28 Gennaio 1946 Strage di Feudo Nobile (CL). Uccisi i carabinieri: Fiorentino Bonfiglio, Vincenzo Amenduni, Emanuele Greco, Mario Boscone, Giovanni La Brocca, Vittorio Levico, Pietro Loria, Mario Spampinato

Fiorentino Bonfiglio (foto inviataci dalla nipote Lucia Rita Daino)
Vincenzo Amenduni – foto da ruvolive.it  (©www.misilmerinews.it)


Emanuele Greco – Foto da  muvilascari.it

 

 

28 Gennaio 1946 Strage di Feudo Nobile (CL). Uccisi otto carabinieri: Fiorentino Bonfiglio, Vincenzo Amenduni, Emanuele Greco, Mario Boscone, Giovanni La Brocca, Vittorio Levico, Pietro Loria, Mario Spampinato.
“Feudo Nobile è poco più di una masseria persa nelle campagne vicino a Gela. All’inizio del 1946 ospitava una piccola caserma dei Carabinieri, l’unica presenza dello Stato per chilometri. La mattina del 10 gennaio 1946 il brigadiere Vincenzo Amenduni, comandante della stazione di Feudo Nobile e quattro dei suoi militari, usciti di pattuglia alla ricerca di alcuni ladri di bestiame, si trovarono sulla strada della banda di Rizzo. Ci fu uno scontro a fuoco, ma quando i cinque carabinieri esaurirono le munizioni a loro disposizione furono costretti ad arrendersi. Poi fu la volta dei tre militari rimasti nella casermetta, costretti ad arrendersi dopo che i banditi assaltarono l’edificio a raffiche di mitra e bombe a mano. Gli otto carabinieri vennero quindi legati e costretti a seguire i banditi nelle loro peregrinazioni nell’interno della Sicilia. Quello che dovettero subire in quei giorni non è difficile da immaginarsi. Pestaggi, torture, stenti. Forse la peggiore delle torture fu quando a poca distanza da loro sentivano passare le squadriglie di carabinieri e agenti inviati alla loro ricerca. Non è difficile immaginarli mentre, imbavagliati e legati strettamente con corde e filo di ferro, con il viso schiacciato nella terra e la canna di un’arma piantata alla nuca, sentono le voci dei loro colleghi passare loro accanto e scomparire, come navi che si perdono nell’orizzonte. Poi la speranza. Salvatore Rizzo avviò una trattativa con lo Stato, sicuramente con la mafia a fare da mediatrice. Le proposte erano chiare: la liberazione di alcuni capi indipendentisti e l’amnistia per sé ed i suoi o una comoda fuga all’estero. La trattativa andò avanti per quasi tre settimane. Si parlò di un’automobile che avrebbe dovuto prelevare gli otto militari e portarli sul luogo dello scambio. Ormai era fatta. Erano quasi liberi. “Torneremo a casa, ragazzi!” “Volesse il Cielo. La prima cosa che farò sarà di andare in chiesa a accendere un cero alla Madonna!” “E la seconda?” “Una mangiata a casa dei miei a Catania. Voglio rimpinzarmi di pesce fino a scoppiare! Siete tutti invitati!” Il giovane elegante giunse la sera del 28 gennaio. Nessuno sa chi fosse, ma si sa che portò un messaggio a Salvatore Rizzo: la trattativa era fallita. Qualcuno aveva deciso che le vite degli otto carabinieri di Feudo Nobile non valevano uno scambio e li abbandonò al loro destino. Vennero uccisi ed i loro corpi gettati nel pozzo di una zolfatara abbandonata, dalla quale ciò che restava di loro fu recuperato solo alcuni mesi dopo” (tratto da FEUDO NOBILE – Otto Carabinieri Siciliani e il loro destino… – di Fabrizio Gregorutti dal sito cadutipolizia.it)

 

 

Le vittime (fonte quirinale.it):

Vincenzo Amenduni, 39 anni – Brigadiere
Luogo di nascita: Ruvo di Puglia (BA)

Mario Spampinato, 31 anni
Luogo di nascita: Misterbianco (CT)

Vittorio Levico, 29 anni
Luogo di nascita: Bolognetta (PA)

Fiorentino Bonfiglio, 28 anni
Luogo di nascita: Ceriale (SV)

