28 Agosto 1979 Palermo. Sparisce Calogero Di Bona, maresciallo presso la Casa Circondariale Ucciardone.

Foto da:  poliziapenitenziaria.it

Calogero Di Bona, 35 anni, maresciallo presso la Casa Circondariale Ucciardone di Palermo, sparisce il 28 Agosto del 1979. Vittima di “lupara bianca”.
“Dopo 33 anni la Dia di Palermo fa luce sull’omicidio del maresciallo Calogero di Bona, maresciallo delle guardie carcerarie nel carcere palermitano. Fu la cosca capeggiata dal capomafia Rosario Riccobono a volere quell’omicidio. Calogero Di Bona, fu sequestrato e strangolato il 28 agosto del 1979, al termine del suo turno di lavoro perché ritenuto responsabile di un ipotetico pestaggio subito in cella da un uomo d’onore, Michele Micalizzi, fidanzato con la figlia di Riccobono. Il maresciallo Di Bona era nato a Villarosa il 29 agosto del 1944. Il giorno dopo avrebbe compiuto trentacinque anni. Per molti anni su questo delitto è calato il silenzio come tanti delitti di mafia, ma le indagini condotte dalla Dia e coordinate dalla Procura di Palermo hanno permesso di fare luce sui molti lati oscuri dell’omicidio Di Bona. …” ( dallapartedellevittime.blogspot.it )

 

 

Fonte:  polizia-penitenziaria.it

Maresciallo del Corpo degli Agenti di Custodia – nato a Villarosa (EN) il 29 agosto 1944 in servizio presso la Casa Circondariale di Palermo.
Scomparso il 28 agosto del 1979 a Sferracavallo, una borgata marinara nei pressi di Palermo, dopo aver bevuto un caffè nel bar della piazza. Dopo qualche giorno fu ritrovata la sua Fiat 500 abbandonata ma di lui nessuna traccia. La Procura della Repubblica di Palermo ha identificato gli assassini del sottufficiale. L’individuazione è avvenuta grazie alle dichiarazioni di alcuni collaboratori i quali hanno raccontato che fu sequestrato e ucciso nel giardino di una casa colonica, individuata dagli uomini della Direzione Investigativa Antimafia, dove, secondo le indicazioni di Rosario Naimo e Gaspare Mutolo collaboratori di “cosa nostra”, il maresciallo dopo essere stato rapito e torturato al fine di rivelare i nomi degli Agenti di Custodia che avevano spedito una lettera anonima ai giornali cittadini, per denunciare la grave situazione dell’Ucciardone, situazione che aveva trasformato la nona sezione e l’infermeria in una sorta di albergo, sarebbe stato bruciato su una graticola a pochi centimetri da un forno dove normalmente si preparava il pane.
Il Maresciallo Di Bona è stato riconosciuto “Vittima del Dovere” ai sensi della Legge 466/1980 dal Ministero dell’Interno.
A lui sono intitolate la Caserma Agenti del Reparto di Polizia Penitenziaria di Palermo-Pagliarelli e l’Aula Consiliare del Comune di Villarosa (CL).

 

 

 

Articolo su LeDue Città.com
Un uomo di valore

A quasi trent’anni dalla misteriosa scomparsa, la moglie e i figli ricordano il vice comandante di Polizia Penitenziaria, riconosciuto Vittima del Dovere

« Dopo più di un quarto di secolo dalla scomparsa, rimane tutt’oggi vivo il ricordo di un marito gentiluomo e di un padre davvero unico, ligio al dovere, che ha speso la propria vita a servizio dello Stato». Con queste parole la moglie, Rosa Cracchiolo e i figli Giuseppe, Alessandro e Ivan vogliono ricordare sulla Rivista il Marescialo Calogero di Bona misteriosamente scomparso il 28 agosto del 1979, all’età di 35 anni. «Abbiamo ancora vivo il suo ricordo» dice oggi il figlio Giuseppe, il più grande dei tre fratelli che all’epoca avevano 5 e 2 anni e il più piccolo 11 mesi appena. Le cronache dei giornali parlarono allora di “lupara bianca”, con cui la mafia faceva scomparire ogni traccia della persona rapita, ma si parlò anche di un regolamento di conti, un agguato tesoa Di Bona da qualcuno che aveva forti rancori nei suoi confronti. Ma la verità purtroppo non fu mai scoperta. Allora Calogero Di Bona, nato a Villarosa, in provincia di Enna, il 29 agosto 1944, era vice comandante all’Ucciardone di Palermo. Da 15 anni faceva parte degli allora agenti di custodia e quasi tutti li aveva trascorsi nell’istituto palermitano, iniziando la carriera da semplice guardia.
«Tutto accadde dopo una intensa giornata di lavoro all’Ucciardone, – ricorda la moglie –. Dopo averci accompagnato a casa della nonna uscì per prendere un caffè dicendo che sarebbe ritornato da lì a poco. Il mancato rientro di mio marito dopo un’ora, non mi preoccupò perché pensai che si fosse dovuto recare all’Ucciardone per qualche improvviso problema. Ma col passare del tempo capii che qualcosa doveva essere successo. Dopo aver chiamato alcuni colleghi al carcere e avendo saputo che lì non era andato, avvisai subito i carabinieri della zona. Le ricerche furono avviate subito e dopo un paio di giorni fu ritrovata l’auto, ma di mio marito nessuna traccia. Dell’istruttoria – continua a ricordare la signora Cracchiolo – se ne occupò il Giudice Rocco Chinnici, anch’egli valoroso servitore dello Stato, il quale appurò che le cause della scomparsa di mio marito dovevano essere ricercate nell’ambito del suo lavoro. Ma con la morte del Giudice Chinnici moriva anche la speranza mia e dei miei figli di conoscere il motivo per il quale mio marito perse la vita. Da allora – conclude Rosa Cracchiolo – sono trascorsi 27 anni e per la mia famiglia questi anni sono trascorsi con un dolore vivo al cuore per la perdita di un marito gentiluomo, di un padre meraviglioso per i nostri figli e per un uomo che ha creduto sempre nella Giustizia e per la quale ha indossato una divisa fino a perdere la vita. La mia famiglia ringrazia lo Stato, che con le misure a favore delle vittime del dovere ci è stato vicino, e i colleghi che ancora oggi lo ricordano con affetto».
Il maresciallo Di Bona è stato riconosciuto dal Ministero dell’Interno “Vittima del Dovere” ai sensi della legge 466/1980.

 

 

 

Articolo da La Stampa del 30 Agosto 1979
Trovata la sua auto vuota 
Vicecapo del carcere scomparso a Palermo

PALERMO — Il vicecomandante degli agenti di custodia dell’«Ucciardone», maresciallo Calogero Di Bona, 35 anni, è misteriosamente scomparso ieri l’altro sera. E’ stata la moglie. Rosa Cracchiolo, che si è rivolta alla polizia dicendo di avere visto il marito, per l’ultima volta, alle 13 di ieri l’altro.
Calogero Di Bona, nato a Villarosa, in provincia di Caltanisetta, da una quindicina d’anni è nel corpo degli agenti di custodia. Sposato, con tre figli, abita a «Sferracavallo», una borgata marinara di Palermo ad un paio di chilometri dalla periferia della città. Ieri l’altro è stato visto da alcuni conoscenti, intorno alle 13, in un bar della borgata. Poi è salito sulla sua auto, una «500», ed è scomparso.
«Non siamo affatto tranquilli — ha detto uno degli investigatori — per quel che abbiamo appreso. Di Bona è un uomo metodico e non sembra quindi probabile una scomparsa volontaria».
Poco meno di due anni fa, il primo dicembre del 1977, il maresciallo Attilio Bonincontro, dirigente dell’ufficio matricola dell’«Ucciardone». fu ucciso in un agguato sotto la sua abitazione, alla periferia di Palermo. Le indagini, in quel caso, non consentirono di accertare neppure il movente dell’omicidio.
In mattinata, dopo la denuncia della scomparsa del maresciallo, sono state interrogate le persone che ieri l’altro hanno visto il sottufficiale. Tutti i testimoni sono concordi nel dire che Di Bona, uscito dal bar di Sferracavallo intorno alle 13, è salito da solo sulla sua «500». Gli investigatori non escludono che il sottufficiale sia stato sorpreso mentre andava ad un appuntamento con una persona che conosceva.
Secondo il direttore del carcere, Di Bona non avrebbe avrebbe mai avuto alcun particolare attrito con detenuti, tale da far ritenere possibile una vendetta nei suoi confronti.

