24 Aprile 1998 A Cerignola (FG), Incoronata Sollazzo e Maria Incoronata Ramella, muoiono in un incidente stradale.

Maria Incoronata Ramella, di 25 anni, e Incoronata Sollazzo, di 36, tutte e due di Carapelle, viaggiavano a bordo di un furgone «Fiat Ducato», omologato per il trasporto di soli 10 persone, con altre 17 donne, sono morte nel pomeriggio del 24 aprile 1998 in un incidente nei pressi di Cerignola. L’automezzo è finito fuori strada a causa dello scoppio del pneumatico posteriore destro.
La più giovane era sposata da qualche tempo, l’altra era sposata e madre di due figli.

 

 

 

Fonte:  ricerca.gelocal.it/iltirreno
Articolo del 25 aprile 1998
In 19 a bordo, è esplosa una gomma Furgone stracarico fuori strada: due morte

FOGGIA – Tragedia della miseria e dello sfruttamento selvaggio della manodopera in Puglia. Due braccianti agricole, che viaggiavano a bordo di un furgone «Fiat Ducato» stracarico con altre 17 donne, sono morte nel pomeriggio in un incidente nei pressi di Cerignola. L’automezzo, condotto da Maria Scuotto, di 31 anni, è finito fuori strada: sia la conducente sia le altre braccianti sono rimaste ferite e sono attualmente ricoverate con prognosi fra i 10 ed i 20 giorni. Le braccianti stavano facendo ritorno a casa, nel comune di Carapelle, dopo un’intera giornata di lavoro, tutte stipate all’interno del furgone omologato per il trasporto di dieci persone. Le vittime sono Maria Incoronata Ramella, di 25 anni, e Incoronata Sollazzo, di 36, tutte e due di Carapelle. La più giovane era sposata da qualche tempo, l’altra era sposata e madre di due figli. Le donne erano salite sul furgone a Bisceglie (Bari), dove da quattro giorni avevano trovato lavoro in un’azienda conserviera. Secondo una prima ricostruzione dell’incidente resa nota dalla polizia stradale, il furgone sarebbe finito fuori strada in seguito allo scoppio del pneumatico posteriore destro. «Una maggiore vigilanza sia sulle strade che sui luoghi di lavoro affinchè il lavoro non si trasformi in tragedia come in questa circostanza» viene sollecitata dal segretario provinciale del sindacato di categoria Fisba-Cisl di Foggia, Michele Manzi. «Più volte – rileva il rappresentante sindacale – abbiamo sollecitato l’ Ispettorato del lavoro per controllare il mercato del lavoro agricolo, ma non ci sono state risposte».

 

 

 

Fonte: espresso.repubblica.it
Pubblicato: 1 settembre 2006
Io schiavo in Puglia
di Fabrizio Gatti
Sfruttati. Sottopagati. Alloggiati in luridi tuguri. Massacrati di botte se protestano. Diario di una settimana nell’inferno. Tra i braccianti stranieri nella provincia di Foggia

Il padrone ha la camicia bianca, i pantaloni neri e le scarpe impolverate. È pugliese, ma parla pochissimo italiano. Per farsi capire chiede aiuto al suo guardaspalle, un maghrebino che gli garantisce l’ordine e la sicurezza nei campi. “Senti un po’ cosa vuole questo: se cerca lavoro, digli che oggi siamo a posto”, lo avverte in dialetto e se ne va su un fuoristrada. Il maghrebino parla un ottimo italiano. Non ha gradi sulla maglietta sudata. Ma si sente subito che lui qui è il caporale: “Sei rumeno?”. Un mezzo sorriso lo convince. “Ti posso prendere, ma domani”, promette, “ce l’hai un’amica?”. “Un’amica?”. “Mi devi portare una tua amica. Per il padrone. Se gliela porti, lui ti fa lavorare subito. Basta una ragazza qualunque”. Il caporale indica una ventenne e il suo compagno, indaffarati alla cremagliera di un grosso trattore per la raccolta meccanizzata dei pomodori: “Quei due sono rumeni come te. Lei col padrone c’è stata”. “Ma io sono solo”. “Allora niente lavoro”.

Non c’è limite alla vergogna nel triangolo degli schiavi. Il caporale vuole una ragazza da far violentare dal padrone. Questo è il prezzo della manodopera nel cuore della Puglia. Un triangolo senza legge che copre quasi tutta la provincia di Foggia. Da Cerignola a Candela e su, più a Nord, fin oltre San Severo. Nella regione progressista di Nichi Vendola. A mezz’ora dalle spiagge del Gargano. Nella terra di Giuseppe Di Vittorio, eroe delle lotte sindacali e storico segretario della Cgil. Lungo la via che porta i pellegrini al megasantuario di San Giovanni Rotondo. Una settimana da infiltrato tra gli schiavi è un viaggio al di là di ogni disumana previsione. Ma non ci sono alternative per guardare da vicino l’orrore che gli immigrati devono sopportare.

