26 Luglio 1988 Falconara Albanese (CS). Roberta Lanzino, mentre si recava al mare in motorino, viene selvaggiamente aggredita, seviziata, violentata ed uccisa.

Foto da dazebaonews.it

Roberta Lanzino ha 19 anni, vive con la sua famiglia a Rende (provincia di Cosenza), è una studentessa universitaria al primo anno, studia Scienze economiche, è bella e ha un Sì della Piaggio di colore blu. È il 26 luglio del 1988 e Roberta, proprio con il suo motorino, va verso la casa al mare. I suoi genitori Franco e Matilde sarebbero partiti pochi minuti dopo a bordo della “Giulietta” di famiglia. Roberta quella mattina indossa dei jeans blu, una maglietta rosa salmone e gli occhiali da sole. Per questioni di sicurezza Roberta imbocca una strada secondaria. Purtroppo perde l’orientamento, si smarrisce. Due uomini con una Fiat 131 le stanno alle calcagna e al momento giusto le tagliano la strada, la violentano, la colpiscono senza pietà al collo e alla testa con un coltello, conficcandole poi in gola una spallina per strozzare le urla. Muore soffocata, Roberta. Il suo corpo viene ritrovato alle 6.30 del mattino dopo. Le indagini partono subito ma la verità arriverà soltanto nel 2007. Questa è una storia di violenza, di morte, di ‘ndrangheta. (Roberta Lanzino Ragazza – graphic novel – roundrobineditrice.it)

 

 

 

Fonte: Dossier Sdisonorate, storie di donne uccise dalla mafia dell’Ass. DaSud

La vita di una donna in Calabria vale poco o nulla. Anche se è quella di una ragazzina di appena 19 anni, che ha fretta di trascorrere un pomeriggio al mare e si avventura con il motorino per una ripida discesa che porta dritta alla costa. Una ragazza carina e intelligente, alle prese con gli studi universitari. Ma questo conta davvero poco per l’uomo che la blocca lungo il sentiero isolato, la trascina con sé, la possiede e poi l’accoltella. Una storia drammatica, intricata, misteriosa e soprattutto ancora insoluta: quella di Roberta Lanzino.
Il pomeriggio del 26 luglio 1989 Roberta ha già la testa in vacanza. Avverte i suoi genitori che li  precederà in motorino nella villetta al mare di Torremezzo, frazione costiera di Falconara Albanese.
Quel pomeriggio Roberta decide di prendere una scorciatoia. Non conosce bene la strada e chiede più volte indicazioni. Prima ferma un contadino, poi si affianca a un furgone. Incrocia altre auto e altre persone. Quello che accade dopo è ancora un giallo. L’auto dei Lanzino arriva a Torremezzo ma Roberta non c’è. Dopo alcune perlustrazioni vane, avvertono i carabinieri. Solo al mattino successivo si scopre il cadavere della ragazza, nascosto dietro un cespuglio. La ragazza è seminuda, i suoi jeans sono stati tagliati per strapparli via. Roberta è stata picchiata brutalmente. Ha lottato con tutte le sue forze ma alla fine ha dovuto cedere sopraffatta da uno o più assalitori. Per farla stare zitta le hanno messo in bocca due spalline da donna, che presto l’hanno soffocata.
Poi almeno due tagli alla nuca, con un coltello premuto contro il suo corpo mentre la violentano. Infine almeno tre coltellate. Una ferita alla gola le ha reciso la giugulare e ha provocato un’imponente emorragia.
La prima fase delle indagini porta a un nulla di fatto: tutte le persone incriminate vengono rilasciate perché gli indizi non sono sufficienti. Inoltre alcuni reperti fondamentali per le indagini vengono trovati in ritardo e mal conservati. Per anni la famiglia Lanzino continua pubblicamente a chiedere giustizia per Roberta, accusando anche la magistratura di colpevoli ritardi, ma bisognerà aspettare il 2007 perché il pentito Franco Pino faccia delle rivelazioni che portano alla riapertura del caso: Franco Sansone viene incriminato per l’omicidio di Roberta. Il processo si apre nel 2009 ma sorgono di nuovo ostacoli, depistaggi e intrighi; alcuni dei reperti, già mal conservati all’epoca, addirittura scompaiono. Il processo è in corso.
Da questa vicenda sono nati la Fondazione e il Centro Lanzino, un fronte importante nella lotta contro la violenza sulle donne e nel mantenere viva la memoria di Roberta.

 

 

 

Telefono Giallo – L’ultimo viaggio di Roberta
Puntata del 20 gennaio 1989
Cosenza, 26 luglio 1988: Roberta Lanzino, 19 anni, studentessa all’Università della Calabria, sta andando al mare a bordo del suo Sì blu, sulla vecchia strada di Falconara Albanese; qualcuno probabilmente la segue e, dopo averla violentata, la uccide. A distanza di 27 anni, nel 2015, dopo arresti, processi, pentiti dalle dichiarazioni dubbie, prove mal conservate o compromesse, indagini approssimative, Franco Sansone, pastore imputato dell’omicidio, sarà assolto con sentenza di primo grado e formula piena per non aver commesso il fatto. Un combinato di omicidio e violenza, in cui è stata accertata la presenza di altre due persone delle quali pure non si conosce ancora l’identità.

 

 

 

 

 

Articolo del 26 Luglio 2009 da strill.it 
Roberta Lanzino: nessuna violenza oscura il gioioso ricordo dei suoi cari 
di Anna Foti

Una ragazza normale. Roberta Lanzino non ha bisogno di orpelli o suggestioni per essere ricordata e sua madre, Matilde, racconta la semplicità della figlia barbaramente uccisa il 26 luglio 1988 come una dote che non necessita di particolari

celebrazioni per essere apprezzata. “Chi la conosceva, sa come lei fosse piena di vita, allegra, dedita alla famiglia e agli amici, gioiosa e schietta. Il ricordo che ha lasciato è esattamente come lei, pieno di gioia”. Un nuovo processo avrà luogo a novembre e c’è una grande forza nelle parole di mamma Matilde che sa bene come spesso la verità giudiziaria sia una verità, ma non “la” verità. La sua forza è nel ricordo incessante della figlia e della sua capacità, nonostante la cieca e irreversibile violenza, di essere ancora fonte di gioia, di coraggio e di speranza. Roberta, all’inizio del suo percorso universitario in Scienze Economiche e Sociali, appassionata di radio, folk e pallacanestro, è ancora davanti agli occhi della madre Matilde. E’ lì, presente, con la sua vitalità quando a Strill.it sua madre racconta il dono di una famiglia rimasta unita anche dopo quella tragedia e la fatalità di quel pomeriggio in cui mamma e papà decisero, con Roberta, che lei avrebbe dovuto avviarsi verso la casa al mare di Miccisi di San Lucido con il motorino. I genitori avrebbero chiuso la casa per poi raggiungerla. Ma non riuscirono mai a raggiungerla. Avevano tardato in garage solo una manciata di minuti. Fatali! Roberta già in strada si era persa e, chiedendo informazioni ad un bivio di quella strada provinciale del tirreno casentino, aveva imboccato una via alternativa. Dopo quel bivio di Torremezzo, l’aggressione, la violenza, la morte e un mistero che lentamente in questi venti anni ha svelato le proprie pieghe. Pieghe tra le quali si sono insinuate menzogne e tentativi di affossare un gesto brutale, uno stupro, un atto vile di violenza contro le donne al solo scopo di mantenere un omertoso e vergognoso silenzio e coprire infamanti responsabilità. Un’escalation di brutalità di cui sono venuti a conoscenza anche i boss del luogo, notoriamente dediti al “controllo del territorio”.

