26 Febbraio 1995 Terrasini (PA) ritrovato il corpo del commerciante di vini Francesco Brugnano.
Francesco Brugnano, 59 anni, titolare di una cantina vinicola di Partinico fu ritrovato privo di vita , a Terrasini (PA), all’ interno del bagagliaio della sua automobile.
Sembra fosse il confidente del maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo, che stava aiutando, e che per questo sia stato ucciso.
In seguito, il 4 marzo, il maresciallo Lombardo viene ritrovato cadavere nella propria auto. Non si pensa ci siano collegamenti tra le due morti.
Fonte: C.to siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” Palermo
Titolare di una cantina vinicola di Partinico, confidente del maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo.
In seguito, il 4 marzo, suicidio del maresciallo Lombardo, che aveva incontrato Gaetano Badalamenti negli Stati Uniti, probabilmente per convincerlo a collaborare con la giustizia.
Articolo di La Repubblica del 27/02/95
I CLAN UCCIDONO A TERRASINI
TERRASINI – Il titolare di una cantina vinicola, Francesco Brugnano, 59 anni, è stato assassinato a Terrasini, un paese a 30 chilometri da Palermo. Il corpo privo di vita del commerciante è stato trovato all’interno del bagagliaio della sua automobile, una Golf bianca, che è stata rinvenuta sulla strada statale Palermo-Terrasini, a qualche chilometro di distanza dal paese.
Il delitto è stato compiuto in un momento in cui a Terrasini da mesi c’è un clima infocato per le polemiche provocate dalle denunce del sindaco, Manlio Mele, della Rete, che ha segnalato ingerenze mafiose nell’amministrazione comunale. E la polemica è sfociata nella sfiducia dei consiglieri che hanno chiesto di indire un referendum nel tentativo di far dimettere il sindaco.
E proprio nei giorni scorsi, durante la trasmissione “Tempo reale” il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, senza mezzi termini ha affermato che “pezzi dello Stato aiutano la mafia”, denunciando pubblicamente l’ex comandante della stazione dei carabinieri di Terrasini. – f v
Articolo da La Stampa del 27 Febbraio 1995
Ucciso un commerciante
PALERMO. Un commerciante di vino, Francesco Brugnano, 59 anni, è stato assassinato a Terrasini e il suo cadavere con il cranio sfondato è stato scoperto nel bagagliaio di una Golf bianca dal figlio Salvatore che, preoccupato per il ritardo del padre, era andato a cercarlo. Brugnano, che gestiva una cantina vinicola, aveva precedenti penali per detenzione illegale di armi. Gli inquirenti sospettano che si tratti di un regolamento di conti fra sofisticatori vinicoli. Non si tratterebbe di un delitto di mafia, anche se nella zona attualmente infuriano polemiche per i contrasti fra il sindaco di Terrasini, Manlio Mele, e il Consiglio comunale proprio sul ruolo dei boss che, secondo il primo cittadino, deputato regionale della Rete, sarebbero qui molto influenti. Diciannove su venti consiglieri comunali l’altro giorno hanno sfiduciato Mele, sostenendo che fa solo demagogia, [a. r.]
Articolo da La Stampa del 6 Marzo 1995
Palermo, suicida in caserma il maresciallo dei carabinieri Lombardo: fu indicato da Orlando come legato alla mafia
di Antonio Ravidà
Si uccide dopo le accuse in tv «Il giorno più bello fu quando presi Riina»
PALERMO Un altro colpo di pistola echeggia a Palermo. Un’altra ferita nella lotta civile contro la mafia. Stavolta a produrla non è un delitto, ma un suicidio, quello di un carabiniere al quale erano stati rivolti pubblicamente sospetti forse ingiusti. La sua morte crea nuove lacerazioni e ulteriori sospetti. Uno sparo alla tempia destra. Così è morto, alle 22,30 di sabato, il maresciallo Antonino Lombardo, 49 anni, da 31 nell’Arma dei carabinieri che ora lo piange come uno dei suoi uomini migliori.
Il sospetto di connivenze mafiose lanciato contro di lui dalla Rete e rilanciato in forma clamorosa da Leoluca Orlando la sera del 23 febbraio a «Tempo reale», la trasmissione di Michele Santoro, forse l’ha sopraffatto. Sullo sfondo c’è il controverso caso di Terrasini dove la politica, per lunga tradizione immancabilmente diventa scandalo, rissa. E a Terrasini il maresciallo Lombardo, moglie e tre figli uno dei quali ha seguito le sue orme, per più di 16 anni aveva comandato la locale stazione dei carabinieri.
