26 Giugno 1990 San Lorenzo (RC). Ucciso Antonino Pontari, assessore del comune. Si era rifiutato di presentare le dimissioni impostegli dal clan
Antonino Pontari, 42 anni, assessore socialista all’urbanistica al Comune di San Lorenzo (Rc), responsabile dell’ufficio tecnico dell’ospedale “Morelli” di Reggio Calabria, fu assassinato con quattro colpi calibro 9 alla testa, perché
si era rifiutato di dare le dimissioni imposte dal clan.
L’agguato avvenne il 26 giugno del 1990 lungo la superstrada ionica, nei pressi dell’aeroporto “Tito Minniti”, dove Antonino Pontari, a bordo della sua Bmw, era fermo a un semaforo.
A sparare, un killer a bordo di una moto, guidata da un complice. Secondo il racconto di alcuni pentiti, l’omicidio di Pontari avvenne su mandato del boss di San Lorenzo Domenico Paviglianiti, che però fu assolto in appello.
A sparare sarebbe stato Santo Maesano, in sella alla moto guidata da Enzo Di Bona. Il supporto logistico fu invece assicurato da Domenico Testa e Giovanni Riggio, quest’ultimo poi collaboratore di giustizia e tra gli accusatori di Paviglianiti.
Il racconto dei pentiti sulla morte di Pontari coincideva con le dichiarazioni della sorella di questo, che aveva chiaramente indicato quale movente dell’omicidio la volontà di Paviglianiti di imporre sul territorio di San Lorenzo la supremazia della cosca e il controllo sugli appalti.
(Fonte: memoriaeimpegno.it)
Fonte: archiviolastampa.it
Articolo del 27 giugno 1990
Assessore ucciso dalla ‘ndrangheta
di Diego Minuti
Nuovo delitto politico dopo la tregua post-elettorale. La giunta del Comune reggino si era arresa alle intimidazioni mafiose. Aveva rifiutato le dimissioni dall’Urbanistica Antonio Pontari, amministratore psi assassinato con 4 pallottole da un killer.
REGGIO CALABRIA. Rompendo una tregua che durava da alcuni mesi, dopo la serie di omicidi contro esponenti politici che aveva insanguinato la vigilia elettorale, la ‘ndrangheta ha ucciso un altro amministratore pubblico calabrese. La vittima si chiamava Antonio Pontari, 48 anni, socialista, assessore a San Lorenzo, un comune della fascia ionica della provincia di Reggio Calabria, già teatro alla fine dell’89 di una serie di attentati contro pubblici amministratori le cui abitazioni furono bersaglio del lancio di bombe incendiarie.
Pontari è stato assassinato ieri mattina, alla periferia cittadina, nel quartiere di Pellaro. Era uscito di casa circa mezz’ora prima, diretto all’ospedale Morelli, dove era impiegato con funzioni amministrative. Accanto a questa occupazione svolgeva, da due anni, attività politica. Cedendo alle insistenze dei suoi compagni di partito, aveva infatti accettato di candidarsi al Consiglio comunale di San Lorenzo, in una lista di cui facevano parte democristiani socialisti e comunisti. La lista vinse largamente relegando all’opposizione un gruppo di dissidenti del psi.
Grazie anche al suo titolo di studio (era geometra), Pontari ebbe la delega all’Urbanistica in una giunta che, però, a distanza di pochi mesi dalla sua elezione, cominciò a traballare. All’inizio sembrò trattarsi di semplici baruffe politiche, poi l’attacco alla giunta assunse aspetti criminali. Intimidazioni e attentati furono diretti prima contro il sindaco, il socialista Francesco Zuccaia, poi contro il suo vice, il democristiano Giovanni Manglaviti. La tensione è andata crescendo sino a quando, nel maggio scorso, la giunta è entrata formalmente in crisi. Antonio Pontari non volle però seguire l’esempio dei suoi colleghi di esecutivo e rifiutò di presentare le dimissioni.
Mentre sul tavolo del segretario generale del Comune cominciarono ad arrivare le dimissioni del sindaco e degli altri assessori, Antonio Pontari proclamò pubblicamente di non volersi dimettere. E non certo perché fosse il portavoce, in seno alla giunta, di interessi occulti. Solo perché — diceva — non vedeva le ragioni di quella capitolazione. Un atteggiamento che in molti — sia compagni di partito, sia alleati di maggioranza — hanno cercato di mutare trovandosi però davanti a un risoluto diniego.