Emanuele Greco, 25 anni
Luogo di nascita: Lascari (PA)

Mario Boscone, 22 anni
Luogo di nascita: Palermo (PA)

Pietro Loria, 22 anni
Luogo di nascita: Roccamena (PA)

Giovanni La Brocca, 20 anni
Luogo di nascita: Gioia del Colle (BA)

 

 

 

Fonte:carabinieri.it

“Ma i niscemesi trovarono un altro capo, Salvatore Rizzo, e le loro gesta di sangue non subirono interruzioni. …

10 gennaio 1946 Rizzo escogitò uno stratagemma per attirare i militi fuori dalla caserma di Feudo Nobile (Gela).

Una denuncia per pascolo abusivo costrinse un brigadiere e quattro carabinieri a uscire per un sopralluogo.

Mentre stavano per tornare alla base, videro i contadini che fuggivano da ogni parte gridando: «I briganti, i briganti». Tentarono di resistere rifugiandosi in una cascina, ma quando finirono le munizioni vennero catturati e disarmati dai banditi che, per completare l’opera, diedero l’assalto alla caserma per eliminare completamente il presidio. L’assalto fu breve: la porta della caserma fu crivellata di colpi e anche i tre carabinieri rimasti nella stazione furono costretti a consegnare le armi. Soltanto un milite di Niscemi scampò alla cattura perché si trovava a Gela per lo scambio posta.

Rizzo e un gruppo di separatisti si trascinano gli otto ostaggi nel profondo entroterra, che sfuggiva a ogni possibile controllo territoriale. Offrirono di rilasciare gli otto ostaggi in cambio del capo dell’EVIS, Concetto Gallo, da poco arrestato. Le trattative fallirono e il 29 gennaio gli otto carabinieri sparirono nel nulla.

Solo il 25 maggio successivo i loro cadaveri nudi furono ritrovati in contrada Bubonia, comune di Mazzarino (Caltanissetta) dentro una enorme buca. La buca, profonda 15 metri e larga 3, serviva per l’estrazione dello zolfo dalle locali miniere. Ad uno ad uno erano stati freddati, alla presenza dei commilitoni, e buttati di sotto.

Il brigadiere stringeva ancora fra le dita rattrappite la foto dei figli.”

 

 

Articolo da  cadutipolizia.it

FEUDO NOBILE
– Otto Carabinieri Siciliani e il loro destino… –

di Fabrizio Gregorutti

Immagino l’Ultimo.
La sua angoscia mentre vede i suoi compagni, i suoi commilitoni, i suoi fratelli venire uccisi, uno per uno.
La sua paura, la sua umanissima, disperata paura mentre vede crollare senza vita, di fronte a sé l’ultimo dei colleghi.
Che cosa avrà fatto?
Avrà implorato pietà ai suoi carnefici?
Avrà tentato di fuggire o di ribellarsi?
Avrà affrontato la morte da Eroe risorgimentale, trattando con disprezzo i suoi assassini?
Oppure, prostrato da quasi tre settimane di prigionia e di torture e sotto shock per avere visto i suoi colleghi, i suoi amici, morire uno ad uno, avrà accolto la morte come una liberazione?

L’Italia della fine della Seconda Guerra Mondiale è qualcosa di inconcepibile, oggi. Come se parlassimo di un’epoca lontana, invece che del tempo in cui i nostri padri erano bambini ed i nostri nonni, ritornati dal fronte, guardavano sconvolti quel panorama di rovine che un tempo si era chiamata Italia.

Nel Nord si continuava a morire.

La guerra civile ufficialmente terminata il 25 Aprile continuava, in modo strisciante ma feroce. Morirono in tanti e le vittime furono i persecutori di ieri ma anche molti, troppi innocenti. In tutta la Penisola imperversavano spietate bande criminali che rapinavano, taglieggiavano ed uccidevano. Le cronache di quegli anni sono piene dei racconti sulle imprese di banditi come  Bezzi e Barbieri al Nord, il Gobbo del Quarticciolo a Roma,  La Marca in Campania e Giuliano in Sicilia, ma anche di delitti spaventosi originati dalla povertà e dalla disperazione. Gli Alleati, spesso, non si comportavano da Liberatori ma da sopraffattori. Ci sono decine di storie di aggressioni compiuti da soldati americani,  britannici e francesi. Storie orribili di omicidi, di stupri, di saccheggi. Le storie tipiche di ogni Paese sconfitto in ogni epoca. Specialmente nelle città molte donne, rimaste sole dopo che il marito era stato divorato dalla guerra, per sopravvivere e per fare sopravvivere le loro famiglie, furono costrette a vincere la ripugnanza e  vendettero il proprio corpo agli occupanti ed agli squallidi individui che durante il conflitto si erano arricchiti con la borsa nera.