Sono almeno cinquemila. Forse settemila. Nessuno ha mai fatto un censimento preciso. Tutti stranieri. Tutti sfruttati in nero. Rumeni con e senza permesso di soggiorno. Bulgari. Polacchi. E africani. Da Nigeria, Niger, Mali, Burkina Faso, Uganda, Senegal, Sudan, Eritrea. Alcuni sono sbarcati da pochi giorni. Sono partiti dalla Libia e sono venuti qui perché sapevano che qui d’estate si trova lavoro. Inutile pattugliare le coste, se poi gli imprenditori se ne infischiano delle norme. Ma da queste parti se ne infischiano anche della Costituzione: articoli uno, due e tre. E della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Per proteggere i loro affari, agricoltori e proprietari terrieri hanno coltivato una rete di caporali spietati: italiani, arabi, europei dell’Est. Alloggiano i loro braccianti in tuguri pericolanti, dove nemmeno i cani randagi vanno più a dormire. Senza acqua, né luce, né igiene. Li fanno lavorare dalle sei del mattino alle dieci di sera. E li pagano, quando pagano, quindici, venti euro al giorno. Chi protesta viene zittito a colpi di spranga. Qualcuno si è rivolto alla questura di Foggia. E ha scoperto la legge voluta da Umberto Bossi e Gianfranco Fini: è stato arrestato o espulso perché non in regola con i permessi di lavoro. Altri sono scappati. I caporali li hanno cercati tutta notte. Come nella caccia all’uomo raccontata da Alan Parker nel film ‘Mississippi burning’. Qualcuno alla fine è stato raggiunto. Qualcun altro l’hanno ucciso.

Adesso è la stagione dell’oro rosso: la raccolta dei pomodori. La provincia di Foggia è il serbatoio di quasi tutte le industrie della trasformazione di Salerno, Napoli e Caserta. I perini cresciuti qui diventano pelati in scatola. Diventano passata. E, i meno maturi, pomodori da insalata. Partono dal triangolo degli schiavi e finiscono nei piatti di tutta Italia e di mezza Europa. Poi ci sono i pomodori a grappolo per la pizza. Gli altri ortaggi, come melanzane e peperoni. Tra poco la vendemmia. Gli imprenditori fanno finta di non sapere. E a fine raccolto si mettono in coda per incassare le sovvenzioni da Bruxelles. ‘L’espresso’ ha controllato decine di campi. Non ce n’è uno in regola con la manodopera stagionale. Ma questa non è soltanto concorrenza sleale all’Unione europea. Dentro questi orizzonti di ulivi e campagne vengono tollerati i peggiori crimini contro i diritti umani.

Non ci vuole molto per entrare nel mercato più sporco dell’Europa agricola. Qualche nome inventato da usare di volta in volta. Una fotocopia del decreto di respingimento rilasciato un anno fa a Lampedusa dal centro di detenzione per immigrati. E la bicicletta, per scappare il più lontano possibile in caso di pericolo. Il caporale che pretende una ragazza in sacrificio controlla la raccolta dei perini a Stornara. Uno dei primi campi a sinistra appena fuori paese, lungo il rettilineo di afa che porta a Stornarella. Meglio lasciar perdere. Per arrivare fin qui bisogna pedalare sulla statale 16 e poi infilarsi per dieci chilometri negli uliveti. Il borgo è una piccola isola di case nell’agro. Alla stazione di Foggia, Mahmoud, 35 anni, della Costa d’Avorio, aveva detto che quaggiù la raccolta, forse, è già cominciata. Lui, che dorme in una buca dalle parti di Lucera, è senza lavoro: lì a Nord i pomodori devono ancora maturare. Così Mahmoud campa vendendo informazioni agli ultimi arrivati in treno. In cambio di qualche moneta.

Oggi dev’essere la giornata più torrida dell’estate. Quarantadue gradi, annunciavano i titoli all’edicola della stazione. Sperduta nei campi appare nell’aria bollente una stalla abbandonata. È abitata. Sono africani. Stanno riposando su un vecchio divano sotto un albero. Qualcuno parla tamashek, sono tuareg. Un saluto nella loro lingua aiuta con le presentazioni. La segregazione razziale è rigorosa in provincia di Foggia. I rumeni dormono con i rumeni. I bulgari con i bulgari. Gli africani con gli africani. È così anche nel reclutamento. I caporali non tollerano eccezioni. Un bianco non ha scelta se vuole vedere come sono trattati i neri. Bisogna prendere un nome in prestito. Donald Woods, sudafricano. Come il leggendario giornalista che ha denunciato al mondo gli orrori dell’apartheid. “Se sei sudafricano resta pure”, dice Asserid, 28 anni. È partito da Tahoua in Niger nel settembre 2005. È sbarcato a Lampedusa nel giugno 2006. Racconta che è in Puglia da cinque giorni. Dopo essere stato rinchiuso quaranta giorni nel centro di detenzione di Caltanissetta e alla fine rilasciato con un decreto di respingimento. Asserid ha attraversato il Sahara a piedi e su vecchi fuoristrada. Fino ad Al Zuwara, la città libica dei trafficanti e delle barche che salpano verso l’Italia. “In Libia tutti gli immigrati sanno che gli italiani reclutano stranieri per la raccolta dei pomodori. Ecco perché sono qui. Questa è solo una tappa. Non avevo alternative”, ammette Asserid: “Ma spero di risparmiare presto qualche soldo e di arrivare a Parigi”. Adama, 40 anni, tuareg nigerino di Agadez, ha fatto il percorso inverso. A Parigi è atterrato in aereo, con un visto da turista. Poi gli è andata male. Dalla Francia l’hanno espulso come lavoratore clandestino. Ed è sceso in Puglia, richiamato dalla stagione dell’oro rosso. “Questo è l’accampamento tuareg più a Nord della storia”, ride Adama. Ma c’è poco da ridere. L’acqua che tirano su dal pozzo con taniche riciclate non la possono bere. È inquinata da liquami e diserbanti. Il gabinetto è uno sciame di mosche sopra una buca. Per dormire in due su materassi luridi buttati a terra, devono pagare al caporale cinquanta euro al mese a testa. Ed è già una tariffa scontata. Perché in altri tuguri i caporali trattengono dalla paga fino a cinque euro a notte. Da aggiungere a cinquanta centesimi o un euro per ogni ora lavorata. Più i cinque euro al giorno per il trasporto nei campi. Lo si vede subito quanto è facile il guadagno per il caporale. Alle due e mezzo del pomeriggio arriva con la sua Golf. E la carica all’inverosimile. “Davvero questo è africano?”, chiede agli altri davanti all’unico bianco. Nessuno sa dare risposte sicure. “Io pago tre euro l’ora. Ti vanno bene? Se è così, sali”, offre l’uomo, calzoncini, canottiera e sul bicipite il tatuaggio di una donna in bikini ritratta di schiena.