Tra le montagne di Falconara Albanese è stata spezzata la vita della giovane Roberta Lanzino. Sono ormai diventate montagne maledette. La studentessa di Rende non è mai arrivata alla sua casa al mare quel giorno di 21 anni fa. Era il 26 luglio del 1988 e lei aveva diciannove anni quando sul suo motorino percorreva un tratto di tirreno cosentino verso Miccisi di San Lucido, prima di imbattersi nella violenza e nella brutalità di chi, dopo anni di processi, colpi di scena e smentite, forse accenna ad avere un volto per la giustizia e per la famiglia della giovane.

Comincia tutto con un fitto mistero. Il ritrovamento, la mattina successiva, di quel motorino riverso nella scarpata e, poco distante, di quel corpo martoriato e senza vita di Roberta segnò l’inizio di un indagine che oggi lega insieme sei delitti. Il cerchio comincia a stringersi da quando, nel dicembre 2007, un carcassa di auto. Si tratta di una Fiat 131 di colore marrone chiaro di cui i testimoni oculari dell’omicidio Lanzino avevano riferito, parlando di Roberta fermatasi per strada a chiedere informazioni prima di essere seguita e aggredita, e che riesce a rimanere nascosta per quasi vent’anni in un burrone che il tempo ha reso inaccessibile e pieno di vegetazione.

Dall’impossibilità di risalire al Dna di chi l’avrebbe aggredita e violentata, alla strategia messa in atto subito dopo per depistare le indagini. Dal tentativo di incolpare figli di noti professionisti della città bruzia all’assoluzione in Cassazione dei tre pastori imputati, i fratelli Luigi e Rosario Frangella e il cugino Giuseppe Frangella. Nonostante tale sentenza, le indagini condotte fecero luce sugli accadimenti di quel pomeriggio, sul percorso di Roberta prima dell’aggressione. Restano dei dubbi circa la compiutezza delle indagini che non poterono contare sugli elementi determinanti quali l’individuazione del DNA, l’utilizzabilità degli elementi fisiologici non più attendibili dopo diverse ore di esposizione, e l’adeguata rilevazione delle impronte digitali sul motorino. Inoltre vi registrava una paura incomprensibile che serpeggiava intorno a questa vicenda, subito dopo il suo accadimento. I delitti che seguirono, e che sembrerebbero essere ad esso legati, potrebbero spiegare il perché.

In forza delle rivelazioni nel 2000 dei pentiti della Ndrangheta Umile Arturi e Franco Pino, informato di alcuni particolari dai boss di San Lucido – Romeo e Marcello Calvano –  si riaprono le indagini presso la Procura di Paola dove il pm Domenico Fiordalisi sarebbe tornato a cercare la verità sulla morte di Roberta. Nessuna responsabilità di giovani della Cosenza bene, come le operazioni di depistaggio avrebbero voluto lasciar intendere, ma un delitto occasionale senza indagati eccellenti e maturato in un contesto di violenza e di terrore oppresso da un cappa mafiosa. La svolta arriva anche con la deposizione della confidente di Rosaria Genovese che fuga ogni dubbio circa i significativi collegamenti che legherebbero insieme la morte della giovane Roberta, la scomparsa dell’allevatore Luigi Carbone avvenuta nel novembre del 1989, la morte per strangolamento di Rosaria Genovese nell’aprile del 1990, la morte del maresciallo della Polizia Penitenziaria Alfredo Sansone e dei pastori Libero Sansone e Pietro Calabria, i cui corpi trucidati sarebbero stati ritrovati a Ferrera di Paola nel marzo del 1989. Sembra che tutti fossero a conoscenza di dettagli dell’omicidio di Roberta e che per questo siano stati “messi a tacere” subito dopo quel delitto.

Si tratterebbe, dunque, di un intreccio tragico di violenza e barbarie, forse interessi economici legati a proprietà terriere e pascoli. Un intreccio certamente degenerato in un progetto criminale di eliminazione di possibili testimoni scomodi. Lo scorso gennaio è stato disposto il rinvio a giudizio per Franco Sansone, esecutore materiale del delitto Lanzino, già detenuto per l’omicidio della ex fidanzata Rosaria Genovese e del complice nel delitto Luigi Carbone, scomparso nel 1989. Dopo il trasferimento del procuratore Fiordalisi a Nuoro, l’assegnazione delle indagini al pm Eugenio Facciolla e l’astensione di due giudici della Corte di Assise di Cosenza, Antonia Gallo e Maria Antonietta Onorati, adesso l’udienza è slittata al 24 novembre prossimo. Intanto lo stesso Franco Sansone, imprenditore di Cerisano e proprietario del fondo rustico presso cui lo scorso anno fu invano effettuato un sopralluogo per la ricerca del corpo di Luigi Carbone, è imputato per l’omicidio dello stesso Carbone insieme ad Alfredo e Remo Sansone, rispettivamente suo fratello e suo padre. Due i testimoni fondamentali per questa riapertura di inchiesta: il fratello di Rosaria Genovese, Gennaro, e il padre di Luigi Carbone, Carmine.

Intanto oggi alle ore 19 presso la Chiesa di Sant’Antonio da Padova, come ogni anno, una Messa ricorderà Roberta nel nome della quale all’indomani della tragedia sono stati istituti nell’autunno  1988 il centro antiviolenza “Roberta Lanzino” e nel 1989 la fondazione Lanzino, attiva nelle scuole con attività di sensibilizzazione sui temi dei diritti e della prevenzione della violenza di genere. Ogni anno, in occasione della Giornata Internazionale contro la Violenza sulle donne – 25 novembre – il liceo scientifico “Scorza” che Roberta ha frequentato e che la ha anche intitolato la biblioteca, assegna una borsa di studio in sua memorie. “Presto in via Verdi, a Rende, su suolo comunale concesso in comodato gratuito, sorgerà la Casa di Roberta, una casa rifugio costruita con i fondi del Por Calabria per le vittime di violenza, ed un  numero verde sarà attivato nell’ambito di un progetto finanziato dalla provincia cosentina”. Lo annuncia Matilde Lanzino, madre dei tre fratelli di Roberta, Marilena, Giuseppe e Luca, e anche nonna di cinque nipoti che conoscono zia Roberta come se nessuna violenza le avesse prematuramente stroncato la vita, si attiva affinché la memoria sia speranza per altre donne vittime di violenza in Calabria. Nell’ultimo anno 130 donne, prevalentemente vittime tra le mura domestiche e di età compresa tra i 28 e i 47 anni, hanno contattato il centro antiviolenza “Roberta Lanzino” per ascolto telefonico, accoglienza, consulenza legale, consulenza psicologica. Un’opportunità per liberarsi dall’oppressione. Un’opportunità che affonda le proprie radici in quel drammatico pomeriggio del luglio 1988. La vicenda giudiziaria forse potrà condurre a quella verità di cui parlava prima mamma Matilde, ma Roberta è stata anche vittima di quella sfida che la Calabria, e non solo essa, deve smettere di perdere. La sfida culturale per la parità dei diritti, la libertà di coscienza, il riscatto dall’omertà mafiosa.

