28 Agosto 1980 Punta Raisi (PA). Ucciso Carmelo Iannì, albergatore. Aveva collaborato con le forze dell’ordine all’arresto di mafiosi.
Carmelo Iannì gestiva un albergo, in riva al mare, ” Riva Smeralda” a Villagrazia di Carini (PA), a pochi chilometri dall’aeroporto di Palermo. Un mestiere che gli piaceva molto; lo faceva stare insieme alla gente e il mondo del turismo lo attraeva molto. Era anche una persona che credeva e rispettava la legge, Carmelo, tanto che non si pose alcun problema quando la polizia un giorno gli chiese di fare infiltrare nella sua struttura degli agenti, al fine di smascherare alcuni marsigliesi venuti in Sicilia per insegnare ai nostri come si raffinava l’eroina. Detto fatto. Tra il personale dell’albergo vennero inseriti alcuni poliziotti facenti funzione di camerieri e portieri d’albergo. Non ci volle molto. Venti giorni e i marsigliesi furono arrestati, compreso l’importante latitante Gerlando Alberti, noto negli ambienti come “u paccarrè”, decretando il successo di un’operazione che aveva fatto tanto tribolare. La polizia commise un grave errore: gli agenti che fecero gli arresti erano gli stessi che si infiltrarono in albergo camuffati da dipendenti, subito riconosciuti non solo da Alberti ma anche dal resto dell’organizzazione. Nei confronti di Iannì venne, quindi, subito emessa una vera e propria sentenza di morte. Quattro giorni dopo l’arresto, il 28 agosto 1980, in pieno giorno, due giovani a volto scoperto entrarono nella hall dell’albergo e uccisero Carmelo Iannì con dei colpi di pistola.
vivi.libera.it
Nota da: familiarivittimedimafia.com
di Roberta Iannì
Era agosto del 1980 ed eravamo una famiglia serena composta da papà Carmelo (46 anni), mamma Giovanna (44 anni), io (Roberta 16 anni) e le mie due sorelle: Monica (11 anni) e Liliana (18 anni). Nostro padre gestiva un albergo, in riva al mare, che si chiamava “ Riva Smeralda” a Villagrazia di Carini (Pa) a pochi km. dall’aeroporto di Palermo. Questo mestiere gli piaceva molto; lo faceva stare insieme alla gente ed il mondo del turismo lo attraeva molto. Da un anno aveva iniziato a ristrutturare l’albergo, ovviamente indebitandosi, e su tre piani è riuscito a finire appena il primo. Un giorno la polizia gli chiese aiuto. Erano sulle tracce per arrestare dei marsigliesi che vennero ad alloggiare in albergo ma non avevano ancora le prove. Nostro padre, idealista ed ottimista, disse di si. Ovviamente, a noi non disse nulla per non farci preoccupare. Così, camuffati da portiere d’albergo e camerieri, gli uomini della polizia si infiltrarono nel nostro albergo per intercettare telefonate e conversazioni importanti per le loro indagini. Dopo una ventina di giorni di soggiorno nel nostro albergo i volti dei tre clienti marsigliesi li abbiamo visti al telegiornale mentre li arrestavano: li hanno presi mentre stavano insegnando ai siciliani il metodo di raffinazione dell’eroina. Erano dei chimici professionisti francesi e stavano facendo formazione in Sicilia. I poliziotti che fecero irruzione nella villa, sede operativa della raffinazione, arrestarono i tre marsigliesi e, insieme a loro, un importante latitante Gerlando Alberti detto “ u paccarrè” . La polizia commise un grave errore: gli agenti che fecero gli arresti erano gli stessi che si infiltrarono in albergo camuffati da dipendenti. Quindi, non dovettero nemmeno perdere tempo ed energie per capire quanto papà avesse avuto un ruolo importante nell’indagine.
