21 Novembre 1987 Catania. Ucciso Gaetano Miano, panettiere di 29 anni. Era colpevole di essere il fratello di pentiti.

Gaetano Miano, panettiere di Catania, aveva 29 anni e l’unica colpa di essere il fratello di pentiti. “Era incensurato e non aveva mai avuto a che fare con le cosche. Gestiva un panificio in via Vittorio Emanuele, nel centro storico della città. Una vita tranquilla, ordinata, scandita dalle levatacce per andare ad aprire il forno. Proprio di questa routine hanno approfittato gli assassini che lo hanno atteso sotto casa, in via Acquedotto Greco, alle sei, in un’alba gelida e piovosa, i killer hanno agito indisturbati, senza che nessuno li vedesse. Contro Gaetano Miano sono stati sparati sette colpi di calibro 38. Raggiunto dai primi proiettili, l’uomo ha cercato scampo in un portone ma è stato raggiunto e finito con tre colpi alla testa” (La Repubblica).

 

 

Articolo di La Repubblica del 22 Novembre 1987 
UCCIDONO IL FRATELLO DI 2 PENTITI CATANESI
di Guglielmo Troina

CATANIA Il maxi-processo di Torino alla mafia catanese continua a lasciare dietro di sé una scia di sangue e morte. Ieri, all’alba, a Catania è stato ucciso Gaetano Miano, 29 anni, panettiere, fratello di Francesco e Roberto Miano, una volta capi indiscussi del clan dei catanesi a Torino, adesso pentiti di spicco nel processo che vede alla sbarra centinaia di loro picciotti.

Il 16 luglio scorso, nel capoluogo piemontese, era stato ucciso un altro dei sei fratelli Miano, Santo, 37 anni, detenuto in semilibertà. Scontava una pena per associazione per delinquere e spaccio di droga.

Gaetano, invece, era incensurato e non aveva mai avuto a che fare con le cosche. Gestiva un panificio in via Vittorio Emanuele, nel centro storico della città. Una vita tranquilla, ordinata, scandita dalle levatacce per andare ad aprire il forno. Proprio di questa routine hanno approfittato gli assassini che lo hanno atteso sotto casa, in via Acquedotto Greco, alle sei, in un’ alba gelida e piovosa, i killer hanno agito indisturbati, senza che nessuno li vedesse.

Contro Gaetano Miano sono stati sparati sette colpi di calibro 38. Raggiunto dai primi proiettili, l’uomo ha cercato scampo in un portone ma è stato raggiunto e finito con tre colpi alla testa. Adesso, polizia e carabinieri hanno messo sotto la loro protezione l’ultimo dei Miano ancora libero, Carmelo, 35 anni, anche lui incensurato. È chiaro infatti che le cosche mafiose stanno mettendo in atto una vera e propria strategia di sterminio nei confronti della famiglia Miano per indurre Francesco e Roberto a fare marcia indietro.

Una strategia di sterminio che sta colpendo anche gli altri pentiti del maxi-processo torinese. Il 5 novembre scorso, sempre a Catania, un commando di killer ha teso un agguato ad Antonino Saia, padre di Angelo. Solo per un puro caso, l’uomo è scampato alla morte anche se si trova ancora ricoverato in ospedale.

 

 

 

Fonte:  archiviolastampa.it
Articolo del 22 novembre 1987
Per far tacere i due pentiti ucciso il fratello panettiere
di Nino Amante
Il giovane assassinato a Catania mentre andava a lavorare.
Francesco e Roberto Miano sono imputati nel maxiprocesso di Torino al clan dei catanesi.

CATANIA — Nel gotha della malavita catanese 11 suo è uno dei cognomi più famosi: tre fratelli in carcere, uno ucciso quattro mesi fa à Torino. Eppure Gaetano Miano, 29 anni, era riuscito a mantenersi lontano dai giri della criminalità. Faceva il panettiere. Conduceva una vita onesta stroncata ieri mattina all’alba con una decina di proiettili di pistola. Lo hanno ucciso mentre si recava al lavoro in un panificio di via Vittorio Emanuele, a poche decine di metri dal duomo e dal municipio.

“Vendetta trasversale” è l’ipotesi che polizia e carabinieri avanzano con maggiore forza. Rappresaglia nei confronti di due fratelli della giovane vittima: Francesco e Roberto Miano, imputati al maxi-processo contro il clan dei catanesi in corso nell’aula bunker delle Vallette a Torino, due dei pentiti che più hanno collaborato con i magistrati del capoluogo piemontese per individuare capi e gregari.

E proprio il processo di Torino sembra essere l’obiettivo ultimo di chi ha organizzato e portato a compimento l’agguato di ieri mattina. Creare attorno al dibattimento un clima di terrore. Intimidire chi collabora e chi intende collaborare con la giustizia.