La cronaca del nuovo suicidio «eccellente» a Palermo (quello del deputato de Rosario Nicoletti e il più recente del giudice Domenico Signorino fecero scalpore) è scarna. Dopo l’ennesima giornata di lavoro nella caserma Bonsignore in corso Vittorio Emanuele, nel cuore di Palermo, sabato sera il maresciallo è salito sulla Fiat Uno a lui assegnata per dirigersi a casa, a Terrasini. Da circa un anno, da quando il fuoco delle polemiche era stato sempre più attizzato, l’avevano trasferito al Ros, il reparto operativo speciale.
Nel posto n. 8 del parcheggio, nell’oscurità, è rimbombato il colpo esploso dalla pistola di ordinanza. È accorso il piantone. Quindi l’allarme e la mobilitazione. Qualcuno avrebbe visto il maresciallo farsi il segno della croce, nella sua auto. Sul sedile accanto al lato guida, è stata trovata la lettera-testamento con cui il sottufficiale ha chiesto perdono alla moglie Fina (sorella del tenente dei carabinieri Carmelo Canale, per anni «spalla» di Borsellino) e ai figli Giuseppe, Fabio e Rossella, «che sono tutta la mia vita» ha scritto il suicida.
Per tutta la notte e ieri mattina la salma è stata vegliata nella chiesetta situata nello stesso cortile. Nel pomeriggio è stata trasferita nel piccolo villino immerso nel verde a Terrasini. Qui i Lombardo abitano da tempo. Oggi i funerali. Saranno religiosi, visto che il morto è un suicida, o vi sarà una deroga alla norma ecclesiale che in questi casi li vieta? E mentre le notizie sulla pietosa scelta di Lombardo suscitano sgomento, gli inquirenti e i familiari cercano il vero «perché» e si aggrappano alle nobili parole nella lettera d’addio.
Il maresciallo ricorda tra l’altro di aver partecipato alla cattura di Riina il 15 gennaio ’93 e accenna alle sue missioni negli Usa, sostenendo che la chiave della sua delegittimazione sta proprio in quei viaggi. Che cosa ha inteso dire? Qualcuno ipotizza che un commerciante di vino, Francesco Brugnano, 59 anni, trovato col cranio sfondato il 26 febbraio a un passo da Terrasini, fosse un suo «confidente»: un delitto che l’avrebbe spaventato al punto da suggerirgli di togliersi la vita?
Il coro delle indiscrezioni alimenta gli immancabili polveroni. C’è chi ricorda che il nome di Lombardo l’avrebbe fatto due anni fa il pentito Salvatore Palazzolo, chiamando in causa decine di insospettabili. Ma c’è chi attribuisce un’influenza decisiva alla cosiddetta cultura del sospetto di Leoluca Orlando e del sindaco retino di Terrasini, Manlio Mele, sfiduciato da 19 dei 20 consiglieri comunali dopo aver denunciato minacce mafiose che a detta di molti in realtà non avrebbe ricevuto.
Accusato di aver fatto demagogia, Mele (che è deputato regionale) sostiene in sintonia con Orlando di aver solo sollecitato indagini sulla mafia di Terrasini, quelle che riteneva che Lombardo non avesse svolto.
Articolo da La Repubblica del 7 marzo 1995
È MORTO PER QUEI VIAGGI IN AMERICA
di Giuseppe D’Avanzo
PALERMO – Bisogna leggere l’ultima lettera di Antonino Lombardo per capire perché un Serpico di scorza durissima, un uomo da tutti stimato, un maresciallo dei carabinieri che ha sempre giudicato “gesto da vigliacco” il suicidio decide di spararsi in testa nel cortile di una caserma. Le ragioni sono tutte nei due fogli scritti a mano con grafia tonda che Lombardo si è lasciato cadere accanto sabato notte. Bisogna leggere la lettera. Lo dice dall’altare della chiesa di Terrasini il tenente Canale. Canale è stato il braccio destro di Paolo Borsellino, è il cognato di Antonino Lombardo, è oggi il custode – forse – del segreto della sua morte.
