24 Maggio 1982 a Palermo Rodolfo Buscemi, 24 anni, e il cognato Matteo Rizzuto, appena 18 anni, uccisi e fatti sparire in mare. Rodolfo stava indagando sulla morte del Fratello Salvatore, ucciso nell’Aprile del 1976.

Foto da Dedicato alle vittime delle mafie

La vita di Rodolfo Buscemi fu segnata dall’omicidio del fratello Salvatore, avvenuto una sera di aprile del 1976. Rodolfo decise di scoprire gli assassini del fratello e così si trasferì nel quartiere di Sant’Erasmo a Palermo, dove viveva Salvatore e cominciò a fare indagini e a raccogliere prove. Molti indizi lasciavano supporre che il mandante dell’omicidio fosse stato Filippo Marchese, boss del quartiere di Sant’Erasmo. Le domande insistenti di Rodolfo Buscemi ben presto diedero fastidio alla criminalità locale che rispose con minacce e intimidazioni.
Il 26 maggio 1982, a 24 anni, Rodolfo e il cognato Matteo Rizzuto, di soli 18 anni, allettati con una falsa offerta di lavoro, furono rapiti e sparirono nel nulla. (Fonte: memoriaeimpegno.it)
La sorella di Rodolfo, Michela, si costituì parte civile e testimoniò al Maxiprocesso di Palermo ma, alla fine, fu costretta ad abbandonare per gravi minacce contro i suoi figli.

 

 

 

Articolo da “Casablanca – Storie dalle città di frontiera”
Michela Buscemi Una donna del popolo libera e orgogliosa
di Graziella Proto
Dopo la prima testimonianza nel suo bar non ci andò più nessuno. Isolata da tutti, ha condotto la sua guerra con il solo appoggio del marito, un uomo dolcissimo che paga la sua scelta d’amore con la disoccupazione a vita. Un sacco di libri sulla sua storia, convegni, incontri, interviste. Adesso stanno per girare una fiction sulla sua vita e sul suo coraggio, ma lei povera era e povera è rimasta.

All’appuntamento la troviamo già lì ad aspettarci. Completo pantalone nero, alta, bruna, due occhi scuri che scrutano in profondità. Ti sorride subito ed immediatamente il suo viso si illumina. “Alla fine del mese – racconta – ho un incontro con un regista che vuole girare un film sulla mia storia … e poi andrò in una scuola di Perugia, Padova, Aosta… poi alla presentazione del libro di Nando… e poi…”, “ma ti danno una percentuale sui libri che pubblicano su di te? – la interrompe l’amica che è andata a prelevarla all’appuntamento – Di solito si fa così – le dice. E lei subito “no, mi danno copie di libri, io li regalo – dice – non posso tenerli tutti non avrebbe senso – aggiunge sorridendo”. Una solare bellezza matura. L’appuntamento è fuori città, in campagna, perché ormai da tanti anni non abita più a Palermo. “Era difficile… Costava troppo,” racconta candidamente e senza girarci attorno. “Dopo che mi hanno distrutto il bar con la bomba, nel marzo del 1990 lo abbiamo ceduto per pochi soldi… avevamo tanti debiti… Avevo avuto tante promesse per far lavorare mio marito come muratore… ma… tra il dire e il fare… Avevamo questo pezzetto di campagna e ci siamo trasferiti…”.

La casa in campagna, l’ha costruita lui, ci è costata solo il materiale… Mio marito non lavora sempre, qualche giornata saltuariamente… sarebbe muratore in effetti fa quello che capita… ovviamente lavoro in nero… E poi, la vita in campagna costa meno, coltiviamo qualcosa… è più facile trovare qualche giorno di lavoro. Dalla terrazza vedo il mare”. Semplice, sobria, sempre decorosa, una dignità che la rende autorevole. Nessuno direbbe che si tratta di una donna che ha già sperimentato tutte le fatiche della vita. Prove dolorosissime che l’hanno segnata e collaudata. La stessa donna, che alla fine degli anni ottanta allora abbastanza giovane sfidando tutto e tutti, si costituì parte civile al primo maxi processo a Palermo perché la mafia le aveva ucciso due fratelli Salvatore e Rodolfo e lei non poteva restarsene senza fare nulla. “Sono Michela Buscemi, sorella di Totò e Rodolfo” dichiarò ed iniziò a parlare.

