“20 vittime innocenti colpite dal CLAN DEI CASALESI, attendono giustizia. Ci sono due bambini” di Tina Palomba

L’INCHIESTA. 20 vittime innocenti colpite dal CLAN DEI CASALESI, attendono giustizia. Ci sono due bambini
di Tina Palomba

Fonte: casertace.net
Articolo del 26 dicembre 2018

CASAL DI PRINCIPE – Un lungo elenco di vittime innocenti della criminalità organizzata casertana rimasto per diverso tempo nel cassetto della Prefettura e in vari faldoni di cronaca giudiziaria potrebbe essere rispolverato dalla Magistratura. L’appello dei familiari dei morti uccisi per errore, tra questi ci sono persino dei bambini, comincia a ricevere diversi consensi perché come ha sottolineato l’avvocato Gianni Zara che si sta occupando di molti di questi casi: “Nessuna legge, a differenza di quanto sostenuto dal Ministero dell’Interno, prevede, per il riconoscimento delle vittime innocenti della camorra, il rigetto per decadenza o tardività. L’unica norma che prescrive un termine di decadenza è l’articolo 6 della legge 302/1990. Stabilisce che l’istanza deve essere presentata entro 90 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza che ha condannato i responsabili dell’omicidio”. Al di là di un riconoscimento economico i familiari cercano un riconoscimento morale, dopo anni di silenzio da parte dello Stato.

Nei casi in cui, dunque, non c’è stato ancora un processo perché non individuati gli autori del reato e non chiarita ancora la matrice mafiosa del delitto, il termine di decadenza non può sussistere. Nonostante questo e disattendendo il parere dell’Avvocatura di Stato chiesto dagli stessi uffici del Ministero dell’Interno, le istanze sono state rigettate perché ritenute tardive. Secondo il parere (che si allega) dell’Avvocatura di Stato “risulterebbe contrario ad esigenze di giustizia sostanziale precludere l’accesso ai benefici, poiché lo stesso diritto al beneficio sorgerebbe solo al momento della emersione di nuovi elementi, non essendo prima di allora venuti ad esistenza i presupposti del diritto stesso”. Il Ministero dell’Interno, invece, utilizza come dies a quo il giorno dell’omicidio, applicando una legge inesistente e disapplicando il parere dell’Avvocatura di Stato, da esso stesso richiesto.

Prima di parlare di alcuni di questi casi, è giusto affrontare le storie di altri giovani vittime che hanno sconvolto la provincia di Caserta nel corso delle guerra di camorra del clan dei Casalesi e che dovranno sicuramente essere aggiunti in questo elenco con i parenti che lottano contro l’omertà e il silenzio.

DUE BAMBINI VITTIME DEL CLAN DEI CASALESI

CASTEL VOLTURNO, 1991. LA STRAGE DEI RICHIELLO
18 aprile 1991 Luogo di morte: Castel Volturno. Anni: 12. Vittima innocente della criminalità organizzata Salvatore Richiello, viene ucciso a Castel Volturno a soli 12 anni mentre si trovava in auto insieme al padre Michele e ad un amico Pellegrino De Micco, morti anch’essi. Il dodicenne e il padre erano saliti sull’auto di Pellegrino De Micco per fare un giro per il centro di Castel Volturno. Per l’omicidio è stato condannato all’ergastolo il boss Michele Zagaria e a 15 anni il pentito Luigi Diana e riforma dall’ergastolo a 30 anni di reclusione per l’esponente del clan dei Casalesi Pasquale Apicella. Furono uccisi per errore, doveva morire al loro posto Sebastiano Caterino, come ha raccontato il pentito Di Bona.

VILLA LITERNO, 1998. LUCIA GRIFFO
All’epoca, quando fu ferita in un agguato di camorra, era una bambina di appena 12 anni, oggi ne ha 31, Lucia Griffo. È viva solo per miracolo ma porta ancora, sul corpo e nell’anima, i terribili segni di quella giornata di sangue che le ha cambiato la vita per sempre.

