27 settembre 1970 Ferentino (FR). Cinque ragazzi, in viaggio da Reggio Calabria verso Roma, muoiono in uno strano incidente stradale. Sono Annelise Borth, suo marito Gianni Aricò e gli amici Angelo Casile, Franco Scordo e Luigi Lo Celso.

Foto di: cosavostra.it 

A Reggio Calabria, alcuni ragazzi, di età compresa tra i diciotto e i ventisei anni, misero in piedi un gruppo di controinformazione e di azione politica. Sono “gli anarchici della Baracca”. Si interessano in particolare di due eventi accaduti nel 1970: la rivolta di Reggio Calabria e il deragliamento del treno Freccia del Sud del 22 luglio 1970. Sostengono che c’è l’infiltrazione dei neofascisti di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale nei Moti di Reggio con l’obiettivo di strumentalizzare la piazza e ritengono che il deragliamento del treno non è stato incidentale, ma provocato da una carica di esplosivo piazzata dai neofascisti aiutati dalla ‘ndrangheta.
Annelise Borth, insieme a suo marito Gianni Aricò  e agli amici Angelo Casile, Franco Scordo e  Luigi Lo Celso, il 27 settembre 1970 si mettono in viaggio per Roma in macchina: vogliono partecipare alla manifestazione contro Nixon e soprattutto consegnare a un avvocato del movimento un faldone con le loro ricerche sul coinvolgimento della ‘ndrangheta nei due episodi. Durante il viaggio rimangono tutti uccisi in uno strano incidente stradale nei pressi di Ferentino: l’incidente chiama in causa il principe nero Valerio Borghese, persona nota negli ambienti di estrema destra. Il camion con cui hanno avuto lo scontro è di una ditta che fa capo al suddetto. I documenti e le carte che dovevano consegnare non sono mai stati ritrovati.

 

 

Fonte:  fanpage.it/
Articolo del 29 marzo 2017
La strage di Gioia Tauro e i segreti d’Italia scoperti da cinque giovani anarchici
Un attentato dinamitardo, una rivolta che infuoca un’intera regione e cinque giovani che hanno scoperto segreti che possono “far tremare l’Italia”, morti in un misterioso incidente stradale. Questa la storia della Strage di Gioia Tauro.

Mercoledì, 22 luglio 1970. Sul direttissimo Freccia del Sud, Palermo -Torino, il treno del Sole che collega le due anime della penisola, ci sono circa 200 persone. Lavoratori pendolari che tornano su dopo un soggiorno in famiglia, un gruppo di pellegrini diretto a Lourdes, viaggiatori occasionali, tutti sono stipati in quei vagoni roventi del sole di luglio. Il viaggio è interminabile e con quei sobbalzi continui non si riesce neanche a dormire. Poi il treno subisce un sussulto più forte degli altri, molto più forte. Qualcosa non va. Il macchinista aziona il meccanismo di frenata di emergenza e si lancia dal locomotore. Le prime sei carrozze del treno – che correva a 100 chilometri orari – si arrestano schiacciandosi. La sesta deraglia, tirandosi dietro tutte le altre 12, il treno si spezza in due, due carrozze si rovesciano sulla massicciata. Alle 17 e 10, il Treno del Sole finisce il suo viaggio a Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria, con 6 morti e 77 feriti.

Ore 17:08

Nelle case circostanti si sente la terra tremare, alcuni credono che sia il terremoto. Da lontano, guardando verso la stazione si vedono fiammate rosse alzarsi dalle carrozze. Dentro, c’è un cimitero di corpi straziati. I vigili del fuoco tentano di estrarli con la fiamma ossidrica, la scena è quella di un disastro. Si pensa subito a una disgrazia, un errore umano o una fatale avaria. Quella, però, è una città che dista pochi chilometri da Reggio Calabria, dove da sette giorni i cittadini insorgono contro la decisione di fare di Catanzaro e non Reggio il capoluogo di regione. Una scelta combattuta dalla popolazione che aveva fatto di Reggio un campo di battaglia, con barricate che chiudevano l’accesso alle strade, presidi e episodi di guerriglia urbana. Il 15 luglio ci scappa anche il morto: è Bruno Labate, iscritto alla CGL, muore sotto una carica dalla polizia. Al suo funerale la folla insorge di nuovo davanti alla Questura assaltano il palazzo, la quinta sezione della Mobile viene data alle fiamme. Il sindaco Battaglia e il gruppo della DC, che inizialmente avevano sostenuto e animato l’insurrezione, se ne dissociano e nasce il Comitato d’azione per Reggio Capoluogo, guidato da tre missini, Natino Aloi, Renato Meduri e Ciccio Franco, consigliere comunale in quota MSI e sindacalista Cisnal dei ferrovieri, che conia il claim ‘Boia chi molla’.