La determinazione di Pontari a restare comunque un amministratore ha cominciato a vacillare solo nelle ultime settimane. Tanto che, nell’ultima seduta dell’esecutivo, tenutasi venerdì scorso, aveva annunciato la sua intenzione di dimettersi non precisando però quando avrebbe ufficializzato la decisione. Un ritardo che, evidentemente, coloro che volevano la caduta della giunta non hanno tollerato. Ieri mattina è scattato l’agguato, eseguito con una dinamica identica a quella con cui, sabato, è stato assassinato l’imprenditore Antonino Saraceno.
Mentre Pontari era fermo in attesa che il semaforo gli desse via libera, gli si è avvicinato il killer che, infilato il braccio nell’abitacolo della Bmw, ha appoggiato la canna della sua calibro 9 alla testa della vittima. Quattro pallottole hanno fulminato Pontari rimasto reclinato sul volante, con il motore dell’auto ancora acceso. Mentre Pontari cadeva ucciso per mano della ‘ndrangheta, matrice di cui gli inquirenti non dubitano, in Consiglio regionale si accendeva violentissimo il primo dibattito ufficiale della nuova legislatura. Oggetto: l’opportunità di chiedere ufficialmente al prefetto di Reggio Calabria, Sabatino, di fare i nomi di quegli eletti o candidati che — come ha detto alcune settimane fa il rappresentante del governo davanti ad una delegazione dell’Antimafia — si sono giovati dell’appoggio della ‘ndrangheta per ottenere voti o addirittura fanno parte dell’organico delle cosche.
Fonte: archivio.unita.news
Articolo del 27 giugno 1990
Ucciso con tre colpi alla testa assessore del Psi all’urbanistica
di Aldo Varano
‘Ndrangheta scatenata nel Reggino: in due giorni e mezzo, 7 morti ammazzati. Ieri mattina un commando ha ucciso Antonio Pontari, 48 anni, assessore all’urbanistica (Psi) in un comune a 50 chilometri dal capoluogo. Dall’inizio dell’anno in Calabria sono state assassinate 144 persone, 95 nella sola provincia di Reggio. Un bilancio da guerra civile ed una spirale che nessuno riesce a spezzare.
REGGIO CALABRIA. Sette morti ammazzati in due giorni e mezzo nella sola provincia di Reggio. L’ultimo cadavere della terrificante mattanza è quello di Antonio Pontari, 48 anni, assessore socialista all’urbanistica nel comune di San Lorenzo. È il quinto amministratore pubblico che viene ucciso negli ultimi quattro mesi.
I killer lo hanno affiancato quando, a bordo di una Bmw, Pontari s’è fermato al semaforo di San Leo, all’altezza di Pellaro, il più popoloso quartiere a nord della città. Uno dei due giovani a bordo della solita potente motocicletta, con il volto coperto dai caschi, gli ha sparalo contro tre volte centrandolo, sempre alla testa, con tre micidiali pallottole di un calibro 9. Sono seguiti momenti di panico con gli automobilisti in fila davanti al semaforo che tentavano di dileguarsi, per paura o per non restare coinvolti nelle indagini. È nato un confuso e spericolato carosello che s’è concluso con una lunga serie di tamponamenti ed un gigantesco ingorgo.
Pontari lavorava all’ufficio tecnico della Usl di Reggio. San Lorenzo è un antico comune sui primi contrafforti aspromontani ma il suo territorio scende giù fino al mare. È uno dei punti più belli della costa ionica: spiaggia larga e bianchissima, mare ancora pulito e sempre caldo. Negli ultimi decenni villaggi turistici e seconde case hanno aggredito la zona con massicce speculazioni. Attorno al business di San Lorenzo Marina si sono registrati attentati dinamitardi, incendi dolosi e misteriosi omicidi.