Si parte. In nove sulla Golf. Tre davanti. Cinque sul sedile dietro. E un ragazzo raggomitolato come un peluche sul pianale posteriore. Solo per questo trasporto di dieci minuti il caporale incasserà quaranta euro. I ragazzi lo chiamano Giovanni. Loro hanno già lavorato dalle 6 alle 12.30. La pausa di due ore non è una cortesia. Oggi faceva troppo caldo anche per i padroni perché rinunciassero a una siesta. Giovanni si presenta subito dopo, guardando attraverso lo specchietto retrovisore: “Io John e tu?”. Poi avverte: “John è bravo se tu bravo. Ma se tu cattivo…”. Non capisce l’inglese né il francese. E questo basta a far cadere il discorso. Ma il pugnale da sub che tiene bene in vista sul cruscotto parla per lui. Amadou, 29 anni, nigerino di Filingue, rivela lo stato d’animo dei ragazzi: “Giovanni, oggi è venerdì e non ci paghi da tre settimane. Ormai stiamo finendo le scorte di pasta. Da quindici giorni mangiamo solo pasta e pomodoro. I ragazzi sono sfiniti. Hanno bisogno di carne per lavorare”. I tre euro l’ora promessi erano solo una bugia. Ma Giovanni promette ancora. Quando risponde dice sempre: “Noi turchi”. Anche se la targa della macchina è bulgara. E per il suo accento potrebbe essere russo oppure ucraino. “Ti giuro su Dio”, continua il caporale, “oggi arrivano i soldi e vi paghiamo. Tu mi devi credere. Io lavoro come te a Stornara. Non prendo in giro i miei colleghi”. Giovanni abita alla periferia. Un villino di mattoni sulla destra, a metà del rettilineo per Stornarella. Quasi di fronte a un’altra stalla pericolante senz’acqua, riempita di materassi e schiavi.

La Golf stracarica corre e sbanda sulla stretta provinciale per Lavello. Il contachilometri segna 100 all’ora. Una follia. Alle prime aziende agricole del paese, Giovanni svolta a destra dentro una strada sterrata. Altri due chilometri e si è arrivati. Si prosegue a piedi, in fila indiana. Il campo è tra due vigneti. Questi pomodori vanno raccolti a mano. Quando il padrone vede arrivare il gruppo di africani, imita il verso delle scimmie. Poi dà gli ordini con gli insulti resi celebri dal vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli: “Forza bingo bongo”. Nello stesso istante un furgone scarica nove rumeni. Tra loro tre ragazze, le uniche nella squadra. Si lavora a testa bassa. Guai ad alzare lo sguardo: “Che cazzo c’è da guardare? Giù e raccogli”, urla il padrone avvicinandosi pericolosamente. Si chiama Leonardo, una trentina d’anni. È pugliese. Indossa bermuda, canottiera e occhiali da sole alla moda come se fosse appena rientrato dalla spiaggia. Da come parla è il proprietario dell’azienda agricola. O forse è il figlio del proprietario. Si occupa della manodopera. Una sorta di comandante dei caporali. La sua azienda è a una decina di chilometri, alle porte di Stornara. Proprio sulla strada che Giovanni percorre per portare gli schiavi al campo. Leonardo si fa aiutare da un altro italiano, il caporale dei rumeni. Uno con la maglietta bianca, i capelli lunghi e i baffetti curati. Il terzo italiano è probabilmente il compratore del raccolto. Magro. Capelli biondi corti. Telefonino appeso al petto in fondo a una catena d’oro. Parla con un forte accento napoletano. Parcheggia il suo Suv e si fa subito sentire. Qualcuno ha appoggiato per sbaglio le cassette piene sulle piante di pomodoro. E lui grida come un pazzo: “Il primo che rimette una cassetta sulle piante, com’è vero Gesù Cristo, gliela spacco sulla testa”. I tre italiani sudano. Ma solo per il caldo. Oltre a sorvegliare i loro schiavi, non fanno assolutamente nulla.

Giovanni va a recapitare altri braccianti. Poi torna due volte con i rifornimenti d’acqua. Quattro bottiglie di plastica da un litro e mezzo da far bastare nelle gole di 17 persone assetate. Sono bottiglie riempite chissà dove. Una zampilla da un buco e arriva quasi vuota. L’acqua ha un cattivo odore. Ma almeno è fresca. Comunque non basta. Due sorsi d’acqua in oltre quattro ore di lavoro a quaranta gradi sotto il sole non dissetano. La maggior parte dei ragazzi africani non ha nemmeno pranzato né fatto colazione. Così ci si arrangia mangiando pomodori verdi di nascosto dai caporali. Anche se sono pieni di pesticidi e veleni. E forse è proprio per questo che sulla pelle, per giorni, non comparirà più nemmeno una puntura di zanzara.

