25 Gennaio 1983 Valderice (TP). Ucciso il Magistrato Gian Giacomo Ciaccio Montalto

Il 25 Gennaio 1983 a Valderice (TP) venne ucciso il magistrato Gian Giacomo Ciaccio Montalto.
Nato a Milano da famiglia trapanese, era entrato in magistratura nel 1970; quando fu ucciso aveva quarant’anni ed era sposato e padre di tre figlie. Nel 1995 le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia (Rosario Spatola, Giacomo Filippello, Vincenzo Calcara e Matteo Litrico) portarono all’identificazione dei responsabili dell’omicidio. Furono condannati all’ergastolo i boss mafiosi Salvatore Riina e Mariano Agate. Il magistrato trapanese venne ucciso su ordine di Totò Riina perché il giudice aveva dato “fastidio” al capo di Cosa nostra. “Fastidi” che erano destinati ad aumentare perché il magistrato stava per essere trasferito, su sua richiesta, a Firenze, ed in Toscana la mafia aveva forti interessi economici e criminali.

 

 

 

Articolo da L’Unità del 26 Gennaio 1983
Giudice coraggioso ucciso dal terrorismo mafioso
di Saverio lodato
Il sostituto procuratore di Trapani, Giangiacomo Ciaccio Montalto, massacrato in un agguato – Si era occupato di alcune delle inchieste più delicate – Oggi Pertini ai funerali, a Palermo seduta straordinaria del CSM

TRAPANI – Giangiacomo Ciaccio Montalto, 42 anni, sostituto procuratore a Trapani, è lì zuppo di sangue, riverso in quella «Golf» bianca, massacrato da 17 colpi di mitraglietta calibro 7,65 e 30 Luger. Ucciso senza lo straccio di una scorta, ritrovato per caso da un passante. Eppure apparteneva a quella schiera di magistrati italiani onesti che stringono i denti e se ne stanno in prima fila.
Qui, a Trapani, il suo scrupolo e la sua tenacia erano diventati proverbiali, scomodi. E come tutti funzionari fedeli a uno Stato latitante, la sua fedeltà ha potuto dimostrarla solo pagando il prezzo della vita. POrima di lui, in Sicilia, i Dalla Chiesa, i La Torre, i Terranova, i Mattarella, i Costa, i Giuliano, i Basile, e quanti altri ancora. Qualche metro ancora e avrebbe raggiunto l’uscio di casa. Agguato troppo facile per un bersaglio conosciutissimo in città, una citta piccola, questa, dove ogni movimento, basta volerlo, può essere tenuto sotto controllo. Chissà in quanti lo tenevano d’occhio questo giudice sgobbone che non sì piegava al compromessi, si sfoga qualcuno. Ma Ciaccio Montalto, non badava a depistare probabili assassini.

Nella notte di lunedi, finito di lavorare, andato a cena con due avvocati amici di vecchia data, si dirigeva verso la sua abitazione. Da questo momento in poi gli ultimi attimi di vita appartengono alla difficile ricostruzione della dinamica di un delitto avvenuto — come sempre, purtroppo — in assenza di testimoni disposti a collaborare.

È da poco trascorsa l’una di notte. L’auto di Montalto risale lentamente per i tornanti ripidi che conducono a Valderice, ad appena otto chilometri dalla città, con i suoi tredicimila abitanti che dominano dall’alto le saline del Trapanese. Un breve tragitto si compie in via Antonio Carollo, un budello stretto che taglia la statale che conduce a Palermo. I killer sanno che il giudice dovrà fermarsi. Attendono pazientemente, accovacciati su una scaletta che s’affaccia proprio di fronte alla casa di  Ciaccio Montalto. Questi non fa in tempo a scendere dall’auto. Un fuoco incrociato, i proiettili che infrangono il lunotto posteriore e il parabrezza anteriore: tutti a segno, tranne due conficcati nel portone. Muore stringendo tra le mani un piccolo thermos pieno di caffè caldo che gli avrebbe dato conforto durante la notte: non aveva ancora smontato, ieri mattina avrebbe letto la sua requisitoria in corte d’assise, in un processo «minore» per un omicidio compiuto da una banda feroce, legata al sottobosco di racket ed estorsioni.

A che ora è morto? All’1,12, ma la risposta, terribilmente meccanica, la forniranno le lancette della «Golf» bloccate, non le decine di famiglie che vivono a pochi metri dal luogo dell’imboscata. Si sono barricati tutti in casa, quando i mitra hanno cominciato a crepitare, terrorizzati tanto da non riuscire a dare l’allarme.
Avete sentito nulla? Solo qualcuno ha ammesso: «Ci sembravano gli spari di cacciatori».

Il corpo dilaniato di Ciaccio Montalto verrà ritrovato alle 6,30 da un contadino che attraversava via Carollo per raggiungere la campagna. Mezzora dopo, schieramento di polizia, carabinieri, magistrati. Troppo tardi per improvvisare qualche battuta, in orario invece per espletare le solite formalità di rito, anche se il medico legale verrà da Palermo con ben tre ore di ritardo.

Il magistrato, che lascia la moglie Marisa La Torre, 40 anni, professoressa all’istituto tecnico commerciale Calvino di Trapani, e tre bambine, di 4, 8 e 12 anni, è vissuto ed è morto in magistratura.

Suo padre Enrico,Trapanese, pensionato, vive a Roma dopo avere raggiunto il grado di presidente di sezione in cassazione. Giangiacomo, nato a Milano, s’era laureato in giurisprudenza a Roma, aveva scelto Trapani per iniziare la carriera — nel ’70 — come uditore al tribunale. Dal ’71 ad oggi, per dieci lunghi anni, da sostituto si era occupato dello scandalo del Belice, delle più delicate inchieste di mafia, droga e sofisticazione. Era di quelli — il suo curriculum professionale parla chiaro — che non arretrano di fronte al mostruoso intreccio di mafia e potere politico.

Eppure s’era deciso a lasciare Trapani: lo attendevano già all’ufficio istruzione di Firenze. La delibera di  trasferimento, approvata da una commissione del Consiglio superiore della magistratura, sarebbe stata ratificata proprio in questi giorni. Perché Montalto andava via?

L’interrogatorio è formulato di fronte al portone socchiuso di palazzo Montalto, un edificio liberty nel centro di Trapani (qui da quattro mesi vive la moglie, dalla quale si era separato). Confida un conoscente di famiglia, anch’egli affranto, ma con il compito amaro di ricevere i cronisti: «Non certo per cambiare aria, non era nel suo stile di vita».
Perché senza scorta?
«L’aveva avuta in passato, l’anno scorso — ricorda —, all’indomani di alcune strane telefonate. Ma da qualche tempo in qua si sentiva sicuro». Dentro i genitori e la moglie di Montalto, anche loro avvertiti della tragedia soltanto all’alba. Il dolore e le lacrime si consumano tutte qui, in quelle stanze in penombra, dove si intravede il salotto buono e la biblioteca di famiglia.

In Prefettura, invece, l’atmosfera fredda dell’ufficialità. Giunge Darida, Il ministro di Grazia e Giustizia che qualche giorno prima a Palermo ha minimizzato la gravità dell’emergenza mafiosa. Viene — si limita a dire — per  «rendersi conto personalmente della situazione». la sua impressione — ma è un’impressione che qui hanno anche le pietre — è che si «tratti di un delitto di mafia». E ancora una volta, come dalle parole di tanti altri ministri che lo hanno preceduto in circostanze analoghe, L’impegno a «ripristinare l’ordine e la legalità democratici».

Ben altro tono, tutt’altre analisi, veri ragionamenti seppure a caldo, dalle parole dei colleghi di Ciaccio Montalto. Il procuratore capo Giovanni Lumia: «Ha pagato il suo impegno alla lotta contro il potere mafioso, nei processi più delicati». Carmelo Carrara, consigliere istruttore: «Inutile che ci promettano i cervelloni elettronici quando non ci danno uomini e mezzi per farli funzionare».
Ma l’eco invade le aule di giustizia di tutta la Sicilia. Si sospendono le udienze. Da Palermo una mozione dell’assemblea del distretto giudiziario: «L’impegno nella lotta alla mafia è patrimonio comune dell’intera magistratura: dietro ogni collega assassinato vi saranno altri pronti a prendere il suo posto». Al Comune indicono il lutto cittadino.

 

 

 

Articolo da La Stampa del 27 Gennaio 1983
LA SICILIA NON RESTERÀ SOLA PERTINI DA FIDUCIA A TRAPANI
di Antonio Ravidà
Un eccezionale spiegamento di forze dopo l’assassinio del giudice Ciaccio Montalto – Ma le forze di polizia non sono ancora sufficienti per un’azione di vasta portata

TRAPANI — Con un eccezionale spiegamento di forze carabinieri, polizia e Guardia di Finanza tengono da 48 ore in una morsa Trapani e dintorni. Riesce difficile però credere che in tempo brevi si verrà a capo di qualche cosa. Questa affermazione che è sulla bocca di tutti non è dettata da scetticismo ma dall’amara consapevolezza che al 99 per cento i delitti di mafia rimangono impuniti. E l’uccisione del sostituto procuratore Gian giacomo Ciaccio Montalto è un classico delitto di mafia.

