23 Giugno 1967 Strage al mercato di Locri (RC). Carmelo Siciliano resta ucciso in una sparatoria tra clan rivali.
23 Giugno 1967 Strage al mercato di Locri. Strage ad opera della ‘ndrangheta nella piazza del mercato di Locri, durante una guerra tra i clan Cordì e Cataldo.
Muoiono 3 persone e due restano gravemente ferite. “Carmelo Siciliano, 39 anni, deve la sua morte ad una pura coincidenza. Il poveretto infatti si trovava al mercato per acquistare frutta ed ortaggi per conto di alcuni albergatori del centro termale di Antonimina e stava caricando alcuni cesti su un camion, quando è stato raggiunto al petto e alla testa da quattro proiettili di mitra.” (dal La Stampa del 23.06.1967)
Fonte: La Stampa.it Archivio storico
Articolo del 23 Giugno 1967
Strage al mercato di Locri.
Strage ad opera della ‘ndrangheta nella piazza del mercato di Locri, durante una guerra tra i clan Cordì e Cataldo.
Muoiono 3 persone e due restano gravemente ferite.
“Carmelo Siciliano, 39 anni, deve la sua morte ad una pura coincidenza. Il poveretto infatti si trovava al mercato per acquistare frutta ed ortaggi per conto di alcuni albergatori del centro termale di Antonimina e stava caricando alcuni cesti su un camion, quando è stato raggiunto al petto e alla testa da quattro proiettili di mitra.”
Fonte: archivio.unita.news
Articolo del 24 giugno 1967
Banditi mascherati falciano a raffiche di mitra tre uomini in mezzo al mercato gremito di gente
A Locri, in Calabria, selvaggia impresa di gangsterismo all’americana.
Feriti due anziani commercianti che si erano lanciati all’inseguimento – Fuggiti su un’auto rubata, gli assassini l’hanno poi incendiata – Uno degli uccisi era sfuggito a un attentato di qualche giorno fa.
LOCRI, 23.
Tre uomini sono stati uccisi a raffiche di mitra, di lupara e a colpi di pistola nel mercato di Locri questa mattina alle sette e mezzo. Sono stati abbattuti da tre banditi mascherati, scesi da un’automobile bianca. Due altre persone sono rimaste ferite. Nel mercato già gremito, si sono verificate scene di panico, con la gente che si nascondeva sotto i banchi e si gettava per terra. Risaliti a bordo dell’auto, i banditi sono fuggiti. Un brigadiere ha sparato contro la macchina, rompendo il cristallo posteriore e ferendo, probabilmente, uno dei fuggiaschi. L’auto è stata incendiata qualche chilometro fuori Locri. Ora gli inquirenti brancolano nel buio.
Gli uccisi sono: Domenico Cordì, 42 anni, guardiano di agrumi; Vincenzo Saracino, 37 anni, operatore del mercato ortofrutticolo; Carmelo Siciliano, 39 anni, di Antonimina, che si trovava a Locri per fare compere. Sono morti tutti e tre mentre venivano trasportati nell’ospedale del paese. II Saracino aveva nove figli, il Cordì cinque, il Siciliano tre.
I feriti sono Giovanni Recupero (75 anni) e Salvatore Surace (6S anni); ne avranno rispettivamente per 15 e 10 giorni di ospedale.
La Giulia bianca dei banditi è giunta a Locri poco dopo le 7 di stamane, proveniente da Gerace, sulla statale 111, che collega il Tirreno con l’Adriatico e che parte da Gioia Tauro per finire a Locri. L’auto ha percorso (secondo le numerose testimonianze raccolte) via Garibaldi, via Gusmano, piazza Municipio e un tratto di viale Trieste, fermandosi proprio all’imbocco del mercato. Ne sono scesi tre uomini, coi volti mascherati da fazzoletti. Uno indossava una tuta da meccanico. Erano armati: il primo imbracciava una mitra a canna corta, il secondo teneva in pugno una pistola e il terzo puntava un fucile, che poi si è scoperto essere caricato a lupara.