Ma forse nessuna regione italiana era stata umiliata peggio della Sicilia.

Dopo lo sbarco alleato del 10 Luglio 1943 la regione era precipitata in una anarchia indescrivibile. Le città ed i villaggi siciliani erano sconvolti dalle rivolte per il pane e contro la chiamata alle armi ed alle quali uno Stato sconfitto ed umiliato reagiva spesso con una brutalità alle quali veniva risposto con altrettanta violenza. Centinaia di civili e di militari morirono in quegli anni durante manifestazioni delle quali oggi si è persa la memoria, ma che allora minacciarono la gracile Italia di quegli anni e la sua stessa esistenza di Nazione. Le autorità del regio governo non contavano più nulla e gli ordini provenienti dai ministeri ospitati prima a Brindisi poi a Salerno ed infine dal 1944 nuovamente a Roma, non venivano ascoltati nell’isola, dove gli ordini di prefetti e questori non valevano la carta sulla quale erano stampati. Gli Alleati, il vero potere nell’Italia di quegli anni, in Sicilia si erano appoggiati alla mafia, alla quale dovevano il successo dello sbarco. In molte zone i boss diventarono sindaci, in altre ebbero dei rapporti talmente stretti con gli Alleati da rappresentare un vero contropotere allo Stato. I siciliani erano prostrati dalla guerra, ridotti alla disperazione dalla fame, sconvolti da ciò che era accaduto alla loro terra. Era quasi inevitabile che in molti cadessero preda delle sirene dell’indipendentismo che prometteva loro un sicuro avvenire in una Sicilia libera. Molti indipendentisti erano persone degne e integerrime, convinte di fare l’interesse della propria isola, ma dietro al loro idealismo si stagliavano le ombre inquietanti della mafia, desiderosa di diventare essa stessa Stato senza però tagliare completamente i ponti con lo Stato italiano. Fu così che i boss trasformarono le bande di briganti che devastavano la Sicilia in “guerriglieri”, da contrapporre allo Stato, con la promessa di una amnistia generale quando l’Isola sarebbe divenuta indipendente. Fu il marasma da cui emersero dei figuri come Salvatore Giuliano nel Palermitano e Salvatore Rizzo nella Sicilia Orientale, autonominatisi “colonnelli” dell’esercito di liberazione.

Mentre onorevoli e prefetti erano al sicuro nei loro palazzi di Palermo e Catania, spesso a stretto contatto con i mandanti dei banditi, l’Italia non più Regno ma non ancora Repubblica, era rappresentata da centinaia di carabinieri e agenti di Polizia, gettati allo sbaraglio nei mille paesi e villaggi siciliani, spesso in una piccola fattoria abbandonata con le pareti imbiancate con calcina dozzinale, ma sulle quali sventolava il Tricolore, simbolo di una Nazione che non voleva morire. Carabinieri e poliziotti erano soli. Male armati con i patetici moschetti ’91 e poche cartucce quando banditi e mafiosi attingevano agli enormi arsenali di armi che almeno quattro eserciti avevano abbandonato nell’isola durante la guerra. Equipaggiati peggio, tanto che spesso chi doveva uscire di pattuglia doveva ricevere gli scarponi dai colleghi smontanti, perché non c’erano calzature per tutti. Spesso si sentivano circondati dall’ostilità della popolazione. Non era vero, almeno non sempre, ma era difficile che con quel clima qualcuno avesse il coraggio di dichiarare la propria solidarietà a quegli umili rappresentanti dello Stato. Erano patetici? Forse. Ma rimasero al loro posto a difendere quella Bandiera a volte sbrindellata che sventolava sulle loro caserme e commissariati e seppero combattere e morire per difenderLa. Accadde il 29 Dicembre 1945, quando nei pressi di Caltagirone un battaglione di Carabinieri, questa volta ben armato ed equipaggiato, si scontrò con una grossa formazione di indipendentisti.