Adolfo Beria d’Argentine, segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati, ha detto che il Ciaccio Montalto si sentiva gravemente minacciato» e che dopo avere chiesto il trasferimento a Firenze quale giudice istruttore egli pensava che in Toscana avrebbe potuto però seguire ugualmente alcune indagini antimafia.

I commenti sono i più disparati qui a Trapani per la presenza di Sandro Pertini, ieri, nel Duomo di S. Lorenzo ai funerali del magistrato assassinato, presenti l’anziana madre, la vedova da cui il giudice viveva separato da quattro mesi e le due figliole maggiori di 12 e 8 anni; la piccola di appena 3 anni è rimasta in casa di parenti. Il capo dello Stato s’è trattenuto a Trapani giusto il tempo necessario per la cerimonia. Commosso come rare altre volte è subito ripartito lasciandosi dietro una città dove dolore e rancore si mescolano alle sollecitazioni che finalmente sia innestata una marcia in più nella lotta contro la mafia.

«Sarà sconfitta la mafia dal forte popolo siciliano» ha affermato con solenne timbro di voce Pertini parlando in serata nell’aula magna della corte d’assise di Palermo. Qui ha presieduto una riunione straordinaria ed urgente del Consiglio superiore della magistratura. Era la prima volta che il massimo organo giudiziario si univa al di fuori di Palazzo dei Marescialli, la sede romana. «Questo tumore — ha aggiunto Pertini — sarà sradicato dal corpo sano della Sicilia. Il popolo siciliano non può essere identificato con il terrorismo ed il popolo siciliano non può essere confuso con la mafia»; ha anche detto Pertini che a Trapani e Palermo è stato salutato da una, calorosa accoglienza dei cittadini. Giancarlo De Carolis, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura ha annunciato che «contro la sfida della mafia compiremo tutti il nostro dovere» e ha ribadito che «dietro a ogni giudice assassinato ci saranno sempre altri giudici pronti a continuarne l’opera».

Già a Trapani, nella città attonita per l’ennesimo crimine mafioso il vescovo Emanuele Romano ieri aveva ammonito nell’omelia in Duomo, dinnanzi ad una folla strabocchevole, che «davanti al sangue versato da tanti nostri fratelli vittime della violenza occorre mobilitarci». Monsignor Romano aveva anche rilevato come «la parola di Dio inviti al mutamento» riferendosi fin troppo palesemente alla situazione esplosiva che, per effetto della violenza mafiosa, fa della Sicilia una terra dove s’avverte certamente un assoluto bisogno di cambiare.

In un lungo documento approvato ieri dall’assemblea dei magistrati di Trapani e del circondario, tra l’altro si chiede al governo di «rendere noto come sono stati spesi gli oltre 600 miliardi di investimenti per la giustizia approvati dal Parlamento per il triennio 1980-1982». I giudici inoltre parlano di «continua inerzia del potere esecutivo-legislativo» e negano che Ciaccio Montalto fosse stato lasciato solo sostenendo al contrario di aver tutti partecipato con slancio alle inchieste antimafia.

L’eco suscitata dall’assassinio di Ciaccio Montalto, giudice di punta a Trapani per la grinta e l’imparzialità delle sue indagini, ha pochi precedenti. Anche Umberto di Savola ha fatto sentire la sua voce e ha voluto manifestare la sua partecipazione al lutto facendosi rappresentare ai funerali dall’aw. Paolo Camassa, presidente del locale Ordine degli avvocati e procuratori legali. Da ogni parte politica, da ogni forza sociale del resto non si registrano dissensi.

Il delitto ha suscitato un’unanime deplorazione, un comune sentimento di sdegno. Tra i commenti degli uomini politici quello di Calogero Lo Giudice, democristiano, presidente della Regione che intervenuto ai funerali ha detto: «Bisogna intensificare la repressione mafiosa, la Sicilia continuerà ad opporsi ad ogni violenza». Ed il sindaco di Trapani Erasmo Garuccìo anch’egli della dc, ha affermato: «Lo Stato deve reagire energicamente a questo stile». Luigi Colajanni subentrato nella segreteria regionale del pci all’onorevole Pio La Torre, assassinato lo scorso aprile a Palermo in un altro agguato mafioso, da parte sua ha rilevato: «Dopo il delitto Dalla Chiesa non si è per nulla interrotta la volontà dei gruppi mafiosi più forti di contrastare con l’assassinio la presenza dello Stato denteerà tico a qualunque livello essa si manifesti al meglio».

Ma con pochi uomini senza mezzi — tutti concordano — c’è ben poco da fare. La mafia non può essere sconfitta solo con le parole e con le buone intenzioni. Cosi Paolo Camassa ha rivelato che il computer in dotazione al tribunale di Trapani e installato nella stanza di un giudice e funziona solo quando il magistrato in questione non lavora, altrimenti nessuno può entrare nell’ufficio. Cosi Carmelo Carreca, capo dell’ufficio istruzione del tribunale ha detto sconsolato «Siamo tre giudici soli, una segretaria e una dattilografa alle soglie della pensione».

 

 

 

Articolo da La Stampa del 28 Gennaio 1983
PORTA IN TOSCANA LA PISTA SUL MAGISTRATO ASSASSINATO
di Antonio Ravidà
Il giudice Ciaccio Montalto, ucciso dalla mafia a Trapani, aveva chiesto di essere trasferito a Firenze – Voleva indagare sulle cosche trapiantate al Nord – Aveva firmato ordini di cattura

TRAPANI — C’è una pista che porta a 1300 chilometri da Palermo, dritta dritta, in Toscana. Forse l’assassinio del procuratore Ciaccio Montalto, l’ennesimo orrendo crimine mafioso, è stato ordito tra i preziosi gioielli rinascimentali di Firenze e la fertile campagna toscana, dove più di una «famiglia» siciliana si è trapiantata.

È di pochi giorni fa il sequestro di ottanta chilogrammi di eroina a Prato, seguito dall’arresto dei componenti di un clan che inviava gli stupefacenti negli Stati Uniti dopo averli nascosti in scatole di scarpe. E a Firenze, Gian giacomo Ciaccio Montalto, il coraggioso giudice trapanese massacrato nell’agguato di Valderice la notte tra lunedì e martedi, aveva chiesto di essere trasferito come giudice istruttore: c’erano tre posti vacanti in organico.

Lo stesso Adolfo Beria D’Argentine, segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati, ha riferito che il sostituto procuratore della Repubblica ucciso pensava di poter riuscire ad essere utile anche a Firenze nella lotta contro la mafia, come lo era stato nei dodici anni di servizio a Trapani in tantissime inchieste sulla droga e sul vino sofisticato, sulle truffe e le «bustarelle» negli appalti pubblici per la ricostruzione della Valle del Belice terremotata e sul riciclaggio in varie attività apparentemente legali dei soldi «sporchi» proventi del crimine organizzato. Ma questa è soltanto una delle tante piste. Altre ne vengono battute dai carabinieri, dalla polizia, dalla Guardia di Finanza.

È stato un ufficiale delle Fiamme Gialle a confidare, mercoledì, uscendo dalla camera ardente sistemata nel Palazzo di Giustizia poco prima dell’arrivo di Pertini a Trapani, che pochi giorni fa Ciaccio Montalto aveva stretto i tempi per l’emissione di ordini di cattura a carico di mafiosi o presunti tali. Forse otto provvedimenti restrittivi. «Ma nessuno sapeva — ha riflettuto l’Ufficiale —, quindi il delitto non può essere partito da lì».

Marisa La Torre, 40 anni come il marito ucciso e dal quale da quattro mesi era separata di fatto (la signora continuava a stare con le tre figlie, di 12, 8 e 4 anni, il giudice si era stabilito nella villa di campagna a Valderice, a otto chilometri dalla città, dove è caduto nell’agguato), intanto è stata interrogata dai magistrati inquirenti. Non sembra che Marisa La Torre abbia aggiunto qualcosa d’importante a ciò che si sapeva già.

Piuttosto, colpisce il fatto che fin dall’indomani delle commosse e sferzanti espressioni del capo dello Stato («Sradicheremo questo tumore della mafia») e dopo l’impegno unanime del Consiglio superiore della magistratura, già il procuratore della Repubblica di Caltanissetta, Sebastiano Patanè, incaricato dalla Cassazione d’indagare, abbia lasciato Trapani tornando nel suo ufficio, a 150 chilometri da qui; il dottor Patanè, che peraltro è considerato un magistrato di valore, ieri a  Caltanissetta ha detto di avere ultimato le «indagini urgenti» e che in seguito, a Trapani, potrà tornare egli personalmente ovvero potrà andarvi uno dei suoi sostituti.

Indagini per telefono? Certo, non è quanto ci si aspettava scorgendo il dolore e lo sbalordimento della vedova, delle figlie, di Pertini, dell’immensa folla nel duomo di San Lorenzo mercoledì pomeriggio alla solenne messa per i funerali. Si pensava che stavolta si sarebbe fatto decisamente molto di più che non le solite battute e le perquisizioni, consueti controlli sui movimenti dei pregiudicati e sorvegliati speciali, potenzialmente indiziati.