Nel 1980 non esisteva ancora il fenomeno del pentitismo e quindi un aiuto con le forze dell’ordine di un cittadino qualunque non era neanche ipotizzabile. In quegli anni l’omertà prevaleva su tutto e su tutti. Si dice, addirittura, che la mafia non esisteva nella realtà ma soltanto nei film. Anche tra noi ragazzi, nelle scuole, si “ raccontava” della mafia come fenomeno che toccava pochi e solo quelli che commetteva atti di delinquenza. Si diceva: “ tanto si ammazzano tra di loro ….!” . Carmelo Iannì era un esempio che andava eliminato subito. Tutti dovevano sapere che questo comportamento non era da copiare. E ciò anche per evitare ripercussioni negative sul traffico di stupefacenti con l’estero. Quattro giorni dopo l’arresto, il 28 agosto 1980, in pieno giorno, due giovani a volto scoperto entrarono nella hall dell’albergo e hanno ucciso Carmelo Iannì con dei colpi di pistola. Mia sorella Monica, 11 anni, era molto vicino ed ha sentito gli spari. Persone l’hanno presa al volo e l’hanno portata lontano. Mia madre, accanto a mio padre e due turisti ospiti hanno assistito all’accaduto. Per fortuna io e Liliana non abbiamo assistito perché eravamo fuori dall’hotel. I giornali locali, l’indomani, in prima pagina, a caratteri cubitali, scrissero cose bruttissime sul conto di Carmelo Iannì. Dissero che si trattava sicuramente di un regolamento di conti su storie di droga. Soltanto dopo un po’ di giorni scrissero la verità con dei piccoli articoli ma, essendo notizia già vecchia, su pagine in fondo al giornale. Trasmissioni televisive come “ Maurizio Costanzo Show” e diversi libri sull’antimafia parlarono di lui associandolo spesso all’omicidio del giudice Costa accaduto pochi giorni prima e questo costituì, per me e la mia famiglia, l’unica magra consolazione. Parlavano di lui come eroe sottolineando come lo Stato non riesca a proteggere i cittadini che cercano di rompere il muro dell’omertà. Nessun cittadino rischia la propria vita per aiutare lo Stato. La nostra famiglia era distrutta. Dovevamo pagare i debiti che nostro padre aveva contratto (aveva da poco avviato la pratica per l’acquisto dell’hotel) e non c’era tempo per addolorarsi; dovevamo darci da fare. Vendemmo metà dell’unica casa che avevamo a Palermo e grazie anche ad uno zio che ci ha dato un grande aiuto, riuscimmo a sbrigare le pratiche per cedere l’attività alberghiera. Io e le mie sorellea avevamo sogni, volevamo fare l’università, avevamo dei progetti ma fummo costrette, insieme a nostra madre, a trovarci subito un lavoro: io e Liliana come ragioniere sotto pagate e la mamma si mise a fare riparazioni di sartoria. Non si può trasmettere, dal punto di vista umano, cosa e come abbiamo vissuto la tragedia. Oggi, solo dopo oltre 25 anni, riesco a parlarne (mia sorella Monica non riesce ancora a parlare di mio padre) e a trasformare la mia rabbia in qualcosa di positivo: far conoscere il più possibile alle nuove generazioni cosa è riuscita e ancora riesce a fare la criminalità nella nostra terra. Il degrado della Sicilia, la sotto cultura, il suo mancato sviluppo (malgrado le potenzialità ) sono il terreno fertile per la criminalità organizzata e noi, come altri familiari che abbiamo vissuto questa tragedia, abbiamo il dovere di darne testimonianza diretta anche se per noi è un compito molto difficile. Il processo si è chiuso e il mandante è stato proprio Gerlando Alberti che diede l’ordine di uccidere papà dal carcere. Per i suoi numerosi omicidi sta scontando l’ergastolo. Gli esecutori non sono mai stati individuati.
