cioè colei che prestava servizio con funzioni apicali nella stanza dove pervenne il famoso fax della sentenza Isgrò nonché che aveva le chiavi dell’armadietto sito nella stanza del Cassata ove erano custoditi i documenti che ci occupano -, amico di Vito Calabrese, a sua volta amico intimo di Salvatore Isgrò, tutti in stretti rapporti con Cassata, al quale la sentenza Isgrò veniva sicuramente consegnata per essere utilizzata, proprio in quella specifica copia transitata in Procura, nel dossier anonimo … Riepilogando, la sentenza veniva ricevuta presso la Procura Generale al fax presente nella stanza della Ruello (moglie di Olindo Canali, il quale aveva chiesto l’archiviazione nei confronti del Calabrese in una vicenda simile per aver tratto origine sempre da una querela del defunto Parmaliana) il giorno dopo del ritiro di una copia ‘uso studio’ – qual è quella trasmessa via fax – presso la suprema Corte proprio da parte di Vito Calabrese, la cui deposizione sul punto non può pertanto essere ritenuta veritiera». Cassata, comprensibilmente, impugnò anche la sentenza di secondo grado e di qui quest’ultimo grado di giudizio. A fronte di una sentenza puntuale e dettagliatissima, come quella del dr. Romeo, e in presenza di una “doppia conforme”, non ci sarebbe stato da temere sulla tenuta del processo anche in Cassazione. Ma in un processo simile, con un imputato simile, con uno scenario di coinvolgimenti simile e con un fardello morale come quello assegnatoci da Adolfo nell’ultima lettera, come avremmo potuto essere tranquilli io, Mariella e Biagio? E come avrebbero potuto esserlo, svolgendo le loro ordinarie occupazioni come se fosse un giorno uguale a tutti gli altri, Cettina, Basilio e Gilda? Chi ha un minimo di buon senso non può non comprendere quale fosse il nostro umore e quali le nostre preoccupazioni, non proprio in sintonia con l’anodina trattazione dei processi che spesso caratterizza le udienze in Corte di cassazione, come se ci si trovasse in una campana di vetro. Mai come in questo caso era in gioco, in un’udienza, quella definitiva, l’intera vita (e pure la morte) e l’onore di Adolfo, la cui voce poteva essere resa solo da noi e la cui immagine, orribilmente sfregiata dall’abominevole dossier organizzato da Cassata, a noi spettava tutelare, senza lesinare sforzi. Anche in questo caso, la sentenza è arrivata a tarda ora. Prima e durante la lettura del dispositivo da parte della Presidente della Corte, tuttavia, c’è stato modo per l’ennesima evenienza inimmaginabile. E per l’ennesima volta mi sono dovuto arrendere all’idea che, al contrario di quanto in tanti pensano, ho una visione sempre ingiustificatamente buonista della realtà; non riesco mai a essere malizioso a sufficienza e vengo sempre scavalcato dalla virulenta crudezza dei fatti. Nei giorni precedenti, Biagio me l’aveva detto: “vedrai che Vito Calabrese verrà ad assistere all’udienza”. Gli avevo replicato come se la sua fosse l’esternazione di un folle. Ebbene, mentre attendevamo la sentenza negli spazi enormi del palazzaccio in un silenzio irreale e insopportabile, ho visto il volto di Biagio trasfigurarsi, mentre apriva la bocca: “è arrivato Calabrese”. Non fossi stato presente, avrei pensato che Biagio stesse farneticando. Vito Calabrese, proprio la persona indicata come complice di Cassata e come testimone falso nella sentenza del Tribunale di Reggio Calabria, era giunto proprio lì, davanti all’aula, ancora chiusa, nella quale sarebbe stata pronunciata la sentenza sulla diffamazione ai danni di Adolfo, commessa col dossier anonimo al quale anch’egli aveva contribuito, secondo il giudice Romeo. Il mio amico Adolfo aveva proprio ragione: in quel paese nel quale il suo cuore aveva battuto, Terme Vigliatore, il paese dal quale lui non era mai riuscito a distaccarsi, alcune persone sembravano agitate, con il buio nell’anima, dall’unica spinta esistenziale di muovere guerra alla sua persona. Del resto, Vito Calabrese non era stato anche il difensore dello zio, Filippo Giunta, che contro il libro su Adolfo aveva presentato una scombiccherata (psichiatrica anche questa, direi) querela per il fatto che Alfio Caruso non aveva raccontato ai lettori la storia della sua vita ma solo quella di Adolfo? Chissà, forse aveva querelato pure Giuseppe Fiori, perché il grande scrittore sardo aveva osato raccontare ai lettori la vita di Enrico Berlinguer e perfino quella di Antonio Gramsci senza dedicare nemmeno un capitolo, e nemmanco un paragrafetto, a Filippo Giunta. E ora Vito Calabrese era lì, e quando la Corte era pronta a rientrare in aula e le porte erano state finalmente aperte ecco che era entrato davanti a me. Come detto, la Corte ha rigettato