 

 

 

Articolo del 24 novembre 2009 da  ilquotidianodellabasilicata.it
Iniziato a Cosenza il secondo processo per la morte di Roberta Lanzino
Roberta Lanzino di Rende, è stata violentata ed uccisa il 26 luglio del 1988 sulla strada che da Falconara Albanese porta verso San Lucido

E’ iniziato questa mattina, in Corte d’Assise nel tribunale di Cosenza, il secondo processo per la morte della studentessa diciannovenne Roberta Lanzino, di Rende, violentata ed uccisa il 26 luglio del 1988 sulla strada che da Falconara Albanese porta verso San Lucido, sul tirreno cosentino. La giovane stava raggiungendo la famiglia al mare, quando, pare seguita da un’auto e poi fermata, fu aggredita, violentata ed uccisa atrocemente, con un taglio alla gola. Già nell’immediatezza del fatto ci fu un procedimento che vide imputati tre pastori del luogo, poi assolti. Adesso imputato della morte della giovane è Francesco Sansone, 47 anni, oggi presente in aula, già detenuto perchè condannato a 30 anni di reclusione per due omicidi compiuti nel 1989 e nel 1990. Sansone, secondo l’accusa, sarebbe stato l’esecutore materiale dell’omicidio e sarebbe responsabile anche dell?omicidio e dell?occultamento del cadavere di Luigi Carbone, il suo presunto complice nell’assassinio di Roberta Lanzino, e che avrebbe ucciso aiutato da suo padre Alfredo e da suo fratello Remo. Questi ultimi sono a loro volta imputati nel processo, che si occupa anche della morte di Carbone. Sansone è stato già condannato anche per aver ucciso la sua ex fidanzata, Rosaria Genovese, che avrebbe all’epoca fatto rivelazioni importanti sul caso. La seduta di oggi, alla quale erano presenti la mamma e il padre di Roberta, Matilde e Franco, e anche la sorella Marilena, è servita per la costituzione delle parti. La Presidente della corte, il giudice Antonia Gallo, si è riservata di decidere sulla costituzione di parte civile della Provincia di Cosenza e ha rigettato invece quella della Fondazione e del Centro «Roberta Lanzino», perchè fondati a seguito del fatto di sangue e non preesistenti, come vuole la norma di legge. Pm nel procedimento è il magistrato Roberta Carotenuto, ma la famiglia Lanzino ha presentato istanza perchè l’accusa nel processo sia sostenuta comunque dal PM Eugenio Facciolla, che ha seguito il caso ma che è stato trasferito alla DDA di Catanzaro. Per Enzo Belvedere, legale di Sansone, è da contestare la riapertura delle indagini, chiesta dal PM dell’epoca Domenico Fiordalisi, in quanto i reperti del caso sono andati distrutti o smarriti. «Non vogliamo la pietà di nessuno. Vogliano solo quella giustizia che aspettiamo da 21 anni», ha detto il padre di Roberta Lanzino alla fine dell’udienza che è stata rinviata al prossimo 16 febbraio.

 

 

 

Articolo del 26 Luglio 2011 da dazebaonews.it 
Roberta Lanzino, dopo 23 anni, una morte per stupro senza colpevoli
di Giulia Fresca
«Dopo 23 anni, nel nome di Roberta non abbassiamo la guardia»

Una messa, promossa come ogni anno dalla famiglia e dalla Fondazione “Roberta Lanzino”, ha ricordato ieri, nella chiesa di S.Antonio a Rende, la tragica morte della diciannovenne stuprata ed uccisa il 26 luglio 1988, che dopo 23 anni, non ha ancora colpevoli. «Questa è una giornata per ricordare non per celebrare-hanno detto i genitori di Roberta, Franco e Matilde Lanzino-.Non bisogna mai abbassare la guardia ed operando in silenzio confermiamo la nostra fiducia nella magistratura. Nel nome di Roberta, apriremo dopo Cosenza e Polistena, a Praia a Mare, sul Tirreno, un altro centro di ascolto per contribuire ad evitare altre storie di drammi. La Fondazione di Roberta è figlia di una assurdità, ma i suoi frutti sono storie di speranze e di vite rinnovate». La grande compostezza, nel dolore, dei signori Lanzino, della sorella Marilena e di quanti l’hanno conosciuta, rinnova la richiesta di giustizia per una morte ancora senza colpevoli

COSENZA – Un mistero irrisolto lungo 23 anni. È quello che avvolge Roberta Lanzino, la giovane di 19 anni di Rende, in provincia di Cosenza, che il 26 luglio 1988, quando, sulla strada per il mare, dove si sta recando in motorino, seguita a breve distanza dai genitori che si fermano per brevi soste impreviste, viene selvaggiamente aggredita, seviziata, violentata ed uccisa. Roberta muore, per un taglio alla gola: le spalline, conficcate nella bocca, certo per attutire il suo urlo di dolore; almeno cinquanta ferite e una caviglia slogata: il suo vano tentativo di sfuggire alla furia delle bestie umane. E sul suo corpo, l’impronta biologica degli assassini, quel liquido seminale, testimonianza di una violenza connotata.

Una messa promossa, come ogni anno, dalla famiglia e dalla Fondazione “Roberta Lanzino” ne ricorda oggi ancora la ferita completamente aperta. Dopo 23 anni, non c’è nessun colpevole. Inizialmente erano stati indicati, quali responsabili dell’omicidio, tre cugini di Falconara Albanese, poi ritenuti estranei al fatto. Lo Stato ha in prima istanza assolto. Non per assenza di indizi, ma perché la scienza investigativa, che ha il compito di elevare alla dignità di prova gli indizi raccolti, si è dimostrata «inadeguata, improfessionale, incapace», come apertamente dichiara la stessa sentenza di assoluzione.
Dopo 20 anni, le indagini sono state clamorosamente riaperte con la chiamata in causa di tre pastori di Cerisano (CS), ora sotto processo davanti alla Corte di Assise di Cosenza. Si tratta di Franco Sansone, presunto esecutore materiale insieme allo scomparso Luigi Carbone, il padre Alfredo e il figlio Remo. Gli ultimi due, a detta dell’accusa, avrebbero aiutato Franco ad uccidere Carbone per evitare che raccontasse la verità sul caso Lanzino.
Il processo, in corso proprio nei giorni scorsi ha subito un brusco stop, a causa delle condizioni di salute di Francesco Sansone, con la Corte che, riconoscendo il legittimo impedimento, ha rinviato il dibattimento al prossimo 3 ottobre. Una storia che prevede tempi lunghi, un dramma infinito per una famiglia che chiede solo di conoscere la verità sulla morte della loro figlia che oggi avrebbe 42 anni.

La Fondazione “Roberta Lanzino” nata da quella tragedia, e voluta fortemente dai genitori, assume nel tempo significati sempre più decisi e simbolicamente forti a sostegno delle donne vittime di maltrattamenti fisici e psicologici come nel caso dello stalking.