“Il 5 aprile del ’98, era la domenica delle Palme, Lucia tornava dalla messa passeggiando con un’amica in via Po, per rientrare a casa. Strette tra le mani le palme benedette dal parroco. Improvvisamente una sparatoria tra delinquenti e un colpo di kalashnikov la colpisce ad un braccio”. Questo racconta in lacrime, ogni dettaglio di quella brutta storia, Tammaro Griffo, 64 anni, guardia giurata in pensione, padre di Lucia. Fu solo un angelo a strapparla alla morte. Alcuni sicari, quella domenica, seguivano la guardia giurata Raffaele Di Fraia. Con la loro Lancia “Thema” tamponarono la “Golf” del vigilante e lo costrinsero a fermarsi, scesero dall’auto armati e iniziarono a sparare, incuranti della presenza delle bambine, ammutolite ed impietrite. In pochi secondi Lucia fu colpita ad un braccio. Attimi terribili! A raccontare la storia tra le mura di una semplice abitazione, in via Oberdan, a Villa Literno, c’è anche mamma Concetta. “Il braccio di mia figlia non è più tornato come prima della sparatoria. Volevano persino amputarlo perché il proiettile le aveva spappolato l’osso. Non ci sono parole per descrive quei momenti. Fui la prima ad arrivare sul posto quando mi vennero ad avvisare che era stata ferita una bambina e che poteva essere proprio mia figlia. Mettetevi nei miei panni ed immaginate per una madre cosa può voler dire e quanti pensieri si affollano in quegli istanti”. Insomma, un gesto provvidenziale, un millimetro più avanti, Lucia sarebbe morta. Vittima innocente della guerra di camorra. All’epoca, c’era la contrapposizione violenta fra i bidognettiani e gli scissionisti di Cantiello e di Tavoletta, per il controllo delle vasche di depurazione di Villa Literno. Nel corso del procedimento per l’omicidio Di Fraia e il tentato omicidio della bambina, è emerso che la vittima fu considerata vicina al gruppo dei bidognettiani, lavorava per conto di una ditta che aveva in appalto la gestione delle vasche di depurazione della zona. Un impianto sorvegliato da uomini del Sisde perché si sapeva che la camorra, a quei tempi, voleva controllare certe attività. Sono stati condannati per questo fatto di sangue, Cesare Tavoletta detto Rino, oggi collaboratore di giustizia condannato a 12 anni, e Massimo Ucciero, detto “Capa spaccata”, condannato a 23 anni (giudicato all’epoca dal tribunale dei minori perché under 18 prima dei fatti), nemici di Bidognetti. Tutti sono stati condannati ma nessun risarcimento dei danni alla famiglia di Lucia.

 

CASAL DI PRINCIPE, 2002. ANTONIO PETITO
Gianluca Bidognetti, detto Nanà, l’erede al trono. E’ il figlio di Cicciotto ‘e Mezzanotte e della sua seconda moglie Anna Carrino. Se Nanà ti attraversa la strada, è l’erede al trono che ti sta passando davanti e chiunque si trovi nei paraggi, al volante di un’auto, in motorino o a piedi, lo deve sapere. Era il 2002 quando Nanà, allora aveva 13 anni, attraversa la strada e Antonio Petito, 20 anni, falegname, anche lui di Casal di Principe, frena maldestramente rischiando di investirlo. I due ragazzi litigano: ognuno dà la colpa all’altro. Quando Nanà torna a casa, non esita a riferire tutto a sua madre. Anna Carrino, oggi pentita, ha raccontato l’accaduto terribile. È lei, secondo l’inchiesta della Dda di Napoli, a condannare a morte Antonio Petito. Si è scoperto solo adesso dopo che i carabinieri del nucleo investigativo di Caserta hanno eseguito tre ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti di esponenti del clan dei Casalesi. Quando Anna li convoca, non tutti nel clan erano d’accordo, non tutti credevano che quel ragazzo dovesse morire: all’inizio Luigi Guida, detto o’ drink, braccio destro di Francesco Bidognetti, pareva essere contrario: magari avrebbero potuto picchiarlo, fargli “una paliata”, ma ammazzarlo era esagerato… E invece Anna Carrino insiste e ottiene la sentenza. E così un commando del clan dei casalesi organizzato proprio da o’ drink raggiunge il ragazzo mentre stava andando al lavoro, e lo ammazza con 12 colpi di arma da fuoco.

PARETE, 1993. GENNARO FALCO
Francesco Bidognetti, nell’ottobre del ’93, non ci pensò due volte prima di far ammazzare Gennaro Falco, il medico ritenuto “colpevole” di non aver diagnosticato per tempo un cancro alla sua prima moglie, appena deceduta. Falco fu ucciso nel suo ambulatorio mentre stava scrivendo una ricetta, e nella sparatoria rimase ferita anche una sua paziente.