 

 

 

Articolo da LA STAMPA del 31 Agosto 1979 
Partito dall’Ucciardone l’ordine di assassinare il vicecapo del carcere?
di Antonio Ravidà

PALERMO — Testimone di un caso di violenza avvenuto dentro il carcere dell’«Ucciardone». il maresciallo Calogero Di Bona. 35 anni, vicecomandante degli agenti di custodia, è sparito misteriosamente martedì sera: su quell’episodio era stato interrogato sabato scorso dal sostituto procuratore della Repubblica, Giuseppe Prinzivalli, e adesso gli inquirenti battono questa pista per individuare i suoi assassini.
Perché, ormai, carabinieri e polizia sono convinti che si tratti di omicidio. Le speranze di ritrovarlo vivo, già deboli, si sono assottigliate ancora di più alle 13 di ieri quando è stata ritrovata l’automobile delio scomparso. La «500», bianca, era posteggiata in via dei Nebrodi, vicino all’incrocio con via Alcide De Gasperi. Gli sportelli erano aperti e questo viene considerato un segno, dal momento che è una circostanza ricorrente nei casi di «lupara bianca».
Così anche questa storia sembra rientrare tra i cruenti misteri dell’«Ucciardone». La traccia seguita dagli investigatori parte proprio da uno dei «bracci» del carcere palermitano dove, qualche settimana fa, un detenuto avrebbe picchiato una guardia e sarebbe stato punito con sei giorni di cella di rigore. Il carcerato, però, avrebbe scontato la punizione in infermeria.
Questo fatto la dice lunga sul suo rango; è Michele Micilizzi, trentenne, di Pallavicino, condannato a 24 anni per l’omicidio dell’agente Cappiello, ucciso il 2 luglio 1975.
A termini di regolamento, il fatto doveva essere segnalato alla Procura della Repubblica ma, ufficialmente, dall’«Ucciardone» non è partita alcuna denuncia. Di avvertire la magistratura s’è incaricato invece un anonimo che ha inviato un esposto. Così s’è iniziata un’inchiesta che ipotizzava il reato di violenza a pubblico ufficiale per il detenuto, e quello di omissione di atti d’ufficio per gli agenti di custodia che non avevano informato il giudice com’era invece loro dovere.
Il sostituto procuratore della Repubblica, Prinzivalli — cui era stato affidato il caso — aveva interrogato tutti coloro che nella vicenda erano in qualche modo coinvolti. In ultimo aveva ascoltato il maresciallo Di Bona. Pare che da lui, in particolare, volesse sapere dov’era finito il registro delle punizioni ai detenuti. Che cosa abbia risposto il vicecomandante non si sa.
Se quest’episodio è davvero all’origine della scomparsa del sottufficiale lo stabilirà l’inchiesta del sostituto Pietro Grasso e del procuratore aggiunto Gaetano Mantovano. E’ certo però che gli inquirenti, finora, ritengono quest’ipotesi la principale.
Le indagini sono scattate all’alba di martedì, quando Rosa Cracchiolo, moglie dello scomparso, è andata ad avvertire i carabinieri che il marito non era tornato a casa. Con la sua collaborazione, e interrogando un gran numero di persone, sono state ricostruite le ultime ore di libertà del maresciallo.
Alle 13 di martedì, finito il suo turno di servizio all’«Ucciardone», egli aveva raggiunto la moglie e i tre figli nella sua abitazione di via Sferracavallo 164, una delle prime case della borgata marinara.
Dopo il pranzo il giovane maresciallo s’era coricato come d’abitudine. Poi, a pomeriggio inoltrato, era uscito assieme ai suoi familiari che aveva accompagnato presso parenti, proseguendo verso piazza Sferracavallo. Lì, tra le 18 e le 19, è stato visto per l’ultima volta al bar «Profeta». All’ora di cena. Rosetta Cracchiolo s’è impensierita. Col marito erano rimasti d’accordo che sarebbe ripassato a prendere lei e i bambini per tornare a casa e invece non si era fatto vivo. Le prime ricerche le ha compiute la moglie, accompagnata dai parenti.

 

 

 

Articolo da LA STAMPA del 2 Settembre 1979
Sono chiusi all’Ucciardone tutti i misteri di Palermo
di Francesco Santini
Le feroci intimidazioni nel vecchio penitenziario borbonico
Che cosa avviene nel carcere siciliano dove, secondo le guardie, «è la mafia che comanda»? – Il nome di un «boss» in un esposto anonimo: tutti hanno paura – Non c’è speranza di trovare vivo il maresciallo scomparso

PALERMO — Contro la massa grigia del Monte Pellegrino si staglia, a raggiera, il tufo pesante dell’Ucciardone. A destra il mare, a sinistra la follia urbanistica della Palermo Anni Sessanta. L’ultimo mistero della città è nel suo carcere. La scomparsa di un sottufficiale degli agenti di custodia muove alla paura. Ormai, si sa, Calogero Di Bona, 35 anni, è stato assassinato. Non se ne trova il corpo, ma a Sferracavallo, in direzione di Punta Raisi. sua moglie, disperata, stringe tre bambini e si veste di nero.’ Prende il lutto, non si rassegna.
Per gli altri, tutto normale. Per il direttore del carcere, adesso, c’è un unico commento: « Qualcuno — dice — si sarà tolto un sasso dalla scarpa». Qualche giorno fa s’era mostrato ottimista: ‘Sfogliando il suo fascicolo — aveva dichiarato — ci siamo accorti che proprio ieri, martedì, giorno della sparizione, Calogero Di Bona compiva 35 anni: si sarà concesso, come dire, una distrazione per festeggiare il compleanno». Ora dichiara: ‘Pensavo a una ubriacatura, a una donna».
E il capo delle guardie, Tirrito, che ha perso con Di Bona il suo braccio destro, commenta rassegnato: «Nulla nell’istituto giustifica la fine di Calogero. Allora niente paura, se si dovesse stare a pensare, non si dovrebbe più uscire in automobile: una distrazione, un incidente e si finisce di campare».
Chi stava per perdere la vita giovedì, quarantotto ore dopo la sparizione del sottufficiale, è un agente, Giuseppe Scozzarello, 43 anni, accoltellato «senza motivo», dice il direttore, che sottolinea: -Anche lui all’esterno della prigione». Riflette: «Allora a che cosa serve un’inchiesta nel carcere?». La magistratura non è dello stesso parere. Due giudici collegano gli episodi per «scavare» tra le nove sezioni dell’antica fortezza borbonica. E da Roma? «Niente, niente dal ministero», risponde soddisfatto Clemente Cesareo, direttore all’Ucciardone. «Tutto in regola, niente da scoprire».
Alle sette del mattino, per sapere che cosa c’è all’Ucciardone è sufficiente fermare, a caso, un agente che lasci il cancello d’acciaio, dipinto in celeste, della vecchia fortezza. L’uomo, assonnato, ha fretta. Ha la moglie al paese. Corre alla Sìp per rassicurarla. «E’ andata, anche stanotte è andata», le dice, ma la donna non si calma. Piange al microfono e lui, brusco, l’interrompe: «Non preoccuparti, fammi stare tranquillo, poi il telefono corre, è meglio chiudere».
Nove sezioni disposte a raggiera in un semicerchio. Per capire l’Ucciardone è sufficiente la quarta. «E’ tutto lì — dice l’agente — l’infermeria è il nodo: lì sta la vera direzione del carcere, quella della mafia, che tutto decide». E il direttore? «E’ sottoposto». E il ministero? «Se il ministero non interviene, qualche motivo ci sarà».
Tutto, nella quarta sezione infermeria. «Quarta sezione e vecchia matricola: dove si svolgono i colloqui straordinari, a porte chiuse». A chi sono concessi? «Io vedo sempre le stesse facce». Racconta di piccoli privilegi, di celle sempre aperte, di carte da gioco, di radioline a modulazione di frequenza, di denaro che circola in infermeria tra i mafiosi «che comandano e noi siamo numeri».
Di questi numeri all’Ucciardone ce ne sono 180. Agenti di custodia e sottufficiali, tutti convinti che, come dice il direttore, «è il buonsenso la prima qualità». Clemente Cesareo non ha paura che il «buonsenso» diventi ignavia. Se gli si domanda se è davvero la mafia a dirigere l’Ucciardone lui ha la risposta pronta: «Allora è la mafia che dirige tutto: le industrie, i giornali, la politica dirige, la mafia, lo stesso governo». Per lui ovunque c’è mafia, ma «per carità, che non si scriva». A suo giudizio, ogni carcere è uguale. «In ogni gruppo emerge qualcuno e certo qui non siamo in un collegio di educande». Poi un esempio: «Tra i lupi c’è il capo branco, tra i leoni, nella foresta, c’è chi prevale. Ovunque la legge del capo s’afferma».
Ieri, in infermeria, c’erano 71 detenuti. «Meno del dieci per cento», dice Cesareo, che mostra le cifre: 224 definitivi, 466 giudicabili, 52 semiliberi. Un totale di 742 persone per un carcere che non dovrebbe ospitarne più di 500, almeno come si disse nel 1836 quando i Borboni vollero l’Ucciardone nella concezione e nelle piante simile a quello di Filadelfia, che allora, trent’anni prima della guerra di Secessione, era ritenuto un carcere modello.
Cesareo nulla ammette. Nessun privilegio nei trasferimenti in infermeria, nessun favoritismo per i colloqui speciali «che si fanno a porte aperte». E i pranzi al ristorante? Raccontano i cronisti di Palermo che molti detenuti preferiscono a quella dell’istituto di pena la cucina del Gourmand’s, considerato in città un ristorante raffinato e alla moda. Anche questo viene negato dal direttore: «Concediamo — spiega — che poche vivande possano essere portate dai famigliari». Il motivo è antico. Rìsale al «caffè alla stricnina» preparato per Gaspare Pisciotta, luogotenente di Salvatore Giuliano.
Dice il direttore, della scomparsa del maresciallo: «Tanti equilibri ormai si sono rotti, più nessuno è intoccabile, stavolta è toccato a un sottufficiale, la prossima volta chissà». Ed è vero. Le vie di Palermo sono lastricate di cadaveri. Un magistrato (Scaglione), due giornalisti (De Mauro, Francese), un politico (Reina), un carabiniere (il colonnello Russo), un poliziotto (il capo della Mobile Giuliano) ed ora un maresciallo degli agenti di custodia. Sempre, tra queste morti, s’è tentato un collegamento. Sempre, dopo questi assassini, s’è indicata la pista dell’Ucciardone. proprio come in queste ore che il carcere è sotto tiro. Se il gioco delle analogie e degli incastri è un gioco catturante, ma privo di risultati, questa di Calogero Di Bona è una morte che può essere chiarita.
Le maglie dell’omertà si vogliono spezzare. Un esposto anonimo, finito sul tavolo della Procura della Repubblica, potrebbe essere la strada. Un gruppo di agenti denuncia il pestaggio di un collega. Indica, facendo il nome di Michele Micalizzi, l’autore di una rappresaglia, chiede un’indagine. Dal ministero ancora niente. Il direttore minimizza: «Nessuna rappresaglia, nessun pestaggio, una lite e basta. Lo dice, a chiare lettere l’agente picchiato. “Micalizzi, agitandosi, mi sferrava un pugno”. Agitandosi, quindi agitandosi è partito un pugno».
Non si potrebbe smembrare questa infermeria? Risposta del direttore: «Spetta al ministero, se fosse per me trasferirei al Nord tutto l?Ucciardone». Avete mafiosi importanti? Risposta: «I nostri mafiosi sono casalinghi, i grossi se ne sono andati». Fa il nome di Buscetta, che a Palermo è un mito. «Lui se ne sta a Cuneo», dice Cesareo con tanto buonsenso. A chi domanda se è vero che il giorno del matrimonio della figlia di Buscetta, celebrato nel carcere, a tutti i detenuti fu offerto champagne francese, Cesareo risponde: «Sono mancato dall’Ucciardone tra il 72 e il’75. Non mi risulta, almeno nella mia  direzione».