‘Gli anarchici della baracca’

In uno scenario simile, dopo i fatti di piazza Fontana, l’ipotesi che il deragliamento del treno del Sole fosse frutto di un’operazione di deliberato sabotaggio da parte dei rivoltosi di Reggio. Lo pensano i magistrati della Procura; lo sospettano i reggini che hanno alzato le barricate; i giovani anarchici, paladini della controinformazione, i cosiddetti Capelloni, tentano di scoprirlo. Tuttavia la parola ‘attentato’ non viene pronunciata in nessuna sede, neanche in quella di indagine della Polfer. Il capostazione e tre ferrovieri vengono indagati e subito viene archiviata la loro posizione. Anche se la perizia dei tecnici considera anche l’attentato dinamitardo, l’inchiesta si chiude. Solo quella della polizia, però. C’è un gruppo di attivisti reggini, noto come ‘Gli anarchici della baracca’, dal posto pittoresco e fatiscente in cui, studiavano e discutevano e abitavano, che riguardo alla strage guarda più lontano della polizia. Gianni Aricò, Angelo Casile, Franco Scordo, Luigi Lo Celso e Annalise Borth, peraltro testimoni a favore di Pietro Valpreda nell’inchiesta su piazza Fontana, hanno osservato da vicino la rivolta di Reggio documentando, con le macchine fotografiche, la presenza nelle barricate di neofascisti di Ordine nuovo e Avanguardia nazionale.

“Abbiamo scoperto cose che faranno tremare l’Italia”

Nella baracca avevano raccolto del materiale sul disastro della Freccia del Sud, documenti delicati che era il caso di mostrare a un amico avvocato, Edoardo Di Giovanni, autore della controinchiesta sull’attentato di Milano. Li aspettava a Roma, dove i ragazzi erano diretti nella loro Mini minor carica di fascicoli, il 26 settembre del 1970, dove, sull’autostrada tra Ferentino e Frosinone, a 58 chilometri da Roma, si schiantano contro un camion parcheggiato sul ciglio della strada, coi fari spenti. I magistrati di Frosinone concludono che si è trattato di una disgrazia, eppure lo stato in cui viene ritrovata la Mini minor fa pensare alla presenza di un terzo veicolo. Un mezzo che potrebbe aver speronato l’auto dei ragazzi spingendola contro il rimorchio.

Il Golpe borghese

Pochi mesi dopo l’incidente e mentre in Reggio Calabria si combatte una vera e propria guerra civile, a Roma il principe nero Junio Valerio Borghese, sotto l’egida Fronte Nazionale marcia su Roma tentando il colpo di Stato. Secondo i piani dell’ex colonnello della X Mas, il golpe avrebbe portato all’assedio del Ministero dell’Interno, del Ministero della Difesa e delle sedi RAI. Il piano prevedeva anche la deportazione degli oppositori, il rapimento del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e l’assassinio del capo della polizia Angelo Vicari. Il colpo di Stato viene annullato dallo stesso Boghese, per motivi mai chiariti.

‘Una disgrazia’

“Abbiamo scoperto cose che faranno tremare l’Italia”, aveva confidato Gianni Aricò alla madre pochi giorni prima di morire e pochi mesi prima del Golpe Borhese. “È meglio che non faccia partire tuo figlio”, aveva detto un amico poliziotto al padre di Lo Celso, la sera prima della partenza. Impossibile non pensare che i ragazzi fossero in possesso di notizie riservate e delicatissime e che molto di quello che sapevano era custodito nel bagagliaio della Mini minor blu, che dopo l’incidente fu trovata completamente svuotata del carico di documenti. L’inchiesta viene ugualmente archiviata nel 1971, così come nello stesso periodo, grazie a un compromesso, viene deposta ogni rivendicazione dagli insorti di Reggio. Il presidente del consiglio Emillio Colombo annuncia in parlamento che l’università e il capoluogo resteranno a Cosenza e Catanzaro, ma in cambio Reggio diventerà il primo polo siderurgico, con un investimento di 10mila posti di lavoro. La polizia e l’esercito entrano in città per sgomberare le barricate. I moti, insanguinati da 28 attentati dinamitardi, hanno fatto decine di morti, centinaia di feriti.