 

 

 

Articolo dell’8 Marzo 2012 da Il Quotidiano di Copsenza (Fonte:  stopndrangheta.it)
«Io so chi ha ucciso la Lanzino»
di Rosita Gangi
Il pentito Franco Pino ripete le accuse e descrive Carbone come un lupo solitario

UN lupo solitario. Così Franco Pino descrive con tratti romanzeschi la figura di Luigi Carbone. E di lupi feroci, Roberta Lanzino, quella tragica sera ne ha incontrato davvero. Bestie sotto sembianze umane, che l’hanno violentata e uccisa squarciandole la gola. Dopo 23 anni si tenta ancora di dare un volto a quei lupi. Ma l’ex boss della mafia Franco Pino non ha dubbi: si tratta di Luigi Carbone e Franco Sansone. In fondo è proprio in seguito alle sue parole che il processo è stato riaperto. E lo ha ribadito ieri mattina  a chiare lettere in corte d’assise in un racconto lucido, preciso e lineare: «Eravamo detenuti in regime di 41 bis nel carcere di Siano, a Catanzaro, quando seppi. Nelle cellette, oltre a me c’erano Romeo Calvano, Antonio Sena e Nino Inerti. Durante l’ora d’aria potevamo andare fuori a due alla volta e ci alternavamo. In una di quelle passeggiate Romeo Calvano mi parlò di Luigi Carbone, della sua scomparsa e del fatto che avevano deciso di non vendicarla. Questo per il fatto che aveva ucciso un suo cugino e anche perché lo ritenevano “un indegno” perché aveva ucciso, tra gli altri, anche Roberta Lanzino». La rivelazione avviene nella primavera del 1995. A maggio Pino decide di collaborare con la giustizia.
Alle domande del pm Pino, giunto in aula con la figura un po’ appesantita, ma con la mente molto attiva e piena di particolari, ha rivelato ciò che Calvano gli avrebbe detto sempre in quella circostanza: «Mi disse che Carbone aveva ammazzato la Lanzino insieme a Franco Sansone. La ragazza era caduta dal motorino o aveva chiesto delle informazioni ai due, che poi la seguirono». Un altro elemento rivelato da Pino riguarda invece una breve conversazione avvenuta sul lungomare di San Lucido pochi giorni dopo l’omicidio. «Era l’estate del 1988 e incontrai Belmonte, uno degli uomini fermati dai carabinieri nell’immediatezza del fatto. Gli chiesi che aveva fatto e lui rispose che lo avevano fermato solo perché aveva una 131 Fiat, lo stesso tipo di auto che era stato visto circolare intorno alla Lanzino poco prima della sparizione. Mi disse che lui aveva quell’auto proprio come l’aveva Franco Sansone. Con noi in quell’occasione c’era pure Gianfranco Ruà».
Pino racconta e ricorda. Per quattro ore, salvo una breve pausa, risponde a ogni domanda aggiungendo particolari, andando a scavare anche in altri delitti del centinaio di cui ha fornito dettagli nel corso della sua collaborazione.
Parla dell’omicidio Petrungaro, di come Luigi Carbone decise di ammorbidire la posizione dell’imputato Grimoli in cambio di 30 milioni di lire (erano 20 in un verbale precedente, ndr), parla di un altro delitto, quello di Sergio Palmieri, avvenuto alla “salita di Pagliaro” e per il quale è stato processato e condannato Pierpaolo (in realtà si chiama Francesco, ndr) Masala, che invece Pino sapeva essere innocente. Ma sul caso Lanzino non è in grado di aggiungere altri particolari se non quelli riportati nel colloquio in carcere. Né è riuscito a ricordare chi avesse fornito a Calvano l’identità dei due presunti assassini.
«Dopo il fatto – dice ancora – moltissime persone continuavano a venire da me per sapere chi fosse stato. Perché una storia così eclatante aveva creato un tam tam. Ma io ho sempre sostenuto che i Frangella erano innocenti, pur non conoscendoli». In questa catena di fatti, il pentito ha anche inserito la sparizione di Carbone che sarebbe stato fatto fuori «”da quelli della montagna”, perché dopo l’omicidio del maresciallo Sansone e altri avvenuti in quel periodo aveva iniziato a pretendere e magari a riferire dei segreti che avrebbe potuto riferire. Come quello legato alla Lanzino». Da parte sua la difesadi Franco Sansone,  affidata all’avvocato Enzo Belvedere, ha provato a minare l’attendibilità del testimone puntando sul fatto che dalla data della collaborazione, in cui aveva depositato un elenco di centinaia di omicidi, solo dopo 5 anni decide dimenzionare anche il delitto Lanzino.
Un omicidio non comune che, per stessa ammissione del testimone, aveva scosso non solo l’opinione pubblica ma anche gli ambienti della mala locale.
Senza alcun segno di stanchezza, dopo una mattinata fitta, Pino lascia l’aula seguito dalla scorta. Nella prossima udienza, fissata tra due mesi e mezzo, il 22 maggio, toccherà all’altro collaboratore di giustizia, assente ieri per motivi di salute, Umile Arturi. Con lui saranno ascoltati anche Pierluigi Berardi, altro pentito, e Romeo Calvano in video-conferenza, perché attualmente detenuto in regime di 41 bis.
Matilde e Franco Lanzino, presenti come in ogni singola udienza, hanno mantenuto il loro consueto contegno. Non una smorfia, non un commento. Hanno imparato a nascondere il dolore e amantenerlo privato. Quello che cercano, ora come allora, e insieme a lorotutta una generazione cresciuta con gli incubi di questo delitto, è solo la verità.

 

 

 

Articolo del 21 novembre 2012 da ilquotidianodellacalabria.it
Roberta Lanzino, a 24 anni dal delitto il processo è un’agonia
Solo 2 udienze in 6 mesi. E pochi passi avanti verso la verità
di Rosita Gangi
Il dibattimento era fermo da prima dell’estate, a causa di un rinvio e dello sciopero degli avvocati. Ora un nuovo passaggio all’insegna di “non ricordo” e di scene mute e l’aggiornamento a gennaio per una storia del 1988 riaperta nel 2007 dal pentito Franco Pino. Una vicenda atroce lontana ancora lontana dall’epilogo

COSENZA – Un omicidio brutale che ha segnato  la storia di Cosenza. Roberta Lanzino, 19 anni, violentata e uccisa mentre correva sul suo motorino incontro al mare. Era l’estate del 1988. Erano 24 anni fa. I colpevoli sono ancora fantasmi, nonostante un processo concluso e un altro in corso. Sono i tempi della giustizia, si dice con rassegnazione. Ma sembrano più i tempi di un’agonia. Tanto dolorosa quanto più si protrae. Ieri mattina, al tribunale di Cosenza, l’ultima udienza in ordine di tempo di un processo bis che si è riaperto in seguito alle dichiarazioni del pentito Franco Pino rilasciate nel 2007. E in aula si tornerà solo fra altri due mesi.

Il dibattimento, nei fatti era fermo da prima della scorsa estate: a luglio, infatti, lo sciopero degli avvocati aveva fatto slittare quello fissato per il 16, mentre a ottobre un’assenza del presidente della corta d’Assise Atonia Gallo, aveva reso necessario fissare una nuova data. Uno stillicidio che per la famiglia di Roberta, soprattutto, va avanti da oltre vent’anni. La signora Matilde e il signor Franco, sempre presenti nell’aula della corte d’assise, non sembrano più ormai neanche sorpresi. Ieri era il turno dei fratelli Frangella, sotto accusa per il terribile omicidio nel primo processo e poi scagionati nei tre gradi di giudizio.