 

 

 

Articolo da L’Unità del 19 Gennaio 1980
Carta bianca alla mafia: incriminato il direttore
All’Ucciardone di Palermo

PALERMO – La magistratura cerca di veder chiaro, in un clima di strettissimo riserbo, dentro i misteri del carcere palermitano dell’Ucciardone. Ieri mattina tutto lo staff dirigente dello stabilimento carcerario – da sempre al centro di traffici mafiosi – è stato ascoltato sotto la veste di imputato dal giudice istruttore Vittorio Aliquò. Il direttore Clemente Cesareo, il vice direttore Giuseppe Di Martino, due medici responsabili della gestione dell’infermeria e otto tra ufficiali e guardie carcerarie devono rispondere di una serie di gravi accuse che vanno dall’omissione di atti d’ufficio alla sottrazione di referto al falso in atto pubblico.
Sono nel mirino del giudice per aver tenuto segreti una serie di gravi episodi, avvenuti dentro il carcere, e che sfociarono, la mattina del 20 settembre scorso, nell’eliminazione di chiaro stampo mafioso del maresciallo capo delle guardie carcerarie, il 33enne Calogero Di Bona, fatto sparire nel nulla con la tecnica della cosiddetta “Lupara bianca”.
I dodici incriminati sarebbero stati individuati, tra l’altro come i responsabili di un singolare metodo di gestione del carcere: avrebbero risolto, cioè senza chiedere l’intervento del magistrato, ma con non meglio precisate “misure interne”, adottate – si sospetta – di intesa con gruppi di mafiosi detenuti, la questione di un tranquillo svolgimento dell’ordine carcerario. Un metodo che, come alcune guardie avevano rivelato con un messaggio anonimo indirizzato ai giornali locali, sarebbe entrato in crisi però quando il temibile Michele Micalizzi, un rapinatore assassino, amico di don Agostino Coppola, il parroco della mafia, aveva pestato a sangue un agente.
Di più: secondo le guardie tale episodio sarebbe maturato in un clima di favoritismi. “La legge della mafia e della violenza” avevano scritto nella loro lettera “domina all’Ucciardone”. Micalizzi, infatti, avrebbe ripetutamente colpito molti di loro senza che le autorità dell’Ucciardone avessero mai denunciato tali gravissimi episodi.
Ai mafiosi più potenti dentro il carcere, secondo tale ricostruzione, sarenne stato praticamente affidato il controllo dei detenuti per atti di delinquenza comune, e date moltissime concessioni: tra di esse l’ospitalità pressocché permanente nella comoda infermeria. Nel dicembre scorso, in seguito ad un’inchiesta amministrativa originata dalle denunce degli agenti, e proprio per tali fatti, uno dei medici del carcere, il dottor Paolo Salmeri, era stato sollevato dal suo incarico. Proprio nell’infermeria, frattanto, i carabinieri con una perquisizione scoprivano un piantina dettagliata del penitenziario che avrebbe dovuto servire, con tutta probabilità, per preparare un’evasione.

 

 

 

Pubblicato su  giustizia.it il 26 Agosto 2011

domenica 28 agosto 2011
Commemorazione del maresciallo Calogero Di Bona
Maresciallo del Corpo degli agenti di custodia in servizio presso la casa circondariale di Palermo, Calogero Di Bona scomparve trentadue anni fa per mano della cosiddetta lupara bianca mafiosa. Riconosciuto vittima del dovere dal ministero dell’Interno, alla sua memoria, il 21 luglio 2008, è stata intitolata la caserma della casa circondariale Pagliarelli, alla presenza dell’allora guardasigilli Angelino Alfano.

 

 

 

Foto e articolo del 13 dicembre 2012 da palermo.repubblica.it
Mafia, i pentiti svelano un delitto di 30 anni fa
Ecco il forno crematorio di Cosa nostra
di Salvo Palazzolo
La Procura di Palermo ha individuato gli assassini del maresciallo della polizia penitenziaria Calogero Di Bona, che voleva riportare la legalità all’interno del carcere Ucciardone. I pentiti hanno raccontato che fu sequestrato e ucciso nel giardino di una casa colonica. La Dia ha individuato il lager dei boss

Dalle viscere di Palermo, riemerge un altro luogo degli orrori. E’ il giardino di una casa colonica, con il suo forno che preparava pane e inghiottiva le vittime di Cosa nostra. E’ il forno crematorio della mafia siciliana: si trova all’ingresso della città, in una zona che oggi è diventata un quartiere di eleganti ville, ribattezzato “Città giardino”. Lì sono tornati di recente gli investigatori della Dia di Palermo, sulla base delle indicazioni fornite dai pentiti che hanno riaperto le indagini sulla scomparsa di un coraggioso maresciallo della polizia penitenziaria che lavorava all’Ucciardone di Palermo, Calogero Di Bona. Anche lui morì in quel lager di mafia. Adesso, attraverso le foto del sopralluogo effettuato dagli investigatori, pubblicate in esclusiva su Repubblica.it, entriamo in quel luogo degli orrori, che oggi è diventato luogo di memoria.