Salvatore Rizzo e la sua banda, il gruppo più forte dei “guerriglieri” tagliarono la corda ed  abbandonarono al loro destino gli idealisti puri, coloro che in buona fede avevano sperato che l’indipendenza avrebbe salvato la loro terra e  che vennero distrutti dai militari in poco più di un’ora di battaglia. Rizzo preferì defilarsi e fuggire verso sud, verso l’incontro con il destino.

Feudo Nobile è poco più di una masseria persa nelle campagne vicino a Gela. All’inizio del 1946 ospitava una piccola caserma dei Carabinieri, l’unica presenza dello Stato per chilometri. La mattina del 10 Gennaio 1946 il brigadiere Vincenzo Ammenduni, comandante della stazione di Feudo Nobile e quattro dei suoi militari, usciti di pattuglia alla ricerca di alcuni ladri di bestiame, si trovarono sulla strada della banda di Rizzo. Ci fu uno scontro a fuoco, ma quando i cinque carabinieri esaurirono le munizioni a loro disposizione furono costretti ad arrendersi. Poi fu la volta dei tre militari rimasti nella casermetta, costretti ad arrendersi dopo che i banditi assaltarono l’edificio a raffiche di mitra e bombe a mano. Gli otto carabinieri vennero quindi legati e costretti a seguire i banditi nelle loro peregrinazioni nell’interno della Sicilia. Quello che dovettero subire in quei giorni non è difficile da immaginarsi. Pestaggi, torture, stenti. Forse la peggiore delle torture fu quando a poca distanza da loro sentivano passare le squadriglie di carabinieri e agenti inviati alla loro ricerca. Non è difficile immaginarli mentre, imbavagliati e legati strettamente con corde e filo di ferro,  con il viso schiacciato nella terra e la canna di un’arma piantata alla nuca, sentono le voci dei loro colleghi passare loro accanto a loro e scomparire, come navi che si perdono nell’orizzonte.

Poi la speranza.

Salvatore Rizzo avviò una trattativa con lo Stato, sicuramente con la mafia a fare da mediatrice. Le proposte erano chiare: la liberazione di alcuni capi indipendentisti e l’amnistia per sé ed i suoi o una comoda fuga all’estero. La trattativa andò avanti per quasi tre settimane. Si parlò di un’automobile che avrebbe dovuto prelevare gli otto militari e portarli sul luogo dello scambio. Ormai era fatta. Erano quasi liberi. “Torneremo a casa, ragazzi!” “Volesse il Cielo. La prima cosa che farò sarà di andare in chiesa a accendere un cero alla Madonna !” “ E la seconda?” “Una mangiata a casa dei miei a  Catania. Voglio rimpinzarmi di pesce fino a scoppiare! Siete tutti invitati! ” Il giovane elegante giunse la sera del 28 Gennaio. Nessuno sa chi fosse, ma si sa che portò un messaggio a Salvatore Rizzo: la trattativa era fallita. Qualcuno aveva deciso che le vite degli otto carabinieri di Feudo Nobile non valevano uno scambio e li abbandonò al loro destino. Cosa provarono gli otto carabinieri quando videro Rizzo ed i suoi avvicinarsi e lessero la verità nei loro occhi e sentirono morire la speranza? Il brigadiere Vincenzo Ammenduni, i carabinieri Fiorentino Bonfiglio, Mario Boscone, Emanuele Greco, Giovanni La Brocca, Pietro Loria, Vittorio Levico e Mario Spampinato vennero uccisi ed  i loro corpi gettati nel pozzo di una zolfatara abbandonata, dalla quale ciò che restava di loro  fu recuperato solo alcuni mesi dopo.

Salvatore Rizzo e la maggior parte dei membri della sua banda furono uccisi dalla mafia nei mesi successivi, perché testimoni scomodi di una inconfessabile trattativa tra i criminali e chi aveva il dovere di combatterli. Sopravvisse solo uno dei banditi, ritenuto evidentemente innocuo, ma che prima di scomparire schiacciato dall’ergastolo, raccontò del misterioso giovane elegante mai identificato che aveva comunicato a Rizzo il fallimento della trattativa.