Stavolta erano in veste di testimoni, ma due di loro Giuseppe e Gaetano, indagati per false dichiarazioni, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, mentre Pasquale ha inanellato una serie di “non ricordo” che ha fiaccato qualsiasi pretesa di aggiungere tasselli di verità a questo inestricabile puzzle. Sul banco degli imputati in questo secondo processo siedono tre pastori di Cerisano, Alfredo Sansone, 75 anni, e i figli Franco, 49, e Remo, 48.  Francesco Sansone, in particolare, deve rispondere del terribile omicidio di Roberta Lanzino. Lo stesso Sansone insieme al padre Alfredo e al fratello Remo sono anche imputati per la scomparsa di Luigi Carbone, secondo l’accusa presunto complice di Francesco nella tragica uccisione della studentessa rendese. Nel corso di quest’anno il processo è entrato nel vivo solo in primavera, grazie soprattutto alle deposizioni rese in aula da Franco Pino, il testimone di giustizia che afferma di aver appreso chi fossero gli assassini della ragazza da un altro detenuto Romeo Calvano, quando si trovavano entrambi nel carcere di Siano. Nel corso del dibattimento, però, le sue dichiarazioni non sono state confermate proprio da Calvano che nell’interrogatorio dello scorso maggio ha smentito di aver mai parlato dei Sansone con Pino.

Mezza dozzina di udienze in dodici mesi, due negli ultimi sei mesi. Pochi passi in avanti. L’idea è che per conoscere l’epilogo di questo infinito processo, i tempi siano ancora lunghi.

 

 

 

Articolo del 5 luglio 2013 da ilquotidianodellacalabria.it
Il giallo dei vestiti di Roberta
Perché la Corte ordinò la distruzione?
di Massimo Clausi
Sempre più mistero nella storia di Roberta Lanzino e, soprattutto, nelle vicende processuale legate alle inchieste riguardanti il suo omicidio. Quello che desta maggiore perplessità è la gestione con successiva distruzione degli abiti che la ragazza indossava al momento della morte che secondo quanto ricostruito furono distrutti su ordine della Corte

COSENZA – Sono passati 25 anni dal barbaro omicidio di Roberta Lanzino e ancora nessuno è stato giudicato colpevole di quel delitto. Nonostante si stia celebrando un nuovo processo in corte d’Assise a Cosenza, a carico di Franco Sansone e Luigi Carbone, la vicenda anzichè schiarirsi si tinge sempre più di giallo. Un mistero che ha sempre circondato il delitto è quello relativo alla distruzione dei vestiti che la povera Roberta indossava quel giorno. Una perdita davvero pesante ai fini dell’indagine, visto che con i progressi scientifici subentrati in questi anni, in particolare rispetto al Dna, si sarebbero potute apprendere moltissime cose sul delitto. La scomparsa degli indumenti della vittima da sempre ha costituito uno degli aspetti più inquietanti di questa vicenda. E non da oggi. Basti pensare che dei vestiti si iniziò a parlare nel lontano 1989. All’epoca, per la precisione in gennaio, Corrado Augias dedicò una puntata della sua fortunata trasmissione televisiva “Telefono Giallo” proprio al delitto Lanzino. La puntata si chiamava “L’ultimo viaggio di Roberta”. Era in diretta e ad un certo punto negli studi arrivò una telefonata anonima che raccontava come gli abiti della ragazza non fossero andati tutti distrutti, ma che si erano conservati maglietta e reggiseno. Un particolare che lo stesso Augias ricorderà in un’intervista a Repubblica il primo marzo del 1989 parlando dei successi della sua trasmissione che qualcuno in Rai voleva far chiudere. Ma anche questi pochi indumenti ritrovati non ebbero grande fortuna. Nel lontano 1995 l’allora parlamentare Sergio De Julio presentò un’apposita interrogazione al ministro di Grazia e Giustizia dell’epoca. L’interrogazione era molto articolata ed evidenziava una serie di lacune che presentavano le indagini. Ma un passaggio si concentrava proprio sulla scomparsa degli indumenti indossati quel giorno dalla povera Roberta. «Gli abiti della vittima (pantalone, maglietta, reggiseno, mutandine, scarpe, ecc.) – scriveva De Julio – furono dispersi dopo essere stati trovati sul luogo del delitto; soltanto due degli indumenti della vittima (maglietta e reggiseno) furono ritrovati dopo alcuni mesi ed affidati al perito nominato dal Tribunale di Cosenza, De Stefano dell’istituto di medicina legale dell’universita’ di Genova; in sede di processo d’appello De Stefano dichiaro’ di aver buttato via gli indumenti della vittima ed i reperti con l’unica incredibile giustificazione di un trasloco (peraltro mai accertato) dei laboratori dell’istituto di medicina legale e della mancanza di spazio». Possibile che De Stefano sia stato così sciatto? La risposta del Ministro fu molto generica. Intanto giovedì scorso nel corso dell’udienza che vede imputati per l’omicidio Franco Sansone e Luigi Carbone, l’ex capo della Mobile di Cosenza, Stefano Dodaro, ha raccontato un particolare poco conosciuto sulla vicenda. Ha dichiarato che gli indumenti superstiti furono distrutti su ordine della Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro al termine del processo che vide poi assolti i fratelli Frangella. Non si capisce bene se l’ordine è contenuto già nella sentenza di assoluzione degli imputati o se con un’ordinanza successiva. Fatto sta che quegli abiti vennero distrutti e viene difficile capire il perchè la Corte decise la distruzione di una prova che avrebbe potuto essere decisiva.

 

 

 

Articolo del 18 aprile 2014 da  ilquotidianodellacalabria.it
Colpo di scena al processo, a 26 anni dal delitto – spunta braccialetto indossato da Roberta Lanzino
di Rosita Gangi
La ragazza l’aveva al polso la mattina in cui fu violentata e uccisa sulla strada da Cosenza a Falconara. L’avvocato della famiglia lo ha individuato in una foto e rintracciato: potrebbe servire a ricavare tracce biologiche dopo che negli anni numerose prove sono state rese inservibili.

COSENZA – Dal pozzo degli anni spunta fuori un braccialetto. Quello che Roberta Lanzino portava quel tragico pomeriggio che fu violentata e uccisa. Un filo di speranza labile al quale attaccarsi, sperando in una traccia di Dna ancora superstite, nonostante siano passati ormai quasi 26 anni. L’udienza del processo bis per la morte della studentessa diciannovenne, ha fatto segnare ieri un colpo di scena inaspettato. Dopo tutto questo tempo. Grazie all’intuito investigativo dell’avvocato della famiglia Lanzino, Ornella Nucci, che continua a studiare i documenti e a rivedere foto e atti riguardanti anche il primo processo.

E proprio da quegli atti l’avvocato Nucci ha ripreso e osservato con grande attenzione ogni foto del ritrovamento del cadavere e letto ogni singolo verbale fino ad avere un’illuminazione. Roberta, quel giorno di luglio, aveva addosso due braccialetti: uno dorato e uno argentato, descritti sommariamente nel verbale dei carabinieri, ma ben visibili nelle foto. L’avvocato ha poi ricordato che lo stesso braccialetto era ancora al polso della povera ragazza quando fu portata via per l’esame autoptico e che, in quell’occasione, alla famiglia era stato restituito quello che Roberta indossava. Collegando i fatti l’avvocato ha chiesto alla signora Matilde, mamma di Roberta, se quel piccolo bracciale fosse ancora conservato a casa e così è stato ritrovato e portato all’attenzione del pm che ieri ha chiesto una perizia alla ricerca di qualche traccia utile. Tracce che potrebbero fornire un fondamento scientifico ad un processo, altrimenti, fondamentalmente indiziario. Insieme al bracciale, il pm ha chiesto la perizia anche sul famoso motorino che la vittima guidava, veicolo trattato senza alcun riguardo sin dal momento del ritrovamento (le forze dell’ordine vi alitarono sopra alla ricerca di impronte…) e che da allora non è stato mai esaminato. E c’è un terzo elemento: una porzione di terriccio sequestrata sul luogo del delitto, sul quale l’accusa ha chiesto ulteriori indagini diagnostiche. Nonostante queste novità, comunque, l’avvocato Nucci, a nome anche della famiglia, preferisce essere cauta. «Non ci aspettiamo grossi risultati – ha detto – è passato troppo tempo e i reperti sono stati conservati con incuria».