La verità

Nel 1993 nell’ambito di una maxi inchiesta “Olimpia 1” sulla ‘Ndrangheta calabrese, il pentito Giacomo Lauro, dichiarò davanti al sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Vincenzo Macrì, di aver saputo nel 1979, in carcere, che era stato il neofascista Vito Silverini, a piazzare la bomba di Gioia Tauro su mandato del Comitato d’azione Reggio Capoluogo. Dichiarazioni confermate davanti al giudice istruttore Guido Salvini, che indaga anche sui fatti di piazza Fontana e suffragate dalla testimonianza di Carmine Dominici, neofascista di Avanguardia nazionale calabrese, ex faccendiere del marchese Felice Genoese Zerbi, dirigente di An. La rivolta calabrese, secondo le dichiarazioni del pentito, sarebbe stata armata dalla ‘Ndrangheta, che forniva il materiale esplodente e finanziata da facoltosi esponenti di Destra. Come ipotizzavano i cinque anarchici calabresi dietro la rivolta per Reggio Capoluogo c’era la longa manus della destra eversiva che, dalla capitale, controllava tutto. Nel luglio 1995 vengono indagati per concorso in strage l’armatore Amedeo Matacena senior, Angelo Calafiore, ex-consigliere provinciale missino di Reggio, Fortunato Aloi e Renato Meduri. Tutti vengono prosciolti.

L’epilogo

Lauro rivela che quello di Gioia Tauro sarebbe stato un attentato e che il materiale lo avrebbe procurato lui. La carica di esplosivo era stata sistemata sui binari, era esplosa prima del passaggio del convoglio, formando un fosso profondo diversi metri e causandone il deragliamento. Dominici aggiunse che nell’ambiente della malavita calabrese, della morte dei quattro ragazzi su parlava come di un omicidio. Dopo quarantasette anni i nomi di chi commissionò la strage restano ignoti. Fu uno dei tanti funesti episodio che hanno caratterizzato il periodo storico della strategia della tensione. Quanto alla tragica morte di quei quattro brillanti ventenni una sola cosa è certa: il camion parcheggiato era di proprietà di un’azienda del ‘principe nero’, Junio Valerio Borghese.

Le vittime della Strage di Gioia Tauro

Rita Cacicia

Rosa Fassari

Andrea Gangemi

Nicoletta Mazzocchio

Letizia Concetta Palumbo

Adriana Maria Vassallo

 

 

 

Fonte: cosavostra.it 
Articolo del 25 settembre 2018
Gli anarchici della Baracca. Una morte senza giustizia
di Carla Nassisi

Si disse che erano ubriachi e correvano troppo, in quella notte senza stelle, su un’autostrada all’altezza di Ferentino, quei cinque anarchici del Sud. Si disse che erano diretti a Roma per sbrigare i loro affari da sovversivi, per unirsi alle manifestazioni contro la visita del presidente americano Nixon e la Guerra del Vietnam; si disse che erano “pericolosi” anarchici, “capelloni” calabresi, amici di quel famigerato Pietro Valpreda, militante, poeta, a lungo principale sospettato per la strage di piazza Fontana. In effetti si facevano chiamare così, “anarchici della Baracca”, dal nome della villa liberty occupata che era stata eletta loro base operativa.

Ciò che troppo spesso ancora si tace è che erano solo cinque ragazzi. Di età compresa tra i diciotto e i ventisei anni, dei giovanissimi che vivevano l’anarchismo al crocevia tra attivismo politico, idealismo e stile di vita, si erano messi in macchina da soli, quella notte del 26 settembre 1970, fermi nell’intenzione di macinare asfalto per settecento chilometri. Mossi da coraggio o da paura, non si sa. Infilati in una Mini- Minor gialla, liberi e affamati di vita, “da bravi figli dell’epoca nuova”, per rubare una strofa a Guccini.

Quella sera ci sono tutti: c’è Angelo Casile, del “rione Ferrovieri” di Reggio dove a otto mesi contrae la polio, scampato al seminario e aspirante pittore; c’è Luigi Lo Celso, il più anziano, che vanta una militanza consolidata nei circoli anarchici reggini; c’è Gianni Aricò, borghese per nascita e studente di giurisprudenza dal cuore ardente, inguaribilmente affetto da una fame di mondo che lo spinge ad attraversare l’Europa in autostop, a vivere il Sessantotto parigino, a denunciare la vita dei minatori calabresi espatriati in Belgio; c’è il suo caro amico Francesco Scordo, incontrato nel corso di un’occupazione del liceo; c’è, infine, la diciottenne tedesca Annelise Borth detta “Muki”, capelli rossi e viso punteggiato di efelidi, sulle spalle le incredibili turbolenze di una vita acerba, tra la fuga da casa appena adolescente, il riformatorio, il riparo in Italia e l’incarcerazione per falsa dichiarazione a seguito della scadenza del suo permesso di soggiorno.

Per scampare alla possibilità di essere ricacciata in Germania, dopo aver conosciuto e convissuto con troppi uomini, ha da poco sposato per procura proprio Gianni Aricò.

È incinta, Annelise, la notte del 26 settembre 1970. Sono forse sei le vite spezzate sul bitume dell’Autostrada del Sole.