Articolo del 31 Agosto 2011 da io-reporter.blogspot.com
Trentuno anni fa la mafia uccideva Carmelo Iannì
Nella Sicilia degli anni ottanta, quando contravvenire alle regole dell’omertà era quantomeno impensabile, quegli spari che echeggiarono nella hall del “Riva Smeralda” furono un monito nei confronti di chi intendesse schierarsi dalla parte dello stato contro l’egemonia mafiosa. Proprio quello che Carmelo Jannì, proprietario di quel piccolo albergo di Carini, a due passi dal mare, aveva coraggiosamente deciso di fare.Erano gli anni del business della droga, gli anni in cui gli uomini d’onore siciliani mettevano le mani sul mercato mondiale degli stupefacenti. La mafia dell’isola, secondo un rapporto dell’epoca della DEA, forniva un terzo del fabbisogno del mercato americano, quattro tonnellate di eroina pura all’anno. Erano pure gli anni in cui la mafia lasciava sul terreno vittime eccellenti, dal presidente della Regione Piersanti Mattarella al procuratore capo Gaetano Costa.Carmelo Iannì, albergatore 46 enne palermitano, marito e padre di tre figlie, non avrebbe mai pensato che quei fatti di mafia che stravolgevano la Sicilia lo avrebbero coinvolto, facendolo diventare innocente protagonista. L’imminente arrivo in città di Andreè Bousquet, il miglior chimico marsigliese in circolazione, era un segnale inequivocabile che le raffinerie di droga si trovavano nel territorio di Palermo. La più grande operazione antidroga, e la scoperta delle raffinerie di eroina, passò proprio dalla scelta di Carmelo Iannì.Quella di permettere ad alcuni poliziotti di infiltrarsi nel suo albergo, fingendo di essere impiegati. L’albergo dove aveva deciso di alloggiare Bousquet, insieme ad altri due esperti di raffinazione giunti dalla Francia. Per un mese circa, quindi, i poliziotti seguirono tutti i movimenti dei tre fino alla notte fra il 25 e il 26 agosto 1980 quando, in un edificio in costruzione nelle campagne di Trabia, scattò il blitz. Lì, insieme ai chimici e alla droga, la polizia trovò, con enorme sorpresa, anche il boss Gerlando Alberti, detto ‘u paccarrè.La presenza sul luogo del blitz degli stessi agenti che avevano finto per un mese di essere impiegati dell’hotel fece facilmente intuire allo storico capomafia di Porta Nuova chi, in maniera determinante, aveva agevolato la polizia nella propria attività di indagine. Il 28 agosto, pochi giorni dopo il blitz, alle 15.30 circa, due uomini eseguirono l’ordine che ‘u paccarrè aveva dato dal carcere, mettendo così fine alla vita di Carmelo iannì, colpevole di avere scelto di stare dalla parte sbagliata.Cadde nella reception del suo albergo che con tanti onesti sacrifici aveva realizzato.Per l’omicidio di Carmelo Iannì furono condannati all’ergastolo Gerlando Alberti e il suo complice Vincenzo Citarda. Gli esecutori materiali non sono mai stati individuati.Nel 1990 il deputato radicale Alessandro Tessari presentò una interrogazione al Ministero della Giustizia per chiedere l’applicazione al signor Andrè Bousquet, cittadino di nazionalità francese, dei benefici previsti dalla convenzione di Strasburgo relativa al trasferimento nel proprio Paese delle persone condannate.Il sacrificio di Carmelo Iannì che accettò di collaborare con le forze dell’ordine, mettendo a repentaglio la propria vita, in un’epoca in cui la mafia uccideva anche chi solo si permetteva di sbeffeggiare i boss dai microfoni di una radio, viene ricordato oggi come esempio di forte senso civico.Con queste parole lo ha ricordato Sonia Alfano europarlamentare e presidente dell’associazione nazionale familiari vittime di mafia, in occasione del trentunesimo anniversario dell’assassinio.