Domenico Cordì e Vincenzo Saracino si trovavano davanti a un banco di frutta e discutevano insieme. Accanto a loro era il Siciliano, che doveva acquistare alcune cassette da trasportare alle fonti minerali del suo paese, Antonimina. Senza esitare, i banditi si sono diretti verso il terzetto e, giunti a pochi passi, hanno aperto il fuoco tutti insieme. Mentre la gente si gettava a terra o fuggiva urlando (nel mercato, in quel momento, c’erano oltre cento persone), il Cordì, il Saracino e il Siciliano cadevano, crivellati di colpi e gli assassini continuavano a sparare sui loro corpi, fino a scaricare le armi. Sul posto sono stati recuperati quaranta bossoli. e. I.
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La vecchia o la nuova mafia sta dietro l’eccidio di Locri
Gli investigatori dichiarano: «Non sappiamo da dove cominciare».
Uno dei tre assassinati è stato colpito, probabilmente, per caso – Degli altri due, il primo fu accusato dell’uccisione del fratello del secondo – Le ipotesi: trappola-boomerang, controllo dei mercati, «racket» degli appalti – Le vittime lasciano nove, cinque e tre figli.
Mentre fuggivano verso l’automobile, che avevano lasciato in folle, con il motore acceso, i gangster hanno ricaricato le armi.
La vettura è ripartita di scatto, mentre alcuni coraggiosi tentavano di tagliarle la strada e, successivamente, di inseguirla a piedi. L’uomo della mitra si è allora affacciato dal finestrino e ha sparato un’altra raffica, che ha colpito il Surace e il Recupero.
Attratto dal crepitio dei colpi, si è affacciato alla porta di un negozio il brigadiere Naccarato, della locale stazione dei carabinieri. Si è visto sfrecciare davanti l’auto bianca, ha sentito le grida degli inseguitori, ha estratto il revolver e ha sparato. Uno dei colpi ha mandato in frantumi il tetto posteriore della macchina che, dopo una breve sbandata, ha ripreso la fuga. La Giulia ha ripercorso le stesse strade per cui era giunta al mercato, poi ha imboccato di nuovo la statale 111.
I carabinieri, a questo punto, devono aver perso la testa. Invece di inseguire la Giulia, hanno telefonato alle stazioni dei paesi sulla statale, chiedendo che istituissero posti di blocco. Due di questi posti hanno segnalato auto che non rispettavano I’alt. Ma non si trattava in nessuno dei casi della Giulia bianca e, anche in queste occasioni, le auto non sono state inseguite dalle pattuglie.
Più tardi è stata vista una colonna di fumo alzarsi dalla contrada Zomero. I carabinieri hanno passato la segnalazione ai vigili del fuoco. Un pesante automezzo ha raggiunto la località per una impervia stradina, cancellando ogni traccia delle auto passate precedentemente. Alla fine del viottolo hanno trovato la Giulia, targata Reggio Calabria, era stata data alle fiamme dagli stessi banditi che probabilmente hanno proseguito nella fuga a bordo di un’altra auto. La Giulia era stata rubata il 19 maggio scorso a un medico abitante a Melito Porto Salvo.
Spento I’incendio, i vigili hanno segnalato ai carabinieri che nell’automobile erano visibili tracce di sangue, segno che i colpi del brigadiere Naccarato sono andati a segno. Ma altre tracce non ce ne sono. II questore di Reggio Calabria, Zamparelli, che ha assunto la direzione delle indagini, ha ammesso che la polizia brancola nel buio. Anche andando a scavare nella vita degli uccisi infatti, il quadro non si chiarifica: anzi, si complica non indifferentemente.
Detto subito che il Siciliano, con tutta probabilità, è stato ucciso per caso, soltanto perché si trovava accanto al Cordì e al Saracino, vediamo che rapporti correvano tra questi due ultimi personaggi.