A San Lorenzo l’amministrazione comunale Dc-Psi-Pci è in crisi da tempo. Alle ultime elezioni (due anni fa) vennero presentate due civiche. Una fornata da Dc-Psi-Pci e l’altra da fuoriusciti dei tre partiti. In paese si sono accumulate gravi tensioni. Lo scorso novembre contro l’abitazione del vicesindaco dc, il medico condotto Giovanni Manglaviti, fu organizzata una vera e propria spedizione punitiva. Dalla strada furono esplosi almeno un centinaio di colpi di pistola mentre il medico e suo padre dai balconi e dalle finestre organizzarono una controffensiva di fucilate: una scena da vecchio western durata oltre 20 minuti. Vennero fermati tre giovani e si parlò di un bisticcio per una questione di parcheggio. Ma gli accusati erano imparentati strettamente con il capo della civica avversaria a quella in cui era stato candidato Manglaviti.
Ad una cinquantina di chilometri dal primo agguato, due killer hanno ucciso, quasi nello stesso momento, un operaio incensurato di 33 anni, Luigi Mamone. Era il figlio di don Salvatore, condannato per fatti di mafia ed a sua volta ammazzato poche ore prima dello scorso Capodanno. Più di venti anni fa Salvatore Mamone era stato accusato dell’omicidio di Domenico Maesano, soprannominato «la belva di Drosi», un bracciante semianalfabeta che aveva ucciso 5 persone per vendicare il nipote prediletto da lui mantenuto agli studi fino al giorno in cui il ragazzo era stato ferito restando paralizzato. Maesano, che dalla latitanza tornava di tanto in tanto in paese per le sue sanguinose vendette, fu trovato ucciso in un pagliaio costruito su un albero in una proprietà dei Mamone. Alla fine, comunque, don Salvatore venne scagionato.
Buio fitto, intanto, sugli altri 5 omicidi. Tre, quello dei fratelli Michelangelo e Bruno Mammone, di 22 e 19 anni, e di Franco Salzone, proprietario di autobus per il trasporto di passeggeri tra i paesini della provincia e la citta, ucciso mentre guardava la televisione sabato sera, sono apparsi agli inquirenti decisamente anomali.
Tratto da strill.it
Articolo del 3 marzo 2015
Istituzioni in trincea: Ecco l’elenco degli amministratori calabresi uccisi
di Giuseppe Baldessarro
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Antonino Pontari – Assessore comunale San Lorenzo (Reggio Calabria). Assessore socialista all’urbanistica, ucciso mentre si trova fermo in auto ad un semaforo con colpi di pistola. Solo pochi giorni prima aveva deciso di dimettersi dalla giunta per consentire nuove elezioni. Un pentito racconterà che era stato ucciso perché non voleva piegarsi alle cosche. Nel febbraio 2009 la Corte d’Assise di Reggio Calabria condanna all’ergastolo il boss della ‘ndrangheta Domenico Paviglianiti, ritenuto uno dei principali trafficanti internazionali di droga, accusato anche dell’omicidio Pontari. Secondo la DIA la vittima ostacolava in qualche modo i piani della cosca Paviglianiti. Il Consiglio comunale di San Lorenzo fu commissariato nell’agosto del 1990, a seguito delle dimissioni di molti dei suoi componenti, anche a causa delle vicende giudiziarie che avevano coinvolto molti di loro. Le elezioni per il rinnovo del Consiglio comunale (fissate per il novembre del 1990) non furono ritenute valide perché il numero dei votanti non raggiunse il 51 per cento, per il clima di paura – sottolineano gli investigatori – che si era determinato a causa degli omicidi che le avevano precedute. Per gli investigatori un riscontro di questa ricostruzione viene proprio dall’omicidio Pontari, l’unico consigliere comunale di San Lorenzo a non essersi all’epoca dimesso. Aveva 42 anni.
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Fonte: memoriaeimpegno.blogspot.com
Assessore del comune di San Lorenzo, ucciso il 26 giugno 1990 per aver rifiutato di dare le dimissioni imposte dal clan.
Era il 26 giugno 1990 quando Antonino Pontari – assessore all’urbanistica del comune di San Lorenzo – fu ucciso da un sicario a bordo di una motocicletta, mentre si trovava fermo a un semaforo lungo la Statale 106.