Dopo 62 anni non si sa chi abbandonò,  condannandoli a morte, gli otto carabinieri. Probabilmente è morto egli stesso da anni, ma spero che prima di chiudere gli occhi abbia visto intorno a se i volti di coloro che aveva contribuito ad uccidere e abbia lasciato questo mondo con la loro stessa angoscia.

Non sappiamo se questo 28 Gennaio l’Arma dei Carabinieri onorerà la memoria dei suoi otto Caduti di Feudo Nobile. Speriamo di sì. Se lo facesse sarebbe un omaggio verso le centinaia di Carabinieri ed Agenti Caduti tra il 1943 ed il 1950 in Sicilia, in difesa del Paese.

Vincenzo, Fiorentino, Mario, Emanuele, Giovanni, Pietro, Vittorio e Mario sono ora sepolti nei cimiteri delle località d’origine, in tombe sulle quali probabilmente da anni nessuno depone più  un fiore.

Lo facciamo noi Poliziotti oggi, con queste nostre parole.

(per la redazione di cadutipolizia.it Fabrizio Gregorutti)

 

 

Articolo da L’Unità del 12 Gennaio 1946
I banditi catturano 5 carabinieri dopo incendiata la caserma

PALERMO 11. Nelle prime ore del mattino un forte numero di ribelli assaliva una piccola caserma, presidiata da 5 carabinieri, che si trova nel cuore del feudo Nobile, in territorio di Caltanissetta. Al fuoco degli assalitori, che si iniziava dopo il consueto accerchiamento, i carabinieri rispondevano prontamente. Ma i ribelli si spingevano fin sotto le mura e vi appiccavano il fuoco, dopo averle comparse di liquido infiammabile.
Dalla caserma trasformata in un grande rogo i carabinieri continuavano a sparare raffiche di mitra ed a scagliare bombe a mano, sinché, esaurite le munizioni e preclusa ogni via di scampo, erano costretti ad uscire e venivano catturati dai ribelli.
Questi, dopo averli legati, li trasportavano con loro nelle campagne circostanti.

 

 

Tratto dal Libro L’IMPERO DEL MITRA di Salvatore Nicolosi
Ed. Bonanno (1972) Disponibile nelle biblioteche

Si ringraziano il Sig. Nino Impallari per la ricerca bibliografica e la Sig.a Lucia Rita Daino, nipote di Fiorentino Bonfiglio, per il suggerimento.