Leonardo vuole sapere com’è che in Africa ci siano i bianchi. Gira tra le schiene curve come un professore tra i banchi. E dà il permesso a Mohamed, 28 anni, un ragazzo della Guinea. Per smettere di lavorare o parlare, qui bisogna sempre chiedere il permesso. Mohamed sa bene perché ci sono i bianchi in Sudafrica. È laureato in scienze politiche e relazioni internazionali all’Università di Algeri. Parla italiano, inglese, francese e arabo. E risponde rimanendo in ginocchio, davanti a quell’italiano che confessa senza pudore di non aver mai sentito parlare di Nelson Mandela. “Avete capito?”, ripete dopo un po’ Leonardo agli altri due italiani: “In Italia quelli chiari stanno al Nord mentre noi al Sud siamo scuri. In Africa invece al Sud sono bianchi e questi qua del Nord sono neri”.

L’incidente accade all’improvviso. Michele è il più anziano tra i rumeni. Ha una sessantina d’anni, i capelli grigi. Sta caricando cassette piene sul rimorchio del trattore. Il legno è troppo sottile, è secco. E una cassetta si sfonda rovesciando dodici chili di pomodori. Michele non fa in tempo ad abbassarsi a raccoglierli. Leonardo, con la mano chiusa a pugno, lo colpisce. Una sventola sulla testa. “Stai attento, coglione”, urla, “credi che noi stiamo ad aspettare mentre tu butti le cassette?”. Michele forse chiede scusa. È troppo stanco e offeso per parlare ad alta voce. “Scusa un cazzo”, continua Leonardo, “devi stare più attento”. Ci fermiamo tutti a guardare. Una ragazza si alza in piedi per protesta. Quello con l’accento napoletano accorre come una furia: “Giù, non è successo niente. Giù o stasera non si va a casa finché non si finisce”. Come se questi ragazzi avessero una casa.

Michele ritorna a caricare il rimorchio aiutato da altri rumeni. Ma dopo mezz’ora è ancora seduto a terra. Si tiene la testa. Perde molto sangue dal naso. Un suo compagno di lavoro spreme un pomodoro maturo per bagnarli la fronte. Cosa ha fatto lo spiega a Leonardo l’uomo con i baffetti curati: “Ho dovuto spaccargli una pietra in mezzo agli occhi. Ho dovuto. Quello stronzo se l’è presa con me perché tu prima l’hai picchiato. E poi perché stasera non ci sono i soldi per pagarli. Ma che c’entro io? Lui ha raccolto una pietra e io gliel’ho tolta dalle mani. Tu pensa se un rumeno di merda mi deve minacciare”. Leonardo sorride.

Si smette solo quando il sole va a nascondersi dietro i monti Dauni. Michele sta meglio. I rumeni si raccolgono intorno al loro caporale. Giovanni scatta una foto ai suoi ragazzi. Serve per i pagamenti e per scoprire se qualcuno scappa dal gruppo. Poi fa firmare il registro con le ore lavorate. Oggi si finisce prima del solito. Il perché lo racconta il caporale ad Amadou, in macchina durante il ritorno: “Ci sono in giro i carabinieri”. Giovanni segnala un campo di pomodori lungo la strada: “Vedi qua? Questo pomeriggio i carabinieri sono venuti a prendere dei miei ragazzi. Io lavoro anche qui. Africani come te e rumeni. Li hanno portati via per il rimpatrio. Ma non avere paura, il campo dove lavorate voi”, dice indicandosi le spalle come se avesse i gradi, “è controllato dalla mafia”. Succede spesso quando è giorno di paga. A volte sono gli stessi padroni a chiamare vigili, polizia o carabinieri e a segnalare gli immigrati nelle campagne. Basta una telefonata anonima. Così i caporali si tengono i loro soldi. E la prefettura aggiorna le statistiche con le nuove espulsioni.

Amadou però fa notare che nemmeno oggi i ragazzi verranno pagati: “Tu sei musulmano?”, chiede Giovanni: “Sì? Allora io ti giuro su Allah che la prossima settimana vi pago tutti. E se avete bisogno di carne, ti giuro che vi invito tutti a casa mia. Ovviamente la prossima settimana. Quando potrete pagare la carne”.

Il 14 maggio 1904 qua vicino la polizia attaccò una manifestazione di braccianti. C’era anche il giovane Giuseppe Di Vittorio. Morirono in quattro quel giorno. Tra le vittime Antonio Morra, 14 anni, amico d’infanzia del futuro leader sindacale. Adesso le proteste vengono spente prima che possano dilagare. I caporali agiscono come una polizia parallela. Gli imprenditori si rivolgono a loro se ci sono problemi. A cominciare dall’imposizione delle regole: “Domani mattina vengo a prendervi alle cinque”, annuncia Giovanni dopo aver scaricato i suoi passeggeri. Sono quasi le dieci di sera ormai. Calcolando una doccia improvvisata con l’acqua del pozzo e la misera cena, restano appena cinque ore di sonno. I ragazzi africani spiegano subito le sanzioni. Chi si presenta tardi, una volta al campo viene punito a pugni. Chi non va a lavorare deve versare al caporale la multa. Anche se si ammala. Sono venti euro, praticamente un giorno di lavoro gratis.