Aveva quarantadue anni, era originario di Chorio di San Lorenzo ma viveva con i genitori e la sorella a Musupuniti, frazione del comune di Melito Porto Salvo poco a sud dell’abitato di Chorio. Era geometra e, dopo varie esperienze lavorative, anche fuori dalla Calabria, era diventato responsabile dell’ufficio tecnico dell’Ospedale Morelli di Reggio Calabria.
Quando nel 1983 il partito socialista di San Lorenzo, alla ricerca di persone alla loro prima esperienza politica, gli propose di candidarsi alle elezioni comunali, Antonino Pontari accettò e risultò il primo degli eletti. Nel 1988 si ricandidò con una lista di cui facevano parte democristiani, socialisti e comunisti, diventando Assessore all’Urbanistica.
La mattina del 26 giugno 1990, Antonino Pontari si stava recando al lavoro, quando è scattato l’agguato, mentre si trovava fermo a un semaforo all’altezza di Pellaro, sulla superstrada jonica. Contro di lui furono sparati 5 colpi di pistola Beretta calibro 9. Erano circa le 8,30 e un killer, a bordo di una moto guidata da un complice, stava aspettando il momento opportuno per ucciderlo. Pontari venne raggiunto da 2 colpi: uno lo ferì alla tempia, l’altro gli recise l’aorta. La sua BMW proseguì per qualche centinaio di metri tamponando l’auto davanti e finendo la sua corsa contro il guard-rail. Aveva il porto d’armi e aveva con sé una pistola conservata dentro un borsello, ma non ha avuto tempo e modo di provare a difendersi.
L’agguato, eseguito con chiare modalità mafiose, è apparso subito legato all’attività politica di Pontari a San Lorenzo, ma la ricostruzione dell’omicidio è stata possibile solo qualche anno dopo, grazie alle dichiarazioni di alcuni pentiti arrestati nell’ambito dell’operazione Valanidi II.
Le dichiarazioni dei pentiti, la ricostruzione della direzione distrettuale antimafia, la coraggiosa testimonianza della sorella di Pontari, erano concordi nell’indicare quale movente dell’omicidio la situazione politica del comune di San Lorenzo.
A San Lorenzo, alla fine degli anni ‘80, si erano verificati numerosi attentati e atti intimidatori che avevano visto coinvolti in particolare imprenditori e amministratori. Un clima difficile che nel maggio del 1990 aveva portato alle dimissioni del sindaco Zuccalà e degli altri assessori, mentre Antonino Pontari aveva proclamato pubblicamente di non volersi dimettere. Solo in un secondo momento aveva annunciato le dimissioni, che non ebbe mai il tempo di formalizzare.
Le mancate dimissioni di Pontari ostacolavano i piani della cosca Paviglianiti, che in quegli anni iniziava a imporsi sul territorio, determinata a conquistarne il controllo politico/economico eliminando ogni forma di resistenza. Secondo le ricostruzioni, la cosca era alleata dei De Stefano e direttamente collegata ai clan Barreca e Latella (a cui Paviglianiti si era rivolto per l’omicidio Pontari).
Articolo del 1 Giugno 2016
Fonte: info@quotidianodelsud.it
Un pentito ha rivelato: «Ammazzato perché non serviva le cosche»
Il boss è stato assolto per mancanza di prove
Antonino Pontari, geometra e assessore comunale all’Urbanistica del Comune di San Lorenzo, in provincia di Reggio Calabria, viene ucciso la mattina del 26 giugno del 1990. Aveva 42 anni.
I killer a bordo di una moto entrano in azione la mattina presto al bivio di San Leo, mentre era fermo in auto a un semaforo.
Per la sua esecuzione utilizzano una pistola con il silenziatore.
Antonino viene raggiunto da due colpi, uno alla tempia e l’altro gli reciderà l’aorta. Muore sul colpo.
Solo pochi giorni prima aveva deciso di dimettersi dalla giunta per consentire nuove elezioni.
Anche il sindaco Zappalà era stato oggetto di gravi intimidazioni. Le indagini cercano un collegamento tra la sua attività politica e l’omicidio. Ma sarà un pentito anni dopo a raccontare che era stato ucciso perché non voleva piegarsi alle cosche locali.