Otto carabinieri sequestrati dai banditi

Non c’è archivio e non c’è documento che conservi tutt’intera e definita la storia del più oscuro e odioso episodio della guerriglia. E’ scoraggiante constatare che dalla strage di otto carabinieri esistano oggi, in contrasto aperto l’una con l’altra, tante versioni. Così diverse da dar l’idea che, tolte le linee essenziali del fatto, tutti i frammenti del racconto si riferiscano a storie differenti e scomparse.
Le linee essenziali del fatto sono queste: otto carabinieri vengono catturati dai banditi a feudo Nobile (territorio di Gela, provincia di Caltanissetta) il 10 gennaio 1946, cioè dodici giorni dopo San Mauro; vengono uccisi il 29 gennaio dopo svariate peregrinazioni; i cadaveri sono ritrovati il 25 maggio in fondo a una miniera di zolfo nei pressi di Mazzarino (Caltanissetta), in contrada Bubonia.
Anche le spiegazioni del fatto sono contraddistinte. Ciascuno dei protagonisti sopravvissuti ne ha una, sua personale, e la proclama negando con sdegnosa perentorietà tutte le altre. Il processo che si celebrò dinanzi alla corte d’assise di Caltanissetta nel dicembre 1948, e che mandò all’ergastolo i banditi superstiti, non chiarì molti punti e non ascoltò molti personaggi che avrebbero meritato di essere sentiti. Si limitò ad accertare le singole responsabilità, senza scavare troppo nei fatti che si conclusero con l’eccidio della miniera. Le ricostruzioni che sono state tentate in seguito risultano perciò grossolanamente deformate.
La versione ufficiosa, fornita ai giornalisti dal comando dell’ispettorato regionale p.s., fu guanto mai imprecisa. Apparve sui giornali di sabato 12 gennaio, proveniente da Palermo, ed era tanto vaga e imprecisa che non merita d’esser conosciuta.
Un’altra versione, di fonte ufficiosa, fu quella che diedero, sulla base di indagini dirette, i giornali del tempo. Secondo questa, i banditi, poco dopo San Mauro, prescelsero deliberatamente la casermetta dei carabinieri ubicata in località detta Case Vitale, nel feudo Nobile; secondo le generiche direttive, del comando generale separatista, bisogna «attaccare le caserme dei carabinieri». Questo contrattacco, conseguente all’arresto di Gallo e dei guerriglieri separatisti che venivano scovati nelle loro case, era dettato da «spavalderia, desiderio di rivalsa, fanatismo».
Offensive di questo genere si verificavano, in quei giorni, con grande frequenza in ogni parte dell’isola. Era Giuliano che dava l’esempio. Caserme assalite e scompigliate, imboscate, militari ridotti alla resa, millitari feriti, militari uccisi. L’atmosfera, come si vede, era rovente.
A Feudo Nobile i banditi, nonostante la preponderanza numerica, non osarono attaccare in campo aperto; ma ricorsero a uno stratagemma.
Alcuni loro «amici» si presentarono il giorno 9 alla caserma dei carabinieri. La caserma di Feudo Nobile era presidiata da nove uomini; comandante era il brigadiere Vincenzo Amenduni, un pugliese di trentanove anni. Quei contadini venivano a denunciare un pascolo abusivo avvenuto in contrada Buonvissuti. L’indomani il sottoffuciale e quattro uomini (Mario Boscone di 22 anni, Vittorio Levino di 29, Emanuele Greco di 25 e Pietro Loria di 22) si recarono sul posto per il sopralluogo. Raccolti gli elementi, stavano per tornarsene in caserma, quando corse un grido:
«I briganti! I briganti!».
I contadini cominciarono a fuggire da ogni parte. I militari, per evitare di trovarsi allo scoperto, si rifugiarono anche essi nella cascina, pronti alla controffensiva. Apparvero infatti un gruppo di cavalieri, una decina, che circondarono il basso edificio. I carabinieri aprirono il fuoco. Anche i banditi sparavano. Ma i primi esaurirono quasi subito le munizioni, la fucileria si sgranò, così, per qualche tempo, dalla sola parte dei banditi.
«Uscite!» urlò uno degli assalitori. Probabilmente era Rizzo.
Il proprietario della cascina, che teneva in spalla un mitra, si avvicinò al brigadiere.
«Se non vi arrendete, quelli bruciano il cascinale. A che serve resistere ancora? Ecco il mio mitra. Potrete sparare, se volete, per un minuto o due. E poi sarete di nuovo come ora: senza possibilità di rispondere».
I carabinieri si arresero.
Non si sa se l’agguato sia stato effettivamente preordinato dai banditi: sembra poco verosimile una macchinazione (il pascolo abusivo) la cui riuscita si fondava su una denuncia ai carabinieri (ma le vittime avrebbero potuto tacere come in altri casi avveniva) e su un sopralluogo (che poteva non essere fatto, o esser fatto da un numero maggiore di militari meglio armati).
Non si sa, neanche, se i contadini del cascinale si siano prestati consapevolmente al gioco dei banditi: ma anche questo sembra poco credibile perché nessuno, per pavido che sia e qualunque amicizia nutra verso i fuorilegge, può gradire di trovarsi al centro di un conflitto armato inevitabile nel caso di un incontro dei banditi coi carabinieri.
Forse fin qui, e sempreché queste cose siano effettivamente avvenute, nulla era stato preordinato. Forse il pascolo abusivo c’era stato realmente; e l’incontro fra militari e fuorilegge era stato causale.
I cinque carabinieri uscirono disarmati dalla piccola costruzione, e gli assalitori li circondarono. tutti assieme, raggiunsero la casermetta.
Ce n’erano altri quattro, nella caserma.
«Dei quattro carabinieri rimasti» raccontò sulla Sicilia Giuseppe Gennaro, «uno si era recato a Gela, a prelevare la posta; gli altri tre, dopo un vivace combattimento, furono costretti alla resa».
I tre carabinieri si chiamavano Mario Spampinato di 31 anni, Fiorentino Bonfiglio di 28 e Giovanni La Brocca di 20.
Così i prigionieri, cinque più tre, diventano otto.