SANTA MARIA CAPUA VETERE, 1999. DELITTO CARLO AMATO
Il 21 marzo del ’99 a Santa Maria Capua Vetere, nel Disco Club, c’erano Carlo Amato, figlio di Salvatore, boss di Santa Maria, Walter e Nicola Schiavone, figli di Sandokan. Carlo Amato venne ammazzato: e anche se le dinamiche dell’omicidio non sono state ancora del tutto chiarite (si spera che lo possa fare ora proprio uno dei protagonisti, il neo collaboratore Nicola Schiavone), una delle ipotesi è che Amato sia stato punito per aver difeso una ragazza dalle molestie di un gruppo di giovani, capeggiati proprio da Walter.

MONDRAGONE, 1990 DELITTI ANTONIO NUGNES E LUIGI PELLEGRINO
Anche Augusto La Torre, boss di Mondragone, fondava il suo potere sul terrore. Nel 1990 condannò a morte l’allora vicesindaco Antonio Nugnes, padre dell’ex assessore regionale Daniela Nugnes, per problemi di spartizioni di quote e poteri. Tredici anni dopo, Augusto e i suoi fedelissimi indicarono ai carabinieri un pozzo coperto da quintali di terra dove poter trovare i resti di Nugnes. Accanto c’era anche il corpo di Vincenzo Boccolato, condannato a morte perché in una lettera inviata dal carcere a un suo amico, aveva offeso Augusto. Il boss l’aveva trovata per caso, mentre gironzolava per il soggiorno di un suo affiliato, scartabellando tra fogli aveva riconosciuto il suo nome e, incuriosito, si era messo a leggere le critiche alla gestione del clan che Boccolato gli faceva. Così lo portarono dinanzi al pozzo e gli dissero “vai a giocare a briscola con Nugnes“. Luigi Pellegrino, conosciuto da tutti come Gigiotto, era invece uno di quelli a cui piaceva spettegolare su tutto ciò che riguardava i potenti della sua città. Gigiotto spettegolava sulla moglie del boss Augusto La Torre, raccontava in giro di averla vista incontrarsi con uno degli uomini più fidati del clan. Bastò per condannarlo a morte: fu ucciso in un bar mentre tentava di nascondersi dietro al bancone. Fu colpito alla testa davanti a decine di persone. Più il motivo di una condanna a morte è futile, più un boss dimostra il suo potere, l’arbitrarietà della decisione.

 

I CASI DEI FAMILIARI CHE SI SONO attivati per il riconoscimento dallo STATO COME VITTIME INNOCENTI

Adriano Della Corte CASTEL VOLTURNO
Il 15 luglio del 1984. E’ domenica. Adriano Della Corte, da poco diciottenne, era in compagnia di Claudio Diana e Carmine Petrillo. I tre ragazzi, a bordo di una Fiat Uno nera, si trovavano a Castel Volturno in via Consortile in località «Lago Piatto» all’altezza del Cinema Arena Lido, quando ad un certo punto si affiancò una Lancia Prisma (risultata poi rubata). Adriano era alla guida ed un uomo, non identificato, armato di fucile, gli sparò colpendolo in pieno volto. Diana e Petrillo non sono stati mai nuovamente interrogati sebbene in un rapporto dei carabinieri di Aversa si legga «Diana è a conoscenza di dati, circostanze e nomi che potrebbero senza dubbio portare alla identificazione degli autori del delitto». Il procedimento, è stato archiviato in data 12 settembre 1986, perché rimasti sconosciuti gli autori del reato. In data 12 dicembre 2017, i familiari della vittima hanno presentato richiesta di apertura indagine presso la DDA di Napoli dalla quale stanno emergendo novità sugli autori del reato e sul movente che dovrebbe ricondursi a uno scambio di persona. La Fiat Uno condotta da Adriano Della Corte, difatti, era simile all’auto che in quel periodo utilizzava il nipote di Bardellino, Antonio Salzillo. Il fratello della vittima, Arturo Della Corte, proprio in questi giorni sta attuando, in segno di protesta, uno sciopero della fame, come abbiamo scritto giorni fa in un articolo (CLICCA QUI PER LEGGERLO).