“Oggi fare memoria e utilizzare contro il sistema mafioso sempre più istituzionalizzato le armi della parola e del ricordo, deve essere un modo per dare ai cittadini di domani gli strumenti per capire la nostra storia imbevuta di sangue innocente e far sì che vicende come questa non si ripetano.La storia della famiglia Iannì racconta uno spaccato di realtà che ci offende tutti: non solo ha subito la violenza mafiosa, e non solo ha dovuto affrontare per lungo tempo l’indifferenza di una società civile disinformata e distratta, ma soprattutto quella dello Stato – sottolinea – che fin troppo spesso ha abbandonato i familiari delle vittime innocenti di mafia al proprio triste destino, soprattutto quando queste non potevano fregiarsi di un cognome celebre pur avendo tutto il diritto di rivendicare il proprio orgoglio e la propria dignità, esattamente come in questo caso”. Per questo è indispensabile una diffusa cultura antimafia ed è fondamentale trasmettere i valori di uomini semplici e coraggiosi come Carmelo Iannì ai ragazzi che si apprestano a fare quelle scelte che decideranno i destini del nostro Paese”.
Carmelo Iannì – Un uomo al servizio dello Stato.
Foto da : ilcarinese.it
Articolo del 2 settembre 2017
Intitolazione Carmelo Iannì: giungono precisazioni dall’opposizione
di Giuseppe Scavo
Fonte: palermo.meridionews.it
Articolo del 28 maggio 2019
Medaglia al valore a Carmelo Iannì a 39 anni dall’omicidio
«Lo Stato lo ha sempre ignorato, non ci speravamo più»
di Silvia Buffa
C’è voluta tanta pazienza e soprattutto l’insistenza della famiglia perché si arrivasse a questo riconoscimento, che verrà consegnato il 2 giugno a villa Pajno. La figlia Liliana: «Penso che mio padre meritasse questa attenzione da parte delle istituzioni che ha aiutato»
Ormai sono passati quasi 39 anni da quando Carmelo Iannì ha pagato con la vita il suo contributo di onestà offerto allo Stato. Che solo oggi sembra improvvisamente ricordarsi di lui e della sua storia, decidendo di attribuirgli una medaglia d’oro al valore civile, che verrà consegnata alle sue figlie in occasione delle celebrazioni del 2 giugno a villa Pajno. Ma ne è passato davvero tanto, forse troppo, di tempo da quel 28 agosto 1980. Quel giorno, come tutti gli altri, Carmelo Iannì è al suo albergo a Villagrazia di Carini, Riva Smeralda, quello che un giorno sogna di acquistare. Ma non accadrà mai, perché quella mattina due killer a volto scoperto (ma mai individuati) entrano in albergo e lo uccidono. Un’esecuzione decisa direttamente da dietro le sbarre, dal boss Gerlando Alberti, arrestato solo quattro giorni prima nel bel mezzo della sua latitanza.
Una vendetta in pieno stile Cosa nostra, per punire quel cittadino che aveva collaborato a quell’arresto. Il blitz infatti era stato preceduto da delicate indagini sotto copertura condotte proprio in quell’albergo e realizzate con l’appoggio e la complicità di Iannì, che ha permesso agli agenti di raccogliere le prove necessarie per incastrare alcuni chimici marsigliesi che si occupavano, con i padrini palermitani, della raffinazione della droga. Gli stessi agenti sotto copertura, però, hanno poi arrestato il boss e i suoi complici a volto scoperto tradendo involontariamente il piano allestito per incastrarli e palesando di conseguenza anche il fondamentale coinvolgimento di Iannì, che si era prestato. «Questo riconoscimento, atteso da tempo, non può che inorgoglirmi – dice oggi una delle figli di Carmelo, Liliana Iannì -. Mi rammarica soltanto che la mamma non ci sarà, ma in quella giornata con le mie sorelle Roberta e Monica lei sarà tra noi ed insieme al mio papà saremo nuovamente insieme». La signora Giovanna Iannì, infatti, è scompara a marzo.