 

 

 

Articolo da L’Unità del 29 Gennaio 1983
La giustizia, la mafia, lo Stato
Dopo l’ultimo delitto in Sicilia scrive la vedova del magistrato Costa

Caro giudice, non si è ancora spenta, a Palermo, l’eco  dell’ultimo convegno, indetto dall’Associazione nazionale magistrati, quando da Trapani rimbalza in tutta la sua agghiacciante crudezza, la notizia che un altro magistrato impegnato, coraggioso, dichiaratamente di sinistra, è caduto riverso nel suo sangue, sotto i colpi spietati di feroci assassini della mafia.
A Palermo, appresa la notizia, a Palazzo di giustizia si sospendono le udienze; poi voi magistrati vi riunite in assemblea e ha inizio il solito rituale, ormai scontato, delle parole che ogni volta fanno da coro al macabro esito di “un grande delitto”.
Si ritorna a parlare di sdegno, di riprovazione; si rinnova il solito impegno per una lotta ferma che porti alla sconfitta di questa mostruosa piovra, che continua a dissanguare la Sicilia con un ritmo sempre più incalzante. Si lamenta mancanza di mezzi e strumenti, ma nessuno si accorge che il sangue di Gian Giacomo Ciaccio Montalto e quello di coloro che lo hanno preceduto, merita una più approfondita riflessione.
A Palermo, in Sicilia, oggi è evidente che se si è ‘diversi’ (particolarmente impegnati, democratici) si resta soli, e, prima o poi, si finisce con l’esser «cancellati come corpi estranei» dalla mafia.
È bene che tu, mio caro giudice, prenda coscienza che per una efficace lotta alla mafia e per la tutela di quelli di voi che sono onestamente e concretamente impegnati in questa difficile lotta, hai bisogno più che di macchine blindate o della creazione di altri, se pur indispensabili, strumenti richiesti e non dati, della crescita, di una forte tensione ideale tra tutti i magistrati: una forte tensione che di voi tutti faccia un blocco, un argine sicuro, tale che vi renda omogenei dinanzi alla società e dinanzi alla mafia: così che a nessuno si possa guardare da altre angolazioni come un giudice ‘solo’; come un giudice «diverso».
È indispensabile avere tutti uguale impegno sulla stessa linea; procedere a righe serrate e che sia smessa da qualcuno l’abitudine di celare con eleganti argomentazioni giuridiche e suggestive ipotesi di garantismo,un certo, sostanziale disimpegno.
Un magistrato, in Sicilia più che altrove, non può non avere consapevolezza del proprio ruolo e deve pur sapere che la dignità di esercitarlo può e deve essere portata fino alle estreme conseguenze.
Ecco perché non serve più il rituale delle solite parole di sdegno: serve anche onorare i propri morti; serve non farli dimenticare; serve non tentare di sminuire l’opera con elementari, maldestri mezzucci; serve non dimenticare che a Palazzo di giustizia i morti devono essere presentì quanto i vivi: e deve essere valorizzato il patrimonio di giustizia e democrazia che hanno lasciato.
È necessario far quadrato attorno ai propri morti, leggendo con attenzione tra le loro carte, operando tenacemente, concretamente, con entusiasmo direi, senza timori “riverenziali”, nell’intento nobile e indispensabile di dar loro giustizia.
Io, caro, giudice, ti seguo, sempre, con rispetto, con ansia qualche volta, altre con ammirazione: ma queste cose non potevo tacerle per il tuo stesso destino, per il destino di altri tuoi colleghi. Non potevo tacertele perché è tutta una giornata che mi sento vicina ai figli adolescenti di Gian Giacomo Ciaccio Montalto e so quanto e come e per tutta una vita brucerà sulla loro pelle il sangue del loro papà, morto assassinato per aver servito la giustizia.
Se tu, caro giudice, rifletterai sulle cose che non sono state fatte, su quelle che sono state fatte con tanta approssimazione; se rifletterai sul danno prodotto da chi i rami secchi non sa tagliare e si rifiuta di leggere con passione e intelligenza i fatti, così che finisce con l’essere l’operatore del non fare o del fare appena, allora questa nostra bella e tormentata terra avrà speranza di sopravvivenza. E tu o il tuo collega non lascerete soli i giovani figli a piangere lacrime che col passare degli anni diventano sempre più amare.
Scusa la crudezza, a volte, delle mie parole: ma questa è l’ora della verità e, quindi, delle scelte. Io come donna, le mie le ho già fatte. Continuerò a chiedere ai paese che il sangue di Giacomo Ciaccio Montalto e di chi lo ha preceduto lungo questo triste sentiero di morte, non sia stato inutilmente versato, ma serva a proteggere anche te, caro “giudice solo”.
Ma chiederò pure che pulizia ovunque sia fatta: bene, in ogni angolo; anche negli angoli oscuri e mai spolverati dei palazzi di giustizia.

Rita Bartoli Costa

 

 

 

 

Giangiacomo Ciaccio Montalto (Audiolibro)

 

 

 

Articolo di Rino Giacalone del 24 Gennaio 2011
Pubblicato su Antimafia Duemila
Un giudice dal candido coraggio, Ciaccio Montalto

Valderice, provincia di Trapani, via Carollo, ore 7,15 del 25 gennaio 1983. La storia da raccontare comincia da questo luogo e da quell’ora. Poi come usando le manopole di un «rvm» per un filmato da montare, c’è da far muovere delle immagini in indietro e avanti, per comporre quella che è una parte consistente della storia criminale della provincia di Trapani.

Via Carollo è una stradina, appena fuori Valderice, dove la mattina di 28 anni addietro una pattuglia dei carabinieri trovò ferma all’altezza del civico 2 un’auto, obliqua rispetto alla sede stradale: era una Golf, col lunotto infranto, anche il vetro del lato guida è in frantumi, era evidente che il vetro era esploso a causa di colpi di arma da fuoco; steso tra i due sedili anteriori, con la testa reclinata sul bracciolo del lato passeggero, cera un corpo senza vita, un braccio disteso, a penzoloni, l’altro piegato sul torace. Un morto ammazzato, crivellato di colpi d’arma da fuoco sparati da diverse armi. Era un uomo. Aveva 41 anni l’ucciso ed era un magistrato, sostituto procuratore della Repubblica di Trapani, il suo nome Gian Giacomo Ciaccio Montalto. Quando fu ammazzato era in procinto, pochi giorni ancora, di lasciare la Procura di Trapani per andare a quella di Firenze. Ecco la storia è questa. Gli anni, metà del 1980, erano quelli in cui in giro a Trapani si andavasostenendo che la mafia non esisteva, e invece Ciaccio Montalto era uno di quelli che ne aveva registrato la presenza in tanti faldoni d’indagine, a cominciare da quelli che riguardavano l’inquinamento del golfo di Monte Cofano, tra Erice e Custonaci, una conca tra terra e mare ricca di bellezze naturali, fili d’inchiesta che portavano al riciclaggio del denaro dentro le imprese, società, le banche. Lui da magistrato attento avvertì la «puzza» della mafia corleonese, colse la scalata a Trapani dei “viddani” di Riina, sentì il «tanfo» della morte lasciato per le strade e colse le infiltrazioni dentro gli uffici della giustizia, delle istituzioni, perché quella mafia era già riuscita a incunearsi dentro lo Stato per diventare poco tempo dopo ancora essa stessa Stato. Trapani è la provincia dove lo Stato che ha comandato è quello di Cosa Nostra, dove per costruire il nuovo Palazzo di Giustizia ci sono voluti decenni, dove anche i fidanzamenti e i matrimoni sono stati regolati dalle regole dell’onorata società, dove potrebbe anche non essere necessario leggere atti giudiziari, intercettazioni, relazioni della Commissione antimafia, saggi e articoli di stampa per farsi un’idea di cosa si intende per mafia: basterebbe vedere il numero delle estorsioni denunciate per capire quante non lo saranno mai; basterebbe sapere delle decine, centinaia di milioni di euro che ogni anno arrivano dalla Comunità europea e poi andare negli uffici di collocamento, nelle agenzie interinali, nei luoghi dove si affolla quel umanità dolente e rassegnata e capire che qui, nella «Gomorra» di Cosa Nostra, tutto parla di mafia. Tutto è povertà che produce ricchezza che riproduce altra povertà. Qui da sempre Cosa Nostra ha saputo sintetizzare passato e futuro, tradizione e modernità, violenza ancestrale e bestiale imprenditoria, a Trapani e nella sua provincia questo accade da decenni, praticamente da sempre. Perché qui è nata l’associazione Cosa Nostra, qui ha costruito le sue vocazioni, da qui è partita per «colonizzare» gli States, qui si è sempre sentita al riparo, protetta, qui ha messo a punto militarmente, nelle mani dei Messina Denaro di Castelvetrano, capaci anche di intessere rapporti politici, l’attacco stragista di Milano, Firenze e Roma. È qui dopo tanta violenza e morte, che è nata la nuova mafia: che contratta quando è ora di contrattare, che spara quando è ora di sparare, che vota bene quando è ora di votare bene, lo «zoccolo» duro di Cosa Nostra dove il controllo del territorio è totale, dove il rapporto con le istituzioni e con la massoneria è tradizionale. Cosa Nostra da queste parti ottiene quello che vuole oramai senza sparare, fa affari con gli appalti e si siede nei salotti che contano. L’obiettivo della nuova mafia, quella di Matteo Messina Denaro, è stato raggiunto, ammazzando però dapprima giudici come Gian Giacomo Ciaccio Montalto, la mafia si è istituzionalizzata, si è data una veste legale, oggi la mafia investe e controlla quasi l’intero tessuto produttivo della provincia e questo è riuscito a fare grazie ai rapporti con la politica e con il mondo delle professioni, che in questi anni hanno sempre negato l’esistenza della mafia ed oggi, sulla spinta della cattura dei latitanti, tanti ci dicono che la mafia è battuta. Il pensiero che attraversa gli ultimi 30 anni è sempre lo stesso, «la mafia non c’è, non esiste».