il ricorso di Cassata e l’ha pure condannato a pagare ai familiari di Adolfo le ulteriori spese processuali. La notizia al neo-pregiudicato è senz’altro giunta telefonicamente dal suo amico e sodale Vito Calabrese. Anche qui – ho pensato – il solito schema circolare: “dal produttore al consumatore”. Ma uscendo dall’aula e poi uscendo dal palazzaccio ho pensato ad altro. Ho pensato innanzitutto a informare la dolce Cettina. E poi ho pensato a dare notizia della sentenza ad Alfio Caruso. E poi ho pensato che quella notizia dovevo darla pure al mio fraterno amico Piero, che poi è il fratello eroico di Graziella Campagna. Non ho fatto altre telefonate, perché nel frattempo i miei pensieri si erano persi, come foglie rimestate dal vento, intorno ai fatti degli ultimi otto anni, come fermi immagine di un film horror interminabile e insopportabile. Ho pensato all’ultima volta che avevo incontrato Adolfo alla fine di agosto 2008, seduti a chiacchierare da soli al tavolo di un bar a Milazzo; e alle telefonate che avevo avuto con lui a metà settembre, quando la sua voce si era definitivamente incrinata sotto il peso dei tradimenti che gli si erano mostrati inconfutabili e delle manovre con le quali, sono le parole della sua ultima lettera, “La Magistratura barcellonese/messinese vorrebbe mettermi alla gogna, vorrebbe umiliarmi, delegittimarmi, mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati”; e all’ultima volta che l’avevo sentito, la sera prima del suo suicidio e come un perfetto imbecille non avevo capito quale decisione avesse preso; e a quella telefonata che nel primo pomeriggio di quello sciagurato 2 ottobre avevo ricevuto da Leonardo Orlando, che quasi balbettando tentava di farmi capire, a oltre mille chilometri di distanza, che Adolfo, insomma, non c’era più, per sua scelta; e a quell’altra telefonata che subito feci a Mariella per dirle, senza riuscire a respirare, che il nostro amico Adolfo si era tolto la vita; e alla visita che nel pomeriggio del 3 ottobre feci ad Adolfo a casa sua, quando vidi sua moglie Cettina pietrificata dal dolore; e alle dichiarazioni che subito, quello stesso pomeriggio, andai a rendere a verbale al Procuratore di Patti, su tutto quello che sapevo di Adolfo e su tutte le confidenze che mi aveva fatto, indicando tutti i nomi, uno per uno, perché ormai non era più pensabile avere freni e prudenze, come se già sapessi della sua ultima lettera; e alle ritorsioni che fin da subito furono rivolte verso Biagio, e poi verso di me, da Ugo Colonna e Sebastiano Buglisi, ai quali sono certo che Adolfo si fosse riferito, insieme ad altri, nell’ultima lettera, quando aveva scritto “alcuni dovranno avere qualche rimorso, evidentemente il rimorso di aver ingannato un uomo che ha creduto ciecamente, sbagliando, nelle istituzioni”; e al coraggio che io, Biagio, Mariella e pochi altri ci eravamo dovuti dare per far conoscere tutto alla Procura di Reggio Calabria; e ai sommovimenti che dal suicidio di Adolfo erano derivati alla tenuta del sistema barcellonese, che aveva iniziato a barcollare insieme al traballare dei suoi custodi giudiziari; e alle calunnie che erano cominciate a volare contro la memoria di Adolfo e pure personalmente contro di me, anche contro di me pure con anonimi la cui origine era di imbarazzante evidenza; e il fango riversato per anni contro Adolfo, me, Mariella, Biagio e pochi altri da quel giornale, Centonove, che a lungo fu come una rivoltella, non so se calibro 22, che ogni settimana sparava al nostro indirizzo; e all’isolamento sordo e cupo nel quale eravamo costretti, stringendo i pugni dentro le tasche, ad andare avanti per prestare fede alla richiesta rivoltaci da Adolfo; e all’insensibilità delle istituzioni, salvo poche e mai abbastanza lodate eccezioni, che, in campo politico ma pure in campo giudiziario, continuavano a calpestare la memoria di Adolfo; e alla sguaiatezza ributtante di certi suoi avversatori politici, che hanno fatto guerra ad Adolfo dopo la sua morte, e proprio per la sua morte, con fiera e ottusa oscenità, ancor più di quando era in vita; e alle aggressioni giudiziarie rivolte verso di me, anche per quanto facevo per difendere la memoria di Adolfo, in conseguenza delle quali sono diventato pluriindagato, pluriimputato e pluricitato in giudizio, per il delitto di parresìa, su iniziativa di Cassata, di Buglisi, di Centonove e di tanti altri che a ricordarli tutti non c’è spazio; e a quel territorio barcellonese, così moralmente piagato che viene impossibile distinguere guardie e ladri, mafia e Stato; e, infine, alla solitudine disperata e lucida di Adolfo, mentre scriveva la sua ultima lettera e poi mentre si lanciava nel vuoto.