Il cadavere di Gaetano Miano è stato scoperto dalla polizia un quarto d’ora prima delle sette dopo una telefonata anonima giunta alla centrale operativa della questura. Giaceva supino ai bordi di un marciapiede di via Acquedotto Greco, nel centro storico della città. La testa sull’asfalto, i piedi accanto agli scalini di una casa coi muri umidi e scrostati.

Gaetano Miano era da poco uscito di casa per recarsi a piedi al lavoro. Dal buio ha visto spuntare i sicari, ha cercato di scappare, ma è stato tutto inutile. I killer hanno compiuto tranquillamente la loro missione di morte.

L’agguato di ieri è l’ultimo di una catena di vendette sull’asse Catania-Torino. Quattro mesi fa, a cadere sotto i colpi di misteriosi killer, fu un altro dei fratelli Miano, Santo, ucciso a Torino mentre accompagnava la moglie al lavoro. Era in semilibertà, a differenza del fratello minore ucciso ieri era pregiudicato per numerosissimi reati Anche la sua morte è stata vista come una vendetta contro i due fratelli pentiti, uno dei quali, Francesco, detto “Ciccio”, negli anni roventi della guerra di mafia a Torino girava per il carcere delle Vallette con un registratore negli slip per registrare i colloqui con gli altri detenuti.

Ma è soprattutto a Catania che la rappresaglia sui parenti dei pentiti viene messa a segno con più forza. C’è un ferimento oscuro che risale a una quindicina di giorni fa. Vittima Angelo Saja, 56 anni, padre di Antonino Saja, un altro dei grandi pentiti al processo delle Vallette. L’uomo, raggiunto al torace da numerosi proiettili mentre era alla guida della sua auto, è pregiudicato per numerosi reati. Un’altra vendetta trasversale oppure un tentato omicidio tutto catanese legato all’attività di Angelo Saja? È un interrogativo ancora senza risposta.

Più chiaro invece il messaggio contenuto due anni fa nell’uccisione di Ignazio Strano, cugino di Salvatore Parisi, il più importante dei pentiti del clan del “cursoti”. Lo trovarono crivellato di proiettili dentro la sua rivendita di pesce nel quartiere di Nesima, alla periferia Ovest di Catania. In questo stesso periodo fu ucciso Salvatore Catania, fratello di Lorenzo Catania, un altro esponente dei clan dei catanesi a Torino, decisosi a collaborare con la giustizia. Anche lui era incensurato. Faceva l’idraulico. Due killer lo uccisero assieme al suo aiutante mentre si recava al lavoro nei pressi della stazione centrale.

Un avvertimento destinato a intimidire Lorenzo Catania che infatti, all’apertura del processo di Torino, ritrattò tutte le accuse formulate durante la fase istruttoria.

 

 

 

L’Unità del 22 novembre 1987

 

 

 

 

Articolo di La Repubblica del 3 Gennaio 1988
IL MASSACRO DEI PENTITI
di Guido Neppi Modona

ACCADE a volte che per pigrizia o per fastidio venga eretta una cortina di silenzio su realtà spiacevoli o non più popolari. È quanto si sta verificando nei confronti del problema della protezione dei pentiti e dei loro familiari, problema che negli anni di piombo del terrorismo è stato oggetto di appassionati dibattiti e di interventi legislativi, mentre ora nei processi di mafia feroci vendette trasversali, nei confronti dei familiari degli imputati che collaborano con la giustizia, occupano poche righe della cronaca cittadina dei quotidiani.

Esempio emblematico di questa situazione è quanto sta accadendo nel processo in corso dal marzo ‘ 87 davanti alla Corte di Assise di Torino contro il clan dei catanesi. Grazie alle dichiarazioni di una decina di pentiti, nel dicembre del 1984 questa pericolosa e temibile organizzazione criminale mafiosa è stata completamente sgominata, e la stessa sorte è toccata alla banda di Epaminonda, poi giudicata a Milano. A Torino sono stati rinviati a giudizio, divisi in due tronconi, più di 200 imputati, per rispondere, tra l’altro, di una cinquantina di omicidi, associazione di stampo mafioso, traffico di droga, estorsioni, nonché vari episodi di corruzione di pubblici ufficiali, compresi alcuni giudici.

Le tappe più significative della vicenda processuale sono contrassegnate da una impressionante sequenza di mortali attentati contro i parenti dei principali pentiti, che trova riscontro solo nella serie di assassinii durante il primo processo contro il nucleo storico delle Brigate rosse, quando tra il 1976 ed il 1978 vennero giustiziati il procuratore generale di Genova Coco e la sua scorta, il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Torino Croce, il maresciallo Berardi, sino al sequestro dell’on. Moro ed alla strage di via Fani.