Di altro tenore la reazione della difesa dell’imputato Franco Sansone. L’avvocato Enzo Belvedere ha invece accolto con favore le nuove richieste di perizie e ha dichiarato che il suo cliente è pronto a sottoporsi ad un prelievo del Dna per una prova comparativa. «Finalmente è arrivato il primo momento serio di questa indagine– ha detto l’avvocato Belvedere – Finalmente possiamo parlare di prove scientifiche, in questo processo che è addirittura peggiore del primo, per le indagini lacunose che ha presentato. Il mio cliente è pronto a prestarsi alla prova comparativa del Dna che mostrerà la sua estraneità ai fatti». Lo stesso legale ieri, dopo aver portato sui banchi dei testimoni il vigile urbano di Cerisano, che ha testimoniato di non aver mai visto i fratelli Sansone a bordo di una 131 (vettura sulla quale viaggiava presumibilmente l’uomo che seguì Roberta lungo la strada di Falconara), ha rinunciato ad una serie di altri testimoni e ne ha citati un’altra decina per la prossima udienza. Un processo che vede alla sbarra Alfredo Sansone e i figli Remo e Francesco. Quest’ultimo accusato di aver ucciso insieme ad un complice, Luigi Carbone, Roberta. Tutti e tre i Sansone sono poi accusati di aver fatto scomparire nel nulla, e a due mesi di distanza dalla tragica fine della Lanzino, lo stesso Carbone. Forse, questa le tesi dell’accusa, temevano che potesse, un giorno, raccontare la verità sul delitto di Falconara.

 

 

 

Articolo del 5 giugno 2014 da  ilquotidianodellacalabria.it
Processo Lanzino, istanza della difesa mette in dubbio imparzialità del giudice di Rosita Gangi
Il legale di Franco e Remo Sansone ha presentato alla Corte suprema di Cassazione la richiesta di trasferire il procedimento in un’altra corte.

COSENZA – Una richiesta di rimessione del processo. E’ partita così l’udienza di ieri del processo per la morte di Roberta Lanzino, la giovane cosentina uccisa 26 anni fa. L’avvocato Enzo Belvedere, che difende due degli imputati, Franco e Remo Sansone, ha presentato alla Corte suprema di Cassazione la richiesta di rimessione del processo a carico dei suoi assistiti “dinanzi ad altra Corte d’Assise, con contestuale richiesta di emissione di ordinanza sospensiva dello stesso processo in pendenza di decisione da parte della Suprema Corte di Cassazione”. Una richiesta che era stata annunciata già nella scorsa seduta, in seguito ad un inasprirsi del dibattito tra il difensore e il presidente della Corte d’Assise Antonia Gallo. L’avvocato motiva la sua richiesta indicando “l’esistenza di gravi situazioni locali che pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo e che determinano motivi di legittimo sospetto, partendo dal clima che aleggia su tale vicenda processuale, influenzandone, irrimediabilmente, lo sviluppo e le sorti”.

Nella lunga istanza alla Corte di Cassazione, Belvedere parla di clima di “caccia alle streghe”, “di particolari morbosi, di interviste al vetriolo, di rabbiose ragioni e di pregiudizi” e cita anche alcuni interrogatori che avrebbero penalizzato il lavoro della difesa con “accadimenti processuali che hanno palesato il pesante stato di turbamento che inficia l’operato della Corte d’Assise di Cosenza”. Si mette in dubbio, in sostanza, l’imparzialità del giudice e la serenità del clima ambientale sottolineando che Francesco Sansone non sta assistendo al processo perchè “fatto segno di vituperi e contumelie (lui e il giovin figliuolo presente in aula) già durante la fase dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Paola”.

Belvedere parla di “clima ostico e ostruzionistico in cui troppe volte la difesa, a differenza di quanto invece accade al pm e alle parti civili, è costretta a lavorare” e rimette la decisione in mano alla Cassazione. Da parte sua il presidente della Corte ha comunque deciso di proseguire nel processo, in attesa della decisione della Cassazione, e la difesa ha allora annunciato di voler rinunciare a tutti i suoi testimoni. Il pm e l’avvocato di parte civile Ornella Nucci, però, non hanno dato l’assenso alla cancellazione di una decina di loro

 

 

 

Articolo del 15 Novembre 2012 da dasud.it

Roberta Lanzino. Ragazza. (di Celeste Costantino e Marina Comandini)

In libreria “Roberta Lanzino, Ragazza”, il primo fumetto italiano dedicato a una vittima della violenza maschile. Le autrici: “La sua storia può essere quella di ciascuna di noi”. Un classico caso di femminicidio. Sullo sfondo l’ombra di personaggi legati alla ‘ndrangheta

Roberta Lanzino ha 19 anni, vive con la sua famiglia a Rende (provincia di Cosenza), è una studentessa universitaria. È il 26 luglio del 1988 e Roberta, con il suo motorino Sì della Piaggio, va verso la casa al mare. I suoi genitori Franco e Matilde sarebbero partiti pochi minuti dopo a bordo della “Giulietta” di famiglia. Percorre una strada secondaria. Perde l’orientamento, si smarrisce. Due uomini l’aggrediscono, le tagliano la strada, la colpiscono senza pietà al collo e alla testa con un coltello, la violentano e le conficcano una spallina in gola per strozzare le urla. Muore soffocata, Roberta. Il suo corpo viene ritrovato alle 6.30 del mattino dopo. Dopo più di vent’anni il suo omicidio non ha ancora una verità. Il processo è ancora in corso.

La storia di Roberta è una storia di violenza maschile, di morte, di ’ndrangheta che vive pagine della graphic novel “Roberta Lanzino, Ragazza”, sceneggiata da Celeste Costantino e disegnata da Marina Comandini, con la prefazione dello scrittore Carlo Lucarelli (che si occupò del caso con Blu Notte su Raitre) e la postfazione di Francesco Forgione, ex presidente della commissione Antimafia.

“Roberta – spiega l’autrice Celeste Costantino – è una ragazza di 19 anni che ha un motorino come tante di noi. E, come noi, a quell’età pensa di avere tutta la vita davanti. La sua storia poteva essere la mia. E chi non lo capisce si rende complice di questa morte. E di tutti i femminicidi che come un bollettino di guerra scandiscono la vita del nostro Paese nell’indifferenza generale”. Per questa ragione il fumetto sarà presentato per la prima volta a Roma il 22 novembre nell’immediata vigilia della Giornata contro la violenza sulle donne. È un modo per ricordare la violenza che ogni giorno si accanisce sul corpo delle donne. Oltre ogni stereotipo raccontato dai media, oltre l’incapacità della politica e della società di accettare un fenomeno drammatico come quello del femminicidio. E la morte di Roberta Lanzino anche se non è un omicidio di ‘ndrangheta ad essa è legato. “La ‘ndrangheta – sottolinea Celeste Costantino, che è anche autrice della prefazione di “Sdisonorate”, il dossier che raccoglie tutte le storie delle donne uccise dalle mafie – è presente in ogni passaggio della storia. Vive nella concezione brutale e vendicativa che si ha del corpo delle donne, nelle lungaggini processuali e i depistaggi, nel fatto che quelli che dalla procura sono considerati gli assassini sono organici ai clan”.