Il tratto è rettilineo, l’asfalto asciutto. Le condizioni metereologiche sono buone, il traffico scarso. Eppure l’impatto avviene, violento al punto da scagliare fuori dalla Mini tre dei cinque, che muoiono sul colpo: sono Luigi, Francesco, Angelo. Gianni e la sua piccola moglie Annelise restano seduti sui sedili anteriori, le ossa in frantumi: lui si spegne dopo un’agonia di ventiquattr’ore, lei resta aggrappata alla vita per venti giorni ancora. L’altra vettura coinvolta è un camion, trasporto di pomodori: il conducente, Alfonso Aniello, è fratello del proprietario del convoglio, Ruggero. Si trae la conclusione affrettata di un tamponamento causato dalla Mini. Ma la dinamica è strana, non si spiegano troppi elementi: i corpi sbalzati dai sedili posteriori, i fanalini intatti del camion, la posizione e lo stato della macchina.

Non è tutto: secondo alcune testimonianze, i ragazzi non andavano a Roma all’unico scopo di unirsi alle contestazioni. In programma c’era un incontro importante, con l’avvocato Di Giovanni, non uno qualsiasi, ma già curatore di contro-inchieste del calibro di “Strage di Stato”, sull’attentato di Milano. Per quanto assurdo possa sembrare, quei cinque ragazzetti, gli anarchici della Baracca, avevano forse qualcosa per Di Giovanni: appunti, documenti, probabilmente inerenti a fatti che avevano recentemente scosso la loro Regione.

La neonata Calabria era stata teatro di un luglio di fuoco: dalla rivolta di Reggio (cui gli stessi giovani anarchici avevano preso parte), e la Strage di Gioia Tauro. Il deragliamento del Treno del Sole è una storia nella storia, fatta di depistaggi, false ipotesi e infine confessioni, come quella dei pentiti ex mafiosi Lauro e Dominici, che nel ’93 fanno saltare fuori una cupa verità. Quello di Gioia Tauro fu un attentato commesso nel segno dell’infausta collaborazione tra terroristi di estrema destra e ‘Ndrangheta. Facendo un passo indietro, gli anarchici avevano spesso accusato i neofascisti di aver strumentalizzato la rivolta di Reggio, incanalando il rancore delle masse in un campanilismo meschino, all’urlo sguaiato di “Reggio capoluogo” e “Boia chi molla!”. Era l’epoca della tensione, caporioni e rivoluzionari sorgevano dagli squarci di un’Italia polarizzata e imbrigliata negli stralci di un passato ancora troppo vicino.

E tra gli squarci e le pieghe di una quasi guerra civile, in quell’atmosfera pesante che pesava ancor di più in un Sud Italia che arrancava nella sua miseria infinita, Angelo, Gianni, Luigi e Francesco combattevano la loro lotta personale contro il nemico bruno, rovistavano nessuno osava metter mani e individuavano collegamenti invisibili ai più, come quello tra i neofascisti nostrani e il regime greco dei colonnelli. Forse avevano visto qualche collegamento più del dovuto, forse avevano compreso di non poter più giocare a fare le indagini, forse sapevano di non essere più soltanto cinque ragazzi di Reggio.

Bizzarra coincidenza, che i fratelli Aniello del camion “speronato” dalla Mini fossero dipendenti di un’azienda che faceva capo al principe nero, Junio Valerio Borghese, autore del fallito golpe dell’8 dicembre successivo. Bizzarra quanto la sparizione di una presunta mole di documenti destinati a Di Giovanni e stipati nella Mini Minor. Sono alcuni dei troppi tasselli che si incastrano bene nel quadro di un omicidio plurimo collegato intimamente ai fatti di Gioia Tauro, al golpe Borghese, ai rapporti oscuri tra estrema destra, Stato e mafia. Una teoria che funziona inevitabilmente meglio di quella ufficiale dell’incidente causato da un Aricò maldestro o in stato d’ebbrezza; forse una gigantesca distorsione di menti avvezze a vedere ovunque schemi e a negare coincidenze, o forse una verità auto-evidente.

Un fatto tra i tanti: pochi giorni prima dello scontro, Gianni Aricò disse a sua madre: “Abbiamo scoperto cose che faranno tremare l’Italia”.

Comunque la si creda, di questa storia che si lega a tante storie ne restano forse cinque che vale la pena raccontare: di anarchici o di ragazzi, ma comunque fatte di fame di vita. Una buona conclusione è difficile. Forse, farà bene ricordare un clownesco Gianni Aricò che sbeffeggia le signore portando a passeggio dei galli per la città, oppure citare Pietro Valpreda, nel suo ricordo di Muki: “Fu nel mese di agosto [1969] che passarono da Roma due francesi e una ragazza tedesca, Annelise Borth detta Muki; una ragazzina di poco più di quindici anni dal volto bellissimo cosparso di efelidi. Parlando con loro ci venne l’idea di adattare i vetrini colorati alle collanine che vendevamo agli hippy dividendo con loro i guadagni. Quando i francesi ripartirono, Muki restò a Roma, e divenne la ragazza di Ivo. Mentre scrivo queste righe ho appreso dal giudice che anche la piccola Muki è stata rinchiusa nel carcere di Rebibbia. E pensare che per fuggire da un istituto cosiddetto di rieducazione, in Germania, aveva perfino scalato un muro! Aveva girato mezza Europa, sempre in fuga!”.