Dinanzi alla bara, di fronte al comandante generale dell’Arma Luigi Federici, Carmelo Canale – non un muscolo si muove sul suo volto, non un’emozione incrina la sua voce – scandisce: “Le motivazioni reali della morte di Antonino sono nella sua lettera”. E rilegge in chiesa quella lettera: “Mi sono ucciso per non dare la soddisfazione a chi di competenza di farmi ammazzare e farmi passare per venduto…”. Non s’è ucciso per le dichiarazioni di un pentito, Antonino Lombardo. È vero che diciotto mesi fa Salvatore Palazzolo, un uomo d’onore di Cinisi, soffiò il suo nome come “uno avvicinabile”. I pubblici ministeri “trascrissero a verbale” le parole del pentito, ma sorrisero. “Capimmo – dicono oggi alla Procura di Palermo – che dal punto di vista di Palazzolo il maresciallo Lombardo potesse apparire ‘ uno avvicinabile’ , ma noi sapevamo da anni dell’incarico scomodo e maledetto che l’Arma gli aveva affidato”.
Antonino Lombardo era l’uomo che lo Stato maggiore dei carabinieri teneva in territorio nemico, a contatto con i nemici. Il maresciallo doveva camminare nel fango, nel fango raccogliere le informazioni. Questo era il compito che gli era stato assegnato, questo compito svolgeva. E regolarmente al Comando arrivavano le sue relazioni di servizio. Non si è ucciso per le avventate e violente parole di Leoluca Orlando. Di Orlando non c’è cenno nella lettera, come non c’è nessun accenno al violento attacco che aveva dovuto subire in diretta a Tempo reale. “La chiave della mia delegittimazione sta nei viaggi americani” scrive il maresciallo. È una frase comprensibile certamente ai suoi superiori, ma incomprensibile a tutti se non si sa che da “per lo meno vent’anni” Antonino Lombardo era in contatto con Tano Badalamenti, il boss di Cinisi, il capo della commissione provinciale di Palermo di Cosa nostra per gran parte degli anni Settanta. Badalamenti parlava con Lombardo. Lombardo parlava con Badalamenti. Il maresciallo dalle poche o molte parole del boss capiva, si faceva un’idea di quanto stava succedendo dentro l’organizzazione.
Badalamenti è detenuto da dieci anni nel carcere di Marion nell’Illinois. L’estate scorsa Lombardo lo ha incontrato. Che cosa si sono detti? Con quali informazioni è ritornato in Italia? La testimonianza di don Tano Badalamenti può essere la chiave di volta, per lo meno, di tre misteri. È Badalamenti che parla a Buscetta dell’omicidio Pecorelli come di “un favore fatto ad Andreotti”. È don Tano che racconta al Grande Pentito che “Calvi fu ucciso da Francesco Di Carlo”, boss di Altofonte. È ancora Badalamenti che può confermare come Andreotti si diede da fare per “aggiustare” nel 1979 il processo Rimi. Badalamenti potrebbe essere quindi l’atout nelle indagini sulle connessioni tra Cosa nostra, il potere politico, il potere economico. Qual era la ragione di quel colloquio solitario? E con quale risultato il maresciallo tornò in Italia? Deve essere stato se non un risultato, una promessa di risultato.
Due mesi fa, in gennaio, il maresciallo Lombardo ritorna a Marion. Questa volta accompagnato da due pubblici ministeri, Fausto Cardella della Procura di Perugia e Gioacchino Natoli della Procura di Palermo. Cardella sta sbrogliando la matassa dell’omicidio Pecorelli, Natoli è uno dei pubblici ministeri del processo Andreotti. Di Pecorelli si parlò. Con quale esito? Ci sono allora due interpretazioni della frase “la chiave della delegittimazione è nei viaggi americani”. La più semplice: Lombardo ha pagato il prezzo del legame con Badalamenti stretto per ordine degli stati maggiori. Seconda ipotesi: Lombardo è stato delegittimato per il lavoro che, con Badalamenti, grazie a Badalamenti, stava forse svolgendo intorno al caso Pecorelli o addirittura intorno all’affaire Andreotti.