Pessimi, dicono tutti. Il Saracino, negli ultimi anni, ha avuto due fratelli uccisi. II secondo, Antonio venne freddato con due colpi di pistola nove anni or sono, diciannovenne. Furono eseguiti alcuni arresti. Tra gli imputati era Domenico Cordì. La Corte di Assise di Melfi assolse tutti per non aver commesso il fatto. Tra il Cordì e la famiglia Saracino, comunque, rimase un odio represso. Non è quindi chiaro come mai i due nemici si trovassero insieme al mercato, stamane.
Una delle tesi avanzate in città è la seguente: Cordì ha organizzato un tranello a Saracino, o viceversa. Poi il mandante non è riuscito a scansarsi in tempo, ed è stato fulminato anch’esso dal piombo degli esecutori materiali del delitto. Troppo semplice – si obietta. Anche perché, in questo caso, non si riuscirebbe a comprendere la reazione del padre del Saracino. Costui, Francesco, nel ’46 venne incriminato, con altre sessanta persone, per una lunga serie di reati: dall’omicidio per rapina all’estorsione, dall’associazione a delinquere ai furti di bestiame. La Corte d’assise di Locri lo condannò all’ergastolo, in appello la Corte di Catanzaro lo assolse dall’accusa di omicidio e ridusse la condanna a dodici anni, ormai abbondantemente scontati.
Quando Francesco Saracino ha saputo della strage, è salito sulla sua auto, probabilmente armato, e ha detto ai familiari «Farò io giustizia». II padre dell’ucciso sapeva che con suo figlio era morto anche il Cordì: se avesse pensato a costui come assassino o mandante, non gli sarebbe rimasto altro che darsi pace, pensando che giustizia, ormai, s’era fatta da sé.
C’è invece una seconda tesi. Sebbene nemici da anni, Saracino e Cordì avrebbero avuto legami con la stessa organizzazione mafiosa che controlla i mercati principali della Calabria. Il Cordì, dopo aver messo su un patrimonio grazie a tali legami, avrebbe deciso improvvisamente di abbandonare questo tipo di attività mafiosa e si sarebbe accordato col Saracino per entrare negli appalti stradali.
Un altro settore esplosivo da alcuni mesi. Sul litorale Jonico, si verificano attentati dinamitardi. Si tratta della guerra in atto tra gruppi di nuovi mafiosi per assicurarsi il controllo dei lavori di ampliamento della statale 106.
Cordì, nel maggio scorso ha visto saltare in aria, con un carico di tritolo, una delle ruspe che comperato, in società con un amico (il Saracino? Non sembra). Poi, qualche settimana fa era stato fatto segno di alcuni colpi d’arma da fuoco: era stato ferito un passante, e Cordì non aveva denunciato l’attentato sebbene sapesse di essere il vero bersaglio degli sparatori. Chi erano costoro? I concorrenti nella guerra degli appalti o i vecchi compari del mercato ortofrutticolo, che non gli perdonavano di aver lasciato la cosca?
Resta invece il problema principale: chi ha compiuto la strage di Locri. Chi l’ha eseguita materialmente, insomma. Gli inquirenti pensano a killer venuti da fuori, perché, per fuggire hanno seguito la stessa strada fatta per raggiungere il mercato. È possibile – dicono – che conoscessero soltanto quella.
Fonte: archivio.unita.news
Articolo del 25 giugno 1967
La mafia ha cambiato aria prima della strage di Locri
di Enzo Lacaria
Interrogatori e battute senza sosta – La descrizione dei banditi – Spavalda sicurezza – La personalità delle vittime – Fitto intreccio di criminosi interessi per gli appalti, i trasporti, il settore ortofrutticolo nel litorale jonico.
REGGIO CALABRIA, 24.