* * *

Suo fratello Salvatore disoccupato, con quattro figli piccoli, il più grande otto il più piccolo 4, carattere litigioso, negli anni settanta aveva iniziato a vendere sigarette di contrabbando senza aver chiesto il permesso ai boss. Nemmeno a quelli del quartiere di S. Erasmo dove abitava. Più volte gli avevano fatto perdere il carico come avviso, ma lui nulla. Anche perché a pugni era bravo e li faceva scappare. Una sera di aprile del ’76, verso le otto di sera, Salvatore e Giuseppe un fratello più piccolo, si trovavano in compagnia di loro parenti, in una bettola del quartiere, mentre stavano per andarsene, entrarono due uomini incappucciati armati. Salvatore colpito a morte cadde subito a terra, ma non bastava, uno dei due si avvicinò e gli sparò due colpi di lupara alla gola e al mento. La scena che ebbe davanti Giuseppe fu terribile. Il volto di suo fratello era totalmente sfigurato, la pancia squarciata, budella di fuori. Anche lui era ferito, fu portato all’ospedale. Una pallottola aveva perforato l’osso del bacino e gli si era posata sugli intestini. Subito dopo l’assassinio, un altro fratello, Rodolfo, deciso a scoprire gli assassini di Salvatore, si trasferisce nel quartiere di S. Erasmo e comincia a fare indagini e raccogliere prove. Scopre o si convince che il mandante dell’omicidio del fratello era Filippo Marchese boss del quartiere di S. Erasmo.

Il mafioso Vincenzo Sinagra futuro pentito, gli intima di smetterla, inoltre, forse lui stesso era implicato in piccole attività poco lecite e comunque non autorizzate da chi comandava nel quartiere, un mese dopo l’avvertimento da parte di Sinagra, Rodolfo e il cognato Matteo, di soli 18 anni, furono intrappolati con una falsa offerta di lavoro e scomparvero nel nulla.

Non rimasero tracce. Dopo qualche anno, il superpentito Sinagra raccontò che erano stati portati nella camera della morte, torturati e uccisi. Buttati in fondo al mare perché l’acido in cui avrebbero dovuto sciogliere il suo cadavere non era buono… La moglie di Rodolfo, Rosetta, si lasciò morire di dolore dopo il parto del secondo bambino. “Sono Michela Buscemi, sorella di Salvatore e Rodolfo” disse quel giorno nell’aula Bunker di Palermo Michela e subito nell’aula ci fu un bisbiglio di sorpresa. Il Presidente le chiese se avesse qualcosa da raccontare e lei rispose si. Per tutta la mattinata, racconta la stessa, davanti alla corte era passata una fila di parenti di vittime che non sapevano, non avevano visto, non avevano sentito. Tutte le televisioni, tutti giornali, si interessarono a Michela. Tuttavia, non tutti la pensavano alla stessa maniera.

“Spero a Dio che lo stesso dolore tu hai da provare, i figli t’hanno ad ammazzare” la minacciò in modo orribile e snaturato la madre che di costituirsi parte civile non ne volle sapere. Anzi, con quella figlia pazza, che aveva avuto l’ardire di recarsi in Tribunale a raccontare fatti della famiglia, la madre interruppe ogni rapporto e assieme agli altri figli decisero di isolarla. Abbandonarla al suo destino. “Quando io decisi di costituirmi parte civile al maxi processo dell’’85 – racconta con distacco – non sapevo che mia madre avrebbe preso le distanze da me, comunque, dopo ho continuato per la mia strada…” rinnegata e rinnegando la famiglia. Era l’86, da allora, Michela combatte una guerra solitaria, priva di madre, nessun fratello, nessuna sorella.

