25 Ottobre 2012 Serra San Bruno (VV). Ucciso Filippo Ceravolo, 19 anni. Era a bordo di un’auto di proprietà del destinatario dell’agguato.

Foto da ilvizzarro.it

Filippo Ceravolo aveva diciannove anni appena, un ragazzo. Viveva a Soriano, un paesino di duemila abitanti in provincia di Vibo Valentia, adagiato sul granito della Serra e della Sila. Aveva un diploma di terza media, giocava a pallone nelle giovanili della squadra locale, lo raccontano come un tifoso sfegatato della Juventus. La sua vita si divideva tra il lavoro, aiutava il padre, titolare di una bancarella ambulante di dolciumi, la sua famiglia ha una tradizione quasi secolare nel settore, e la fidanzata. La sera di giovedì 25 ottobre 2012 Filippo deve tornare a casa presto. Lo attende una sveglia all’alba, per andare con il padre al mercato di Reggio Calabria. È in ritardo. Chiede un passaggio all’amico con il quale ha appena preso l’aperitivo, in compagnia delle rispettive ragazze. Così sale sulla Punto di Domenico Tassone. E tanto basta per far finire tutto. I sogni, i progetti, il futuro. A pochi chilometri di distanza, in una zona che si chiama Calvario, qualcuno sta aspettando proprio quell’auto. Quando la vede, spara con un fucile caricato a pallettoni. Filippo viaggia sul sedile del passeggero, ma viene investito da due scariche. L’agonia di Filippo dura poche ore. Si spegne nella notte, tra le scene di disperazione dei suoi genitori. (Marco Imarisio – Corriere.it)

 

Articolo da ilvizzarro.it
LA MATTANZA DEGLI INNOCENTI
di Sergio Pelaia

SERRA SAN BRUNO – A 19 anni credi che nulla possa intaccare la tua felicità. Ti senti quasi onnipotente. Sai di avere tutta una vita davanti, e quindi ti godi a pieno la dolcezza di quell’età. E’ giusto che sia così. E Filippo Ceravolo era così. Stava vivendo la sua giovinezza in un angolo di Calabria in cui nascere, purtroppo, è una sfortuna. Si divideva tra il lavoro, che lo portava in ogni angolo della regione a vendere dolciumi insieme al padre, e la fidanzata. Probabilmente proprio da lei stava andando giovedì sera. Era tranquillo, come al solito, perché a 19 anni non pensi di rischiare la vita se chiedi in prestito l’auto ad un conoscente. Ed è giusto che sia così. Invece a Soriano, nell’Alto Mesima, nelle Serre, non è così. Si muore a 19 anni, assassinati, senza nessuna colpa. Filippo è stato scambiato per un altro, e gli hanno sparato a pallettoni, alla testa. L’auto su cui viaggiava è intestata a Danilo Tassone. Pare che gliel’avesse prestata il fratello di Danilo, Domenico, 27 anni. Ancora non è chiaro se Domenico fosse insieme a Filippo al momento dell’agguato, se gli avesse dato un passaggio o se gli avesse solo prestato la macchina, fatto sta che Filippo è stato trovato sul ciglio della strada, l’auto in una scarpata, mentre al 27enne sono state stare riscontrate delle escoriazioni sul corpo. Domenico Tassone è noto alle forze dell’ordine. Tra l’altro è cugino di Giovanni Emanuele (23enne ferito in un agguato l’1 aprile scorso, a sua volta cugino del boss Bruno Emanuele), ed è quasi certo che fosse lui il vero obiettivo dei killer. Forse doveva essere lui il prossimo a cadere nella faida di ‘ndrangheta che sta insanguinando il territorio tra Sorianello e Gerocarne. Filippo non c’entrava nulla, era innocente. Così come innocente era Domenico Macrì, uno studente universitario che aveva vent’anni nel 1997, quando è stato ammazzato, in pieno centro a Soriano. Anche lui non c’entrava niente, ma cadde sotto i colpi di un commando che ha sparato all’impazzata da un’auto in corsa. I responsabili sono finiti in galera, alcuni dopo la latitanza. Ancora non è chiaro se Domenico sia stato ammazzato perché aveva accusato i malavitosi che l’hanno ucciso di aver rubato l’auto della madre, oppure se l’obiettivo dell’agguato fosse un’altra persona, come emerso di recente dal racconto di un pentito. 15 anni dopo l’omicidio Macrì, che passò alle cronache – furono ferite gravemente altre due persone – come la “strage di Soriano”, un altro ragazzo innocente ammazzato. Anche se il movente e le vittime, in alcuni casi, non c’entrano nulla con questi ambienti, sempre di ‘ndrangheta si tratta, e sempre per mano della ‘ndrangheta si muore. In questo territorio ce ne sono stati molti, di innocenti uccisi. Per motivi a volte futili, per un cavallo, o per l’amore di una ragazza “sbagliata”. Ma la giusta indignazione del momento non cambia le cose. Negli anni, i morti vengono ricordati solo dalle famiglie, ma la tanto invocata “società civile”, la “maggioranza silenziosa”, da queste parti non ha mai fatto rumore. Non si è mai schierata, anzi forse non è mai esistita. Perché le persone che, nella vita di tutti i giorni, parlano della ‘ndrangheta semplicemente perché la vedono, che denunciano, che non si girano dall’altra parte, che non rimangono neutrali spettatori di questa mattanza, sono sempre di meno. Sono una sparuta minoranza, isolata e guardata con sospetto. Si preferisce non scendere in piazza, non parlare, non sentire e non vedere. Perché è più comodo. “Fin quando si ammazzano tra di loro…” è una frase che si sente dire spesso dalle “persone perbene”, che avallano la mentalità della faida come se fosse inesorabile, e poi si indignano eccezionalmente quando cade un innocente. Anche quando viene ucciso uno ‘ndranghetista ci sono delle vittime innocenti, e se non si insorge anche di fronte a quelle vittime, se non si contrasta quotidianamente il modo di pensare e di vivere di chi la vita la toglie agli altri per mestiere, se si lascia passare tutto, succede che la ‘ndrangheta si sente onnipotente e inattaccabile, e in questo meccanismo infernale ci perdono la vita gli innocenti. Questo può insegnarci una storia come quella di Filippo. Un sacrificio tremendo, insopportabile, che spetta a tutti noi non rendere vano.