Nel febbraio del 2009 la Corte d’Assise di Reggio Calabria ha condannato all’ergastolo il boss della ‘ndrangheta Domenico Paviglianiti, ritenuto uno dei principali trafficanti internazionali di droga e accusato anche dell’omicidio Pontari. Ma la sua responsabilità nella morte dell’assessore non viene provata.
Secondo la Direzione distrettuale antimafia la vittima ostacolava in qualche modo i piani della cosca Paviglianiti. Il Consiglio comunale di San Lorenzo fu commissariato nell’agosto del 1990, a seguito delle dimissioni di molti dei suoi componenti, anche a causa delle vicende giudiziarie che avevano coinvolto molti di loro. Le elezioni per il rinnovo del Consiglio comunale (fissate per il novembre del 1990) non furono ritenute valide perché il numero dei votanti non raggiunse il 51 percento, per il clima di paura – sottolineano gli investigatori – che si era determinato a causa degli omicidi che le avevano precedute. Per gli investigatori un riscontro di questa ricostruzione viene proprio dall’omicidio Pontari, l’unico consigliere comunale di San Lorenzo a non essersi dimesso.
Fonte: info@quotidianodelsud.it
Articolo del 1 Giugno 2016
L’assessore all’Urbanistica di San Lorenzo Antonino Pontari ucciso mentre era fermo a un semaforo il 26 giugno del 1990
«Mia madre vinta da quel dolore»
di Luciana De Luca
La sorella Rossella racconta i tragici momenti che seguirono alla scomparsa del fratello. Ma anche l’amore e la rinascita
«QUANDO Antonino andò a lavorare a Prato mia madre non riusciva a stare senza di lui. E così gli scrisse una lettera nella quale gli chiedeva di tornare a casa. Lui si mise a piangere e preparò subito le valigie. Il destino lo chiamava qua. Mia madre me lo ha detto molti anni dopo la morte di mio fratello perché averlo fatto tornare l’ha sempre fatta sentire responsabile di quello che poi è accaduto».
Un rapporto fortissimo quello che legava Antonino Pontari, l’assessore all’Urbanistica del Comune di San Lorenzo, ucciso il 26 giugno del 1990, e sua madre, nonostante l’età adulta del figlio. Lo testimonia Rossella, la sorella, che dopo il fatto tragico ha dovuto prendersi cura dei suoi genitori e fare i conti con un dolore che non sembrava prevedere emancipazione alcuna da quel profondo stato di disperazione iniziale. Suo padre morì otto mesi dopo “di crepacuore” e per chi rimase fu molto dura tentare di ritrovare una parvenza di normalità.
La famiglia Pontari era composta da quattro persone: papà Domenico, mamma Vittoria, Antonino e Rossella. Quest’ultima si era laureata in Scienze biologiche mentre il fratello era un geometra e dopo altre esperienze lavorative anche fuori dalla Calabria, aveva trovato un porto sicuro nell’ufficio tecnico dell’ospedale “Bianchi Melacrino Morelli” di Reggio Calabria. Una vita tranquilla la loro.
Con Antonino silenzioso, preciso e puntuale in tutto ciò che faceva, con un carattere apparentemente burbero ma poi disponibile come pochi a dare una mano a chi glielo chiedeva, e Rossella più eloquente, pronta alla disubbidienza quando non condivideva idee calate dall’alto. E poi c’era il Partito socialista di San Lorenzo, dove viveva la famiglia, alla ricerca di volti nuovi, non contaminati da precedenti esperienze politiche, che di certo avrebbero potuto aiutare la squadra nella tornata elettorale che si sarebbe svolta da lì a poco.
«Mio fratello amava la legalità, era una persona rigorosa e si opponeva quando le cose non andavano bene – racconta Rossella -. Era una persona che non era disposta a far finta di niente. Lui affrontava tutte le cose con grande determinazione.
Per questo quando i Socialisti gli hanno proposto la candidatura in consiglio comunale noi eravamo tutti contrari. E non solo noi. Chi lo conosceva gli sconsigliò di buttarsi nell’agone politico. Ma lui alla fine decise di fare quest’esperienza».
Era il 1983. Antonino risultò il primo degli eletti. Il candidato a sindaco per il Partito socialista era il farmacista Francesco Saverio Zuccalà.