Sta di fatto che a leggere con attenzione l’ultima lettera sembra emergere un disagio del maresciallo Lombardo. Nelle righe d’addio saluta gli “amici fidati”. “Pochi”, annota. Saluta “i superiori gerarchici con cui ha rischiato la vita unitamente ad altri colleghi”. “Pochissimi colleghi”, ripete. Ricorda che il giorno più bello della sua vita è stato quel 15 marzo del 1993 quando Totò Riina cadde nelle mani dei carabinieri. Lombardo partecipò all’azione. Anzi – sostengono ora i suoi colleghi – fornì le informazioni base per la “caccia”. E allora perché scrive “l’arresto a cui ho dato un grosso contributo può essere confermato o smentito dai superiori che sanno”? Perché dovrebbe essere smentito? Sembra quasi una sfida quella di Lombardo.
Come un gesto di disprezzo appaiono quei cinque milioni che restituisce all’amministrazione dell’ Arma. Erano serviti per “una delle due missioni in America”. E dove cercare allora “chi di competenza” metteva in pericolo la sua vita, lo faceva “passare per venduto”? Va cercato dentro l’Arma o fuori dell’Arma? Oggi a Palermo c’è chi dice che Lombardo non si è sentito protetto, difeso dagli Stati maggiori. “Antonino – dice un suo collega – se ne sbatteva i coglioni di Orlando. Gli interessava soltanto l’Arma e l’Arma non sembrava più avere interesse per lui”. Tutt’altra storia si raccoglie nella caserma Bonsignore dove il maresciallo si è ucciso, dove ha trascorso l’ultima ora fumando in macchina l’ultimo sigaro.
“Quel commerciante di vini, Francesco Brugnano, ucciso il 26 febbraio a Partinico era un suo confidente. Stava aiutando Lombardo a stanare Giovannino Brusca. Quando il maresciallo ha saputo della sua morte, si è sentito perduto. Ha visto in pericolo se stesso, ha immaginato una rappresaglia contro i suoi familiari”. Storia che regge poco. “Perdere” i confidenti fa parte del gioco. Nessun poliziotto o carabiniere si è mai tirato un colpo in testa per questo.
Articolo di La Stampa del 20 Novembre 1997
Ros-Procura, un suicidio come miccia della crisi
di Francesco La Licata
La morte del maresciallo Lombardo Ieri il capitano De Donno e i dubbi sui metodi di indagine dai giudici di Caltanissetta
PALERMO No, non è solo un problema di qualche carabiniere «pappone». È vero, c’è la storia – rivelata dal collaboratore Angelo Siino – del «rapportone» sulla mafia degli appalti «offerto» per soldi ai mafiosi, ma non sembra questo il vero «nodo» che oppone i vertici dei Reparti speciali dei carabinieri alla Procura di Giancarlo Caselli. Alla stessa stregua, non sembra la presunta «infedeltà» dell’aggiunto Guido Lo Forte – denunciata a Caltanissetta dal capitano Giuseppe De Donno – il centro da cui partire per dare comprensione ad ima vicenda che si avvia a diventare l’ennesima, velenosissima, storia palermitana. Ciò che si percepisce a pelle, è che sotto deve esserci qualcosa di più profondo, di più vischioso di una banale storia di corruzione. Saranno le indagini dei magistrati a stabilire se le accuse di Siino nei confronti dei marescialli Carmelo Canale, Antonino Lombardo e Giuliano Guazzetti, leggeranno alla prova degli accertamenti. Resta il fatto che le rivelazioni del 1995, affidate al colonnello Mori e al capitano De Donno da «Bronson», così – per via della somiglianza con l’attore americano – Siino viene chiamato a Palermo, rimangono lettera morta e mai segnalate alla magistratura, fino al 13 ottobre scorso, quando Caselli li interroga e i due ufficiali devono ammettere qualcosa. Affiora l’eterno dilemma: i contatti «pericolosi» di Canale, Guazzelli e Lombardo, sono personali o incentivati dai vertici per dare impulso alle inchieste? Ecco la ferita aperta. Ciò su cui dovrà farsi piena luce, nel più breve periodo possibile, riguarda un certo metodo investigativo – a parere della Procura di Palermo in uso sin dai tempi del comando del colonnello Giuseppe Russo – che ha messo in corto circuito i Ros e il palazzo di giustizia. Una ferita che brucia ancora: il suicidio di Antonino Lombardo, morto con un colpo di pistola