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Attraverso la storia di Michela, che lei stessa ha raccontato e scritto in prima persona, senza più imbarazzi, sono venute fuori storie di fame, indigenza, miseria. Storie che non nascono solo dalla povertà. Fatti miserabili. Sentimenti egoisti, avari. Forse criticabili e discutibili. Violenze quotidiane che passano in secondo ordine, perché le necessità e i bisogni hanno sempre e comunque la precedenza. Interni di famiglia in case diroccate, o popolari occupate abusivamente dove le donne sono costrette a non fiatare davanti al padre, o alla madre o all’autorità. Lei, Michela Buscemi si è ribellata a tutto. All’ignoranza, alle molestie del padre, alla povertà, ai pregiudizi. Nata e cresciuta nei quartieri poveri di Palermo, era la più grande di otto fratelli e sorelle che la madre sistematicamente le scaricava addosso subito dopo averli partoriti. Sebbene cresciuta e vissuta in un contesto caratterizzato dalla mancanza di idonei modelli e strumenti culturali e sociali ha trovato il coraggio e la determinazione per essere una protagonista cosciente. Una sfida enorme, ma ce l’ha fatta, per se e per i suoi 5 figli che “…hanno vissuto e vivono in una situazione totalmente diversa da quella in cui sono vissuta io, migliore certamente, nonostante le nostre difficoltà…”. Anche se non tutti sono come si suole dire sistemati sono tutti orgogliosi di ciò che ha fatto la loro madre. Lei non è pentita della sua scelta e resta un’attiva sostenitrice della lotta contro la mafia. “Un rimpianto? Essermi ritirata dal processo. Oggi non l’avrei fatto, allora ascoltai le persone che mi stavano più vicine l’avvocato, l’associazione donne contro la mafia, il centro Impastato che mi è stato sempre vicino”.

(Per raccogliere i fondi per pagare le spese delle parti civili al primo maxiprocesso di Palermo, si era costituito un apposito comitato. Ma alle uniche due donne del popolo presenti in quel processo, Michela Buscemi e Vita Rugnetta, fu deciso di non dare alcun contributo: i soldi raccolti dovevano essere dati soltanto ai parenti dei servitori dello stato. Ad aiutare Michela e Vita furono il Centro Impastato di Palermo e l’Associazione donne contro la mafia).

 

 


Nonostante la paura
di Michela Buscemi
La Meridiana Editore, 2010

Questo libro racconta la storia di una donna siciliana che con la mafia ha fatto i conti denunciandola, nella paura di nuovi attentati e nel ricordo delle violenze subite.
Michela: donna fiera e libera. Ma a caro prezzo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Intervista Michela Buscemi al San Paolo Social Network
RadioKreattiva – Pubblicato il 23 mar 2012
Cresciuta nei quartieri poveri di Palermo, era la più grande di otto fratelli e sorelle. Suo fratello Salvatore fu ucciso nel 1979 dalla mafia per aver venduto sigarette di contrabbando senza aver chiesto il permesso dei boss. Un fratello più giovane, Rodolfo, fu a sua volta assassinato per impedirgli di vendicare la morte del fratello. Durante il maxiprocesso svoltosi nel 1985-’86 Michela testimoniò contro gli assassini, ma fu costretta a ritrattare la dichiarazione dopo aver ricevuto una telefonata in cui si minacciava di attentare alla vita della sua bambina di sei anni. Dopo la testimonianza di Michela, sua madre interruppe ogni rapporto con lei e suo marito perse il lavoro. resta un’attiva sostenitrice della lotta contro la mafia.

 

 

Leggere anche:

 

 

vivi.libera.it
Matteo Rizzuto – 24 maggio 1982 – Palermo (PA)
Matteo aveva solo 18 anni quando decise di scoprire la verità sull’omicidio di suo cognato Salvatore. Insieme a Rodolfo, fratello di Totò, sentiva l’esigenza di dare un volto e un nome a quegli assassini, di andare alla ricerca di una verità che desse un senso a quella morte. Lo avrebbero fatto insieme, lui e Rodolfo, fino in fondo.

 

 

 

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