Dovranno passare anni dalla morte di Gian Giacomo Ciaccio Montalto per scoprire che già da quel 1983 a Trapani c’era un tavolino dove sedevano politici, imprenditori e mafiosi, c’erano le stanze di un tempio massonico, quello della Iside 2, dove mafiosi, burocrati, politici e giudici si mettevano d’accordo, dove molti affari venivano e lo saranno ancora per molto tempo ancora, regolati dalla corruzione e dove l’acquisto di voti sfruttando il bisogno della gente era la regola, mentre i mafiosi diventavano imprenditori per gestire importanti business, come quello dei rifiuti, o si occupavano di sanità e poi di appalti pubblici. Come oggi si continua a fare e nei sporchi affari che ancora oggi vengono scoperti c’è un filo che ripercorso a ritroso finisce con il raggiungere quegli anni, e i faldoni sui quali Gian Giacomo Ciaccio Montalto aveva lavorato.

Valderice, 25 gennaio 1983. Via Carollo. L’auto venne trovata dai carabinieri ferma davanti all’ingresso dell’abitazione del magistrato. Quella sera era stato a cena con degli amici, a Buseto Palizzolo, paese poco distante. Con se aveva la borsa di lavoro e alcuni fascicoli. Non fece in tempo a scendere dalla vettura. Non lo fecero scendere e nemmeno riuscì a provare ad aprire lo sportello. I killer lo fulminarono. Lo trovarono, scriverà il medico legale, riverso sui sedili anteriori della sua automobile, l’orologio della plancia dell’auto era fermo all’1,12 l’ora in cui i killer lo hanno freddato. Fuori dall’auto per terra vennero raccolti 10 bossoli calibro 30/luger, dall’altra parte otto bossoli stesso calibro e cinque 7,65 parabellum. Una pistola che sparò risultò provenire dalla mafia catanese, a conferma dell’alleanza tra le cosche trapanesi e quelle di Catania, emersa anche nel delitto del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari (agosto 1980). I colpi mortali lo raggiunsero in rapidissima successione al torace e alla testa. Quella notte dovette esserci una incredibile tempesta di fuoco, quelle da far tremare mura e finestre, ma nessuno sentì nulla nonostante la via Carollo sia una strada stretta, è come è oggi. Niente è cambiato. La mafia fa chiasso ma nessuno la denuncia. E chi lo fa è indicato come un untore. Questo accade a Trapani 28 anni dopo l’assassinio del giudice Ciaccio Montalto. Deve esserci stato parecchio chiasso quella notte, ma non se ne accorse nessuno. Il cadavere fu scoperto sei ore dopo quando qualcuno si decise di avvertire i carabinieri. Chi era Ciaccio Montalto? Quarantenne sposato, lasciò la moglie e tre figlie di 12, 9 e 4 anni. Tre giorni prima del suo delitto a Palermo l’Anm si era riunita a congresso ed aveva chiesto al governo (ministro della Giustizia Clelio Darida) maggiore impegno nella lotta alla mafia. Erano stati uccisi Pio La Torre, Rosario Di Salvo, Lenin Mancuso, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Dalla Chiesa e sua moglie, Boris Giuliano. Come sostituto procuratore Ciaccio Montalto a Trapani aveva svolto le indagini sui clan dediti al traffico di eroina, al commercio di armi, alla sofisticazione di vini, alle frodi comunitarie e agli appalti per la ricostruzione del Belice dopo il terremoto del 1968. Per primo aveva intuito la centralità di Trapani nella mappa mafiosa. La sua inchiesta sul traffico delle armi verrà ripresa da Carlo Palermo, a sua volta vittima di un attentato (2 aprile 1985). Scampò al tritolo mafioso, che fece strazio invece di una donna, Barbara Rizzo, e dei suoi figlioletti di sei anni, i gemellini Giuseppe e Salvatore Asta. Ciaccio Montalto si ritrovò giovane ad essere la memoria storica della procura di Trapani dove lavorava dal 1971. Questa, più della vendetta per le indagini, è la ragione per cui la mafia ritenne necessario ucciderlo. Il magistrato aveva colpito gli interessi delle cosche applicando senza attendismi la legge sul sequestro dei beni “la Rognoni-La Torre” approvata nel settembre 1982 ed aveva individuato sin da allora il ruolo di Riina, Provenzano, Messina Denaro, Bagarella, e dei boss locali, dei Milazzo di Alcamo, del clan locale dei Minore, aveva portato davanti alla Corte di Assise alcuni esponenti di queste cosche. Poco prima di essere ucciso il magistrato aveva rivelato che durante il processo un imputato gli aveva fatto un segno che nel linguaggio mafioso significa condanna a morte. Aveva chiesto di essere trasferito, ma nel frattempo aveva proseguito senza sosta il suo impegno, sino alla sera che precedette la sua uccisione, trascorsa nei preparativi della requisitoria che avrebbe dovuto pronunciare l’indomani.

Il processo a Caltanissetta sulla sua morte, molti anni dopo, registrò alla perfezione la realtà trapanese. La società di benpensanti, le collusioni con Cosa Nostra. Negli anni ’80 la provincia di Trapani era divenuta terreno per la scalata al potere dei corleonesi. L’apice nel novembre del 1982 quando venne fatto sparire durante una cena di boss nel palermitano, a Partanna Mondello, a casa di don Saro Riccobono, il capo dei capi della mafia latifondista trapanese, Totò Minore. Pochi giorni dopo quella cena di morte la pax voluta da Minore cominciò a frantumarsi. Cominciarono a morire gli avversari interni ed esterni delle cosche, coloro i quali per i corleonesi di Totò Riina erano dei nemici. E il giudice Ciaccio Montalto fu tra i primi a finire nel mirino, perché Cosa Nostra aveva più di una ragione per avere paura per quel magistrato. «Ciaccinu arrivau a stazione» disse un giorno in carcere il capo mafia di Mazara Mariano Agate, «era arrivato alla stazione, al capolinea»: Agate aveva capito che Ciaccio Montalto aveva individuato una serie di canali dove dentro scorreva denaro, per questo fu ucciso. Aveva individuato una cosca di siciliani in Toscana, alcamesi, palermitani e massoni. Era a Firenze, nella città dove nel frattempo gli esattori Salvo di Salemi avevano trasferito le sedi delle loro società di riscossione, che stava andando a lavorare, per questo fu ucciso. All’ergastolo perché mandanti dell’omicidio del sostituto procuratore Gian Giacomo Ciaccio Montalto sono stati condannati gli alleati di sempre di Cosa Nostra siciliana, Totò Riina e Mariano Agate.

Ciaccio Montalto fu un «uomo dal candido coraggio», si imbatté nella mafia che cominciava a cambiare pelle, quella che oggi chiamiamo «sommersa» e allora si cominciava ad interessare di appalti (1550 banditi e assegnati nel solo biennio 83/85 a Trapani, quasi tutti finiti intercettati da Cosa Nostra). Era la mafia che cercava di arrivare dentro il Palazzo di Giustizia, oggi è la stessa mafia che influenzando la società ha messo la sordina ad una serie di pronunce di colpevolezza, processi e condanne hanno incrinato le commistioni, ma non le hanno del tutto indebolite per colpa di una società silente e disponibile dove settori della politica continuano a frequentare i mafiosi.

Chi più di tutti rimpiange di non avere fatto il suo dovere, di giornalista, è lo scrittore Vincenzo Consolo. Da giornalista, raccolse una sera lo sfogo di Ciaccio Montalto che si sentiva isolato: «Rimpiango di non avere disubbidito al suo volere e di non avere scritto subito quella intervista». Lo scrittore aveva vissuto Trapani per due mesi, nell’estate del 1975, quando seguiva per il giornale “L’Ora ” il processo al mostro di Marsala, Michele Vinci. Pubblica accusa di quel processo era il giudice Ciaccio Montalto. Consolo ricorda: «Un giorno Ciaccio mi chiamò e mi disse che mi voleva incontrare a Valderice, nella sua casa, da solo. Una sera andai e mi accolse con la moglie, una donna che negli occhi aveva tutte le preoccupazioni per il marito. Mi rivelò che aveva ricevuto delle minacce. Non scriva nulla, lo faccia solo se dovesse succedermi qualcosa, disse”. Otto anni dopo, quella confessione divenne profezia. Allora scrisse sulla Stampa e sul Messaggero (a cui seguì una interrogazione alla Camera dei Deputati di Leonardo Sciascia) e rivelò ciò che Ciaccio Montalto gli aveva detto quella sera. Di quelle minacce condite con l’oblio che continua ad essere caratteristica di questa città che in tutti i modi cerca di far dimenticare il suo passato, cancellandolo con la negazione dei fatti, dove «normalizzare» resta la parola d’ordine. I magistrati di oggi rispondono che qui non sarà tutto mafia quando corrisponderanno le azioni concrete, gli atti trasparenti, quando si cancellerà l’area grigia, quando la si smetterà di confinare la legalità nel lavoro di magistrati, giudici, investigatori.