Questa non è solo una storia di morte. E’ anche la storia di una famiglia, quella del maresciallo Di Bona, che non si è mai rassegnata alla violenza: l’anno scorso, i figli del sottufficiale (assistiti dagli avvocati Emanuele e Oriana Limuti, e Fabio Lanfranca) si sono rivolti alla Procura di Palermo, per far riaprire le indagini sulla scomparsa del proprio congiunto. E i magistrati sono tornati a interrogare diversi
collaboratori di giustizia, vecchi e nuovi. Così è riemersa la verità.

Il pomeriggio del 28 agosto 1979, il maresciallo stava prendendo un caffè nella piazza di Sferracavallo, la località marinara di Palermo, quando fu avvicinato da due persone, con cui si allontanò. L’ultimo a vederlo fu un bambino di dieci anni, che adesso è un uomo, di recente è stato riascoltato pure lui. Da quel giorno di agosto, non si è saputo più nulla di Calogero Di Bona. Ha detto Rosario Naimo, l’ultimo pentito di mafia: “Lo fecero sparire perché si diceva che maltrattava le persone in carcere”. Ovvero, tradotto dal gergo mafioso, faceva rispettare la legge all’Ucciardone, che i mafiosi volevano trasformare in un comodo hotel a cinque stelle.

“Di Bona fu strangolato e il suo cadavere venne arso su una graticola, secondo un rituale che molte altre volte si era tenuto”, ha aggiunto il pentito Gaspare Mutolo. Dopo alcuni approfondimenti della Dia, il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e i sostituti Francesco Del Bene e Lia Sava hanno firmato un avviso di conclusione indagine per due dei presunti assassini: il boss Salvatore Lo Piccolo e Salvatore Liga, il proprietario del forno, anche lui già in carcere perché condannato per altri omicidi.

Quel giorno di agosto del 1979, il maresciallo fu sottoposto a un interrogatorio, su mandato del potente capomafia di Partanna Mondello Rosario Riccobono: i boss volevano sapere i nomi degli agenti di custodia che avevano spedito una lettera anonima ai giornali cittadini, per denunciare la situazione dell’Ucciardone. Erano i tempi in cui i capi di Cosa nostra avevano trasformato la nona sezione del carcere palermitano in un esclusivo club, che aveva anche una succursale, il reparto infermeria. Solo dopo la scomparsa del maresciallo, il ministero della Giustizia si decise a mandare un’ispezione.

 

 

 

Articolo del 13 Dicembre 2012 da dallapartedellevittime.blogspot.it
DOPO 33 ANNI PIENA LUCE SULL’OMICIDIO DEL MARESCIALLO CALOGERO DI BONA .”COSÌ I BOSS DECISERO LA SUA FINE”
di Raffaele Sardo

Fu sequestrato e ucciso perché sospettato dalla mafia di aver picchiato in carcere un uomo d’onore. Dopo 33 anni la Dia di Palermo fa luce sull’omicidio del maresciallo Calogero di Bona, maresciallo delle guardie carcerarie nel carcere palermitano. Fu la cosca capeggiata dal capomafia Rosario Riccobono  a volere quell’omicidio. Calogero Di Bona,  fu sequestrato e strangolato il 28 agosto del 1979, al termine del suo turno di lavoro perché ritenuto responsabile di un ipotetico pestaggio subito in cella da un uomo d’onore, Michele Micalizzi, fidanzato con la figlia di Riccobono. Il maresciallo Di Bona era nato a Villarosa il 29 agosto del 1944. Il giorno dopo  avrebbe compiuto trentacinque anni. Per molti anni su questo delitto è calato il silenzio come tanti delitti di mafia, ma le indagini condotte dalla Dia e coordinate dalla Procura di Palermo hanno permesso di fare luce sui molti lati oscuri dell’omicidio Di Bona.

La Dia si è avvalsa della testimonianza di alcuni collaboratori di giustizia, particolarmente vicini agli indagati o pienamente inseriti nel mandamento criminale capeggiato dal sanguinario Riccobono, “anche al fine di attribuire puntuali ed inequivoche responsabilità penali in capo agli odierni indagati”.

Nell’uccisione del maresciallo Di Bona risultano coinvolti, a vario titolo, diversi uomini d’onore, alcuni dei quali oggi deceduti, ed in particolare, oltre al boss Riccobono, mandante ed esecutore dell’omicidio, due dei suoi uomini di fiducia, Salvatore Lo Piccolo e Salvatore Liga, noto “necroforo” al soldo di Cosa nostra. Lo Piccolo, catturato nel 2007, dopo 25 anni di latitanza, ai vertici di Cosa nostra palermitana dopo la cattura di Bernardo Provenzano, sconta la pena dell’ergastolo ed è sottoposto al regime detentivo speciale previsto dall’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario. Liga, arrestato nel ’93, uomo d’onore della famiglia mafiosa di Tommaso Natale (PA), ha svolto sin dagli anni ’70, con piena partecipazione criminale, anche il ruolo di “necroforo” dell’organizzazione mafiosa. Presso il suo podere, luogo di ritrovo abituale per gli aderenti al sodalizio criminale, ubicato nel fondo De Castro, sono state uccise decine di persone e ne sono stati eliminati i cadaveri mediante scioglimento nell’acido e successivo incenerimento dei resti all’interno di forni di proprietà dello stesso adibiti alla produzione del pane.

«Non sono stati reperiti atti che suffragassero questo evento – spiegano gli inquirenti – ma si è accertato che lo stesso Micalizzi era stato condannato, nel 1979 alla pena di otto mesi di reclusione, proprio perché riconosciuto colpevole del reato di lesioni in danno di un agente penitenziario».

Le indagini della Dia hanno dimostrato, però, che l’omicidio del maresciallo Di Bona risulta comunque legato a questo episodio, avvenuto all’interno delle mura del carcere palermitano dell’Ucciardone il 6 agosto 1979, quando una giovane ed inesperta Guardia carceraria fu dirottata presso la famigerata IV sezione del carcere dove si trovavano ristretti numerosi uomini d’onore ritenuti maggiormente pericolosi, che al tempo stesso fungeva da infermeria. La giovane guardia, il maresciallo Di Bona,  notava che alcuni reclusi si muovevano “ troppo liberamente”. Perciò avrebbe provato a richiamare quelli più indisciplinati, nel tentativo di farli rientrare nelle rispettive celle. Per tutta risposta un paio di loro lo aggredirono violentemente, tanto da costringerlo ad immediate cure, prestate presso la stessa infermeria del carcere. Sarebbe stato naturale avviare nei confronti dei detenuti un provvedimento disciplinare e contestuale deferimento all’Autorità Giudiziaria, ma così non avvenne.

«L’unico detenuto individuato senza incertezze dalla vittima, non scontò di fatto alcuna sanzione disciplinare e, probabilmente, se le cose fossero andate come illecitamente pianificato, non avrebbe subito nessuna conseguenza penale per quel gravissimo comportamento – dicono gli investigatori – Ma le cose non andarono come auspicato dai boss mafiosi coinvolti nel fatto: una cruda e spietata missiva, scritta da anonimi agenti carcerari, venne inviata intorno alla metà di agosto del 1979 alla Procura della Repubblica, al Ministero di Grazia e Giustizia e a due quotidiani cittadini, che, però, la pubblicarono soltanto dopo l’avvenuta scomparsa di Di Bona».

Nella lettera anonima, le guardie lamentavano non solo la mancata punizione del detenuto, etichettato con epiteti diffamatori, reo della vile aggressione in danno del loro compagno di lavoro, ma anche “il potere di mafia” esercitato dai boss all’interno delle antiche mura borboniche dell’Ucciardone.

«La giustizia degli uomini avrebbe agito con lentezza e con esiti incerti, al contrario, il “tribunale” della mafia, frattanto entrato in possesso della missiva, ancor prima della pubblicazione da parte degli organi di stampa, sentenziò in maniera rapida e spietata – dicono ancora gli investigatori – Ebbe, infatti, da qui inizio un escalation di episodi intimidatori nei confronti degli appartenenti all’Istituto Penitenziario cittadino, nell’ambito di una vera e propria controffensiva, che culminerà, appunto, nel sequestro e successivo omicidio del sottufficiale, “portato” al cospetto di Cosa nostra, al fine di indicare gli autori di quella missiva, che, “oltraggiando ” Micalizzi e l’intera organizzazione criminale, fornì l’input per altri provvedimenti penali, anche a carico di Micalizzi».