Una cinquantina di chilometri più a nord, stesse storie. La carta stradale indica Villaggio Amendola. Era un borgo agricolo. Ora è solo un paese fantasma riempito da immigrati rumeni e bulgari ridotti in schiavitù. Come l’ex zuccherificio di Rignano o il Ghetto che la sera, al suono della township music, sembra Soweto. Al Villaggio Amendola perfino la chiesa abbandonata è stata riempita di materassi. Qui il cento per cento degli abitanti non è italiano. Tutti raccoglitori. E tutti stranieri. Tranne una. Giuseppina Lombardo, 51 anni. Viene dalla Calabria. Per gli agricoltori del posto è una santa donna. Lei e il suo amico tunisino che si fa chiamare Asis sono capaci di mettere insieme una squadra di raccoglitori di pomodori in meno di mezz’ora. Giuseppina e Asis con gli schiavi ci campano. L’unico pozzo di Villaggio Amendola è loro. L’acqua è inquinata ma la vendono ugualmente: cinquanta centesimi una tanica da 20 litri. Anche l’unico negozio del borgo è loro. Hanno bottiglie di minerale, se uno proprio non vuole perdere la giornata per la dissenteria. E hanno carne e pollame: “A prezzi maggiorati del cento per cento e di dubbia qualità”, dicono gli abitanti. Non è facile infiltrarsi come immigrato in questo ghetto e vincere la paura dei suoi prigionieri. Perché Asis, come tutti i caporali, non perdona chi parla. Lui e la sua compagna qui sono l’unica legge. Chi c’era si ricorda bene cosa è successo la settimana di Pasqua del 2005. Quel pomeriggio un ragazzo rumeno, 22 anni, arrivato da appena quattro giorni, torna al Villaggio Amendola con i sacchetti della spesa. È stato a Foggia e cammina davanti al negozio del caporale con quello che si è procurato. Una bottiglia d’olio, un po’ di pasta. Il testimone che parla con ‘L’espresso’ è convinto che Asis abbia considerato quel gesto una ribellione al suo controllo. I rumeni raccontano di aver visto poco dopo due uomini affrontare il nuovo arrivato. Uno, secondo i testimoni, è parente di Asis. Con una spranga lo centrano in mezzo alla testa. Un colpo solo. Poi trascinano il corpo sanguinante e semisvenuto su un furgone. Nessuno al villaggio rivedrà più quel ragazzo.

Lo stesso accade il 20 luglio di quest’anno. Il giorno prima Pavel, 39 anni, ha una discussione con Giuseppina Lombardo. Gli sono caduti quindici euro nel negozio e lei crede che glieli abbia rubati dalla cassa. Pavel in Romania faceva il cuoco per 150 euro al mese. Dal 20 marzo 2004, quando è arrivato in Puglia, sopporta violenze e angherie. Lo fa per mandare quanto risparmia alla moglie e alla sua “fata”, la figlia studentessa, che ha 15 anni. Pavel ha braccia veloci. L’anno scorso è riuscito a riempire fino a 15 cassoni al giorno: 45 quintali di pomodori, lavorando dall’alba a notte. Con il cottimo a 3 euro a cassone, era una buona paga secondo lui: tolti il trasporto al campo e la tangente per il caporale, Pavel riusciva a guadagnare anche 25 o 30 euro al giorno. Ma il 20 luglio Asis gli impedisce di ripetere il record. Qualcuno gli ha riferito che Pavel ha protestato per la faccenda dei soldi e per lo sfruttamento dei braccianti. Il tunisino lo colpisce nel sonno, in una giornata senza lavoro, alle due del pomeriggio. Pavel si protegge la testa con le braccia. La sbarra di ferro gli rompe le ossa e apre profonde ferite nella carne.

Lui è sicuro di non essere stato ucciso soltanto per l’intervento dei suoi compagni di stanza. Ma lo lasciano lì a sanguinare sul materasso fino all’una di notte. Gli altri stranieri hanno troppa paura di Asis. Anche di chiamare la polizia e correre il rischio di essere rimpatriati. Alle otto di sera qualcuno finalmente telefona di nascosto all’ospedale. L’ambulanza e una pattuglia dei carabinieri, al Villaggio Amendola, arrivano soltanto cinque ore dopo. Così è andata, secondo la denuncia.

Il 31 luglio Pavel viene dimesso dall’ospedale di Foggia. È stato operato da appena quattro giorni. Ha quasi due mesi di prognosi. Ferri e chiodi nelle ossa. Le braccia ingessate. Medici e infermieri lo consegnano alla polizia, violando il codice deontologico. E in questura lo trattano da clandestino. Anche se dal primo gennaio 2007 tutti i rumeni potrebbero essere cittadini dell’Unione europea. Con le braccia immobilizzate, Pavel non riesce a impugnare la penna. Il ‘Primo dirigente dottoressa Piera Romagnosi’, siglando la notifica del decreto di espulsione, scrive che lui ‘si rifiuta di firmare’. Anche la prefettura di Foggia va per le spicce: nel decreto di espulsione annota che Pavel è ‘sprovvisto di passaporto’. Un’aggravante. Eppure Pavel il passaporto ce l’ha. Alla fine, non trovando alternative, un ispettore gli dona dieci euro. E una macchina della questura lo riporta al Villaggio Amendola. Lo scaricano davanti al negozio di Giuseppina e Asis. Il tunisino se ne occupa subito. Vuole dimostrare a tutti chi comanda. Minaccia Pavel e lui va a rifugiarsi in un casolare a un chilometro dal villaggio. Qualche connazionale gli porta in segreto un po’ di pane e da bere. Dopo nove giorni di dolori e sofferenze un amico rumeno riesce a contattare un avvocato di Foggia, Nicola D’Altilia, ex poliziotto al Nord. L’avvocato trova il casolare. Incontra Pavel e lo riporta immediatamente in ospedale. Le ferite sono infette. Il bracciante rumeno è grave. Denutrito. Viene ricoverato per setticemia. Il resto è cronaca degli ultimi giorni. Il 21 agosto Pavel è di nuovo dimesso dall’ospedale. Va in questura a completare la denuncia contro il caporale tunisino e la sua complice italiana, che era riuscito a presentare al posto di polizia del pronto soccorso soltanto il 14 agosto. Lo accompagna l’avvocato che l’ha salvato. Ma dopo una giornata in questura, la Procura fa arrestare Pavel come immigrato clandestino: non ha rispettato il decreto di espulsione che, così è scritto, lo obbligava a lasciare l’Italia dall’aeroporto di Roma Fiumicino. Non importa se in quelle condizioni comunque non avrebbe potuto viaggiare. Lo costringono a dormire su una panca di legno nelle camere di sicurezza. Nonostante le operazioni, le ossa rotte e le ferite ancora fresche.