 

 

 

Articolo del 29 Ottobre 2012 da .gazzettadelsud.it
La bara di Filippo accolta da un intero paese 
Centinaia di palloncini sono stati lanciati in cielo poco prima che il feretro, ricoperto dalla bandiera della Juventus, entrasse in Chiesa. Forte lo sdegno per una logica omicida contro cui si ribellano le coscienze. Sabato una manifestazione.

A celebrare le esequie, che hanno avuto luogo nella chiesa di San Domenico, è stato il parroco di Soriano, don Giuseppe Sergio, che ha concelebrato una messa solenne, assistito dai parroci dei comuni vicini e dai monaci domenicani. Impossibilitato a presenziare il vescovo mons. Luigi Renzo, il quale ha inviato un messaggio, manifestando la sua vicinanza. Filippo Ceravolo è stato ricordato nel corso dell’omelia come un ragazzo esemplare e un onesto cittadino, dedito al lavoro e alla famiglia. Gli amici hanno ricoperto la bara con un drappo bianconero, la bandiera della Juventus, sua squadra del cuore. E proprio i tifosi juventini, ieri, nello stadio di Catania, in occasione della parita Catania-Juventus, hanno esibito uno striscione con la scritta: «Filippo Ceravolo con noi, per sempre». Al termine della cerimonia religiosa la zia e la cugina di Filippo hanno ricordato il congiunto leggendo degli accorati messaggi che hanno strappato le lacrime della gente. In tutti i presenti aleggiava l’interrogativo del perchè di una morte senza senso e senza giustificazione. Prende sempre più piega, infatti, l’ipotesi avanzata dagli inquirenrti che i colpi di fucile, che lo hanno attinto, ferendolo mortalmente, non erano rivolti contro di lui. Da qui la sensazione della sconfitta della società civile, che si sente esposta e indifesa e chiede una maggiore presenza dello Stato sul territorio e più sicurezza per i cittadini. Per gridare «basta» e, soprattutto, per risvegliare le coscienze è stata annunciata per sabato prossimo una grande manifestazione di cordoglio e di protesta che si terrà a Soriano e della quale saranno protagonisti, in prima fila, gli studenti. Alla manifestazione, oltre a Libera, aderiranno anche i commercianti, le associazioni locali e le pubbliche istituzioni.