 

 

 

Articolo del 18 Luglio 2014 da livesicilia.it
La lupara bianca di Di Bona
Ergastolo per Lo Piccolo e Liga
di Riccardo Lo Verso
Ci sono due colpevoli per l’omicidio di Calogero Di Bona. Il maresciallo della polizia penitenziaria dell’Ucciardone, uscì di casa una sera di fine agosto del 1979, e non vi fece più ritorno.

PALERMO – Ergastolo per Salvatore Lo Piccolo. Ergastolo per Salvatore Liga. Ci sono due colpevoli per l’omicidio di Calogero Di Bona. La sentenza della Corte d’assise di Palermo strappa, definitivamente, all’oblio una vicenda rimasta per troppo tempo dimenticata.

Di Bona, maresciallo della polizia penitenziaria dell’Ucciardone, uscì di casa una sera di fine agosto del 1979. E non vi fece più ritorno. Solo l’ostinazione dei figli della vittima ha consentito di riaprire il caso. In particolare di Giuseppe Di Bona che aveva appena 6 anni quando smise di potere guardare il padre negli occhi.

Giuseppe ha cercato il papà ogni mattina al risveglio. Nel frattempo è diventato adulto. Poi un giorno, cliccando su un motore di ricerca, trovò un vecchio verbale del collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo. Lo consegnò agli avvocati Fabio Lanfranca, Oriana ed Emanuele Limuti che chiesero la riapertura delle indagini. Oggi l’avvocato Lanfranca, appena letto il verdetto, è ai familiari del maresciallo che rivolge il suo unico pensiero: “E’ merito loro, non c’è altro da aggiungere”,

Mutolo, killer al soldo di Totò Rina e Saro Riccobono, il 7 giugno 1994, chiamò in causa Salvatore Lo Piccolo, che di Riccobono, boss di Partanna Mondello, era stato l’autista. Il capomafia di San Lorenzo, che allora iniziava la sua ascesa criminale, avrebbe avuto un ruolo nella lupara bianca che inghiottì Di Bona, vicecapo dei secondini del carcere palermitano. Nel carcere romano di Rebibbia si stava celebrando un’udienza del processo a Bruno Contrada, l’ex capo dei servizi segreti, e Gaspare Mutolo disse al pubblico ministero Antonio Ingroia: “Io so, nell’81, in un discorso che io c’ho con Riccobono per altri discorsi, di un omicidio di un certo Di Bona, il maresciallo degli agenti di custodia, che Salvatore Lo Piccolo se lo va a prendere”.

 

 

 

Articolo del 7 gennaio 2015 da  ricerca.repubblica.it 
La morte del maresciallo eroe che si oppose al “Grand hotel”
di Salvo Palazzolo
Calogero Di Bona venne ucciso e bruciato nel 1979: voleva arginare il dominio dei boss nelle celle del penitenziario. Il caso riaperto grazie ai figli.

Il pentito Gaspare Mutolo la ricorda bene quella cella all’Ucciardone, lui conservava con cura le chiavi: «Ci tenevamo lo champagne, i formaggi francesi, i prosciutti. E anche una quarantina di coltelli. Tutto quello che ci mandavano i familiari, ma anche i più importanti ristoranti della città. Tanto nessuno controllava niente all’ingresso». Alla fine degli anni Settanta, solo una pattuglia di agenti della polizia penitenziaria sembrava fuori posto al Grand hotel Ucciardone. Il comandante di quella squadra, il maresciallo Calogero Di Bona, era il più integerrimo di tutti. E fu ucciso.

Il 28 agosto 1979, venne attirato in un tranello mentre era a passeggio per le strade del suo quartiere, Sferracavallo. Aveva 35 anni, lo strangolarono, il suo corpo fu bruciato. E subito dopo iniziò il più classico dei riti della Palermo criminale, il depistaggio. Una lettera anonima fece aleggiare il sospetto che il maresciallo Di Bona fosse addirittura vicino alla famiglia di San Lorenzo e che aveva accompagnato un mafioso italo-americano alla casa di cura Stagno, per visitare un altro mafioso. Il venticello della calunnia soffiò così forte su Palermo che la falsa rivelazione finì addirittura in un rapporto giudiziario. E fino a qualche anno fa, la storia di Calogero Di Bona era richiusa nell’archivio delle storie dimenticate della città.

Poi, i figli hanno cominciato a farsi tante domande. Con gli avvocati Fabio Lanfranca e Oriana Limuti hanno ottenuto la riapertura del caso. E il 18 luglio scorso, i pubblici ministeri Francesco Del Bene e Amelia Luise hanno ottenuto dalla corte d’assise due condanne all’ergastolo per i boss Salvatore Lo Piccolo e Salvatore Liga. Adesso, il collegio presieduto dal giudice Fabio Marino ha depositato le motivazioni della sentenza. E per la prima volta viene raccontata tutta la storia del maresciallo Di Bona, eroe antimafia suo malgrado in una città che guardava dall’altra parte.

In quei giorni, il boss Michele Micalizzi e altri cinque mafiosi avevano pestato a sangue uno degli agenti della squadra di Di Bona. Ma la direzione del carcere non aveva preso alcun provvedimento per i responsabili del raid. Accadde l’imprevisto: una lettera anonima scritta da alcuni agenti della penitenziaria denunciò l’accaduto non solo alla procura generale, ma anche al giornale L’Ora. «Se fosse stato un altro detenuto veniva subito isolato — accusavano — invece il bastardo, condannato a 20 anni per l’uccisione del nostro compianto collega Cappiello, viene trattato con i guanti bianchi». Scattò un’ispezione al Grand hotel Ucciardone dopo quella lettera. I mafiosi andarono su tutte le furie, rapirono Di Bona per tentare di conoscere i nomi degli autori dell’anonimo.

Fece una terribile fine il comandante della squadra degli onesti. «Quel giorno dovevamo strangolare anche due ladruncoli dello Zen», racconta il pentito Francesco Onorato, che non sa neanche il nome di quei ragazzi ribelli. «Tutto andò bene. Dei ladri dello Zen non se ne parlò, perché era una cosa di routine. Invece, Di Bona era una cosa eclatante, venne portato da Liga, poi strangolato e bruciato su una graticola». Onorato non tralascia alcun particolare: «Il cadavere si strangolava sopra una coperta, così se usciva, scusando l’espressione, un po’ di pipì o un po’ di sangue, rimaneva tutto lì. Non restava un capello. Poi portavamo i cadaveri a Liga, che li metteva anche dentro il forno del pane. Lui diceva sempre: non facciamo che li avete spogliati tutti, mi avete lasciato qualche cosa? Tipo collane, portafogli. Lui si prendeva queste cose. Era la sua ricompensa».

 

 

 

Articolo del 25 Gennaio 2017 da palermo.meridionews.it
Omicidio Di Bona: 38 anni dalla morte per mano mafiosa
Figlio: «La verità grazie a un verbale ritrovato da me»
di Silvia Buffa
Cronaca – Il primogenito ripercorre gli ultimi istanti vissuti col padre e le circostanze della sua scomparsa, svelate anche grazie alle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Venne strangolato e poi bruciato in un forno. Il movente sarebbe una relazione scritta sul pestaggio di un collega all’interno dell’Ucciardone

«A che l’ho visto, a che non l’ho visto più». Di quella sera del 28 agosto 1979 ricorda ancora tutto molto nitidamente Giuseppe Di Bona, malgrado all’epoca avesse solo sei anni. «Rosa mi vado a prendere un caffè e ti vengo a prendere» aveva detto suo padre alla moglie. Lui è il maresciallo Calogero Di Bona, guardia penitenziaria all’Ucciardone di Palermo. Aveva fatto il turno di notte e quella sera a casa aspettava alcuni ospiti: era la vigilia del suo trentacinquesimo compleanno, avrebbero aspettato la mezzanotte insieme. Solo che Calogero a casa non torna più. Sparito nel nulla. «Mia madre è andata dai carabinieri la stessa sera e il giorno dopo sono ufficialmente partite le ricerche», racconta il figlio. Dopo qualche giorno viene ritrovata la sua Fiat 500 abbandonata nei pressi del ponte di via Belgio, con gli sportelli aperti. «Vista dai miei sei anni quella scomparsa mi sembrava uno scherzo – continua -. La mia mente di bambino mi faceva credere che lui fosse a casa, nascosto. Ricordo che ho aperto tutte le porte per cercarlo, ma lui continuava a non esserci».