Nel processo contro il clan dei catanesi, due sono i parenti di pentiti assassinati a Catania nel 1985; un altro è stato gambizzato il 30 marzo 1987, il giorno prima dell’inizio del dibattimento. Da questo momento le vendette trasversali si infittiscono ed interessano anche familiari che si erano rifugiati a Torino: il 16 giugno viene assassinato a Torino Santo Miano, fratello di Roberto e Francesco, due tra i principali pentiti del processo; il 5 novembre viene ferito gravemente a Catania il padre del pentito Antonino Saia; infine il 21 novembre viene trucidato a Catania Gaetano Miano, un altro fratello dei pentiti Roberto e Francesco.

DI FRONTE a questa vera e propria strage di innocenti, non è stata predisposta alcuna seria forma di protezione. Ed è appunto questo il dato di fondo di cui bisogna occuparsi: piaccia o non piaccia, non vi è ormai processo contro la criminalità organizzata che non abbia i suoi pentiti. Non vi è dubbio che talvolta i pentiti sono stati usati, processualmente parlando, in maniera poco corretta, senza cercare riscontri o conferme obiettive alle loro dichiarazioni di accusa, con la conseguenza di lunghe carcerazioni preventive, rinvii a giudizio e dibattimenti che si basano su chiamate di correo che possono essere viziate da motivi di vendetta o da intenti calunniosi.

Ma nella maggior parte dei casi i pentiti vengono utilizzati correttamente, verificando la fondatezza delle loro accuse; le chiamate di correo divengono allora strumento irrinunciabile per fare luce su organizzazioni criminali che altrimenti sarebbero rimaste del tutto impermeabili all’intervento della giustizia penale. Ebbene, se tutto questo è vero, a me sembra che l’ordinamento italiano dimostri nei confronti dei pentiti un atteggiamento schizofrenico. Da un lato vengono usati a man bassa, dall’altro sembra che ci si vergogni di dare riconoscimento ufficiale a questa realtà, e non viene presa alcuna iniziativa né per garantire gli accusati da chiamate di correo false o strumentali, né per assicurare il diritto alla vita dei collaboratori e dei loro familiari.

Il confronto con l’esperienza americana è a questo punto d’obbligo. Là i collaboratori, in funzione di testimoni di accusa contro i complici, vengono praticamente usati in ogni processo con più di un imputato. Non credo che quel sistema sia da invidiare, ma comunque vanta una coerenza a noi sconosciuta, nella duplice direzione delle garanzie per gli accusati e della protezione degli accusatori.

Preso atto che le dichiarazioni di accusa dei complici possono costituire un irrinunciabile mezzo di prova, ma sono nel contempo uno strumento infido e pericoloso, vige la regola generale che la chiamata di correo può essere usata come prova solo quando è resa nel pubblico dibattimento, mediante la sottoposizione del complice a quella prova del fuoco che è la brutale cross-examination ad opera del pubblico ministero e dei difensori degli accusati.

TUTTO ciò che il pentito ha dichiarato prima non può essere utilizzato: vale solo ciò che resiste alla verifica del dibattimento. Ed ancora, le dichiarazioni di accusa del complice possono essere poste a fondamento di una sentenza di condanna solo quando sono suffragate da riscontri obiettivi; nessun pubblico ministero porterebbe mai a giudizio un caso basato esclusivamente sulle accuse di un pentito.

La protezione dei collaboratori e dei loro familiari è disciplinata da una legge del 1970: il trasferimento in altra parte del paese, il cambio di identità, forme di assistenza per reperire una nuova casa, un lavoro, la scuola per i figli sono strumenti abituali. Dei circa 5.000 testimoni e 11.000 familiari protetti dal 1970 nessuno dico nessuno è rimasto sinora vittima di attentati violenti.

Parlando con un giudice italiano di un processo con molti pentiti mi sono reso conto di quanto profondo sia il senso di angoscia e di impotenza di un magistrato che assiste a feroci vendette trasversali senza avere alcuno strumento per prevenirle. E mi sono anche reso conto che è improprio ed istituzionalmente non corretto fare ricadere sui giudici il problema della protezione dei pentiti, perché così facendo si vengono ad instaurare rapporti estranei a quelli meramente processuali, che possono influire sull’immagine esterna di imparzialità del giudice.

Non penso che in Italia vi siano le condizioni per risolvere il problema con interventi legislativi, ma all’esecutivo va chiesto di predisporre subito strutture amministrative agili ed intelligenti per porre fine alla strage. Per fare in modo, cioè, che quando la moglie di un pentito va dal giudice e gli chiede aiuto, perché teme di essere stata individuata ed ha paura per la sicurezza dei figli, quel giudice possa indirizzarla ad un servizio che nel giro non di settimane, ma di ore, sia in grado di sistemare quella famiglia in un’altra città o in un altro quartiere, in un’altra casa ed in un’altra scuola, e di fornire immediatamente alle persone in pericolo un altro nome ed altri documenti di identificazione.

 

 

 

 

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