Parlare di Ciaccio Montalto oggi. Usando le parole dell’ex procuratore di Bologna, Enrico De Nicola, «il ricordo è la traccia da seguire per il futuro». E poi ce lo ha detto il presidente Sandro Pertini proprio ai funerali di Ciaccio Montalto, «per combattere la mafia c’è solo da rispettare fino in fondo la Costituzione». Ciaccio Montalto non ha potuto concludere il suo lavoro, con quel perfezionismo che lo distingueva: non è riuscito a sconfiggere la mafia, perché la mafia glielo ha impedito. «Ulisse era il mito di Ciaccio Montalto» ha svelato un suo amico, il pediatra Benedetto Mirto, ma a lui non è riuscito ciò che riuscì a Ulisse, battere i proci e riconquistare la sua Itaca. Il compito oggi è di altri dentro e fuori i Palazzi di Giustizia. Governo e parlamento permettendo, riconoscendo come eroe davvero chi lo merita e chi lo fu e non mafiosi e corrotti.

 

 

 

Articolo del 25 Gennaio 2012 da malitalia.it
Ciaccio Montalto
di Rino Giacalone

“Giacomo era figlio di siciliani, ma non era nato in Sicilia ma a Milano dove allora suo padre Enrico, pure Lui magistrato di grande spessore tecnico e di eccezionale rettitudine, che fu presidente di sezione della cassazione, al tempo della nascita di Giacomo lavorava, ed era siciliano nell’anima e in tutto il suo essere.

Amava profondamente questa terra e tutto ciò che di positivo vi si trova pur avendo piena consapevolezza che senza l’affrancazione dal giogo della mafia e dalle incrostazioni di tanti poteri più o meno occulti non sarebbe stata mai possibile una vera rinascita.
Ebbe rapporti molto stretti con Giovanni Falcone, nati negli anni del comune lavoro a Trapani sino al 1978, e ne fu ispiratore perché, almeno nel primo periodo di attività professionale, Giovanni, che a Trapani negli anni conclusivi della sua permanenza aveva svolto soprattutto funzioni civili, riconoscendo la specializzazione penalistica di Giacomo, ricorreva frequentemente ai suoi consigli.

Giacomo era molto stimato dai Colleghi, che tuttavia spesso non percepirono, almeno sino in fondo, la esattezza delle sue intuizioni, ritenute al tempo solo ipotesi possibili di ricostruzione dei fatti e ora divenute certe acquisizioni:
-la spiegazione dell’interesse di cosa nostra, in un determinato momento storico, a mantenere in un certo ambito territoriale -a Trapani- la c.d. pax mafiosa per potervi porre il porto di accesso degli stupefacenti in Italia e nei paesi occidentali ;
-la necessità di scalfire gli interessi economici della mafia per poterne minare la forza;
-la rilevanza delle indagini bancarie e sulle banche talvolta portate a chiudere gli occhi sull’origine del denaro ricevuto o sulla destinazione di quello impiegato;
-la intuizione della struttura unitaria di cosa nostra sino a quel periodo ritenuta una costellazione di sistemi in competizione, pur accomunati da modelli operativi comuni;
-l’intuizione, precedente alle rivelazioni di Buscetta , Contorno e dei primi collaboratori, della macroscopica divergenza della logica della mafia rispetto ad ordinari criteri di razionalità;
-la comprensione della necessità di fare breccia nel muro di omertà, cominciando dai mafiosi ed inducendo proprio loro a collaborare: è noto che Giacomo riuscì a far parlare un affiliato alla mafia e non ottenne grandi risultati solo per il non rilevante spessore del personaggio , a conoscenza perciò solo di certe e poche verità, e perché le innovazioni epocali , anche quelle di strategia processuale, richiedono tempi lunghi di maturazione.

Giacomo Ciaccio non si occupò solo di mafia, ma operò a 360° :si occupò di indagini su reati ambientali quando i discorsi sul tema erano ancora ristretti a pochi precursori e, in particolare, operò per fermare la cementificazione dei fondali marini vicini alle nostre coste, che dissennate discariche in mare dei sottoprodotti della lavorazione del marmo stavano provocando, come con le sue escursioni subacquee nei nostri mari, aveva constatato: gli bastava scorgere da Valderice, dove spesso soggiornava, le chiazze che lo scarico in mare delle polveri di marmo provocano, per interrompere altre occupazioni, anche i momenti di riposo per lasciare gli amici, e piombare lancia in resta a fermare gli inquinatori.
Si trattava di problemi di cui negli anni 70 non veniva avvertita l’incidenza distruttiva sulla vita dei cittadini e delle stesse generazioni future , perché solo ora percepiamo quale devastazione del nostro patrimonio naturale abbiano apportato e quanti problemi irrisolti del vivere civile siano ancora ad essi collegati.
Operò senza timori di alcun genere contro la corruzione nell’ambito degli amministratori e funzionari pubblici , realizzando anche in questo caso indagini di rilevante impatto nella nostra area che gli attirarono, come è intuibile, molte inimicizie.

Non si può ricordare Giacomo senza far cenno ai molti suoi interessi culturali, che con tanta forza manifestava avendo una speciale capacità di coinvolgimento e di trasmettere agli altri i suoi entusiasmi: la passione per certi scrittori, da Eco, allora poco famoso, a Tomasi di Lampedusa, a Marquez ; la sua venerazione per Beethoven, l’amore per la lirica , per Bellini, quello affettuoso per Verdi insolitamente collegato ad un notevole apprezzamento per Wagner, le predilezioni per alcuni interpreti da quelli famosi quali Toscanini, Cortot, Richter, Ghilels, la amatissima Callas, ad altri quali Pollini e Daniel Rivera, percepiti subito come grandi da Giacomo con straordinaria sensibilità e consacrati tali negli anni successivi alla sua morte , le passioni più popolari per la canzone napoletana d’autore, per le nostre tradizioni gastronomiche, per il mare che con il candido coraggio che lo distingueva, solcò facendo viaggi ardimentosi pur quando all’inizio della sua esperienza nautica, aveva una pratica limitata.

Vorremmo che il ricordo di Giacomo Ciaccio Montalto non sia soltanto aria fritta con espressione che lui spesso usava, ma rappresenti tensione continua verso il perseguimento della meta che lui sempre ebbe presente, verso comportamenti che ci consentano di non vergognarci, nascondendole, delle nostre radici.
Giacomo nella sua breve vita ebbe la capacità di suscitare un profluvio di sentimenti, di influenze, di spinte etiche, pur senza espliciti suggerimenti, nei Colleghi, che hanno raccolto il testimone raccogliendo e diffondendo le idee e le tensioni morali di Giacomo.
Esperienze di vita come quella di Giacomo, nell’attuale momento in cui la fiducia dei cittadini nelle istituzioni giudiziarie, a volte non ingiustificatamente, viene meno, in cui spesso non si comprende che quella del magistrato non è una professione come le altre e deve essere esercitata avvertendo in ogni momento quanto grande deve essere il proprio impegno a tutela della legalità che comincia dalla scrupolosa osservanza della legge e dei diritti dei cittadini proprio da parte dei giudici, condotte di magistrati come Giacomo, che mai sentendosi eroi lo sono stati, sono un paradigma insostituibile da imitare e un esempio da non dimenticare”.