 

 

 

 

Il sangue politico
Storia di cinque anarchici e di un dossier scomparso
di Nicoletta Orlandi Posti
Editori Internazionali Riuniti, 2013

Lo strano caso dei Cinque della Baracca torna per far discutere e riscrivere la storia, quella degli anni ‘70, che è ancora troppo oscura. Chi erano i cinque ragazzi? E quale il mistero che avevano risolto e che ha portato alla loro condanna? In questo libro si mescolano verbali inediti e prove mancanti, servizi segreti e governi occulti, cinque giovani e l’Italia di allora.

 

 

Fonte: ilsanguepolitico.blogspot.com
Il sangue politico, un libro che è impegno morale e culturale
Recensione per Loop
di Chicco Funaro

Occorre un alto grado di partecipazione e di impegno morale e culturale, per scrivere un libro come quello che Nicoletta Orlandi Posti ha scritto.
Partecipazione perché, visti gli anni trascorsi, la memoria dell’uccisione nel settembre del 1970 di cinque giovani anarchici calabresi, contrabbandata almeno all’inizio per un sanguinoso ma “banale” incidente della strada, è vicenda che sarebbe stato facile far riemergere come pura cronaca di un tempo, di “un’epoca dei fatti” dai quali tutti siamo irrimediabilmente lontani, anche noi di quella generazione che di quegli anni fu pienamente partecipe: mentre Nicoletta alla pura memoria non si limita, ma la vicenda sa rivivere e rievocare come ancora carica di tensioni mai sopite, capace di riaccendere rabbia e indignazione non inattuali, non solo “al passato”. Impegno morale e culturale perché dallo svolgimento dei fatti l’Autrice sa cogliere un’indicazione di lavoro critico e di ricerca che è tanto più politica proprio perché mai cinica e asettica, ma, appunto, ancora carica di emozione e di sentimento.

Il libro si chiama “Il sangue politico”. È la storia di quattro giovani anarchici di Reggio Calabria – Gianni Aricò, Angelo Casile, Franco Scordo – e di una giovane tedesca, simpatizzante del movimento e moglie di Aricò, Annelise Borth. Militanti anarchici che nel clima convulso dei moti per il Capoluogo e della rivolta dei “boia chi molla” riescono a ricostruire, a partire da ciò che nella loro città sta accadendo, i segni più generali di una trama eversiva a larghissimo spettro, quella tessuta da Junio Valerio Borghese e dalle forze oscure ma non troppo che lo spalleggiano, destinata a sfociare nell’Operazione Tora Tora, il golpe assai poco da operetta che fu comunque tentato nel dicembre dello stesso ’70. Ricostruzione sempre più motivata e documentata, raccolta in un voluminoso dossier destinato a diventare non solo momento di denuncia ma anche strumento di lotta contro il tentativo di attribuire agli anarchici gli attentati di tutto il ’69, culminanti nella strage di Piazza Fontana, e, più in generale, contro ogni disegno autoritario destinato a neutralizzare e sconfiggere tutte le insorgenze sovversive e rivoluzionarie nel nostro paese. Potenzialmente tanto pericolosa per gli ambienti della destra eversiva e golpista, da portare a una vera e propria sentenza di condanna a morte nei confronti degli estensori del documento e di chi li ha aiutati e favoriti in questo lavoro. Condanna resa esecutiva da un sanguinoso incidente stradale, con l’aiuto di un camion e di un camionista non nuovo a simili eventi e quasi certamente “uomo” del Principe Nero e del suo Fronte Nazionale, che distrugge sull’Autostrada del Sole nei pressi di Frosinone una piccola Mini e uccide i cinque militanti che la occupano e che stanno giungendo a Roma per consegnare il materiale raccolto alle strutture della controinformazione di allora, quella della “Strage di Stato” e dei suoi autori, Marco Ligini, Edoardo Di Giovanni ed Edgardo Pellegrini in primo luogo. E che ha come duratura conseguenza, oltre che la morte di tante giovani vite, anche la scomparsa e la distruzione di tale materiale, di cui qualcuno subito accorso sul luogo dell’incidente o già in attesa nei pressi immediatamente si impadronisce. Una storia che Nicoletta, come all’inizio dicevamo, non si limita solo a raccontare, ma che bada soprattutto a documentare attraverso materiali oggettivi, interrogatori di polizia e verbali giudiziari soprattutto: dai quali una lettura appena attenta permette di ricavare precise sensazioni e impressioni non solo sulle persone coinvolte ma anche e soprattutto sul clima di un’epoca già segnata da conflitti non più riassorbibili e da una sostanziale, rapidissima perdita di “innocenza” da parte delle istituzioni e di apparati che comunque innocenti non erano mai stati. Di questo stile di lavoro e di metodo critico, sempre rigoroso e mai approssimativo, arrivano a convincere e piacere in via generale le conclusioni valide per tutti: che gli anni ’70 furono da sempre e da subito caratterizzati da un livello di scontro politico-militare tra stato e movimenti immediatamente proiettato verso l’altro. Mentre a chi, come l’Autrice, professa idee anarchiche e libertarie, non mancherà di suonare consonante e a piena voce la forte e continua rivendicazione di uno stile di vita e di militanza libero, vivo e vitale, sempre e comunque nel grosso di ogni corrente di trasformazione e di cambiamento dei rapporti sociali, economici e politici tra cittadino e cittadino, tra persona e persona. Un libro davvero da comprare e da leggere.