Il giorno dopo si apre il processo, immediatamente rinviato a ottobre. Oltre ad aver perso il lavoro, grazie alla legge Bossi-Fini Pavel rischia da uno a quattro anni di prigione. Più di quanto potrebbe prendersi il suo caporale che intanto resta libero. “Quell’uomo”, racconta Pavel terrorizzato, “mirava alla testa. Voleva uccidermi”.

Qualche bracciante morto da queste parti l’hanno già trovato. Slavomit R., polacco, aveva 44 anni quando è stato bruciato il 2 luglio 2005 in un campo a Stornara. Un caso irrisolto. Come quello di due cadaveri mai identificati abbandonati a Foggia. Le scomparse sono un altro capitolo dell’orrore. Nessuno sa quanti siano i lavoratori rumeni, bulgari o africani spariti. I caporali, quando li ingaggiano o li massacrano di botte, non sanno nemmeno come si chiamano. Gli unici casi sono stati scoperti grazie alle denunce dell’ambasciata di Polonia. Hanno dovuto insistere i diplomatici di Varsavia. È dal 2005 che cercano notizie di tredici connazionali. Erano venuti a lavorare come stagionali nel triangolo degli schiavi. E non sono più tornati a casa. L’elenco compilato in agosto dal consolato sulle ricerche delle persone scomparse non rende onore all’Italia. Su dodici “richieste indirizzate alla questura di Foggia”, l’ambasciata ha dovuto prendere atto che per nove casi non c’è stata “nessuna risposta da parte della questura”. Dopo mesi di inutile attesa l’appello è stato girato al Comando generale dei carabinieri. E, attraverso gli investigatori del Ros, la Procura antimafia di Bari ha finalmente aperto un’inchiesta.

Nessuno sta invece indagando sulla morte di un bambino. Perché quello che è successo apparentemente non è reato. Il piccolo sarebbe nato a fine settembre. Liliana D., 20 anni, quasi all’ottavo mese di gravidanza, la settimana di Ferragosto arranca con il suo pancione tra piante di pomodoro. La fanno lavorare in un campo vicino a San Severo. Né il marito, né il caporale, né il padrone italiano pensano a proteggerla dal sole e dalla fatica. Quando Liliana sta male, è troppo tardi. Ha un’emorragia. Resta due giorni senza cure nel rudere in cui abita. Gli schiavi della provincia di Foggia non hanno il medico di famiglia. Sabato 18 agosto, di pomeriggio, il marito la porta all’ospedale a San Severo. La ragazza rischia di morire. Viene ricoverata in rianimazione. Il bimbo lo fanno nascere con il taglio cesareo. Ma i medici già hanno sentito che il suo cuore non batte più. Anche lui vittima collaterale. Di questa corsa disumana che premia chi più taglia i costi di produzione.

L’industria alimentare campana paga i pomodori pugliesi da 4 a 5 centesimi al chilo. Sulle bancarelle lungo le strade di Foggia i perini salgono già a 60 centesimi al chilo. A Milano 1,20 euro quelli maturi da salsa e 2,80 euro al chilo quelli ancora dorati. Al supermercato la passata prodotta in Campania costa da 86 centesimi a 1,91 euro al chilo. I pelati da 1,04 a 3 euro al chilo. Eppure, nel ghetto di Stornara, nemmeno stasera che il mese è quasi finito ci sono i soldi per comprare un pezzo di carne. “Donald, non te ne andare”, si fa avanti Amadou, “Giovanni è molto arrabbiato con te perché hai lasciato il gruppo. Ti sta cercando, vado a dirgli che sei qui”. Nel fondo di questa miseria, Amadou sa già con chi stare. Tra tanti uomini costretti a inginocchiarsi, lui ha scelto i caporali. È il momento di prendere la bici e scappare. Nel buio. Prima che Giovanni decida di chiamare i suoi sgherri. E di dare il via alla caccia nei campi.