«Non ci speravo più», commenta ancora Liliana, tra quelli che in famiglia si è spesa di più per arrivare a questo riconoscimento. «Penso che il mio papà meritasse questa attenzione da parte di uno Stato che, non avendo un nome noto, lo ha ignorato per 38 anni – osserva con un pizzico d’amarezza -. Nel 2007, in virtù delle disposizioni che la legge in favore delle vittime di terrorismo di cui noi facciamo parte prevedeva, ho mandato la prima mail sul sito del Quirinale, mi ignorarono per diversi anni ma io imperterrita continuavo a reiterare la richiesta». Una risposta arriva finalmente tre anni fa, ma non è esattamente quello che la famiglia aveva sperato di sentire. «Mi risposero che l’azione in cui rimase ucciso mio padre non poteva configurarsi tra quelle previste dalla legge quindi mi ero rassegnata». Una presa di posizione che la famiglia non sa come accogliere, come commentare. «Parliamo dello stesso Stato che ha coinvolto il mio papà in una azione di polizia, con l’obiettivo di sconfiggere il traffico di stupefacenti, cosa che interessa tutta la collettività».
«Mio padre non era un addetto ai lavori – torna a dire -, quella leggerezza di fare il blitz con gli stessi agenti infiltrati l’ha pagata con la vita. Spero che questo riconoscimento nasca da un sentimento sentito, in ogni caso per noi è motivo di orgoglio». Dopo pochi mesi dall’iniziale diniego, infatti, è arrivata l’ufficialità. Ma, orgoglio a parte, quella della famiglia Iannì rimane una ferita sanguinante. E le domande aperte che martellano la testa non riescono a sopirsi neppure dopo quasi quarant’anni da quel giorno. Una fra tutte, se quel delitto poteva essere evitato. «Purtroppo nessuno potrà dircelo, sono anche convinta che per quegli anni non doveva essere facile mantenere un segreto e poi i sistemi investigativi non godevano di tecnologie che oggi sono importanti. Comunque sia non ce l’ho con le forze dell’ordine -sottolinea Liliana -, seguo un progetto per le scuole sulla legalità. Io e le mie sorelle siamo andate avanti e il parlare della nostra storia ci ha forse aiutato a conviverci, ora forse più persone conosceranno il mio papà».
Fonte: mafie.blogautore.repubblica.it
Articolo del 16 aprile 2019
Mio padre Carmelo e quei Marsigliesi
di Roberta Iannì
Una famiglia come tante, in quegli anni 80, dove mio papà Carmelo (46 anni), mamma Giovanna (44 anni), io, Roberta (16 anni) e le mie due sorelle Monica (11 anni) e Liliana (18 anni) trascorrevamo le nostre giornate condividendo quel lavoro che mio padre aveva scelto di svolgere con passione e aspettative, gestire l’hotel “Riva Smeralda”.
Era un piccolo albergo che si affacciava sul mare di Villagrazia di Carini, a pochi chilometri dall’aeroporto di Palermo, a conduzione familiare. Papà amava far sentire a casa i suoi ospiti e noi figlie trascorrevamo le vacanze estive dando il nostro piccolo contributo.
Apportò modifiche di ammodernamento all’albergo: trasformò un grande salone in una discoteca dove, da grande intrattenitore, organizzava manifestazioni o invitava gruppi folcloristici sempre per allietare i suoi ospiti, soprattutto gruppi provenienti da diversi paesi europei. E anche se il mio papà non parlava la loro lingua, riusciva a comunicare lasciandoli affascinati dalla cordialità con la quale venivano accolti.
Ma un giorno di agosto del 1980 tre uomini provenienti da Marsiglia vennero ad alloggiare nel nostro albergo e dopo qualche giorno la Polizia si presentò chiedendo a mio padre di consentire ad alcuni agenti di infiltrarsi tra il personale dell’albergo. Questi francesi, chimici, erano noti alla polizia di Marsiglia (già oggetto di indagini per traffico internazionale di droga dal giudice Pierre Michel ucciso nel 1981), e la loro presenza a Palermo era stata segnalata. Papà acconsentì. Ovviamente a noi non disse nulla per non farci preoccupare.
Così camuffati da portiere d’albergo e camerieri, gli uomini della polizia tennero d’occhio qualunque movimento e conversazione di queste persone, traendone informazioni utili alle loro indagini.
Per noi quello fu un periodo come tanti altri, all’oscuro di ciò che stava accadendo. Mio padre non manifestò preoccupazioni particolari.
Dopo 20 giorni di soggiorno in albergo i volti dei tre clienti marsigliesi, con nostro stupore, li vedemmo al telegiornale mentre li arrestavano.