 

 

 

Articolo del 29 Ottobre 2012 da  glialtrionline.it/
Calabria, ucciso per errore a 19 anni
Ma all’Italia non frega un cazzo
di Nicola Mirenzi

Le vite non hanno ovunque lo stesso valore. C’è la vita di chi muore ammazzato nel centro di Milano e vale la prima pagina dei giornali, i romanzi criminali e lo spavento delle borghesie illuminate. E c’è la vita di Filippo Ceravolo, un innocente di diciannove anni ucciso la notte di giovedì in provincia di Vibo Valentia in un agguato in odore di ‘ndrangheta, di cui i telegiornali nazionali non hanno dato nemmeno notizia.

I pesi e le misure cambiano a secondo della geografia, in questo paese spaccato nei sentimenti, dove si riesce a rimanere indifferenti all’omicidio di un ragazzo neanche ventenne solo perché lo si ammazza per sbaglio in quello sprofondo del Sud che è la Calabria.

Il fatto è che giovedì sera Filippo si era fatto dare un passaggio in macchina da Domenico Tassone, ventisette anni, dopo che i due avevano passato la serata con le rispettive ragazze. Sulla strada per casa qualcuno stava aspettando che quella Fiat Punto passasse. E appena l’ha vista arrivare ha sparato (gli inquirenti sospettano che l’obiettivo dell’agguato fosse Tassone). Filippo, che era seduto sul lato passeggeri, viene colpito alla testa. Morirà qualche ora dopo all’ospedale. L’altro ragazzo rimane illeso.

Si finisce anche così in Calabria: a diciannove anni, senza aver fatto male a nessuno, nell’indifferenza nazionale. Per i giornali, la politica e il ministro degli interni la vita di Filippo vale meno di quella di un morto ammazzato in Lombardia, perché Filippo è nato e vissuto in una provincia marchiata con la denominazione di origine incontrollata, quella della ‘ndrangheta: una maledizione che ti segue dalla culla sino alla tomba e ti rende associato sino a prova contraria.

Quando sulle agenzie arriva la notizia di un ventenne ammazzato laggiù, la si butta immediatamente nel cestino. Se l’hanno ucciso, ci sarà un perché, pensano gli scienziati dell’indignazione assistita. La presunzione di innocenza è morta da Napoli in giù. Perché nel senso comune italiano, la ‘ndrangheta (come la camorra per i campani o Cosa nostra per i siciliani) ha smesso di essere una associazione mafiosa ed è diventata una sorta di stampo antropologico dei calabresi, il loro Dna, come se fossero tutti capobastone. Quando viene ammazzato qualcuno a Sud della linea di rispettabilità l’istinto è quello di dire: «Uno in meno».

Ma si da il caso che Filippo fosse una ragazzo per bene, che lavorava sodo come venditore ambulante (la mattina dopo che l’hanno ucciso sarebbe dovuto andare a fare mercato). Una persona lontana mille miglia dai giri criminali, come è lontana dai traffici loschi la maggior parte delle persone che vivono in questa regione. A Soriano Calabro, il paese da dove veniva Filippo, lo stanno piangendo come si piange un fratello, dannandosi come ci si danna per un’ingiustizia elevata al cubo. Se al resto dell’Italia non viene il vomito per questo dolore – per pigrizia o comodità – significa che ha scelto di coltivare «la disperazione più grande di una società». Che, come scriveva Corrado Alvaro, «è il dubbio che vivere onestamente sia inutile».

 

 

 

Foto e Articolo del 2 Novembre 2012 da corriere.it
Filippo, vittima per caso a 19 anni
Una fine dimenticata da tutti 

di Marco Imarisio
I killer volevano uccidere l’uomo che gli aveva dato un passaggio. Al funerale un’unica corona di fiori, quella degli ambulanti, colleghi del padre della vittima. A Soriano, in Calabria. Solo i tifosi della Juve gli hanno dedicato uno striscione.

Chiedi chi era Filippo Ceravolo. Aveva diciannove anni appena, un ragazzo. Viveva a Soriano, un paesino di duemila abitanti in provincia di Vibo Valentia, adagiato sul granito della Serra e della Sila, uno dei luoghi dimenticati di una regione dimenticata come la Calabria. Era un commerciante, nel senso che dava una mano a papà, titolare di una bancarella ambulante di dolciumi. Aveva un diploma di terza media, giocava a pallone nelle giovanili della squadra locale, lo raccontano come un tifoso sfegatato della Juventus. La sua vita si divideva tra il lavoro, prima o poi avrebbe ereditato il ruolo del padre, la sua famiglia ha una tradizione quasi secolare nel settore, e la fidanzata. Come tanti, come tutti. Una vita e una storia normale, in una terra che tanto normale ancora non è, purtroppo.