Una storia che ha trovato forma nella matita straordinaria di Marina Comandini: “Lo stile grafico – dice la disegnatrice – vuole rispecchiare il durissimo contenuto della storia e di una certa irrequietezza che m’impone sempre di andare oltre Celeste Costantino, è una calabrese di 32 anni, fa politica di sempre occupandosi di antimafia, diritti e tematiche di genere. Ha molto lavorato contro il femminicidio su cui ha scritto saggi e organizzato manifestazioni ed eventi. Ha fondato il collettivo DonnedaSud, nato all’interno dell’associazione antimafie daSud, e la rete Ragazze interrotte.

I disegni della graphic novel sono di Marina Comandini, già moglie di Andrea Pazienza. Da tempo votata alla causa ambientalista e impegnata nel sociale, la pittrice e fumettista romana ha scelto di vivere in un casolare della Toscana.

“Roberta Lanzino, ragazza” è un fumetto della collana Libeccio, edita dalla Round Robin e curata da daSud, l’associazione antimafie che si occupa di recupero della memoria e di promuovere nuovi linguaggi creativi al servizio delle battaglie per i
diritti sociali e civili nel nostro Paese.

 

 

 

Articolo del 12 maggio 2015 da  ilfattoquotidiano.it 
Femminicidio: Roberta Lanzino, morta due volte
di Eva Catizone

Cosenza, 26 luglio 1988. Una tranquilla città di provincia del sud e un risveglio agghiacciante. Roberta Lanzino, 19 anni, studentessa all’Università della Calabria, viene uccisa. Sta andando al mare, a bordo del suo Sì blu, sulla vecchia strada di Falconara albanese; qualcuno probabilmente la segue e, dopo averla violentata, la uccide. Morirà soffocata dalle sue stesse spalline (forse usate per non farla urlare) e per dissanguamento da rescissione della carotide. Un brutale caso di femminicidio.

Cosenza, 6 maggio 2015. A distanza di 27 anni (e un pasticciaccio che nemmeno Gadda avrebbe potuto immaginare), dopo arresti, processi, pentiti dalle dichiarazioni ai limiti dell’affidabilità, prove mal conservate o compromesse, indagini approssimative, Franco Sansone, pastore, imputato di quell’omicidio, viene assolto con sentenza di primo grado e formula piena, per non aver commesso il fatto. Dopo 27 anni vengono incredibilmente ritrovate, racchiuse in una scatola, tracce di sperma su reperti mai analizzati. Un campione biologico estratto dal terriccio rinvenuto sotto il collo di Roberta lo scagiona: il profilo genetico non è compatibile con il suo. E per gli uomini del Ris di Messina quel profilo poteva essere analizzato già all’epoca. Un combinato di omicidio e violenza, in cui l’uno potrebbe essere separato dall’altro, che vede coinvolte più persone. L’analisi dei reperti racconta terribili verità: quello analizzato oggi è un mix tra sangue di Roberta e liquido seminale di almeno un individuo di sesso maschile. Viene accertata la presenza di altre due persone (gli atti parlano di duplice violenza), ma il quantitativo di campione biologico è sufficiente all’analisi solo in un caso (quello che scagiona Sansone), né è possibile dire se quel liquido fosse lì da prima.

Troppe domande irrisolte e un corso di giustizia da andamento lento. La violenza fu commessa lì o altrove? I medici legali opteranno per un luogo diverso da quello del ritrovamento: il posto è pieno di rovi e sul corpo non ci sono tracce di ecchimosi, di più la rescissione della carotide avrebbe procurato schizzi mai rinvenuti. E come è possibile che solo oggi spuntino prove significative? Qualcuno ha coperto? E se si, perché? La vulgata cittadina ha sempre disegnato l’identikit del colpevole dei piani alti, quelli ben schermati, della città o dei suoi dintorni. Magari si poteva modificare il capo d’imputazione, con l’aggiunta al Sansone di altri, ignoti. Di più, il cambio di passo rispetto all’udienza preliminare affidata ad Eugenio Facciolla, magistrato con competenze nella gestione dei pentiti, poi trasferito, forse non ha aiutato.

E ora si riparte da nessun colpevole e da un Dna d’Ignoto 1. Da una famiglia che reclama giustizia e da Roberta, sguardo sorridente e una vita davanti negata, che è come se morisse per la seconda volta.

Roberta io non l’ho conosciuta. L’ho conosciuta nello sguardo struggente di sua madre, Matilde, nel garbo di suo padre, Franco. Due genitori, esercizio esemplare di resistenza al dolore, che con dignità reclamano verità. L’ho conosciuta nell’impegno di tante donne, quelle dei centri antiviolenza o dei centri di salute mentale, impegnate per le altre che vivono in stato di difficoltà.

Già, perché i dati in Calabria parlano di un filo rosso in aumento. Solo due fatti, nell’ultimo mese, per capire il contesto. A Rosarno un uomo di 22 anni viene arrestato per aver ucciso, nel 2013, la madre e averne occultato il cadavere. Un caso di lupara bianca: Francesca Bellocco, dell’omonima cosca, viene uccisa per punizione. Per le regole arcaiche della ‘ndrangheta è colpevole d’aver intrattenuto una relazione extraconiugale con un boss (scomparso) d’altro clan, Domenico Cacciola, cugino del padre di Maria Concetta, che coraggiosamente sceglierà di collaborare, e per questo verrà suicidata. Morirà ingerendo acido. Nella universitaria Arcavacata invece un caso di “malamore”, un uxoricidio/suicidio: un carabiniere, affetto da qualche patologia ossessiva, uccide la moglie con la pistola d’ordinanza mentre la figlia è in casa, al piano superiore. Lei voleva lasciarlo.

Già, perché in questa regione matriarcale piena di contrasti, una regione dove quando nasci sei “bella ma femmina”, dove il genere (sovente accompagnato da retorica) è anche un problema culturale, biopolitico, può finanche accadere che un cronista, scrivendo sulle pagine di un giornale locale di quel marito omicida di Arcavacata, lo dipinga come “un padre e marito esemplare”.

Se gli esempi sono questi…

 

 

 

 

Fonte:  mafie.blogautore.repubblica.it
Articolo del 26 febbraio 2020
Roberta e l’ombra della ‘Ndrangheta
di Silvia Giovanniello

Sorride alla vita, Roberta, in quella foto di fine anni Ottanta. Seduta su un muretto, ride serena, forse pensando alle vacanze imminenti e al mare che l’aspetta. Una camicia azzurra si abbina perfettamente ai suoi orecchini: un segno di buongusto e di quella sana leggerezza propria di una ragazza di diciannove anni.