Schede

I medici accusano: arrivano sani e si ammalano qui
Vivono in condizioni disumane. Proprio in questi giorni decine di abitanti del Ghetto, tra Foggia e Rignano, si sono ammalati di gastroenterite per le pessime condizioni dell’acqua. Ma anche quest’anno, l’Asl Foggia 3 ha rifiutato di mettere a disposizione strutture e ricettari per assistere gli stranieri sfruttati come schiavi nei campi. La denuncia è dell’associazione francese Medici senza frontiere che invece ha ottenuto la collaborazione dell’Asl Foggia 2 per l’assistenza sanitaria e umanitaria nel Sud della provincia. Da tre anni un ambulatorio mobile di Msf visita le campagne tra Cerignola e San Severo. Come se la provincia di Foggia fosse un fronte di guerra. Ci sono un medico, un’assistente sociale e un coordinatore: quest’anno Viviana Prussiani, Carla Manduca e Teo Di Piazza. “Per il terzo anno consecutivo siamo stati costretti a continuare questo progetto”, spiega Andrea Accardi, responsabile delle missioni italiane di Msf: “E ancora una volta nell’estate 2006 ci troviamo di fronte alla stessa situazione: gli stranieri arrivano sani e si ammalano a causa delle indecenti condizioni che trovano nelle campagne. Manca qualsiasi forma di accoglienza. Il sistema economico è totalmente ipocrita e vede la connivenza e il coinvolgimento di tutti gli attori. A partire dal governo e dalle istituzioni locali, ovvero Comuni e prefetture, fino ad arrivare alle Asl, alle organizzazioni di produttori e ai sindacati”.

Nel 2005 Msf ha pubblicato il rapporto ‘I frutti dell’ipocrisia’ sulle drammatiche condizioni degli immigrati sfruttati come schiavi non solo in Puglia. Perché, secondo il tipo di raccolto, situazioni simili si ripetono in Calabria, Campania, Basilicata e Sicilia. Le malattie più gravi sono state diagnosticate negli stranieri che vivono in Italia da più tempo, tra 18 e 24 mesi. Il 40 per cento dei lavoratori nell’agricoltura vive in edifici abbandonati. Oltre il 50 non dispone di acqua corrente. Il 30 non ha elettricità. Il 43,2 per cento non ha servizi igienici. Il 30 ha subito qualche forma di abuso, violenza o maltrattamento negli ultimi sei mesi. E nell’82,5 per cento dei casi l’aggressore era un italiano.

Padroni senza legge
Dietro il triangolo degli schiavi ci sono gli imprenditori dell’agricoltura foggiana e molte industrie alimentari. Piccole o grandi aziende non fanno differenza. Quando devono assumere personale stagionale per la raccolta nei campi, quasi tutte scelgono la scorciatoia del caporalato. Il compenso per gli stranieri varia da 2,50 a 3 euro l’ora (ai quali però vanno tolti tutti i ‘servizi’ per il caporale). Anche per questo gli italiani sono scomparsi da questo tipo di lavoro. Solo una piccola minoranza degli agricoltori interpellati da ‘L’espresso’ dice di pagare i braccianti da 4 a 4,50 euro l’ora. Ma sempre in nero e rivolgendosi a caporali. In Veneto e in Friuli un raccoglitore guadagna in media 5,80 euro l’ora più i contributi, se in regola. Oppure da 6,20 a 7 euro l’ora se ingaggiato in nero.

La legge prevede una retribuzione ordinaria di 35 euro al giorno. Per favorire le assunzioni regolari, il governo ha abbassato i contributi che gli imprenditori devono versare di circa il 75 per cento. Mentre il contributo dell’8,54% che il bracciante deve dare all’Inps è rimasto inalterato. I controlli sono inefficaci o inesistenti. Nell’ultimo anno in provincia di Foggia soltanto un imprenditore, a Orta Nova, è stato arrestato per sfruttamento dell’immigrazione clandestina.

 

 

 

Fonte: cgilfoggia.it
Pubblicato il 17 luglio 2007
Caporalato e sfruttamento del lavoro in Puglia, un anno dopo: poco o nulla è cambiato
L´intervento di Gino Rotella, responsabile del Dipartimento Mercato del Lavoro della FLAI nazionale, tratto dalle pagine del settimanale “Rassegna Sindacale”

“Non c´è limite alla vergogna nel triangolo degli schiavi”. Una frase secca e chiara. Certamente efficace per iniziare il racconto di ciò che Fabrizio Gatti aveva visto e descritto un anno fa nell´inchiesta dell´Espresso, per mettere in luce il fenomeno del caporalato nelle campagne della Puglia. Il caporale vuole una ragazza da far violentare dal padrone: è il prezzo della manodopera nel triangolo senza legge che copre quasi tutta la provincia di Foggia. Da Cerignola a Candela e su, più a Nord, fin oltre San Severo. Sono almeno 5.000, calcolava Gatti. Forse 7.000. Nessuno ha mai fatto un censimento preciso. Tutti stranieri. Tutti sfruttati in nero. Costretti a lavorare 9 ore al giorno, per 3 euro l´ora, sotto il caldo torrido di Capitanata. Rumeni con e senza permesso di soggiorno. Bulgari. Polacchi. E africani. Da Nigeria, Niger, Mali, Senegal, Eritrea. Tutti alla ricerca di un lavoro, e il lavoro non manca. In nero, ovviamente.

L´indignazione fu totale. Commentatori e politici, amministratori e giornalisti, in tanti giurarono: mai più. Mai più schiavi nella terra di Giuseppe Di Vittorio. Nella regione governata dalla sinistra. La vicenda sembrò scuotere le coscienze, a tal punto che il ministro dell´Interno, con l´apertura di un´indagine sulle condizioni degli immigrati impiegati nei lavori agricoli in provincia di Foggia, affidò a un disegno di legge la modifica dell´articolo 18 del Testo unico sull´immigrazione, attraverso la concessione del permesso di soggiorno ai cittadini irregolari sul territorio che avessero denunciato “inaccettabili forme di sfruttamento”.