 

Antonio Belardo ORTA DI ATELLA
Il 3 agosto del 1991, Antonio Belardo, mentre percorreva il corso Atella a bordo della sua auto Golf, veniva raggiunto da numerosi colpi da arma da fuoco, esplosi presumibilmente da individui a bordo di un’altra autovettura non identificata. Le indagini furono archiviate perché gli autori del reato rimasero sconosciuti. Antonio Belardo era un imprenditore e poche settimane prima del suo omicidio, insieme ad alcuni altri imprenditori, aveva denunciato alcuni episodi estorsivi, per cui l’omicidio potrebbe essere stato commesso per punire la sua ribellione al pizzo. Il 14 marzo 2018 i familiari della vittima hanno presentato richiesta di riapertura delle indagini presso la Dda di Napoli, dalle quali potrebbero emergere novità sugli autori del reato e sul movente.

 

Luigi Petrella CASTEL VOLTURNO
Il 19 settembre 1999 Luigi Petrella veniva ucciso a Castel Volturno da Giuseppe Setola e Giuseppe Dell’Aversano perché, nella sua veste di guardia giurata della zona di Pescopagano, aveva aiutato gli uomini delle forze dell’ordine ad individuare luoghi dediti ad attività criminali. La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, con la sentenza n. 3 del 2005, ha condannato gli esecutori dell’omicidio ed accertato il movente. I condannati sono stati poi assolti, per carenza di prove, dalla Corte di Assise di Appello di Napoli presieduta dal giudice Pietro Lignola con la sentenza n. 108 del 2005. I familiari della vittima, il 18 maggio 2018, hanno presentato richiesta di riapertura indagine presso la Dda di Napoli, con l’obiettivo di individuare gli autori del reato, in quanto il movente è stato comunque chiarito dalle sentenze già emesse

 

 

I CASI DI NON RICONOSCIMENTO PER NON ESTRANEITA AD AMBIENTI E RAPPORTI DELINQUENZIALI

Un secondo motivo di rigetto delle istanze per il riconoscimento delle vittime innocenti della camorra è la non totale estraneità ad ambienti e rapporti delinquenziali previsto dall’art. 1 comma 2 lettera B della legge 302/1990. Tale norma ha carattere personale, cioè stabilisce che l’istante deve essere totalmente estraneo ad ambienti e rapporti delinquenziali. Questo vuol dire che le verifiche devono riguardare chi ha presentato l’istanza, invece il Ministero dell’Interno molto spesso estende (piuttosto inspiegabilmente, perché ciò in distonia con la norma), l’appartenenza malavitosa anche ai familiari delle vittime.

Pasquale Pagano CASAPESENNA
Ucciso per uno scambio di persona dal clan dei Casalesi fazione Venosa a Casapesenna in data 26 febbraio 1992. Ad accertare la dinamica dei fatti e la totale estraneità della vittima ad ambienti delinquenziali è la sentenza n. 2223/15 emessa in data 16.12.2015 dal GIP di Napoli – uff. 11, passata in giudicato nel 2018. L’istanza presentata al Comitato di Solidarietà, ex Legge 512/1999, è stata rigettata, perché si è ritenuto Pagano non estraneo ad ambienti e rapporti delinquenziali e questo perché suo fratello aveva commesso diversi reati legati alla tossicodipendenza.

L’assurdità è che tali reati sono stati commessi 12 anni dopo la sua uccisione. Come avrebbe potuto la vittima non essere estranea ad ambienti e rapporti delinquenziali se quanto contestato al fratello, è avvenuto dopo oltre dieci anni dalla sua tragica morte? Un mistero che non ha risposta e che, chiaramente, è figlio di una degenerazione burocratista nella nostra pubblica amministrazione, a partire dai suoi gradi più alti, come sono senza ombra di dubbio quelli operanti nel palazzo del Viminale.

 

Flavio Russo SAN CIPRIANO DI AVERSA
Fu colpito l’8 settembre 1992 da un proiettile vagante sparato da Francesco Carannante. La sentenza n. 3 del 1997 emessa dalla Corte di Santa Maria Capua Vetere, passata in giudicato, ha condannato l’autore del reato e ha evidenziato la totale estraneità della vittima ad ogni ambiente delinquenziale. Medesima considerazione di totale estraneità fu fatta dal Procuratore Federico Cafiero de Raho con un parere espresso il primo aprile del 2010 e dal Comando Provinciale dei Carabinieri di Caserta con informativa del 20 ottobre 2009. Pur tuttavia, il Ministero dell’Interno ha rigettato l’istanza di riconoscimento di vittima innocente ritenendo il padre Rodolfo Russo non estraneo ad ambienti e rapporti delinquenziali, per aver commesso atti osceni nel 1958 (quando il pubblico pudore era decisamente diverso); furto di energia elettrica nel 1966; mancato versamento di Iva, abusivismo edilizio nel 1980 nel comune di San Cipriano d’Aversa che all’epoca era privo di Piano Regolatore. Ebbene, non solo tali reati non riguardano la criminalità organizzata ma per tutti è intervenuta la riabilitazione. Si tratta di reati cosiddetti “comuni”, non collocabili nella categoria di quelli riguardanti la criminalità organizzata.