Roberta curava la sua femminilità, che stava sbocciando appieno in quell’estate del 1988: in un’altra fotografia, grandi orecchini a cerchio gialli, una maglia in tinta e un fiore tra i capelli, ricci e vaporosi, incorniciano il suo sguardo pensieroso, in uno scatto rubato e per questo ancora più spontaneo. È una ragazza semplice, Roberta: una studentessa universitaria, tranquilla, allegra, amabile, che nel pieno della sua giovane età ama vestirsi, piacersi, divertirsi. E proprio a divertirsi pensa in quel luglio 1988 quando, in sella al suo Piaggio “Sì”, si appresta a partire per San Lucido, la località di mare dove la sua famiglia possiede una casa, a solo un’ora di strada dalla loro abitazione. La partenza è già organizzata: la ragazza partirà da Rende di Cosenza con il suo motorino, ma non conoscendo la strada sarà scortata lungo il percorso dai suoi genitori, in auto dietro di lei per non perderla mai di vista.

Eppure, a volte basta un solo, insignificante dettaglio imprevisto per cambiare per sempre una vita. I coniugi Lanzino, infatti, si attardano: si fermano per strada per comprare un cocomero fresco, da mangiare in quella torrida serata. Roberta, nonostante si sia accorta che i genitori non sono dietro di lei, prosegue. E, poco dopo, perde l’orientamento, finendo su una strada secondaria. Si ferma a chiedere indicazioni a un contadino, viene scortata per un tratto di strada da un furgoncino. Infine, viene affiancata da una “Fiat 131” Mirafiori di colore chiaro con a bordo due uomini.

Qualche ora dopo, Matilde e Franco Lanzino arrivano nella casa al mare sicuri di trovare la ragazza, partita prima di loro. Ma Robertina non c’è e un terribile sospetto li assale. Un incidente, forse? I coniugi, preoccupati, iniziano subito le ricerche. Dopo poche ore, ecco lo scooter di Roberta. E’ in fondo a una scarpata, ma è intatto e non presenta segni di avaria. Di Robertina, però, nessuna traccia. Dov’è la loro bambina, che cosa le è successo? Dio, se soltanto non l’avessero persa di vista, se solo non si fossero attardati per strada per quel maledetto cocomero: i Lanzino sono divorati dall’angoscia di quel che potrebbe essere capitato alla figlia in quei pochi, fatali km. E se fosse stata rapita per ottenere un riscatto, come accade di frequente in quegli anni? Non importa. Ciò che conta è che Robertina sia viva, pagheranno qualsiasi cifra pur di riaverla.

Il giorno successivo, finalmente, Roberta viene ritrovata. Ma, infrangendo per sempre le speranze di Franco e Matilde, si tratta soltanto del suo corpo senza vita. Un corpo seminudo, violato e lacerato, con ferite al volto e sugli arti, l’imbottitura delle spalline conficcata in gola e uno squarcio sul collo. Il medico legale, successivamente, dirà che Roberta è stata stuprata e uccisa con una violenza feroce, disumana. Quello che non saprà dire, quello che molti non sapranno dire negli anni, è chi abbia potuto perpetrare un delitto tanto atroce su una giovane ragazza benvoluta da tutti, che non aveva mai fatto del male a nessuno.

Proprio per questo, le indagini si concentrano solo sulla pista del delitto occasionale. I primi ad essere accusati sono i cugini Frangella, pastori della zona: il contadino a cui la ragazza aveva chiesto indicazioni e i suoi due cugini Luigi e Rosario. Tutti e tre poco istruiti, uno di loro con alle spalle ricoveri psichiatrici, sembrano il colpevole ideale. E invece, durante il primo processo, vengono scagionati dagli esami del DNA sul liquido seminale, condotti peraltro in modo approssimativo. I campioni biologici sono stati lasciati degradare, i vestiti della vittima sono stati persi o addirittura buttati, telefonate anonime accusano i figli della Cosenza bene. E così, tra errori giudiziari e depistaggi, sulla storia di Roberta scende il silenzio.

A permettere la riapertura del caso, a quasi venti anni dal delitto, è solo la confessione di un pentito di ‘Ndrangheta. Nel 2007, infatti, l’ex boss Franco Pino rivela di aver ricevuto informazioni in carcere sui nomi dei due uomini a bordo della “Fiat 131” trovata poco distante dal corpo della ragazza. Si tratterebbe dell’allevatore Luigi Carbone e di Franco Sansone, personaggio legato alla ‘Ndrangheta.
A riferirlo al boss, i criminali Marcello e Romeo Calvano, per vendetta verso Sansone, reo di aver ucciso il loro amico Luigi. Sansone è già in carcere, condannato a 30 anni per aver strangolato e gettato in un pozzo l’ex fidanzata Rosaria Genovese; Luigi Carbone, scomparso nel 1989 per “lupara bianca”, sarebbe dunque stato ucciso dal suo stesso complice. Nuovi dettagli collegano una serie di omicidi degli anni Novanta al delitto Lanzino: oltre alla Genovese e a Carbone, il maresciallo della Polizia Penitenziaria Alfredo Sansone e i pastori Libero Sansone e Pietro Calabria, tutti a conoscenza di dettagli scomodi sulla vicenda e per questo messi a tacere.

Sullo sfondo dell’omicidio di Robertina, dunque, cala anche l’ombra della ‘Ndrangheta, in una spirale di violenza e omertà. Il processo riprende, ma le udienze procedono a rilento. I cugini Frangella sono chiamati a testimoniare, ma hanno troppa paura di parlare. Riemergono persino del materiale biologico e alcuni effetti personali della ragazza. Ma il test del DNA, che rivela le tracce di più assassini sul corpo di Roberta, non coincide con quello degli imputati Sansone e Carbone, che dopo nove anni di processo, nel 2017, vengono infine assolti.

A trent’anni da quel lontano luglio 1988, l’omicidio di Roberta Lanzino non ha ancora un colpevole. O meglio, non ha un colpevole in carne ed ossa. Perché anche se restano ignoti i nomi e i volti dei suoi assassini, ad uccidere Robertina è stata prima di tutto quella mentalità retrograda e malata che vede nella donna solo un corpo da possedere. Visione, del resto, da sempre condivisa dalla criminalità organizzata: se non si può parlare di omicidio di ‘ndrangheta, è chiaro che si tratta in ogni caso di un delitto ad essa strettamente collegato.

Roberta è morta per strada, violentata con ferocia e sgozzata come un agnello da qualcuno che riteneva di avere tutto il diritto di farlo. La sua storia è quella di molte altre donne, raccolte dagli stessi coniugi Lanzino, che dopo la sua morte hanno aperto una Fondazione per aiutare altre vittime di violenza. Altre donne che vivono la paura di girare sole, di notte o in strade secondarie, quando sono più vulnerabili e non possono difendersi. Proprio come Roberta, che ha pagato con la vita la colpa di essere nata donna.

 

 

 

 

 

Dal libro: Dead Silent  Life Stories of Girls and Women Killed by the Italian Mafias, 1878-2018 di Robin Pickering Iazzi University of Wisconsin-Milwaukee, rpi2@uwm.edu

 

 

 

Leggere anche:


vivi.libera.it

25 luglio 2020
Il ricordo di Roberta Lanzino. There’s no place like home
di Celeste Costantino *

* Tratto da “Roberta Lanzino. Ragazza” di Celeste Costantino e Marina Comandini
Realizzato dall’Associazione daSud – edito da Round Robin.

 

 

One Comment

  • monica

    certo che è un caso giudiziario disastroso, dalla sparizioni dei vestiti e effetti personali della vittima alla assoluzione degli accusati grazie un po di terra con dna che dicono provenga dal luogo del delitto

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