La sera di giovedì 25 ottobre Filippo deve tornare a casa presto. Lo attende una sveglia all’alba, per andare con il padre al mercato di Reggio Calabria. È in ritardo. Chiede un passaggio all’amico con il quale ha appena preso l’aperitivo, in compagnia delle rispettive ragazze. Così sale sulla Punto di Domenico Tassone. E tanto basta per far finire tutto. I sogni, i progetti, il futuro. A pochi chilometri di distanza, in una zona che si chiama Calvario, qualcuno sta aspettando proprio quell’auto. Quando la vede, spara con un fucile caricato a pallettoni. Filippo viaggia sul sedile del passeggero, ma viene investito da due scariche. Lo ritrovano riverso sull’asfalto, sul ciglio della scarpata dove è caduta la Punto. Domenico, che era al volante, se la cava con una ferita al braccio. Nelle intenzioni degli assassini, doveva essere lui a morire. Come si legge sempre nei mattinali di questura, risulta noto alle forze dell’ordine, reati di poco conto, ma soprattutto è parente del boss Bruno Emanuele, protagonista della faida di ‘ndrangheta che da anni insanguina il vibonese. Quest’estate hanno ammazzato una persona sulla spiaggia, rincorrendola tra gli ombrelloni. Sai quanto gliene importa, a gente così, di un errore di mira, di uno scambio di persona. Inconvenienti del mestiere.

L’agonia di Filippo dura poche ore. Si spegne nella notte, tra le scene di disperazione dei suoi genitori. Quello che succede dopo è un classico delle storie provenienti dalla Calabria, e riguarda tutti noi, compresi i nostri pregiudizi. Perché lo sappiamo bene, anche gli omicidi si pesano. Il loro valore di notizia cambia a seconda delle geografia, dell’importanza dei luoghi, e del contesto. Filippo non muore nel profondo e talvolta ricco Nord, non muore neppure nella terra di Gomorra come Pasquale Romano, ammazzato per errore sotto gli occhi della fidanzata e giustamente diventato simbolo dell’assurdo, della precarietà del vivere in posti dove lo Stato non si vede, «non ci risulta».
La notizia della sua morte diventa materiale da maneggiare con cura, per un riflesso condizionato. È una storia di mafia locale, cattivissima e invasiva, ma non ancora frequentata da romanzi e fiction di successo. Poi, da quelle parti si ammazzano sempre, ci sono le faide, se gli hanno sparato una ragione dovrà pur esserci. Fuori dal suo territorio la ‘ndrangheta viene percepita così: un dato antropologico, e non una maledizione. Nel dubbio, la zona grigia del pregiudizio impone la scelta del silenzio. Meglio tacere. E pazienza se gli investigatori dicono che quel ragazzo era innocente, e incontaminato.

Ci arrivano prima i tifosi della Juventus, che gli dedicano uno striscione, ci arriva prima l’indignazione di qualche giornalista calabrese. Come Nicola Mirenzi, che su Gli Altri scrive di ingiustizia elevata al cubo dal silenzio generale, e cita il genius loci Corrado Alvaro: la disperazione più grande di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile. Solo allora, fugato ogni sospetto, per carità, si sono fatte avanti la politica e le istituzioni. La prima interrogazione parlamentare è stata depositata ieri da Franco Laratta, deputato del Pd. «Si intende sapere se il ministro dell’Interno sia a conoscenza dell’agguato sopra descritto». Intanto si sono già svolti i funerali. L’unica corona di fiori sul feretro era quella degli ambulanti, i colleghi del padre. Chiedi chi era Filippo Ceravolo, e ti risponderanno che della Calabria non importa niente a nessuno.