Antonio Celiento CASTEL VOLTURNO
Ucciso dal Clan dei Casalesi fazione Setola, pochi minuti prima della strage dei Ghanesi, a Castel Volturno, il 18 settembre 2018. La sentenza n. 18/2013 ha stabilito che Celiento è stato ucciso perché, aveva indicato ad un amico poliziotto, il luogo dove si nascondevano due latitanti. Il Ministero dell’Interno ha rigettato l’istanza di riconoscimento, presentata dalla moglie e dai figli, perché a carico della vittima sussistono dei precedenti di polizia per abusivismo edilizio, ricettazione e gioco d’azzardo. Celiento gestiva una sala giochi. Anche per lui, la formula che blocca ogni riconoscimento: non “del tutto estraneo ad ambienti e rapporti delinquenziali”.

Genovese Pagliuca TEVEROLA
Ucciso dal Clan dei Casalesi fazione Bidognetti, il 19 gennaio 1995 a Teverola. La sentenza emessa dalla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere n. 3/05 e quella emessa dalla Corte di Assise di Appello di Napoli n. 21/08, hanno stabilito che Genovese Pagliuca venne ucciso perché non volle obbedire all’ordine impartitogli dal clan, di lasciare la sua fidanzata e di allontanarsi dal suo paese di origine. Entrambe le sentenze hanno poi deliberato che la vittima era del tutto estranea ad ambienti e rapporti delinquenziali. Il Ministero dell’Interno, invece, ha rigettato l’istanza presentata dai genitori, perché da un’informativa dei Carabinieri, redatta a poche ore dall’omicidio, risultava che la vittima era stata vista colloquiare con un giovane di 21 anni, scopertosi poi vicino al Clan dei Casalesi. In questo caso il Viminale disattende una decisione giudiziaria su un’informativa che poi la verità processuale non ha considerato rilevante.

 

 

PARENTELA ED AFFINITÀ DI QUARTO GRADO CON SOGGETTI GRAVATI DA REATI

Un terzo motivo di rigetto delle istanze per il riconoscimento delle vittime innocenti della camorra, riguarda l’errata applicazione dell’art. 2 quinques legge 186/2008 che prevede il diniego dell’istanza nel caso in cui il beneficiario risulti parente o affine entro il quarto grado con soggetti nei cui confronti risulti in corso un procedimento penale per reati mafiosi.

I CASI

Paolo Coviello e Pasquale Pagano CASAPESENNA
Pagano, già citato nel caso di non riconoscimento per non estraneità ad ambienti e rapporti delinquenziali,uccisi per uno scambio di persona dal clan dei Casalesi fazione Venosa, a Casapesenna, in data 26 febbraio 1992. Ad accertare la dinamica dei fatti e la totale estraneità delle vittime ad ambienti delinquenziali è la sentenza n. 2223 del 16 dicembre 2015 emessa da un GUP del tribunale di Napoli – uff. 11, passata in giudicato nel 2018, presumibilmnete dopo successivi passaggi in Corte d’Appello e in Cassazione. L’istanza di riconoscimento è stata rigettata, perché il Ministero dell’Interno ha ritenuto violato l’articolo 2 quinquies della Legge 186/2008, in quanto le due vittime risultano parenti o affini entro il quarto grado di persone con precedenti penali, aggravati dal metodo mafioso.

Secondo il ricorso presentato dai congiunti di Coviello e Pagano, nè questi ultimi, nè loro familiari diretti hanno mai avuto a che fare con questi parenti alla lontano, ma avrebbero, sempre secondo i ricorrenti, condotto una vita riservata e lontanissima dalle logiche criminali. Tra le altre cose, alcuni questi congiunti oltre il quarto grado sono divenuti anche collaboratori di giustizia. Il che rende ancora più dubbia e contestabile l’applicazione, da parte del Viminale, della legge che impedisce il riconoscimento a Coviello e Pagano dello status di vittime innocenti.

 

 

 

La fotocopertina è tratta da un video Youtube