Mario D’Angelo, già presidente dei Tribunali di Trapani e Marsala

 

 

 

 

Articolo del 25 gennaio 2013 da articolo21.org
Ciaccio Montalto, 30 anni dopo mai più nessun giunco che si pieghi alla mafia
di Rino Giacalone

Si racconta che un giorno di fine 1982, passeggiando in carcere il capo mafia di Mazara Mariano Agate, passando davanti alle celle fece sapere a tutti che “Ciaccinu arrivau a stazione”, qualche settimana ancora e Ciaccio Montalto che non era uno qualsiasi ma era un magistrato della procura di Trapani, fu ucciso davanti casa sua a Valderice. Era il 25 gennaio del 1983. Ecco “Ciaccinu arrivau a stazione” è la frase centrale di questa storia che però per 30 anni è rimasta nascosta, mai pronunciata se non in rare occasioni per poi sparire di nuovo, riemergere e svanire e diventare oggi finalmente famosa. In ritardo! Nonostante una sentenza di condanna all’ergastolo per i capi mafia Riina e Agate quali mandanti del delitto. Anche questa arrivata in ritardo! Roba di mafia insomma quel delitto e invece per anni la città di Trapani ha creduto, ha voluto credere, che Ciaccio Montalto fosse stato ucciso per altro, anche per motivazioni poco nobili ma che la mafia sa sempre fare bene circolare quando è il momento giusto, quando c’è da mascariare qualcuno o qualcosa, un delitto, un avvertimento, anche riuscire a fare spacciare da Roma come normale avvicendamento il trasferimento di un prefetto come Fulvio Sodano o per tentare di riuscire a mandare via da Trapani, questori e capi della mobile soprattutto quanto più questi si sono avvicinati a toccare il terzo livello come era arrivato a fare Ciaccio Montalto che quando fu ucciso si stava per trasferire, ma per sua volontà, alla procura di Firenze per continuare la caccia ai soldi di Cosa nostra, cominciata a Trapani ancora prima che entrasse in vigore la legge Rognoni La Torre. Fu ucciso e poi “mas cariato” Gian Giacomo Ciaccio Montalto e quel “Ciaccinu arrivau a stazione” che doveva essere la frase centrale per spiegare tutto è rimasta sepolta. Oggi la mafia non spara più ma sa mascariare meglio di prima, sa bene inquinare per essersi oltremodo infiltrata nelle istituzioni, nell’impresa, nelle banche, anzi nelle banche c’era già ai tempi di Ciaccio Montalto che era andato a bussare alla porta di alcune di queste. Una mafia oggi potente che sa bene proteggere il suo nuovo capo che si chiama Matteo Messina Denaro e i complici che lo adorano come un dio, che dovrebbero ben conoscere le differenze tra un mafioso e una persona per bene perché sono anche professionisti e uomini delle istituzioni.

La storia di Gian Giacomo Ciaccio Montalto se si vuole è facile da raccontare, basta sfogliare le pagine delle indagini da lui dirette, l’inquinamento del golfo di Cofano, uno dei più belli paesaggi della Sicilia messo a rischio dagli scarichi illegali e anche dal tentativo di costruire qui una raffineria che era sponsorizzata dalle famiglie mafiose locali e al solito da qualche incosciente, e colluso sindaco, i soldi sporchi nelle banche, gli appalti truccati e le speculazioni edilizie, la droga e le raffinerie dell’eroina, i traffici di armi, la regia di tutto questo era di Cosa nostra, ma nel 1983 la mafia a Trapani, ma non solo a Trapani, per i più non esisteva e ci sono voluti 30 anni perché questa storia la si cominciasse a raccontare; c’è stata qualche voce isolata, le commemorazioni di queste 30 anni sono state solo dei giudici, i familiari a Trapani non ci sono più nemmeno stati perché in quel 1983 dopo avere ucciso loro il marito e il padre le minacce continuarono a tal punto da fare andare via la moglie e le figliolette di pochi anni. E oggi siamo felici che Marene e Silvia rimaste con Elena senza anche la loro mamma, siano tornate a Trapani, loro stanno dando a noi tanta speranza e modeste e misurate come sono non ci stanno rimproverando perché ognuno è stato disattento con loro, ma siamo stati noi di questa città disattenti intanto con noi stessi.

Perché è accaduto che la storia del dott. Gian Giacomo Ciaccio Montalto, sostituto procuratore della Repubblica, ucciso dalla mafia, ha scavalcato come un’onda intere generazioni svanendo senza lasciare traccia. Qualcuno l’ha anche raccontata in modo banale, strumentale, perché in qualche momento è stato utile a questo qualcuno infilarsi dentro. Magari c’è chi pensa di poterlo fare ancora adesso. La storia oggi ce la consentono quasi anche di raccontare, perché la mafia, ci vengono a dire, è oramai sconfitta, ma non è così e non lo sanno solo magistrati e giudici eredi in qualche modo di Ciaccio Montalto. Allora a coloro i quali pensano di potere consentire che finalmente oggi si possa parlare di Ciaccio Montalto va data una notizia, Ciaccio Montalto non è morto, è vivo. Perché se restano come restano attuali le sue indagini, e se queste indagini dunque sono vive, e allora il protagonista che le aveva avviate non può essere morto è ancora vivo, vive in altri che seguono il suo lavoro.

Dobbiamo presto riconquistare consapevolezza che a Trapani oggi la mafia pretende di restare inviolabile come pretendeva esserlo in quegli anni ’80, perché gli uomini che la comandano che l’aiutano restano gli stessi di allora, i cognomi si ripetono dall’83 ad oggi, dall’83 ad oggi si ripetono anche nomi e cognomi di responsabili morali se non materiali delle commistioni mafiose. A Trapani la mafia ha dalla sua il silenzio della città, il muro di gomma, l’indifferenza dell’informazione, rispetto al 1983 oggi tanti partecipano come però a delle passerelle, ci raccontano che c’è una antimafia che è peggio della mafia perchè poi tutto deve tornare normale, chi tenta di opporsi al suo strapotere una volta finiva isolato e ucciso, oggi isolato e allontanato, come è accaduto negli ultimi tempi a magistrati e poliziotti troppo pignoli. Una volta c’erano sindaci che negavano l’esistenza della mafia oggi ci sono sindaci che non pronunciano più la parola mafia e nel frattempo alcuni di loro sono condannati per favoreggiamento ad imprenditori mafiosi o ci sono politici corrotti dai mafiosi che vogliono anche farti ascoltare la loro lezione morale.  In questi 30 anni è anche accaduto che investigatori che facevano il loro dovere sono stati rappresentanti ad organi di governo, al ministero dell’Interno come calunniatori, c’è chi ha scritto nero su bianco che qui c’erano investigatori che si erano inventati la mafia mentre finivano in cella i mafosi assieme ai colletti bianchi che però poi agli occhi di tanti benpensanti sono diventati untori quando hanno deciso di ammettere le loro malefatte e collaborare con la magistratura. Non viviamo in una terra normale purtroppo e ce ne accorgiamo ogni giorno di più. Viviamo in una terra dove ogni giorno dovremmo ricordare che la mafia è merda, come faceva a Cinisi Peppino Impastato contando i 100 passi che dividevano la sua casa da quella di don Tano Badalamenti,  o ce lo diceva qui Mauro Rostagno che lavorava da giornalista a Rtc a 5 metri dalla stanza dove il suo editore, facente parte di una delle famiglie che Ciaccio Montalto aveva individuato come colluse, incontrava il ministro dei lavori pubblici di Totò Riina. Oggi sicuramente Impastato e Rostagno verrebbero appellati come professionisti dell’antimafia, si sono risparmiate questa sferzante infamia solo perché per loro prima delle parole sono arrivati il tritolo per uno la lupara per l’altro.

Una cosa dobbiamo dircela. Nessuno deve più abbassare gli occhi, nessun giunco deve più piegarsi dinanzi alla piena, dovrà resistere, battagliare, si dovrà vivere mai più sopravvivere. Sennò non avrebbe senso tutto quello che oggi stanno facendo, stiamo facendo, non solo la magistratura e le forze dell’ordine per combattere la mafia. Non avrebbe senso questa giornata con l’arte oggi pomeriggio, con l’arte, la scuola e i giovani, oggi a Trapani, impegnati in un grande sforzo con il progetto Ferus. Oggi stiamo vivendo il primo vero grande evento di questa città dal 1983 ad oggi. Questo è un grande evento perché è sano, vero, autentico, è un grande evento perché libero, perché ci fa respirare il profumo di libertà, non ha su di se le mani che la mafia ha messo invece su altri falsi grandi eventi e forse sarebbe ora di togliere il nome grande evento a quella via che si trova al porto che avrebbe dovuto celebrare magnificenze e invece quell’evento fu la celebrazione della nuova mafia. Oggi dobbiamo dirci che non è normale quello che è accaduto e che è stato anormale quello che la mafia ha voluto farci vivere.

Parafrasando Alessandro Baricco per concludere. C’è gente che muore e, con tutto il rispetto, non ci si perde niente. Ma lui, Ciaccio Montalto, era uno di quelli che quando non ci sono più lo senti. Come se il mondo intero diventasse, da un giorno all’altro, un po’ più pesante, senza che in giro non ci sia più chi ci pensa a tenerlo su. Con quella loro leggerezza. Senza aver la faccia da eroi, ma intanto tengono su la baracca. Sono fatti così. Era fatto così, Gian Giacomo Ciaccio Montalto, tanti come lui sono fatti per fortuna ancora così.

 

 

 

Articolo del 25 Gennaio 2016 da  liberainformazione.org
Ciaccio Montalto, una storia attuale
di Rino Giacalone
Leggere gli atti giudiziari lasciati dal magistrato trapanese ucciso 33 anni addietro fa meglio comprendere  il contenuto delle inchieste odierne e di ciò che accade dove oggi si dice che la mafia non esiste.