 

 

 

Fonte urbanpost.it
Articolo del 23 settembre 2018
Omicidio Filippo Ceravolo: 6 anni dopo ancora nessun colpevole
di Andrea Monaci

Il 25 ottobre del 2012 Filippo Ceravolo, 19 anni, rimase vittima di un agguato in pieno stile mafioso mentre faceva ritorno a casa a Soriano Calabro (Vibo Valentia) dalla vicina Pizzoni. Il giovane era in ritardo, il mattino successivo doveva alzarsi presto per aiutare il padre, commerciante ambulante. Per rincasare aveva quindi accettato un passaggio in macchina da un conoscente, che secondo gli inquirenti sarebbe stato il vero obiettivo dell’agguato.

Da allora buio pesto. Le indagini condotte su mandato della Direzione Distrettuale Antimafia hanno solo appurato le modalità di esecuzione dell’omicidio consumato ai danni del giovane, ma i responsabili restano ad oggi sconosciuti. Che si fosse trattato di un errore era ed è fuori discussione. Filippo Ceravolo era un ragazzo a posto, nessuna ombra nel suo passato. Ombre che invece risultavano nel passato dell’uomo in auto con Filippo che tuttavia, è bene ricordarlo, non risulta indagato per la morte del diciannovenne.

La famiglia di Filippo Ceravolo non si è mai data pace in questi anni. Il papà Martino e la mamma hanno iniziato una battaglia per arrivare a conoscere gli assassini del figlio, ma finora hanno atteso invano: i killer di Filippo non hanno né un nome né un volto.

Le indagini e l’archiviazione
L’inchiesta sull’uccisione di Filippo Ceravolo è stata archiviata nel maggio del 2016. La Procura di Vibo Valentia indagava su due uomini, ma non è riuscita a raccogliere elementi sufficienti né per emettere misure cautelari, né tantomeno per un possibile rinvio a giudizio. La famiglia Ceravolo ha dato mandato ai suoi legali, Giuseppe Orecchio e Giovanna Fronte, di approfondire gli elementi emersi dalla prima indagine sull’uccisione di Filippo. La famiglia del giovane di Soriano non vuole lasciare nulla di intentato per arrivare alla verità. La determinazione della famiglia ha portato l’avvocato Orecchio ad avvalersi della consulenza di alcuni periti di parte che di recente hanno ripreso in mano quanto venuto fuori dal fascicolo della Dda. Al momento c’è il massimo riserbo su questa attività, ma non è escluso che possa portare a sviluppi significativi. Che si arrivi ad una riapertura del caso?

L’ombra della ‘ndrangheta
C’è però un’ombra sinistra che aleggia da sempre sul caso della morte di Filippo Ceravolo, fin da quel disgraziato 25 ottobre del 2012. E’ l’ombra della ‘ndrangheta. Ma cosa c’è di chiaro in questa vicenda? Poco o nulla. Di sicuro c’è l’area in cui è avvenuto il delitto, la zona delle preserre Vibonesi con la sua storia di faide e sangue. Tra questi boschi e queste montagne che sembrano incantate le famiglie di ‘ndrangheta hanno scatenato una lotta senza quartiere per il predominio sul territorio e sulle attività economiche. Qui ha sempre dettato legge la cosca dei “Viperari”, almeno fino alla morte del suo presunto boss, Damiano Vallelunga, ucciso nel 2009 al culmine della cosiddetta faida dei boschi, oggi svelata anche grazie alle confessioni di alcuni pentiti. Ma soprattutto qui, tra Soriano, Ariola e Gerocarne, si sono scontrati gli ex alleati delle ‘ndrine Emanuele e Loielo, lasciando sul campo morti e feriti. Anche dietro l’uccisione di Filippo Ceravolo s’intravede l’ombra della ‘ndrangheta. Chi lo accompagnava in auto, il vero bersaglio dell’agguato, era già noto alle forze dell’ordine per precedenti di poco conto. Ma c’era (c’è) un elemento ben più importante nel fascicolo dell’accompagnatore di Filippo, una parentela: quella con il boss Bruno Emanuele, protagonista della faida di con gli ex alleati Loielo, in carcere condannato all’ergastolo. Che l’inchiesta, se riaperta, debba ripartire da qui è quasi scontato.