A quest’ultimo pensiero, nel vento lieve e ormai nel buio della serata romana, all’improvviso mi sono reso conto di una cosa che sembrava non mi dovesse mai capitare: forse ero riuscito a elaborare il lutto per la morte di Adolfo e per il modo in cui lui l’aveva scelta. Fino a quel momento mi ero sempre astenuto, per pudore nei suoi confronti, di provare a rispondere sulla accettabilità di quella scelta, sulla possibilità che essa avesse un senso e che, in fondo, altro che dover perdonare Adolfo per quel suo gesto, a me, alla fine, pure se per adempiere all’onere morale che mi aveva assegnato, avevo pagato, insieme a Mariella e a pochi altri, prezzi inenarrabili, non rimaneva altro che ringraziarlo. L’ho capito quando ho ricevuto la telefonata di suo figlio Basilio e ho sentito la leggerezza delicata delle sue parole e della sua voce e ho percepito quanto quel giovane uomo avesse da essere smisuratamente orgoglioso di suo padre, il migliore dei cittadini della provincia di Messina e lo scienziato affermato e il docente universitario adorato dai suoi studenti e l’uomo al quale veniva naturale continuamente migliorarsi e scalare ogni vetta. Ecco, alla fine non mi rimaneva altro che essere grato ad Adolfo. Mi aveva concesso, pure dopo la sua morte, in un modo che solo lui poteva architettare, la sua preziosa amicizia. Mi aveva concesso l’onore di conoscere i suoi splendidi familiari. Mi aveva regalato l’amicizia, quanto preziosa, di un intellettuale dalla dirittura morale nitida come Alfio Caruso, che mi ha insegnato che mantenere la schiena dritta davanti all’arroganza di qualunque potere è un privilegio impagabile. Mi aveva in fondo dimostrato, per l’ennesima volta, proprio in quella tiepida serata romana, che anche in questo scalcinato paese, un uomo giusto come lui può ottenere giustizia.
Ho elaborato davvero il lutto. Ormai la memoria di Adolfo Parmaliana non è più il pesante fardello sulle mie esili spalle e su quelle di altre quattro persone. Il mio dovere l’ho adempiuto e il mio compito l’ho portato a termine. Ormai la storia di Adolfo è la storia di un giusto d’Italia. Tocca ora alle istituzioni rendere omaggio a se stesse tributando doverosamente onore alla memoria di Adolfo Parmaliana.

 

 

 

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di Paolo Borrometi –

 

 

 

 

 

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