Si racconta che un giorno di fine anno del 1982, passeggiando in carcere, dove era detenuto, Mariano Agate, capo mafia defunto di recente, passando davanti alle celle, con il suo noto fare spocchioso, annunciò, “Ciaccinu arrivau a stazione”. Agate parlò con quel suo modo di fare, lo stesso usato quando da una cella del Tribunale di Trapani, dove era processato per il delitto del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari, mandò a dire a Mauro Rostagno, il giornalista poi ucciso nel 1988, di non dire “minchiate” sul suo conto. Ecco in quello stesso modo Mariano Agate quel giorno di fine anno del 1982 fece sapere a tutti i suoi compari con lui in carcere, che “Ciaccinu arrivau a stazione”. “Ciaccinu” era il sostituto procuratopre di Trapani Gian Giacomo Ciaccio Montalto. Nella notte del 25 gennaio 1983 Ciaccio Montalto fu ucciso davanti casa sua a Valderice. “Ciaccinu arrivau a stazione” è la frase centrale di questa storia che però per tantissimi anni  è rimasta nascosta, come spesso è accaduto , e accade, per altre analoghe triste vicende. Per decenni a Trapani il nome di Ciaccio Montalto è rimasto o non pronunciato o mal  pronunciato, tranne in quelle rare occasioni in cui per iniziativa di pochi, amici, un paio di suoi colleghi, attivisti e volontari delle associazioni antimafia, il nome di Ciaccio Montalto è stato adeguatamente ricordato, per poi sparire di nuovo. Non è stata nemmeno sufficiente a sollecitare la sempre distratta città di Trapani la sentenza di condanna all’ergastolo, arrivata con anni di ritardo, per i capi mafia, Totò Riina e Mariano Agate, per l’appunto, quali mandanti del delitto. Quel delitto fu cosa di mafia e invece per anni la città di Trapani c’è stato chi si è parecchio impegnato a far credere che Ciaccio Montalto era stato ucciso per altro, addirittura anche per motivazioni poco nobili. Anche in questo la “regia” della  mafia. In questi anni Cosa nostra ha sempre trovato il modo giusto di “mascariare” qualcuno o qualcosa, la vittima, il delitto, un avvertimento, per sfuggire ad ogni colpa. Sopratutto quando le vittime avevano fatto o stavano per far danno assai alla mafia. Gian Giacomo Ciaccio Montalto quando fu ammazzato era in procinto di trasferirsi alla Procura di Firenze, successive indagini hanno dimostrato come in Toscana la cupola, e quella trapanese aveva già i suoi uomini, non solo “picciotti” ma anche “colletti bianchi” come verrebbero chiamati oggi, professionisti, uomini di banca, imprenditori. Ciaccio Montalto è stato ammazzato per avere toccato direttamente il clan Riina. Fu suo uno dei primi provvedimenti di arresto che colpirono Gaetano Riina, detto “u nano”, fratello del più celebre “Totò u curtu”. Ciaccio Montalto aveva scoperto gli interessi in terra di Toscana della mafia cortonese e trapanese insieme. E da pm a Firenze insomma era pronto a muoversi. Ma il movente del delitto sta anche in altro. Ciaccio Montalto fu ucciso quando era arrivato al cosidetto “terzo livello”, la pista che stava seguendo era quella dei soldi, dei beni, quando entrò in vigore alla fine del 1982 la legge Rognoni-La Torre sul sequestro e la confisca dei beni alla mafia, Gian Giacomo Ciaccio Montalto seguendo altri percorsi giudiziari era arrivato a mettere mani su alcuni beni mafiosi. Fu ucciso e poi “mascariato” Gian Giacomo Ciaccio Montalto e quel “Ciaccinu arrivau a stazione”, pronunciata da Agate che da Ciaccio Montalto era stato messo in riga in occasione di una indagine su pressioni subite da agenti penitenziari da parte di mafiosi detenuti, e che doveva essere la frase centrale per spiegare presto quell’omicidio,  è rimasta sepolta per decenni. La mafia di quegli anni è la stessa di quella di oggi, la mafia non spara più ma sa mascariare meglio di prima, sa bene inquinare per essersi oltremodo infiltrata nelle istituzioni, nell’impresa, nelle banche doive c’era già ai tempi di Ciaccio Montalto, che era andato a bussare alla porta di alcune di queste prendendosi e portandosi in ufficio gli assegni dei boss, i guadagni dei traffici di droga, delle raffinerie di eroina impiantate nel trapanese…degli appalti. La mafia che uccise Ciaccio Montalto è la stessa che  oggi potente sa bene proteggere il suo nuovo capo che si chiama Matteo Messina Denaro e che i complici  adorano come un dio, professionisti e uomini delle istituzioni. La storia di Gian Giacomo Ciaccio Montalto è facile da raccontare, basta sfogliare le pagine delle indagini da lui dirette, l’inquinamento del golfo di Cofano, uno dei più belli paesaggi della Sicilia messo a rischio dagli scarichi illegali e anche dal tentativo di costruire qui negli anni ’70 una raffineria di petrolio che era sponsorizzata dalle famiglie mafiose locali e al solito da qualche incosciente, e colluso, sindaco, c’erano poi le inchieste sui soldi sporchi nelle banche, gli appalti truccati e le speculazioni edilizie, il “sacco” del Belice, la droga e le raffinerie dell’eroina, i traffici di armi. Tutto questo era Cosa nostra, lo sapeva Gian Giacomo Ciaccio Montalto ma nel 1983 la mafia a Trapani, ma non solo a Trapani, per i più non esisteva. Oggi non ricordiamo una persona scomparsa, Ciaccio Montalto non è morto, è vivo. Perché se è vero come è vero che restano come restano attuali le sue indagini, e se queste indagini dunque sono vive, e allora il protagonista che le aveva avviate non può essere morto è ancora vivo, vive in altri che seguono il suo lavoro. E si trovano dinanzi una mafia che pretende di restare inviolabile come pretendeva esserlo in quegli anni ’80, gli uomini che la comandano, che l’aiutano, restano gli stessi di allora, i cognomi si ripetono dall’83 ad oggi, dall’83 ad oggi si ripetono anche nomi e cognomi di responsabili morali se non materiali delle commistioni mafiose.  La storia di Gian Giacomo Ciaccio Montalto sta nelle pagine delle sue indagini, nel fatto di essersi dovuto allontanare dalla famiglia forse per salvaguardare i suoi familiari perché prima di essere ucciso puntuali erano arrivate a casa sua minacce di morte, continuate contro i familiari dopo il delitto tanto da costringere quella vedova con le sue giovanissime figlie a lasciare Trapani. Il capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, Rocco Chinnici, intervistato da Lillo Venezia per “I Siciliani” ricordò l’esistenza di un’auto blindata non usata a Trapani, altri testimoni, come il grande giornalista Vincenzo Vasile ci hanno spesso ricordato di quando sempre Rocco Chinnici svelò che per Ciaccio Montalto c’era un posto nel pool antimafia dell’ufficio istruzione di Palermo, assieme a Falcone e Borsellino. Troppo pericoloso per la mafia era Gian Giacomo Ciaccio Montalto, inavvicinabile mentre qualche suo collega della porta accanto con i mafiosi si accordava. Scene che si ripetono ancora oggi, nei Palazzi di Giustizia c’è chi lavora e chi lavora per fermare il lavoro dei colleghi. Non si può ricordare Giangiacomo Ciaccio Montalto senza far cenno ai molti suoi interessi culturali, che con tanta forza manifestava avendo una speciale capacità di coinvolgimento e di trasmettere agli altri i suoi entusiasmi: la passione per certi scrittori, da Eco, allora poco famoso, a Tomasi di Lampedusa, a Marquez ; la sua venerazione per Beethoven, l’amore per la lirica , per Bellini, quello affettuoso per Verdi insolitamente collegato ad un notevole apprezzamento per Wagner, le predilezioni per alcuni interpreti da quelli famosi quali Toscanini, Cortot, Richter, Ghilels, la amatissima Callas, ad altri quali Pollini e Daniel Rivera, percepiti subito come grandi da Giacomo con straordinaria sensibilità e consacrati tali negli anni successivi alla sua morte , le passioni più popolari per la canzone napoletana d’autore, per le nostre tradizioni gastronomiche, per il mare che con il candido coraggio che lo distingueva, solcò facendo viaggi ardimentosi pur quando all’inizio della sua esperienza nautica, aveva una pratica limitata”. “Le sue giornate erano scandite dalla musica – ricorda il procuratore aggiunto della Dda di Palermo Dino Petralia –  il suo sguardo rivolto verso l’infinito azzurro del mare, ma il suo impegno giornaliero si manifestava nell’esame curioso e acuto delle carte processuali, con l’ostinata determinazione di chi sa che la Sicilia potrà guadagnarsi una dignità solo liberandosi dall’asservimento ai poteri criminali. Una consapevolezza molto più forte di quella di tutti noi che gli lavoravamo accanto; vissuta, in certi momenti, talvolta innanzi ad esiti investigativi non sempre soddisfacenti, come vera e propria sofferenza. Anche lui ucciso, come molti altri in Sicilia, per avere fatto semplicemente il suo dovere, ma probabilmente il “semplicemente” non si addice alla storia ed ai tormenti della Sicilia”.