 

 

 

Fonte: mafie.blogautore.repubblica.it

 

 

 

Fonte: mafie.blogautore.repubblica.it
Articolo del 3 maggio 2019
I 5 anarchici della “Baracca”
di Valentina Nicole Savino

26 settembre del 1970. Una Mini Morris sfreccia sull’asfalto quando alla vista dei suoi passeggeri appare un autotreno che trasporta conserve di pomodoro, e taglia loro la strada. Sono in cinque: non hanno nemmeno il tempo di salutarsi con gli occhi che il boato assordante dell’impatto riempe loro le orecchie e li lascia senza vita. E sono giovanissimi.
Hanno infatti tra i 18 e i 26 anni: Angelo Casile, Gianni Aricò, Franco Scordo, Luigi Lo Celso, Annalise Borth i loro nomi. Si fanno chiamare “gli anarchici della Baracca” da quel casolare abbandonato costruito come rifugio per i terremotati e designato a base operativa dai giovani di fede anarchica. Sono anni caldi, infuocati.

A Milano l’anno precedente la strage di Piazza Fontana. A Reggio Calabria la “Rivolta di Reggio” , provocata dalla contesa per il capoluogo della regione con Catanzaro, impazza nelle strade: barricate, incendi, attentati dinamitardi; il lascito a fine anno sarà di 5 morti e centinaia di feriti e arresti. A completare la cornice di fuoco sopraggiungerà anche il tentativo di golpe di Junio Valerio Borghese. In tutto questo trambusto i cinque ragazzi fanno foto, raccolgono documenti, protestano affinché gli scontri finiscano, denunciano la strumentalizzazione della rivolta da parte dei fascisti di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. E illuminano coraggiosamente tracce nascoste, occultate.

Quel 26 settembre si stanno infatti dirigendo a Roma, per la manifestazione indetta contro l’arrivo di Nixon: ma il loro è soltanto un pretesto. In mano hanno documenti preziosi, scottanti. Aricò aveva anticipato poco tempo prima alla madre: “abbiamo scoperto delle cose che faranno tremare l’Italia”. Quelle “cose” a cui alludeva Aricò erano importanti informazioni sul deragliamento del treno “Freccia del sud” all’altezza di Gioia Tauro e sulla stessa “Rivolta di Reggio”.

I primi giorni di settembre aveva avvisato la Fai di Roma di essere riuscito a raccogliere materiale compromettente, e ne aveva spedita per posta una parte a un amico anarchico di Roma, Rossi. Ma rimaneva il resto del dossier, che Gianni e i suoi compagni avrebbero dovuto consegnare alla redazione del settimanale anarchico “Umanità Nova” o secondo alcune testimonianze nelle stesse mani dell’avvocato Di Giovanni, curatore di contro-inchieste del calibro di “Strage di Stato”.

Ed è con questo intento nella mente e nel loro giovane cuore ardente che si stavano mettendo in viaggio quella sera. Non senza aver subito intimidazioni, angherie. Dopo la strage di Piazza Fontana gli anarchici erano infatti facile capro espiatorio, venivano tenuti costantemente d’occhio e pedinati. Così se da una parte Franco era stato aggredito dai neofascisti; dall’altra, a casa Lo Celso la sera prima, il 25 settembre, era arrivata una chiamata minatoria: “E’ meglio che non faccia partire il figlio alla volta delle capitale”, aveva intimato al padre di Luigi un agente di polizia dell’ufficio politico di Roma. E quasi fosse stata una funesta profezia a Roma non ci arriveranno mai. Tre di loro moriranno sul colpo in quel misterioso incidente, uno di loro nella corsa disperata verso l’ospedale, e la più giovane, l’appena diciottenne Annalise, morirà dopo ben 21 giorni di agonia e con un bambino in grembo. I documenti che i ragazzi portavano con sé non verranno mai ritrovati.