Nessuna traccia utile è stata ancora trovata dai carabinieri e dalla polizia, impegnati da ieri in una vasta operazione di caccia all’uomo: i tre killer che con estrema freddezza hanno giustiziato il Cordì e il Saracino – uccidendo nella rabbiosa sparatoria un estraneo, il Siciliano – non hanno ancora un volto.
Le pendici dello Zomaro e la fascia pianeggiante, coperta da una fitta boscaglia, sono setacciati palmo a palmo da centinaia di uomini, dai mezzi dei nuclei radiomobili e investigativi, dalla polizia scientifica. Posti di blocco sono stati istituiti anche in altre zone della provincia. Vengono controllate tutte le direttrici possibili dello Zomaro, dove i feroci assassini hanno dato alle fiamme la «Giulia» bianca. Cittanova, Molochio, S. Giorgio Morgeto e, attraverso Canolo Nuovo, Siderno, sono le località raggiungibili dallo Zomaro.
Proseguono anche gli interrogatori dei numerosi testi. Alcuni di essi, presenti alla tragica sparatoria, hanno tentato una descrizione degli assassini. Uno dei banditi è alto, corpulento, tra i 25 e i 30 anni, nero di capelli, vestito con un abito grigio; un altro, piuttosto piccolo di statura, anch’egli nero di capelli, era senza giacca e aveva pantaloni scuri. II terzo assassino del quale manca ancora una descrizione, fu notato vicino alla macchina: sparò da lì, con una pistola.
Desta, intanto, meraviglia l’estrema padronanza degli assassini, la loro sicurezza riuscire a farla franca dopo avere selvaggiamente ucciso e seminato il panico fra le centinaia di persone che affollavano il mercato di Locri. Ma si resta sgomenti dinanzi all’impaccio, all’indecisione, al ritardo con cui è stato fatto scattare il dispositivo di sicurezza, in più di un’occasione vantato dai carabinieri e dalla polizia.
Locri è sede di una compagnia di carabinieri e a 4 chilometri di distanza, nella vicina Siderno, c’è il commissariato di PS. Eppure i banditi hanno avuto il tempo di dileguarsi. Nessuna macchina si è data al loro inseguimento e, tanto meno, i carabinieri di Gerace (passaggio obbligato per lo Zomaro) sono riusciti a bloccare l’auto degli assassini, sebbene la «Giulia» da Locri a Gerace, non possa avere impiegato meno di 20 minuti. C’è voluta più di un’ora prima che una pattuglia di carabinieri fosse attratta dalla colonna di fumo che si sprigionava dall’auto in fiamme nella radura nascosta fra i boschi.
La gente è impaurita, terrorizzata, teme anche che, dopo la fuga dei banditi, riprendano le grandi e indiscriminate manovre dei carabinieri, che si conclusero nel marzo scorso con la tragica sparatoria sui campi di Bova.
La personalità delle vittime è ormai ben chiara: i due appartenevano al mondo delle cosche mafiose del versante jonico. Cordì fino a pochi anni addietro, veniva indicato come il luogotenente del boss Antonio Macrì, di Siderno. Saracino era un mafioso di famiglia. II padre, Francesco, era stato spodestato dai Macrì, grazie all’appoggio del Cordì. Antonio Saracino, lo studente diciannovenne ucciso nel 1958, venne fulminato con un colpo di pistola alla fronte perché, qualche giorno prima, aveva affermato di non riconoscere l’autorità del Macrì.
Ieri mattina, prima dell’infernale sparatoria, i mafiosi dell’intera zona avevano cambiato aria. Ieri sera, si è tenuta nel palazzo di giustizia una lunga riunione tra le massime autorità inquirenti. Numerosi fascicoli degli esponenti della mala sono stati ritirati dagli archivi. Si cerca disperatamente un movente nella speranza di trovare una traccia che porti agli assassini o ai mandanti.