 

 

 

Fonte:  alqamah.it
Articolo del 25 gennaio 2018
Un omicidio antico, ma i fatti sembrano di oggi
di Rino Giacalone
Il delitto del pm trapanese Gian Giacomo Ciaccio Montalto 35 anni dopo. Aveva capito a fondo l’essenza di Cosa nostra

“Ciaccinu arrivau a stazione”. In questa maniera attraversando i corridoi sui quali si aprivano le celle del carcere di Trapani-San Giuliano, il boss di Mazara del Vallo Mariano Agate annunciò che di lì a poco Cosa nostra si sarebbe tolto dai piedi un magistrato scomodo. Nella notte del 25 gennaio 1983, 35 anni fa, i killer attesero così per uccidere il pm di Trapani Gian Giacomo Ciaccio Montalto mentre a tarda ora faceva ritorno nella sua casa di Valderice. Solo nelle prime ore della giornata un passante si accorse di quel corpo senza vita, riverso dentro l’auto e avvertì i carabinieri.

Ciaccio Montalto fu ucciso da numerosi colpi di arma da fuoco, un inferno di fuoco che però non indusse nessuno degli abitanti di quella via, che avevano ben sentito, ad uscire fuori e dare l’allarme. Ma è quel “Ciaccinu arrivau a stazione” che personalmente non finisce mai di ronzare nella mia testa dopo averlo letto su diversi atti giudiziari. È lì che sta il centro di questa storia, che è storia di mafia, e come ogni storia di mafia ha avuto bisogno di decenni per arrivare alla verità: la giustizia anche per Ciaccio Montalto, ha incontrato depistaggi e disattenzioni, errori e silenzi.

Il dottore Gian Giacomo Ciaccio Montalto, che aveva 41 anni quando fu ucciso e 13 anni di servizio in magistratura, fu il primo pubblico ministero ad essere ucciso dalla mafia. Sino ad allora Cosa nostra aveva ucciso procuratori della Repubblica, Scaglione, Terranova e Costa. Quando fu ammazzato era in procinto di trasferirsi alla Procura di Firenze. La sua storia professionale è fatta di tante indagini che puntavano diritto a colpire l’associazione mafiosa e i beni dei mafiosi in un periodo in cui era impossibile contestare il reato di associazione mafiosa, e men che meno pensare al sequestro dei beni – normative, queste, che il Parlamento avrebbe varato sul finire del 1982 solo dopo due delitti eccellenti, quello del segretario regionale del Pci siciliano e deputato Pio La Torre e quello del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Si può ben dire che a Trapani il pm Ciaccio Montalto aveva cominciato ad applicare queste norme prima ancora che entrassero in vigore.

Parlava di mafia a Palazzo di Giustizia, il pm Ciaccio Montalto, in un’atmosfera dove raramente la si sentiva pronunciare anche da altri magistrati, men che meno dagli avvocati. Quel delitto spense ogni tensione investigativa e si aprì una stagione pesante: un magistrato arrestato per corruzione; altri magistrati e giudici indotti alle dimissioni per sfuggire ai provvedimenti disciplinari del Csm, si tenga conto che alcuni dei processi che dovevano aprirsi in quel periodo approderanno nelle aule di giustizia solo ai primi anni ’90.

Per la verità ci provò un altro magistrato, appena tre anni dopo il delitto di Ciaccio Montalto, ma sulla sua strada incontrò un attentato simile a quello subito nel 1983 a Palermo dal capo dell’ufficio istruzione Rocco Chinnici. Il 2 aprile 1985 il pm Carlo Palermo si salvò miracolosamente dall’attentato di Pizzolungo: l’autobomba esplose ma a far da scudo al magistrato fu un’intera famiglia, una mamma ed i suoi due gemellini, Barbara Rizzo, Salvatore e Giuseppe Asta di appena 6 anni.

In questi giorni il Csm ha reso pubblici gli atti riguardanti il magistrato Ciaccio Montalto. La storia di Gian Giacomo Ciaccio Montalto se si vuole è facile da raccontare, basta sfogliare le pagine delle indagini da lui dirette, l’inquinamento del golfo di Cofano, uno dei più belli paesaggi della Sicilia messo a rischio dagli scarichi illegali e anche dal tentativo di costruire qui una raffineria che era sponsorizzata dalle famiglie mafiose locali e al solito da qualche incosciente, e colluso sindaco, i soldi sporchi nelle banche, gli appalti truccati e le speculazioni edilizie, la droga e le raffinerie dell’eroina, i traffici di armi. La regia di tutto questo era di Cosa nostra, ma nel 1983 la mafia a Trapani, ma non solo a Trapani, per i più non esisteva e a Trapani ci sono voluti a momenti quasi 30 anni da quel 1983 perché la si cominciasse a svelare.

La storia poi del dott. Gian Giacomo Ciaccio Montalto ha scavalcato come un’onda intere generazioni svanendo senza lasciare traccia. Qualcuno l’ha raccontata in modo elegante e veritiero, ricordando le passioni dell’uomo Ciaccio Montalto e quindi dando un senso non solo giudiziario alle sue indagini rimaste però troppo tempo sullo sfondo, qualcun’altro in modo banale, strumentale, parlando di Ciaccio Montalto e nel contempo scrivendo lettere al ministero dell’Interno per lamentare che a Trapani un poliziotto che aveva alzato il coperchio dell’infame connubio tra mafia, politica e impresa, la mafia se la era inventata. Persone e personaggi che recitano come in un teatro, perché la mafia, ci vengono anche a dire, è oramai sconfitta, ma non è così.

E leggendo quel “Ciaccinu arrivau a stazione” oggi Gian Giacomo Ciaccio Montalto non può che essere ricordato parlando delle sue indagini di ieri che rappresentano quella che è diventata la mafia di oggi, sommersa ma infiltrata nei centri vitali di Trapani che è la terra del boss latitante Matteo Messina Denaro, di 200 uomini di onore tornati liberi di circolare, di decine di “colletti bianchi” sempre pronti a servire i padroni e i mafiosi. Dobbiamo presto sapere conquistare consapevolezza che a Trapani oggi la mafia pretende di restare inviolabile come pretendeva esserlo in quegli anni ’80, perché gli uomini che la comandano che l’aiutano restano gli stessi di allora, i cognomi si ripetono dall’83 ad oggi, dall’83 ad oggi si ripetono anche nomi e cognomi di responsabili morali se non materiali delle commistioni mafiose.

A Trapani la mafia continua ad avere dalla sua il silenzio della città, il muro di gomma, l’indifferenza dell’informazione. A Trapani si applaude a chi irride e accusa quel pugno di magistrati e investigatori che non mollano la presa. La mafia ha insegnato bene che non c’è bisogno più di uccidere, basta mascariare, sporcare il lavoro degli onesti, basta insinuare dubbi, sollevare l’esistenza di indagini che non ci sono, dare del calunniatore a chi non lo è e affidare al calunniatore il compito di fare la rivoluzione.

Siamo nel 2018, ma sembra di essere ancora nel 1983. Quando la rivoluzione che Ciaccio Montalto portava avanti venne spenta da quel “Ciaccinu arrivau a stazione”. Ciaccio Montalto aveva ben capito l’essenza di Cosa nostra. Aveva scoperto i nomi dei potenti, Riina, Agate, Messina Denaro, indagava sui Rimi di Alcamo, e stava risalento ai collusi nel potere politico e quelli nascosti nelle banche e nella massoneria. A Firenze voleva andare per colpire il cuore di quel sistema che oggi continua a reggere. Aveva intuito che le mafie vivevano tanto di corruzione. Fin dentro il “suo” Tribunale e la “sua” Procura. Basta poi andare a leggere un suo intervento ad un convegno del Csm dove parlò assieme a Giovanni Falcone, Rocco Chinnici, Giuliano Turone, Gherardo Colombo, Giuseppe Di Lello, per fare alcuni nomi.

Era il giugno del 1982, Ciaccio Montalto chiamò per nome le mafie e ne svelò il carattere: vivono, venne a dire, attraverso collegamenti interni e raffinate ramificazioni internazionali, possono contare su una rete di complicità nell’ambito politico ed economico, inutile, continuò, parlare di pericolosità se non parliamo di azioni operative. Prima di Falcone, Ciaccio Montalto intuì la necessità di una Procura che si occupasse solo di mafia, parlò di banche dati, indicò il pericolo di allora che è ancora quello di oggi, riempire di fascicoli l’ufficio del magistrato più attento al fenomeno mafioso, per non fargli fare le indagini. “L’efficienza della giustizia – disse – non si può misurare dai numeri delle pratiche evase, trincerandoci dietro l’alibi che il cittadino attende giustizia, consegniamo ingiustizia”.

Parafrasando Alessandro Baricco, per concludere: “C’è gente che muore e, con tutto il rispetto, non ci si perde niente”. Ma lui, Ciaccio Montalto, è uno di quelli che non ci sono più e lo senti. Come se il mondo intero diventasse, da un giorno all’altro, un po’ più pesante, senza che in giro non ci sia più chi ci pensa a tenerlo su. Con quella loro leggerezza. Senza aver come Gian Giacomo Ciaccio Montalto la faccia da eroi, ma intanto tengono su la baracca. Sono fatti così. Era fatto così, Gian Giacomo Ciaccio Montalto. Si mettano il cuore in pace coloro i quali definiscono malagiustizia quella giustizia che invece funziona. Tornino nei loro salotti e nelle loro case , qualcuno qualche notte andrà a prenderli, perché non sono molti, ma ci sono ancora per fortuna magistrati e giudici, investigatori che si portano dentro l’intransigenza di Gian Giacomo Ciaccio Montalto.

 

 

 

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