Poi, si sa, il tempo passa e rende lieve ogni cosa, la routine riprende il suo naturale corso. In fondo, si fa presto a dimenticare. Per questo vale la pena, dopo un anno, valutare cosa è stato dimenticato e chi di quella forte indignazione ha perso traccia. I primi a dimenticare sono gli stessi imprenditori, piccoli e grandi, che, come prima e forse più di prima, quando devono assumere personale stagionale scelgono i servizi del caporale. E il compenso al lordo è sempre uguale: tra 2 a 3 euro l´ora (ai quali va detratto il costo del caporale stesso). La memoria scarseggia anche tra le stesse associazioni imprenditoriali, che continuano a sostenere l´alto costo del lavoro, eccesso di burocrazia e altre amenità se non per giustificare ciò che accade, per alleviarne la responsabilità. Fino alla proposta finale d´abolire completamente le tutele contrattuali e normative degli operai agricoli, introducendo un incerto sistema di ticket per assumere e retribuire i lavoratori stagionali in agricoltura (vedi Rassegna, n. 22 del 2007).

Un anno è passato, dunque, dalla denuncia dell´Espresso. Subito dopo l´inchiesta di Gatti e le (preesistenti) pressioni sindacali, il governo aveva presentato il già citato ddl con gli “Interventi per contrastare lo sfruttamento di lavoratori irregolarmente presenti sul territorio nazionale”. Nel dibattito parlamentare, non pochi furono i deputati contrari. Distinti in due aree. Alcuni, dalla memoria molto labile, avevano semplicemente ribaltato le posizioni a tal punto da ritenere che gli strumenti proposti fossero “del tutto impropri e controproducenti, poiché le disposizioni in esame possono essere strumentalizzate per aggirare la vigente disciplina sull´immigrazione”. Altri, dalla memoria più efficiente, preferivano “volare alto”, talmente in alto da perdere di vista la realtà: “Queste cose accadono tutti i giorni in tutto il mondo. Il problema non è questo o quel governo, il problema è alla base del sistema capitalistico”.

Alla fine la memoria scema definitivamente e la catarsi collettiva si materializza al Senato, che approva alcuni giorni fa il disegno di legge, dopo aver perso per strada parti fondamentali della norma proposta: dall´elenco dettagliato delle situazioni in cui si configura il “grave sfruttamento del lavoro” alla parte essenziale della proposta governativa, quella che prevede la tutela dell´immigrato che intenda denunciare il datore di lavoro. Così, ancora una volta, gli immigrati non regolari continueranno a “consegnarsi” alle maglie dei caporali e degli sfruttatori anziché affrancarsene, rivolgendosi alle autorità competenti, o richiedendo tutela sindacale. Un´altra occasione persa. Intanto, nel “triangolo senza legge” della Puglia, come altrove, continuano a proliferare caporali senza scrupoli che offrono la loro mercanzia. Braccia da sfruttare, offerte a buon mercato a imprenditori piccoli e grandi. In attesa della prossima inchiesta giornalistica utile per una nuova indignazione collettiva.

 

 

Fonte: stampacritica.org
Articolo del 30 aprile 2016
Morire di lavoro: Incoronata Sollazzo e Maria Incoronata Ramella
di Giusy Patera

“C’è il sole oggi a Cerignola. Un sole tiepido, che in una giornata qualsiasi di una vita normale, riscalderebbe il viso durante una passeggiata. Oggi questo sole mi brucerà la pelle, a mezzogiorno. Ma è la condizione migliore per lavorare. Perché di lavorare non posso farne a meno, e sperare che almeno il tempo sia dalla mia parte è il solo modo per sopportare tante altre cose che accetto in silenzio. Siamo tante, qui. Ci sono donne più giovani di me, con bambini che lasciano alle prime ore del mattino. Ci sono donne belle, sfortunatamente belle, che chissà quanti no hanno dovuto ingoiare per i piaceri del caporale e per poter continuare a stare qui. Ci sono io. C’è la mia amica Maria, qui accanto a me, stamattina, nel solito pullmino sempre troppo stretto, con troppa poca aria, in viaggio verso un campo in cui raccogliamo pomodori e perdiamo dignità e coraggio, ogni giorno…”
Non sono stati questi gli ultimi pensieri di Incoronata Sollazzo, una delle tante vittime del caporalato morta il 24 aprile del 1998 insieme a Maria Incoronata Ramella, mentre viaggiava su un furgone pieno sino all’inverosimile per raggiungere i campi. Non sono stati sicuramente questi, perché la consapevolezza di poter morire da un momento all’altro quando si accettano determinate condizioni non è contemplata. Si mette da parte, perché è la necessità di poter portare qualcosa a casa che parla per prima. E allora tanti diritti nemmeno si sognano, e ci si trova a vivere vite che vengono raccontate, ricordate e ricostruite, senza che ancora sia cambiato qualcosa. Perché Incoronata e Maria sono morte nel 1998 in una provincia, come quella di Foggia, in cui vent’anni dopo non è cambiato nulla, se non forse la provenienza geografica di chi non ha la possibilità di dire no. Il caporalato è a tutti gli effetti lo schiavismo del nostro Paese e di questo secolo. La storia di Incoronata di ieri potrebbe essere – ed è – quella di tante altre donne: i suoi pensieri potrebbero aver preso forma in altri luoghi e in altri viaggi maledetti, ma non è sufficiente scriverne e mantenerne il ricordo. In occasione di una Festa dei Lavoratori che nel 2016 hanno poco più che un giorno sul calendario a loro dedicato, la riflessione e il ricordo dovrebbero una volta, in definitiva, diventare azione.

 

 

 

Leggere anche:

 

mafie.blogautore.repubblica.it
Articolo del 22 febbraio 2020
Incoronata, uccisa dal “caporalato”
di Donato De Bellis

 

 

 

 

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