La speranza nella verità
“Chiedi chi era Filippo Ceravolo, e ti risponderanno che della Calabria non importa niente a nessuno”, scriveva Marco Imarisio sul Corriere della Sera solo qualche giorno dopo i funerali di Filippo. Invece le cose stanno andando diversamente, anche grazie all’impegno – una volta tanto – delle istituzioni e di alcuni esponenti politici. Il 25 ottobre del 2017, a cinque anni esatti dall’uccisione di Filippo, gli studenti delle scuole medie e superiori di Soriano Calabro hanno commemorato il giovane compaesano. La commemorazione è stata fatta leggendo temi sulla legalità. Con loro, oltre ai sindaci dei paesi delle Serre c’erano anche anche i vertici dell’associazione antimafia Libera e l’ex parlamentare Angela Napoli. Insomma la lezione che arriva da questo piccolo paese della Calabria e dalla famiglia di Filippo è “non disperare”. Quella disperazione che ben descriveva Corrado Alvaro e che più volte sembra essersi impadronita di questa terra, non deve far desistere dalla ricerca della verità, mai.

 

 

 

 

Fonte:  cosavostra.it
Articolo del 21 ottobre 2018
Filippo Ceravolo. Un ragazzo ucciso dalla ‘Ndrangheta
di Asia Rubbo

Filippo Ceravolo, 19 anni, dopo aver trascorso una serata a Pizzoni con la sua ragazza e altri amici, si mette in cerca di un passaggio.

Deve tornare a Soriano, dove abita con la sua famiglia e da dove l’indomani partirà di buon mattino, assieme al padre, per andare a lavorare. Uno degli amici, Domenico Tassone, si offre di accompagnarlo a casa.

Quel 25 ottobre 2012 però, Filippo a casa non ci è arrivato. Nella provincia di Vibo Valentia, le morti accidentali a causa di agguati mafiosi improvvisi, o per regolamenti di conti in luogo pubblico, sono molte, troppe.

Quella sera è toccato al diciannovenne salire sull’auto sbagliata, la sera sbagliata. A pochi chilometri da Pizzoni, infatti, qualcuno stava aspettando proprio la Punto di Domenico Tassone.

Filippo, seduto sul sedile del passeggero, si ritrova improvvisamente colpito da due scariche di fucile, mentre Domenico se la cava con qualche ferita. Era proprio quest’ultimo, però, il vero obiettivo dell’agguato: Tassone, infatti, è imparentato con il boss Bruno Emanuele, capo di una famiglia del vibonese protagonista di una faida di ‘Ndrangheta.

A pagare le conseguenze di questa faida è Filippo Ceravolo che, dopo qualche ora, si è spento nella disperazione dei suoi genitori e dei suoi amici.

Una morte così, in una terra complessa come la Calabria, non corre nemmeno il rischio di diventare un fatto di rilevanza nazionale. In quelle situazioni è facile che si crei il sospetto che la vittima, con quegli affari, un po’ c’entrasse.

Come si può, altrimenti, morire così, per puro caso? In Calabria, e non solo, purtroppo è possibile. Filippo Ceravolo però era un ragazzo incensurato, con la licenzia media, che si svegliava presto tutte le mattine per aiutare il padre, Martino, al mercato di Reggio Calabria.

Se questa storia non è finita nel dimenticatoio, come purtroppo spesso accade, è grazie alla costanza e all’impegno proprio di Martino Ceravolo, un padre coraggio.

Dal 2012 quest’uomo non si dà per vinto e non smette di raccontare la storia del figlio, sempre alla ricerca di una giustizia che ancora non è stata fatta: ad oggi non ci sono né imputati, né tanto meno colpevoli per l’omicidio di Filippo.

Due anni dopo l’accaduto, davanti alla Prefettura di Vibo Valentia, il padre si è messo a protestare simbolicamente per chiedere ascolto e considerazione anche perché, proprio nel 2014, il figlio è stato finalmente riconosciuto come vittima innocente di mafia e in quanto tale aveva, ed ha ancora, diritto alla giustizia.

Esattamente un anno dopo però, viene chiesta l’archiviazione delle indagini sull’omicidio di Filippo Ceravolo da parte della Dda di Catanzaro, vista la mancanza di elementi sufficienti per un vero processo.

Malgrado questo, la determinazione del padre e la memoria viva e attiva di Filippo, “praticata” soprattutto nella comunità della sua Soriano, non si placano.

Nelle scuole del paese si parla di Filippo, si pianta un albero a lui intitolato come segno di ribellione alla realtà del vibonese e alla violenza delle ‘ndrine, ma soprattutto come richiesta di giustizia e segno di speranza in un futuro diverso per una terra insanguinata.