Tra il Cordì e il Saracino gli antichi odi erano stati messi da parte, quando a Melfi il Cordì fu assolto per insufficienza di prove dall’accusa di concorso nell’omicidio di Antonio Saracino. È però egualmente noto che negli ultimi anni, con il mutare della situazione economica, si sono create nella zona jonica nuove e più decise cosche mafiose, che hanno scoperto più facili e redditizi guadagni nell’attività industriale e nell’edilizia, che impiegano una tecnica moderna e più pericolosa nell’eliminazione dei rivali o di chi lascia gli amici per fare il furbo.
Cordì era appunto accusato di avere dimenticato chi lo aveva aiutato a diventare qualcuno. Ma la tragica fine del boss non è stata decretata soltanto per dare un esempio. Cordì vivo era un ostacolo nella locride per la determinazione degli appalti. Ogni cosca ha la propria zona di influenza nel territorio della provincia, ma l’ex luogotenente di Macrì voleva tutti gli utili della protezione nel settore dell’orto frutta, dei trasporti, degli appalti, lungo le statali.
È qui, nel contrasto di forti interessi, che è maturato il nuovo delitto per commissione. Un anno addietro toccò al parroco di Cirella. A Natale del ’65 furono uccisi, in località Petrulli, con la stessa tecnica, uno studente universitario e un brigadiere del Corpo forestale. Mandanti e autori del delitto sono ancora senza volto. Per non parlare delle ruspe, fatte saltare con potenti cariche di tritolo a Siderno, sul Novito, a Locri, in contrada Lagameso, a Bovalino e a Canolo Nuovo, nel bitumificio della ditta Gallo, nel Reggino, nel versante tirrenico dell’Aspromonte. Nella stragrande maggioranza dei casi gli autori non sono stati individuati.
II drammatico episodio di Locri, la carica criminale con cui è stato lungamente preparato il piano per l’eliminazione del Cordì e del Saracino dimostrano che in provincia di Reggio Calabria la delinquenza organizzata si sente sicura, capace di sfidare la forza pubblica, nonostante i mezzi moderni.
Da più parti s’invocano più efficaci strumenti di repressione. A noi pare, invece, che occorre battere le sfere d’influenza nei loro interessi economici, nelle loro protezioni politiche. Occorre agire in profondità per stroncare la speculazione mafiosa sulle nuove frontiere in cui si è attestata e ridare fiducia e tranquillità alle popolazioni calabresi.
Tratto dal libro “Fratelli di Sangue” la ‘ndrangheta tra arretratezza e modernità – di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso. Pag. 59
Scrive Luigi Malafarina il 22 gennaio del 1975 sulla “Gazzetta del sud”: “La carriera del boss – che è stato al soggiorno coatto di Ustica, dell’Aquila, e di Casarze Ligure; latitante per nove anni; alla colonia agricola dell’Asinara – è stata costellata, nell’arco di cinquant’anni, da tante assoluzioni. In istruttoria fu prosciolto dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio di Girolamo Commisso, fulminato il 22 agosto 1947 con una scarica di mitra; il 23 novembre 1961 fu assolto dalla Corte d’Assise di Melfi, dove il processo si celebrò oer legittima suspicione, dall’aver organizzato l’uccisione dello studente, Antonio Saracini, 20 anni, figlio di un vecchio rivale; il 2 ottobre 1970 il Tribunale di Locri lo mandò libero dalla imputazione di essere uno dei capi della mafia riunitasi a Montalto, e, infine, la corte d’Assise di Lecce lo dichiarò innocente dall’accusa di essere uno dei mandanti della strage di Locri (che costò la vita di Domenico Cordì, vecchi amico di don antonio, Vincenzo Saracini e Carmelo Siciliano, vittima innocente estranea alla contesa tra gruppi mafiosi). Tutte queste assoluzioni (don Antonio ha sostenuto sempre di essere stato estraneo a quei delitti e che la giustizia aveva cercato in lui un capro espiatorio) rafforzano il mito dell’uomo forte, del ‘mammasantissima’ intoccabile”.