Il primo a mettersi a indagare è il giudice Rocco Chinnici, «era lui che teneva le redini di tutto. Ogni 15 giorni mandava a chiamare mia madre, per sapere come andassero le cose». Le indagini durano dal 1980 sino alla morte di Chinnici, avvenuta nel luglio dell’83. «Ricordo ancora una sua frase sul caso di mio padre – dice Giuseppe – Scrisse che “i motivi della scomparsa del maresciallo Di Bona erano da ricercare tra le mura del carcere Ucciardone di Palermo. La riprova di ciò si ritrova nelle modalità di esecuzione del crimine, tipicamente mafiose”». Dopo la morte del giudice le indagini subiscono un forte arresto e la famiglia inizia a perdere le speranze: «Abbiamo perso l’unica nostra persona di riferimento, non sapevamo più a chi rivolgerci». Ma nel 2010 le cose si sbloccano: «Ho scoperto per caso l’esistenza di un verbale all’interno di una sentenza di circa 880 pagine, quella nei confronti di Bruno Contrada, in cui si parlava della scomparsa di mio padre». A tirare in ballo la storia della fine del maresciallo Di Bona è il pentito Gaspare Mutolo: ai magistrati racconta che era stato sequestrato e ucciso, strangolato e poi bruciato in un forno crematorio che i mafiosi utilizzavano, in un terreno nella zona residenziale di Città Giardini. Il pentito, si leggeva in quel verbale, accusava del delitto i boss Salvatore Lo Piccolo e Salvatore Liga.

Si riaprono così le indagini, durate un paio di anni, fino a ottenere finalmente la verità. Le udienze sono parecchie, ma il finale è sempre lo stesso: ergastolo in corte d’Assise e in corte d’Appello. Ad aprile sarà il turno della Cassazione. «Subito dopo aver letto quel verbale ammetto di essermi sentito preso in giro: lo avevo trovato casualmente cercando su Internet e risaliva al 1994, non era quindi un documento recente. Non sono riuscito a contenere la rabbia». Com’è possibile, si chiede, che dal 1994 a quel momento nessuno si sia occupato di quel verbale e delle dichiarazioni che conteneva? «Com’è possibile che per rimettere in moto le indagini e far riaprire il caso di mio padre ho dovuto trovare tutto io? Quando ho letto questo verbale mi è crollato il mondo addosso», dice Giuseppe. Col tempo si aggiungono le dichiarazioni di altri pentiti, «ultrasettantenni che erano stati rinchiusi all’Ucciardone e che poi si sono ricordati della storia di mio padre. C’erano mafiosi che all’epoca si vantavano di questo omicidio e chi lo ha ascoltato ai tempi, poi si è ricordato».

Il movente ricostruito dagli agenti della Dia si ricollega al pestaggio subito da un collega del maresciallo Di Bona: «Risale a qualche settimana prima della scomparsa di mio padre: Michele Micalizzi, genero del boss di Partanna-Mondello Saro Riccobono, pestò un agente». L’episodio avvenne dentro il carcere Ucciardone, dove Micalizzi era detenuto per l’omicidio dell’agente Cappiello. I termini di custodia però stavano per scadere e la segnalazione di questo episodio avrebbe potuto trattenerlo ulteriormente e impedirgli di tornare in libertà. «Mio padre ha relazionato tutto, se ne stava occupando – racconta ancora – Quindi in un certo senso è come se lo avessero voluto punire». «Solo crescendo ho cominciato a capire la situazione. Non è una storia che posso dimenticare», dice Giuseppe, da anni volontario tra le fila di Libera, l’associazione fondata da Don Ciotti. «La mancanza di mio padre l’ho sempre sentita moltissimo, soprattutto durante le feste natalizie. Anche se ero un bambino, ricordo ancora molto bene la sera in cui è sparito. A noi rimane solo la memoria da divulgare – conclude – Queste sono storie che vanno raccontate e tenute in vita».

 

 

 

Articolo del 21 Aprile 2017 da  palermo.meridionews.it 
Omicidio Di Bona, Cassazione conferma ergastoli
«Ce l’abbiamo fatta, finalmente un po’ di giustizia»
di Silvia Buffa
Cronaca – Il tribunale di Roma conferma la sentenza della Corte d’Assise e della Corte d’Appello: carcere a vita per i boss Salvatore Lo Piccolo e Salvatore Liga, colpevoli del sequestro e dell’assassinio del maresciallo di polizia penitenziaria dell’Ucciardone. Si mette il punto sulla vicenda giudiziaria a 38 anni dalla sua scomparsa.

Ergastolo: la Cassazione di Roma conferma la pena stabilita nei precedenti gradi di giudizio per i boss Salvatore Lo Piccolo e Salvatore Liga, i killer del maresciallo della polizia penitenziaria Calogero Di Bona. Una sentenza giunta in serata ieri, dopo molte ore di camera di consiglio, e che finalmente mette la parola fine, a livello processuale, sulla vicenda. «Ce l’abbiamo fatta, era quello che volevamo: giustizia», commenta a caldo Giuseppe Di Bona, figlio del maresciallo ucciso da Cosa nostra. Ci sono voluti ben 38 anni, tante indagini ma anche qualche colpo di fortuna. La svolta decisiva, infatti, si deve proprio a Giuseppe, che nel 2010, navigando in rete trova per caso un verbale risalente al 1994 all’interno di una sentenza contro Bruno Contrada in cui si parla proprio del padre.

A farlo è il pentito Gaspare Mutolo: ai magistrati racconta che Di Bona era stato sequestrato e ucciso, strangolato e poi bruciato in un forno crematorio che i mafiosi utilizzavano, in un terreno nella zona residenziale di Città Giardini. Il pentito, si leggeva in quel verbale, accusava del delitto i boss Salvatore Lo Piccolo e Salvatore Liga. Del maresciallo in servizio all’Ucciardone, infatti, non era emersa mai alcuna traccia. A essere ritrovata era stata solo l’auto, una Fiat 500 abbandonata con gli sportelli aperti nei pressi del ponte di via Belgio, a pochi giorni dalla scomparsa. Il primo a indagare sulla strana sparizione era stato il giudice Rocco Chinnici, ma le indagini si arrestano brutalmente nell’83, subito dopo l’assassinio del magistrato.

Chinnici, però, lascia per iscritto un suggerimento prezioso: «i motivi della scomparsa del maresciallo Di Bona erano da ricercare tra le mura del carcere Ucciardone di Palermo. La riprova di ciò si ritrova nelle modalità di esecuzione del crimine, tipicamente mafiose». Il movente ricostruito dagli agenti della Dia si lega a doppio filo infatti al luogo di lavoro della vittima. L’omicidio sarebbe scaturito dal pestaggio subito da un collega del maresciallo: Michele Micalizzi, genero del boss di Partanna-Mondello Saro Riccobono, picchia violentemente un agente all’interno del carcere, dove era detenuto per omicidio. I termini di custodia però stavano per scadere e la segnalazione di questo episodio avrebbe potuto trattenerlo ulteriormente e impedirgli di tornare in libertà. Soprattutto perché c’era un altro funzionario che ha messo nero su bianco in una relazione tutto quello che era accaduto, il maresciallo Di Bona, che in questo modo avrebbe attirato su di sé un piano di vendetta. «A noi rimane solo la memoria da divulgare. Queste sono storie che vanno raccontate e tenute in vita», aveva detto a MeridioNews il figlio Giuseppe, intervistato a gennaio. Lui, da anni ormai volontario tra le fila di Libera, l’associazione fondata da Don Ciotti, ha trovato nel ricordo e nella divulgazione un modo per andare avanti.

 

 

 

Fonte: vivi.libera.it 
Articolo del 18 gennaio 2018
Intitolato al Maresciallo Calogero Di Bona, l’Ucciardone di Palermo
Un riconoscimento al vicecomandante degli agenti della polizia penitenziaria ucciso dalla mafia nel ’79 perché voleva far rispettare le regole all’interno del carcere.