Passano le settimane, i mesi, gli anni e sulla bocca di Martino Ceravolo resta solo una frase “non si archiviano gli angeli”, frase che ha ripetuto all’ex Ministro della Giustizia Orlando, al procuratore Nicola Gratteri e anche durante le sue proteste a Vibo e a Catanzaro, di fronte alle sedi del potere giudiziario.

L’inchiesta viene ufficialmente archiviata nel 2016, ma da parte della famiglia di Filippo c’è il continuo tentativo di far riaprire le indagini in qualsiasi modo possibile.

La storia del giovane finisce anche in tv, al programma “Le Iene”, ma l’eco non risuona tanto come dovrebbe.

Nel 2015 a Soriano era stato inaugurato anche un monumento in ricordo del ragazzo, ma tre anni dopo, ad aprile, il memoriale è stato oggetto di vandalismo. La foto del giovane è stata rimossa e qualche giorno dopo sostituita dal padre e dal comune. E’ evidente che la memoria di Filippo, e soprattutto il coraggio e la tenacia del padre, stanno cominciando a dare fastidio a qualcuno.

Sono ormai sei anni che il giovane ragazzo è stato ucciso per errore e, malgrado i tentativi di far piombare la faccenda nel silenzio, suo padre e la sua comunità non si sono ancora arresi.

Il padre Martino e la madre Anna, esasperati, in estate si sono detti pronti a compiere “gesti estremi”, stremati e delusi dalla situazione attuale. Non riescono a darsi pace e soprattutto non riescono ad accettare che le indagini sull’omicidio di Filippo siano state chiuse.

Nella sua lotta Martino non è solo, ha avuto l’appoggio di Don Luigi Ciotti, della senatrice Granato, di tutta la sua comunità e di molte persone che lo ammirano e lo stimano per la sua lotta. Alcuni lo chiamano addirittura il “Don Ciotti calabrese”. Questo, però, può bastare?

Di sicuro avere il supporto di così tante persone è uno scudo contro le eventuali minacce che Martino potrebbe ricevere, soprattutto da chi ha tutto l’interesse che il caso dell’omicidio di Filippo rimanga archiviato. Il solo supporto però non sembra bastare, perché la voce di Martino è una e, forse, ancora troppo flebile per scalfire quella che è la quotidianità di certe zone di Calabria.

Forse se un omicidio del genere fosse avvenuto anche solo qualche chilometro più a nord, le cose sarebbero state ben diverse e la storia di Filippo Ceravolo sarebbe diventata un prodotto mediatico. La morte di un ragazzo innocente avrebbe riempito i telegiornali, magari anche “appassionato” i telespettatori, ma la Calabria e soprattutto ciò che lì avviene finisce quasi subito nel dimenticatoio.

Di persone come Martino Ceravolo, pronte a dedicare la vita per la ricerca di giustizia e verità, non ce ne dovrebbe essere solo una. Da soli la lotta è più faticosa e c’è il rischio di arrendersi, di farsi piegare.

L’Italia è piena di storie di famigliari che hanno dedicato la vita per far sì che venisse fatta giustizia per i loro parenti uccisi, questa non è la prima e purtroppo non sarà nemmeno l’ultimo. Un modo per supportarli nella loro lotta è raccontare le loro storie, farle vivere. In questo caso è importante parlare del coraggio di Martino, ma soprattutto di Filippo, dell’assoluta normalità della sua vita e delle abitudini che lo accomunavano a tanti altri ragazzi della sua età.

Al posto di Filippo ci sarebbe potuto essere chiunque altro. La sua unica colpa è stata salire su quell’auto e, soprattutto per questo, il suo caso non può e non deve restare archiviato. Non per vendetta, ma unicamente per senso di giustizia, nella speranza che la tenacia del padre possa portare a qualche risultato concreto.

 

 

 

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Articolo del 23 ottobre 2020
Otto anni senza Filippo, papà Martino non molla: «È dura andare avanti, ma presto la verità verrà a galla»

 

 

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Articolo del 24 ottobre 2021
Omicidio Ceravolo, papà Martino nell’aula bunker chiede giustizia per suo figlio Filippo: «Io aspetto»
di P.C.
Spettatore al maxiprocesso rivive la carneficina di nove anni fa. Domani a Soriano messa per il nono anniversario della morte del ragazzo vittima innocente delle mafie. Al termine la presentazione del libro di Maria Maiolo “Vite spezzate”.

 

 

 

 

 

 

 

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