Nel ‘93 l’inchiesta sul treno “Freccia del sud” si riapre e due pentiti della ‘Ndrangheta, Giacomo Ubaldo Lauro e Carmine Dominici, cominciano a deporre le proprie testimonianze di fronte al Sostituto Procurato della Direzione Nazionale Antimafia Vincenzo Macrì, nell’ambito della maxi-inchiesta Olimpia 1, volta a far emergere la rete di rapporti tra politica e criminalità organizzata in Calabria. E confessano quell’ipotesi dell’attentato dinamitardo che nel processo del ‘74 era stata accantonata con tanta facilità: la bomba era stata fornita dall’ ‘Ndrangheta e posta dai neofascisti tra i binari, quindi fatta esplodere prima dell’arrivo del treno che al suo arrivo deragliò. 6 vittime e 54 feriti.

Lo stesso Lauro, durante la sua deposizione a Milano al giudice istruttore Guido Salvini, che stava indagando sull’attività eversiva di Avanguardia Nazionale, conferma anche l’ipotesi di collusione tra criminalità organizzata e militanti di estrema destra durante la “Rivolta di Reggio”: confessa infatti di aver ricevuto alcuni milioni di lire provenienti dal “Comitato d’azione per Reggio capoluogo” (legato ad esponenti di estrema destra).

Nel 2001 la Corte d’Assise di Palmi emetterà una sentenza di condanna per gli esecutori della strage del treno “Freccia del Sud” ma Vito Silverini, Vincenzo Caracciolo e Giuseppe Scarcella, imputati ritenuti colpevoli, erano tutti e tre già deceduti. Lauro verrà assolto per “mancanza di dolo”.

Il giudice Salvini nell’ambito di queste inchieste sosterrà anche la necessità di riaprire il caso dei cinque giovani “Anarchici della Baracca”, periti nell’incidente forse orchestrato ad arte, ma non si troveranno mai dei veri e propri colpevoli. Soltanto quelle misteriose “coincidenze”: la sparizione dei documenti, il fatto che i fratelli Aniello, proprietari del camion, fossero dipendenti di un’azienda che faceva capo al “principe nero” Junio Valerio Borghese.

Tasselli di un puzzle che con sconvolgente autoevidenza ci mostra i legami tra estrema destra, Stato e mafia, che troppo spesso hanno segnato la storia del nostro Paese.

 

 

 

Dal libro: Dead Silent  Life Stories of Girls and Women Killed by the Italian Mafias, 1878-2018 di Robin Pickering Iazzi University of Wisconsin-Milwaukee, rpi2@uwm.edu

 

 

 

 

Alcuni articoli dell’epoca:

 

Fonte:  archiviolastampa.it
Articolo del 28 Settembre 1970
Quattro giovani muoiono nell’auto che tampona un camion presso Roma
In fin di vita una loro compagna di viaggio diciottene – Due delle vittime (anarchici) erano state più volte interrogate per l’inchiesta sugli attentati dinamitardi di Milano e Roma.

Roma, lunedì mattina (r.r).
Quattro giovani sono morti e una loro compagna di viaggio è in fin di vita per un incidente avvenuto la notte tra sabato e domenica lungo l’Autostrada del sole, nel tratto tra Anagni e Ferentino. I cinque ragazzi viaggiavano a forte velocità a bordo di una «Mini-Minor », quando all’altezza del chilometro 58 della Roma-Napoli hanno tamponato un autocarro che li precedeva. Nell’urto, violentissimo, la vettura è andata ad incastrarsi sotto il pesante automezzo. Tre degli occupanti sono morti sul colpo: Giovanni Arricò, di 22 anni, originario di Reggio Calabria; Luigi Lo Celso, di 26, nativo di Cosenza; Angelo Casile, di 20, anch’egli di Reggio Calabria. Un quarto viaggiatore è deceduto all’ospedale di Fresinone dove era stato trasportato da un automobilista di passaggio; sembra che indosso non avesse documenti e la polizia stradale non lo ha ancora identificato con assoluta certezza: si tratterebbe di un altro reggino, Francesco Cordò, di 22 anni. La ragazza che si trovava con loro è la diciottenne Annelise Borth e come il Casile e l’Arricò è stata implicata nell’inchiesta sugli attentati dinamitardi del 12 dicembre 1969 a Milano e a Roma. Ora è ricoverata al Centro craniolesi di Roma, dove i medici si sono riservati la prognosi. Angelo Casile e Gianni Arricò erano due giovani anarchici più volte interrogati nel corso dell’inchiesta giudiziaria sugli attentati dinamitardi di Milano e Roma per sapere quali legami li univano al gruppo «22 marzo»; come risulta dai relativi verbali il Casile e l’Arricò conoscevano Pietro Valpreda ed Emilio Bagnoli.