Il giorno in cui mio padre è stato ucciso dalla mafia avevo 6 anni e i miei due fratelli 4 anni e 11 mesi, proprio in quel giorno, era la vigilia del suo 35° compleanno.
Il nostro mondo si è fermato quel 28 agosto 1979, con quella scomparsa inspiegabile, e con tanti silenzi, soprattutto di chi lo conosceva bene.
Nelle farneticanti rivendicazioni hanno scritto, i collaboratori di giustizia nei verbali, che nostro padre è stato ucciso soltanto perchè simbolo di uno Stato che andava colpito, e perchè aveva svolto una relazione su quel pestaggio all’interno del carcere nei confronti di un collega aggredito dal mafioso. Nessuno racconta di quello che le sue ultime ore hanno lasciato nelle mente di chi lo amava; nessuno racconta di quella mattina, indossando la divisa degli Agenti di Custodia, mio padre uscì di casa per recarsi al lavoro nel carcere Ucciardone, dicendo affettuosamente “ci vediamo di pomeriggio”.
Da quel giorno è iniziata la nostra vita senza di lui e non è semplice imparare a conoscerlo attraverso fredde fotografie. Sarebbe stato bello poterlo avere accanto nei momenti importanti della vita, averlo accanto nel nostro primo giorno di scuola, o nei momenti in cui avrebbe voluto
e dovuto regalarci carezza o rimproveri. Vederlo tornare a casa magari stanco ma orgoglioso del lavoro difficile che aveva scelto di fare, è aberrante che quell’assurda guerra ci ha negato per sempre.
Non è vero che il tempo cura tutti i mali, quando poi scopri d’aver già superato l’età che aveva tuo padre quel giorno, comprendi che esistono sofferenze che chi non le vive non può comprendere fino in fondo, chi le vive non ha bisogno di ulteriori racconti. Non lo abbiamo visto invecchiare ma, io e la mia famiglia, abbiamo scelto di ascoltare, i racconti di chi lo ha conosciuto, di chi ha lavorato con lui per respirare quella sua stessa aria; un modo, come tanti altri, per provare a colmare quel vuoto attraverso l’esempio delle oneste intenzioni, le stesse che avrebbe sicuramente saputo
trasmetterci se fosse stato qui.
Giuseppe Di Bona

Queste le parole commosse di Giuseppe, il figlio maggiore di Calogero Di Bona, pronunciate durante la cerimonia che si è svolta giorno 8 gennaio 2018 all’Ucciardone in occasione dell’intitolazione della casa di reclusione di Palermo alla memoria del maresciallo degli agenti di custodia ucciso dalla mafia il 28 agosto del 1979, perché aveva osato opporsi al malcostume che vedeva i boss comandare nelle celle penitenziarie.

Il primo riconoscimento ufficiale del suo sacrificio è arrivato solo lo scorso anno, quando il ministero dell’Interno lo ha nominato vittima del dovere ai sensi della legge 466/1980 e il 19 settembre 2017 è stato insignito della medaglia d’oro al merito civile. E oggi, invece, sulla facciata del luogo dove per anni ha prestato servizio prima di essere barbaramente ucciso, è stata posta una targa che ricorda il suo sacrificio.

Per l’occasione, il capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo ha deposto una corona di fiori e consegnato ai familiari una pergamena che riporta le motivazioni dell’intitolazione al maresciallo Di Bona:
«Pur consapevole del grave rischio personale, con fermezza e abnegazione improntava la propria attività lavorativa a difesa delle istituzioni e contro le posizioni di privilegio tra i reclusi. Per tale coraggioso comportamento fu vittima di un sequestro culminato in un omicidio».
Anche per Consolo l’intitolazione è un’affermazione di «verità e giustizia. Il ruolo nell’amministrazione penitenziaria e di tutti quelli che vi lavorano non è facile ed è particolarmente rischioso», mentre per il ministro della Giustizia Andrea Orlando che ha inviato un messaggio, l’intitolazione delle case circondariali rappresenta «l’occasione per esprimere la doverosa gratitudine per il debito indimenticabile che abbiamo contratto tutti con alcuni servitori dello Stato, indomiti ed eroici, com’è stato il maresciallo Di Bona. Oggi rendiamo omaggio anche all’impegno e alla caparbietà della famiglia di Calogero per raggiungere alla verità sulla barbara uccisione di un uomo di 35 anni, riconosciuta dal ministero dell’Interno, vittima del dovere e insignito della medaglia d’oro».

 

 

 

Fonte:  penitenziaria.it
Articolo del 28 agosto 2019
Omicidio di Calogero Di Bona, Maresciallo degli Agenti di Custodia ucciso dalla mafia il 28 agosto 1979
Il 28 agosto 1979 venne ucciso Calogero Di Bona (Villarosa, 29 agosto 1944 – Palermo, 28 agosto 1979), Vice Comandante della casa circondariale di Palermo Ucciardone.

Di Bona era entrato a far parte del Corpo degli Agenti di Custodia come semplice Agente a vent’anni, nel 1964, fino a diventare Maresciallo Ordinario. Il 28 agosto 1979 scomparve misteriosamente da Palermo al termine di una giornata di lavoro. Il giorno dopo avrebbe compiuto trentacinque anni e la maggior parte della sua carriera l’aveva trascorsa lavorando presso il primo istituto Penitenziario del capoluogo Siciliano.

Di Bona finisce il turno di lavoro. Ad aspettarlo a casa ci sono la moglie, Rosa Cracchiolo, e i suoi tre figli. Pranzano assieme. Poi, il padre, come sua abitudine, si ritira in camera per riposare. Nel pomeriggio accompagna la famiglia da alcuni parenti. “Passo a prendervi per cena”, dice alla moglie. E così quando la donna non lo vede rientrare si preoccupa. L’ansia diventa angoscia. Lo cercano a Sferracavallo, nei posti che era abituato frequentare. Niente. Di lui non c’è traccia. Alle sei del mattino successivo una pattuglia di militari trova la sua auto, una Fiat 500, parcheggiata in via dei Nebrodi, all’incrocio con via Alcide De Gasperi. Gli sportelli sono aperti. La Procura apre un’inchiesta contro ignoti. Due anni di indagini che a nulla approdano.

LE PRIME INDAGINI AFFIDATE A ROCCO CHINNICI

Le indagini furono affidate per quanto riguarda la magistratura al giudice Rocco Chinnici che in seguito disse che la misteriosa scomparsa di Di Bona era strettamente legata al lavoro che svolgeva all’interno del carcere Ucciardone, essendo egli un servitore fedele dello Stato, sempre ligio al proprio dovere, non riuscendo però il magistrato ad accertarne la causa precisa.

E così, l’allora giudice istruttore Rocco Chinnici, il 5 marzo del 1981, è costretto a chiudere il caso, pur scrivendo che “la morte deve essere ricercata nei fatti strettamente collegati alla sua attività all’interno della casa circondariale. La riprova di ciò si ritrova nelle modalità di esecuzione del crimine, modalità tipicamente mafiose”.

Con l’assassinio di Chinnici, avvenuta il 29 luglio 1983, con un’autobomba al tritolo e nella quale morirono insieme a lui i due carabinieri di scorta: il maresciallo Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile in cui abitava, Stefano Li Sacchi si perse anche la speranza da parte dei familiari di sapere come andarono realmente le cose.

LA RIAPERTURA DELLE INDAGINI

Nel giugno del 1994, nel carcere romano di Rebibbia, si celebra un’udienza del processo a Bruno Contrada, l’ex capo dei servizi segreti successivamente condannato. Il pubblico ministero Antonio Ingroia sta interrogando Gaspare Mutolo che a un certo punto dice: “Io so, nell’81, in un discorso che io c’ho con Riccobono per altri discorsi, di un omicidio di un certo Di Bona, il maresciallo degli Agenti di Custodia, che Salvatore Lo Piccolo se lo va a prendere”. L’appuntamento, racconta Mutolo, è all’interno di un notissimo ristorante a Sferracavallo.: .

I primi ad accorgersi del verbale di Mutolo sono stati i familiari di Di Bona. Il figlio Giuseppe ha scovato il verbale di Mutolo su internet. Assieme al fratello Ivan affidarono il loro sfogo alle colonne di S: “Se c’è una strada investigativa deve essere percorsa. Il vuoto investigativo, le tenebre come le chiamo io, sono mortificanti. Speriamo che si possa fare chiarezza. Trovare un colpevole per la morte di nostro padre sarebbe per noi un grande aiuto psicologico”. I fratelli Di Bona raccontarono anni difficili segnati dalla diffidenza di “parenti che ci tenevano lontano, ci facevano una colpa della scomparsa di papà. Per anni siamo stati i figghi di Lino, quello che spiriu”. Ed ancora “di colleghi che si sono via via allontanati, solo in pochi, si contano sulle dita di una mano, ci sono rimasti vicini”. Sono quelli che gli hanno raccontato la storia di “un gentiluomo che indossava la divisa e pretendeva che i colleghi la rispettassero”.