«Il primo mandato fu tranquillo – continua Rossella -. Poi quando si ripresentò nell’88 e diventò assessore all’Urbanistica, si vedeva che era più pensieroso. Ma in famiglia non aveva l’abitudine di parlare di quella che era la sua attività politica, di cosa si occupasse al Comune.
Di certo non si aspettava di finire morto ammazzato al bivio di San Leo di mattina presto mentre cercava di raggiungere il suo posto di lavoro. Lui non era il tipo che si lasciava intimidire e forse lo hanno ammazzato proprio per questo».
Per Rossella e per sua madre l’omicidio di Antonino è paragonabile a un buco nero. Non capiscono, non hanno mai capito. Tutto troppo improvviso, violento. Il passaggio dalla normalità al clamore della cronaca, le ha fiaccate, spaventate.
«Io quel giorno stavo imbiancando una stanza della nostra casa – spiega Rossella -. Antonino mi aveva comprato il rullo, la pittura e io avevo iniziato a lavorare fin dalla mattina presto. Lui poi è andato via per recarsi al lavoro a Reggio Calabria e io me lo ricordo ancora. È l’ultima immagine che ho di lui. Dopo poco tempo, erano all’incirca le 8 e 30, si presentò la Polizia a casa. Io chiesi il motivo di quella visita e loro mi spiegarono che dovevano fare dei normali controlli. Ma mi chiesero subito dov’era la stanza di mio fratello. Io gliela indicai e li accompagnai al piano di sopra, dove c’erano le camere da letto.
Ricordo che controllarono tutto, nella scrivania, nei cassetti. Presero anche le pistole che mio fratello deteneva legalmente. Tra queste anche una Mauser piccolina che gli aveva regalato mio nonno e che aveva comprato in Argentina. L’aprirono per ispezionarla con attenzione ma poi non riuscirono più a chiuderla. Io ancora inconsapevole degli avvenimenti, li invitai a chiuderla perché “altrimenti quando viene mio fratello se la trova così si arrabbia”. I poliziotti anche davanti alla mia sortita non ebbero nessuna reazione. Non mi dissero niente. Mentre ero di sopra con loro sentii mia madre al piano di sotto che urlava e piangeva. Nel frattempo, da me salirono un mio cugino con la moglie che avevano una faccia affranta, sconsolata. Da mamma andò una mia cugina che disse a mia madre: “Sai zia è successa una cosa brutta. Hanno ammazzato Ninì”.
Mio padre mentre tutto questo accadeva non era in casa con noi, ma si era recato a Chorio a comprare il giornale. Anche lì era giunta la notizia della morte di mio fratello e c’era un amico nostro che sapeva già tutto ma non ebbe il coraggio di dirgli niente. Lo invitò soltanto a tornare a casa dicendogli che c’era una persona che lo stava cercando. Quando ritornò vide tante macchine e non riusciva a comprendere. Toccò a noi dirgli quello che era accaduto».
Rossella, a distanza di tanti anni, prova ancora un dolore lacerante per la perdita di suo fratello. Con Antonino è andata via una parte importante di sé. Ed è iniziata per tutti un’altra vita. Perché quel buco nero che lo ha inghiottito ha continuato a esistere nel loro immaginario, ha turbato i loro sonni, li ha spaventati e proiettati in una dimensione che non conoscevano, difficile da gestire.
“E poi è iniziata una lunga trafila – racconta -. L’hanno dapprima portato al cimitero dove hanno eseguito anche l’autopsia. Lo hanno ucciso con una pistola che aveva il silenziatore. È stato raggiunto da un colpo alla tempia e un secondo che gli ha reciso l’aorta. Ci hanno detto che erano in due con una moto. Lui era fermo al semaforo, aveva anche la radio accesa. Antonino aveva il porto d’armi, portava una pistola sempre nel borsello. Se si fosse accorto di qualcosa di strano, una minaccia, di certo avrebbe almeno tentato di difendersi. Sui motivi della sua esecuzione non ne abbiamo mai saputo niente. Anche io fui chiamata dalla polizia. Avevo 39 anni allora, ma non potei fare altro che ribadire la circostanza che mio fratello non aveva l’abitudine di parlare in famiglia delle sue attività che riguardavano il suo incarico al Comune».