 

 

Fonte:  archivio.unita.news
Articolo del 28 settembre 1970
«Mini» si schianta contro camion: morti 4 giovani
Sciagura sull’Autosole dopo Anagni 
In fin di vita una ragazza –  Le vittime erano tutte sulla vettura

ROMA, 27 settembre.
Drammatico incidente stradale la scorsa notte sull’Autostrada del Sole: quattro giovani sono morti  e una ragazza è rimasta gravemente ferita. Lo scontro è avvenuto all’altezza del chilometro 58, tra Anagni e Ferentino. Una «Mini Minor», sulla quale viaggiavano cinque giovani, ha urtato violentemente la parte posteriore di un autotreno che la precedeva. L’auto viaggiava a forte velocità in direzione di Napoli.

Improvvisamente (questa la ricostruzione della polizia stradale di Frosinone che sta svolgendo le indagini) si è trovata di fronte all’autocarro condotto da Serafino Aniello, che viaggiava ad andatura più lenta. L’inaspettato ostacolo deve aver fatto perdere al conducente della «Mini» il controllo dell’auto che si è così   schiantata in piena velocità contro il pesante automezzo.

Le vittime sono Giovanni Arricò, di 22 anni, di Reggio Calabria, Luigi Celso, 26 anni, di Cosenza, Angelo Casile, 20 anni, di Reggio Calabria, e un quarto giovane che non è stato ancora identificato. Neppure la ragazza, rimasta gravemente ferita è stata ancora identificata. Ricoverata in un primo tempo nell’ospedale di Frosinone, è stata trasportata stamane a Roma.

I primi soccorsi ai giovani rimasti imprigionati tra le lamiere della «Mini Minor» sono stati portati da alcuni automobilisti di passaggio e dallo stesso conducente del camion, rimasto incolume. Per Arricò, Celso e Casile non c’è stato nulla da fare. II quarto giovane era in fin di vita ed è morto all’ospedale.

Angelo Casile e Giovanni Arricò erano due giovani anarchici. I loro nomi erano stati fatti subito dopo la strage di Milano giacché si diceva che avessero avuto contatti con il circolo «22 marzo». I due furono anche interrogati dalla polizia ma contro di loro non emerse nulla che potesse comprometterli.  C’è soltanto la testimonianza di Pietro Valpreda e di Emilio Bagnoli; entrambi avevano detto di aver conosciuto sia il Casile che Giovanni Arricò, ma di non avere avuto contatti con essi.

 

 

 

 

Video RAI : Blu notte

raiplay.it/video
Blu notte Caso Gioia Tauro
47 min
Per quasi trent’anni il disastro ferroviario di Gioia Tauro (6 vittime e più di 50 feriti), avvenuto il 22 luglio 1970 in Calabria, è stato considerato un incidente. L’anno passato, per la prima volta, nel Giorno della memoria in ricordo delle vittime del terrorismo e delle stragi, il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha inserito la strage di Gioia Tauro nella tragica lista degli episodi eversivi, riconducendola alla “strategia della tensione” a cui parteciparono anche forze mafiose. A questo episodio è anche legata la misteriosa morte di cinque ragazzi anarchici che avevano raccolto un dossier di controinformazione sul disastro.

 

 

 

 

 

Cinque anarchici, una storia negata
di Fabio Cuzzola
«Un magnifico libro sulla morte tragica e dimenticata di cinque ragazzi, schiacciati tra la rivolta di Reggio Calabria, i piani golpisti di Junio Valerio Borghese e l’attentato al rapido di Gioia Tauro»

Editore: Castelvecchi, 2020

I1 26 settembre 1970 muoiono in un incidente stradale cinque giovani di Reggio Calabria, noti nella loro città come “gli anarchici della Baracca”. Portavano a Roma i risultati di un’inchiesta sulle infiltrazioni neofasciste nella rivolta di Reggio e sulla strage di Gioia Tauro – allora attribuita alla mera fatalità – in cui erano morte sei persone e rimaste ferite più di settanta. Erano partiti convinti che le loro scoperte avrebbero “fatto tremare l’Italia”. I documenti dell’inchiesta non saranno mai ritrovati. Il lungo oblio su quelle vicende terminerà vent’anni più tardi, con le indagini che ricondurranno la strage di Gioia Tauro al più ampio disegno eversivo della “strategia della tensione”. Solo allora le straordinarie figure dei cinque anarchici saranno riscoperte e torneranno a proporsi i dubbi sulle cause dell’incidente in cui hanno perso la vita. In questo libro, ripubblicato in un’edizione riveduta e ampliata, Fabio Cuzzola racconta per la prima volta le loro vite nel contesto della nascita di una coscienza politica alla fine degli anni Sessanta, tra le persecuzioni poliziesche e i giorni difficili della rivolta di Reggio.