alla tempia, la sera del 4 marzo del 1995. Il sottufficiale, passato ai Ros dopo essere stato comandante della stazione di Terrasini, aveva appena parlato coi suoi superiori, il colonnello Domenico Cagnazzo e il capitano Giovanni Baudo. Qualche giorno prima, il 23 febbraio, durante la trasmissione di Michele Santoro «Tempo reale», il sottufficiale era stato duramente attaccato da Leoluca Orlando e dal sindaco di Terrasini Manlio Mele, per i suoi contatti con la famiglia D’Anna-Badalamenti. Sì, proprio il boss don Tano, che Lombardo «curava» per compito istituzionale nel tentativo di riportarlo in Italia. Quella trasmissione fu indicata come il movente del tragico gesto di Lombardo. Il sottufficiale ebbe funerali quasi di Stato, i familiari accusarono Orlando e Mele di istigazione al suicidio. L’Arma intervenne a salvaguardia dell’onore perduto di Lombardo, seppure già al corrente delle ombre che avvolgevano il maresciallo. Su Lombardo e sui suoi rapporti con Gaetano Badalamenti aveva, infatti, già parlato il pentito Salvo Palazzolo. Prima ancora, tra il 1993 e il ’94, la squadra mobile di Palermo aveva captato strani discorsi di gente di Partinico che, intercettata al telefono, si lasciava andare a discorsi che compromettevano il maresciallo di Terrasini. E due settimane prima della trasmissione di «Tempo reale», Siino aveva confidato a Mori e De Donno che Lombardo gli aveva offerto notizie sull’inchiesta sugli appalti che lo riguardava. Oggi, alla luce di quanto i magistrati hanno potuto mettere insieme, il movente di quel suicidio sembra molto lontano dal «turbamento» per la trasmissione televisiva. Ed assume altra luce il biglietto di addio lasciato da Lombardo. Scriveva il maresciallo, prima di premere il grilletto: «Mi uccido per non dare la soddisfazione a chi di dovere di farmi ammazzare o farmi passare per venduto». Cos’era accaduto tra il 23 febbraio e il 4 marzo? Solo oggi è stato possibile rispondere a questa domanda. Si sa, infatti, che il colonnello Mori, apprese le «soffiate» di Siino, revoca a Lombardo il mandato di tornare a Marion, nell’Illinois, per parlare con Badalamenti. Nello stesso tempo qualcuno gli fa trovare vicino a casa il cadavere di Francesco Brugnano» un confidente che aveva favorito la sua trattativa per la «vendita» del «dossier appalti» ad Angelo Siino. Ma non è finita: Lombardo apprende che Palermo sta indagando sul suo operato, dopo le rivelazioni del pentito Salvo Palazzolo. Glielo dice il suo ex comandante, il capitano Giovanni Baudo. L’ipotesi più credibile – che i magistrati dimostrano di privilegiare anche nella previsione di una archiviazione dell’inchiesta sull’istigazione al suicidio – è che il sottufficiale si sia sentito stretto tra due fuochi. Da un lato la mafia, che lo minaccia uccidendogli il confidente; dall’altro le indagini sul suo conto e la mancata «copertura» dei suoi superiori. Questo concetto lo esprime chiaramente ancora nella lettera di addio, laddove sottolinea: «La chiave della mia delegittimazione sta nei miei viaggi americani». La frase lascia trasparire la disperazione di un uomo, di un militare che ha perso la fiduca dei suoi superiori. Siamo, dunque, nell’ambito di un panorama ben più largo dell’angusto limite della presunta corruzione. Su questo indaga la Procura di Palermo ed anche quella di Caltanissetta, intervenuta sulla scia delle accuse lanciate dal capitano De Donno al dottor Lo Forte. Proprio ieri il procuratore aggiunto di Caltanissetta Paolo Giordano e il sostituto Luca Tescaroli hanno ascoltato a Roma l’ex capo del reparto operativo dei carabinieri Antonio Subranni (in carica all’epoca dell’arresto di Riina), il generale Mario Mori, e lo stesso De Donno come persone informate sui fatti. Con i magistrati De Donno si è difeso dicendo di aver raccolto le dichiarazioni di Siino quando questi era un confidente dei carabinieri e di non averle utilizzate perchè non erano fonte di prova. Dopo il pentimento di Siino, però, De Donno decise di rivolgersi alla procura di Caltanissetta.