Dopo questo tragico episodio la famiglia Pontari inizia a vivere una condizione di perenne paura.
«Un giorno vidi mio padre col fucile in mano – continua Rossella -. Gli chiesi cosa stesse facendo e lui mi rispose: “Lo tengo nel caso venga qualcuno”. Gli spiegai che da noi non sarebbe mai venuto nessuno, cercai di tranquillizzarlo. Ma anch’io da quando avevano ucciso Antonino non mi sentivo più al sicuro. Però ero costretta a tranquillizzare i miei genitori che non riuscivano a farsi una ragione di quello che era accaduto e ripetevano sempre: “Perché, perché”, senza mai riuscire a trovare risposte. Anche dopo tanto tempo non riuscivano a spiegarsi i motivi che avevano portato alla sua morte. Probabilmente Ninì sottovalutò qualcosa».
Rossella racconta quei giorni tragici ma ripensa con affetto a tutti gli amici che le stettero vicino.
Antonino fu ucciso il giorno del suo compleanno e solo dopo 24 ore dopo le autorità glielo restituirono.
Nel giorno dei suoi funerali c’era una folla immensa. Essendo un assessore, c’erano chiaramente tutti i colleghi del Comune e di lavoro. E anche i componenti del suo partito che la famiglia conobbe in quell’occasione. A San Lorenzo arrivò anche il deputato Saverio Zavettieri.
La morte di Antonino aveva tutte le caratteristiche per essere considerato un omicidio politico, uno dei tanti che in quegli anni insanguinarono il reggino.
«La comunità di San Lorenzo si è stretta attorno a noi – ricorda Rossella -. Tante le manifestazioni d’affetto ricevute. Ai funerali di mio fratello ci fu una grande partecipazione. Il prete che celebrò la funzione ci disse in seguito che in tutta la sua vita non aveva visto tanta gente a un funerale. La nostra esistenza dopo quell’episodio cambiò radicalmente. Mia madre si mise a letto e non voleva più saperne di alzarsi. Io feci di tutto per farla reagire. Invitavo continuamente amici per farli stare con noi, per costringerla a cucinare, per non farla sentire sola. Tutti i giorni veniva qualcuno a farci compagnia, la sera soprattutto non ci lasciavano mai da soli. Anche il prete del paese veniva a trovarci con sua madre. Lei cucinava e poi mangiavamo tutti insieme.
Io costringevo mia madre ad alzarsi, a non lasciarsi morire. Una volta mio padre tornò a casa e la sentii gridare. Si spaventò molto. Io la rimproveravo per farla reagire e lei piangeva tanto. E quando ero costretta a farlo venivo assalita da una profonda sofferenza perché la comprendevo intimamente ma ero costretta a farlo. Dio solo sa come mi sentivo dentro. Quello è stato un momento difficilissimo. Ero da sola a combattere contro quel dolore che attanagliava mia madre e le impediva anche di fare le cose essenziali. Tante volte mi sono sentita perduta».
Rossella era l’unica a poter prendere in mano la situazione e farsi carico di quei genitori annientati dal dolore e privi di qualsiasi capacità di reazione.
«Un mio cugino – spiega – si era perfino offerto di dormire con noi ma io gli risposi che era tutto inutile. Per quanto tempo avrebbe potuto fare quella vita: un mese, due e poi? Era meglio ripartire da soli e cercare di adeguarci alla nuova condizione. Noi tutti avevamo una grande paura. Perchè non capire le ragioni di quella morte ci faceva sentire tutti in pericolo. Anch’io ero molto spaventata ma sapevo di essere l’unica capace di poter trasmettere tranquillità e forza agli altri.
Un giorno andai al commissariato di Condofuri e un maresciallo mi disse: “Signorina, sapete quando si saprà qualcosa sulla morte di vostro fratello, quando qualche pentito parlerà”. E infatti dopo qualche anno quello che aveva predetto si avverò. Ma per noi fu una magra consolazione perché ci avevano distrutto la famiglia. Io ero una giovane donna spensierata, mi ero laureata e avevo un futuro davanti tutto da costruire. Poi cambiò tutto di colpo. Ho dovuto prendermi cura di ciò che rimaneva della mia famiglia. Mia madre si ammalò anche di Cirrosi, andava in coma, dovevo portarla in ospedale. Mio padre ci lasciò otto mesi dopo la scomparsa di mio fratello. E durante il suo funerale pensai per un momento di trovarmi lì per Antonino e non per papà. Alla fine siamo rimaste due donne sole a dover fare i conti con le macerie della nostra esistenza. Non è stato facile».