In seguito sono stati sentiti diversi collaboratori di giustizia. Ai magistrati è toccato ascoltare l’agghiacciante ricostruzione di un delitto. “Lo Piccolo Salvatore, uomo d’onore della famiglia di Tommaso Natale, sapendo che Di Bona frequentava un bar ristorante sito nella piazza di Sferracavallo lo avvicinò e lo condusse con un pretesto presso il fondo di Tatuneddu, così era soprannominato Salvatore Liga. Erano presenti, oltre a Liga, Salvatore MIcalizzi e Lo Piccolo, anche Bartolomeo Spatola (anche lui sarebbe stato ammazzato), il fratello Antonino e Rosario Riccobono”. Tutta gente morta tranne Lo Piccolo e Liga.

Gaspare Mutolo ha aggiunto, sempre di recente, i particolari di quella riunione di morte in un casa di fondo De Castro, allo Zen: “Riccobono chiede a Di Bona notizie sulla situazione carceraria ed in particolare sugli autori delle lettere anonime con le quali si insultavano i mafiosi”. Poi, “gli si pose una corda al collo”. Gaetano Grado ha concluso il racconto dell’orrore : “Quando l’indomani a noi andiamo allo Zen mi hanno raccontato solo che era tutto apposto e che il lavoro fatto da Tatuneddu Liga… quando c’era di bisogno di strangolare qualche persona… diciamo che quasi quasi si facevano sempre da Tatuneddu Liga, perché poi lui gli scioglieva nell’acido .. omissis… mi hanno detto che l’hanno messo dentro il forno di Tatuneddu Liga, il forno, un forno dov’è che si .. lui faceva il pane…”.

 

GLI ASSASSINI DI CALOGERO DI BONA

Nel 2010 i figli del sottufficiale si sono rivolti alla Procura di Palermo per far riaprire le indagini sulla scomparsa di Di Bona. I magistrati Francesco Del Bene, e Amelia Luise sono tornati così a interrogare diversi collaboratori di giustizia, vecchi e nuovi. La Procura di Palermo ha individuato nel 2012 gli assassini del Maresciallo che voleva riportare la legalità all’interno del carcere Ucciardone riconducibili a Cosa nostra.

I collaboratori di giustizia hanno raccontato che fu sequestrato, e ucciso nel giardino di una casa colonica, localizzabile nel quartiere Cardillo, zona Città Giardino a Palermo. Il mandante fu Saro Riccobono, boss di Partanna Mondello, mentre i responsabili, individuati dalla Procura della Repubblica, e dagli uomini della DIA, guidati dal Capo Centro di Palermo Colonnello R.S. e dal Tenente Colonnello A.T. accusati dell’omicidio sono: Salvatore Lo Piccolo e Salvatore Liga detto Tatunieddu, proprietario del forno dove bruciava i cadaveri; I due mafiosi vengono condannati all’ergastolo dalla prima Corte d’Assise di Palermo il 18 luglio 2014. Mentre la terza Corte d’Appello di Palermo il 2 novembre 2015 riconfermava le condanne all’ergastolo. Il 20 aprile 2017 la Corte di Cassazione a Roma, mette la parola fine con tanto di sigillo, per l’unico mafioso rimasto in vita, Salvatore Lo Piccolo.

 

IL MOVENTE DELL’OMICIDIO

Nelle motivazioni della sentenza, viene raccontata tutta la storia del maresciallo Di Bona.

Pochi giori prima, il 6 agosto, il boss Michele Micalizzi e altri cinque mafiosi avevano pestato a sangue l’Agente di Custodia Antonio Angiulli, che subì un pestaggio come mai ne erano accaduti nel carcereuno. Ma la direzione del carcere non aveva preso alcun provvedimento per i responsabili del raid. Accadde l’imprevisto: una lettera anonima scritta da alcuni agenti del carcere, denunciò l’accaduto non solo alla procura generale, ma anche al giornale L’Ora. “Se fosse stato un altro detenuto veniva subito isolato — accusavano — invece il bastardo, condannato a 20 anni per l’uccisione del nostro compianto collega Cappiello, viene trattato con i guanti bianchi”. Scattò un’ispezione al Grand hotel Ucciardone dopo quella lettera. I mafiosi andarono su tutte le furie, rapirono Di Bona per tentare di conoscere i nomi degli autori dell’anonimo.

Meno di un anno dopo, nello stesso carcere, venne ucciso l’Agente di custodia Pietro Cerulli

UNA FINE TERRIBILE

Fece una terribile fine il Vice Comandante. “Quel giorno dovevamo strangolare anche due ladruncoli dello Zen”, racconta il pentito Francesco Onorato, che non sa neanche il nome di quei ragazzi ribelli. “Tutto andò bene. Dei ladri dello Zen non se ne parlò, perché era una cosa di routine. Invece, Di Bona era una cosa eclatante, venne portato da Liga, poi strangolato e bruciato su una graticola”. Onorato non tralascia alcun particolare: “Il cadavere si strangolava sopra una coperta, così se usciva, scusando l’espressione, un po’ di pipì o un po’ di sangue, rimaneva tutto lì. Non restava un capello. Poi portavamo i cadaveri a Liga, che li metteva anche dentro il forno del pane. Lui diceva sempre: non facciamo che li avete spogliati tutti, mi avete lasciato qualche cosa? Tipo collane, portafogli. Lui si prendeva queste cose. Era la sua ricompensa”.

 

MEDAGLIA D’ORO AL VALOR CIVILE

“In servizio presso la Casa Circondariale di Palermo Ucciardone, pur consapevole del grave rischio personale, con fermezza e abnegazione improntava la propria attività lavorativa a difesa delle Istituzioni e contro le posizioni di privilegio tra i reclusi, fra i quali erano presenti alcuni nomi eccellenti della locale criminalità organizzata. Per tale coraggioso comportamento fu vittima di un sequestro senza ritorno che, solo in epoca recente, si è accertato essere culminato in un omicidio, di cui sono stati individuati e condannati all’ergastolo gli esecutori materiali, risultati appartenenti a cosche mafiosi. Nobile esempio di uno straordinario senso del dovere e di elevate virtù civiche, spinti fino all’estremo sacrificio.” – Palermo, 28 agosto 1979 – Data del conferimento: 3 agosto 2017

 

CARCERE PALERMO UCCIARDONE “CALOGERO DI BONA”

L’8 gennaio 2018 l’Ucciardone prende il nome di “Casa di Reclusione Calogero Di Bona”

 

RICONOSCIMENTI E INTITOLAZIONI

Il 21 luglio 2008 gli viene dedicata la Caserma dell’Istituto Palermo “Pagliarelli”.

Il 28 agosto 2009 il Comune di Villarosa dedica a Calogero Di Bona l’aula consiliare, con riconoscenza e quale esempio per le giovani generazioni.

Nel “Giardino della Memoria” di Ciaculli, alle porte di Palermo, il 28 Agosto 2018 viene piantumato in sua memoria un albero di Alloro.

 

 

 

 

Leggere anche:

 

vivi.libera.it
Calogero Di Bona – 28 agosto 1979 Palermo (PA)
Calogero trascorse gran parte della sua vita a lavorare nel carcere dell’Ucciardone di Palermo. Era fedele allo Stato e alle sue leggi, impegnandosi sempre per promuoverne il rispetto. Non si lascia intimorire dall’arroganza degli uomini di Cosa nostra detenuti nel carcere.

 

 

palermotoday.it
Articolo del 26 maggio 2021
Non si piegò alla mafia: in via Lanza di Scalea intitolata una villetta al maresciallo Di Bona
Il 28 agosto 1979 il vicecomandante del carcere Ucciardone fu vittima della ferocia di Cosa nostra: il suo corpo non venne mai ritrovato. Il sindaco Orlando: “In quegli anni i servitori fedeli dello Stato erano considerati disturbatori. Il suo sacrificio sarà trasmesso alle giovani generazioni”.

 

 

 

 

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