Quel giorno la Polizia fece irruzione in una villa dove si trovavano i marsigliesi e al suo interno, oltre agli strumenti utili per la raffinazione dell’eroina, trovarono il noto latitante Gerlando Alberti. Fu chiaro il motivo della loro presenza, insegnare ai mafiosi come trasformare la morfina base in eroina: le raffinerie scoperte furono due.
Ma tra i poliziotti che fecero irruzione nella villa, c’erano pure i poliziotti infiltrati, subito riconosciuti dai chimici marsigliesi.
Non dovettero nemmeno perdere tempo ed energie per capire quanto papà, un cittadino qualunque, avesse avuto un ruolo importante nell’indagine.
Carmelo Iannì era un esempio da non imitare e per questo andava eliminato subito.
Quattro giorni dopo l’arresto, il 28 agosto 1980, due giovani a volto scoperto entrarono nella hall dell’albergo uccidendo mio padre mentre era al telefono.
Mia sorella Monica e la mamma sentirono gli spari e subito furono allontanate. Io e Liliana non eravamo in hotel.
I titoli in prima pagina dei giornali locali, il giorno successivo all’omicidio di mio padre, riportavano falsità su un suo ipotetico coinvolgimento nell’organizzazione mafiosa gettando dubbi sulla sua onestà ed estraneità. Solo dopo alcuni mesi fu reso pubblico il ruolo determinante di mio padre per il buon esito dell’indagine. Fu fatto un trafiletto in un giornale locale, quando ormai l’opinione pubblica aveva già dimenticato il suo nome.
Da quel 28 agosto le nostre vite cambiarono per sempre.
Oltre al dolore per il grave lutto dovemmo affrontare tutta una serie di problemi dovuti proprio alla particolarità dell’evento. Affrontare una morte di quel tipo in quegli anni (allora si diceva che la mafia fosse solo nei film) significava vergognarsene e non sbandierarla ai quattro venti perché il primo pensiero che avrebbero fatto le persone conoscenti sarebbe stato sicuramente negativo, nessuno di noi voleva aver l’obbligo e la forza di convincere gli altri che mio padre non fosse uno di quelli, un mafioso…e così non ne parlammo per anni. Non ne parlammo fuori e, quel che è più grave, neanche in casa tra noi. Questo determinò una assoluta mancanza di elaborazione del lutto e una solitudine di tutto il nostro nucleo familiare rispetto agli amici che i nostri genitori avevano avuto fino a quel momento. Insomma gli anni successivi furono terribili, sia dal punto di vista economico che emotivo e psicologico.
Io e le mie sorelle avevamo sogni, volevamo fare l’università ma fummo costrette, insieme a nostra madre, a trovarci subito un lavoro.
La paura di ulteriori ritorsioni ci ha accompagnato per molto tempo. Una cosa su tutte però mio padre ha lasciato a noi figlie in eredità: il rispetto delle regole e un forte senso civico. Dopo oltre 25 anni, io e Liliana abbiamo iniziato a raccontare la nostra storia ai ragazzi partecipando ad eventi sulla legalità. Abbiamo trasformato la nostra rabbia e dolore in impegno civico. Monica ancora non riesce a parlarne.
Gerlando Alberti fu condannato quale mandante dell’uccisione di Carmelo Iannì a 30 anni ma morì nella sua casa ai domiciliari per motivi di salute. Gli esecutori materiali non furono mai individuati.
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Carmelo Iannì
Un uomo, un padre, un imprenditore. Allegro e sornione, che amava stare tra la gente. Un uomo che non ha mai avuto paura della fatica ed era riuscito a costruire con tanti sforzi e sacrifici una bellissima famiglia. Ma soprattutto un uomo onesto, che fece la scelta di aiutare le forze dell’ordine in una delle più importanti operazioni anti – droga della lotta contro la mafia. Una scelta che, secondo le logiche mafiose, doveva pagare con la vita ed essere da esempio per chiunque altro pensasse di fare la stessa scelta.
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