Rossella vive sulla sua pelle la furia devastatrice della criminalità organizzata. Non conosce i motivi che hanno spinto quegli uomini su una moto a porre fine all’esistenza di suo fratello. E tutto questo la spaventa, le impedisce di capire cosa ha intorno, di chi si deve fidare, a chi deve aprire la porta di casa. E poi Antonino era sempre stato il suo punto di riferimento, quello di tutto la famiglia. Ricorda un episodio che la intenerisce ancora e spiega con chiarezza il ruolo di Ninì nella famiglia Pontari: «Volevo prendere la patente e mio fratello mi portò il libro dei quiz. Nonostante non mi sentissi molto preparata, superai l’esame di teoria. All’esame di guida la prima volta fui bocciata ma poi riuscii a farcela. Mi sentivo comunque molto insicura ed evitavo di uscire con la macchina. Un giorno bisognava andare a prendere una persona a Chorio, Antonino mi disse di andare da sola. Decisi di farlo ma mi sentivo molto insicura. Partii con la consapevolezza di dover contare esclusivamente sulle mie forze. Solo in seguito seppi che mio fratello, di nascosto da me, mi seguii con la sua macchina per vedere come andava e in caso di difficoltà intervenire in mio aiuto».
Rossella e la madre Vittoria cercano di tenere insieme, comunque, quella famiglia mutilata, priva di una figura maschile di garanzia. Ma per fortuna o solo perché la vita così come toglie è anche capace di offrire occasioni di risarcimento, l’esistenza delle due donne è destinata a cambiare.
«Dopo tre anni dalla morte di mio fratello mi sono fidanzata e poi mi sono sposata – spiega Rossella -. Mio marito era vedovo e aveva un figlio di sette anni. Con questo bambino è entrata la luce nella nostra vita. Con lui è stato subito amore. Lui si è legato a me e io a lui. Eravamo entrambi feriti, soli. E anche mia madre è ritornata dopo tanti anni di buio. A lei il suo arrivo ha dato tanta gioia. Con Christian, si chiama così mio figlio, c’è stata una vera e propria svolta nelle nostre esistenze.
Gli ultimi anni mamma li ha vissuti sentendosi al sicuro perché c’era di nuovo un uomo in casa e poi con questo bambino da accudire, da proteggere, a cui dare affetto, aveva ritrovato una motivazione importante. Lei lo accontentava in tutto. Ricordo quando è venuto la prima volta da noi e ha chiesto al suo papà con innocenza disarmante, come doveva chiamare mia madre. Mio marito gli ha risposto naturalmente che doveva chiamarla nonna. Quando per la prima volta ha pronunciato questa parola rivolgendosi a lei, per mamma è stato un vero e proprio colpo al cuore. Si è emozionata tanto. Anche quando la vedeva piangere per quel figlio perduto, il bambino andava a consolarla, l’accarezzava, le sussurrava parole dolci. È riuscito a fare di più lui in poco tempo che tutti gli altri. Con lui mia madre ha trovato la forza di reagire, di combattere quel dolore che aveva dentro e che la annientava».
Un incontro di anime il loro, tra un bambino privato in tenera età della sua mamma e Rossella e Vittoria, anche loro ferite, fragili, senza direzione, né più aspettative. E la nuova famiglia ha assunto nuove sembianze, è rinata dalle proprie ceneri.
Rossella è entrata anche in contatto con Libera. Ha conosciuto altre persone, ne ha sentito le storie e ha capito di non essere sola, ha appreso di morti violente, di solitudini laceranti. Perché quando le armi entrano in azione uccidono e devastano anche chi resta. Condannando uomini e donne a domande senza risposta che li attanaglieranno per tutta la vita ma soprattutto a laceranti nostalgie per vite andate in altre direzioni, lontane da noi, malgrado l’amore che avremmo voluto dare loro.