Un separatista, il messinese Giuseppe Barbera (fratello di Giovanni), appena arrestato, il 3 aprile 1947, diede una versione in molti punti discordante da quelle delle fonti governative.
Altra ancora, che merita consideranzione, e anch’essa di fonte separatista, è quella fornitaci da Nino Velis, che a quel tempo, dopo la cattura di Gallo, comandava le forse dell’EVIS. Risulta molto diversa dalle precedenti, soprattutto all’inizio. E’ questa:
«All’alba del 10 gennaio un gruppo di banditi capeggiati da Rizzo, nei pressi della caserma di Feudo Nobile, che ritenevano disabitata, si imbatterono in due carabinieri. Disarmati e in uniforme difatica, si aggiravano nei dintorni per accudire a talune operazioni quotidiane: si rifornivano di acqua e andavano a cercare verdure. Era una buona occasione per umiliarli in un modo qualsiasi. I carabinieri erano i loro nemici permanenti; anche il comando separatista di Palermo esortava i banditi a non dar tregua agli uomini in divisa. Era proprio una mortificazione quella che volevano infliggere; e perciò preferirono imprigionarli, anziché stenderli con una scarica a tradimento. Inoltre volevano render la pariglia agli arresti dei separatisti dopo i fatti di San Mauro».
Abbiamo chiesto se la direttiva della «pariglia» fosse stata in un modo qualsiasi impartita dal comando dell’EVIS o dai gerarchi del MIS. Velis ha negato che ci fosse un ordine esplicito pur ammettendo che poteva essere stato interpretato in modo avventato il generico invito alla guerriglia. Ha comunque escluso, come anche altri hanno escluso, l’intervento attivo dell’EVIS nello sbocco tragico che questo episodio ebbe.
«Più probabilmente» ha proseguito «perdettero la testa, tanto più che a breve distanza c’era il campo separatista e volevano impedire che i carabinieri lo individuassero e andassero a cercarvi gli uomini da arrestare… Be’, non so. Fatto è che puntarono le armi e si avvicinarono. Riuscirono a catturare il più vicino. L’altro, benché inseguito, tentava di dare l’allarme ai compagni rimasti in caserma. I banditi, con un breve conflitto, furono padroni del quartiere e degli uomini che lo presidiavano. Frugarono e saccheggiarono. Si portarono via ogni cosa: divise, abiti borghesi, casermaggio vario, viveri e armi. Incendiarono la caserma e si portarono i prigionieri lontano, al sicuro dalle rappresaglie. Prevedevano infatti massicce ritorsioni da parte delle forse regolari per liberare i prigionieri. Non ci furono».

Questo è cio che si sa sul colpo di mano che rese otto uomini della legge prigionieri di una decina di scellerati. Esistono alcuni altre varianti a queste versioni, probabilmente frutto di ricostruzioni e interpretazioni. I banditi superstiti hanno dal canto loro raccontato la cosa in maniera poco credibile e sempre in chiave difensiva.
Dopo la cattura degli otto carabinieri, secondo le norme di guerra in vigore. A quel tempo non era stata firmata la Convenzione di Ginevra (12 agosto 1949), che detta le norme internazionali in materia di prigionieri di guerra; ma se ne conoscevano il contenuto e i principi. In ogni caso, capisaldi molto simili erano in vigore da tempo, sanciti dalla prassi e, per iscritto, diciannove anni prima, nel 1929, dalla precedemte Convenzione anche essa firmata a Ginevra. Comunque, gli otto militari potevano essere guardati come materia di scambio.
Si parlò più volte, in ogni sede, di contrattare la loro liberazione con la liberazione di Concetto Gallo. Si disse anche che quegli uomini erano stati catturati proprio col fine di utilizzarli per lo scambio. Era un’ipotesi plausibile, ma nulla la conferma; e nulla del resto conferma le trattative fra separatisti e rappresentanti del governo in un secondo tempo, cioè quando i banditi si resero conto che a tirarsi dietro quei prigionieri essi ricavavano molti fastidi e, di sicuro, nessun vantaggio.
E’ possibile – cioè è una voce – che il duce Guglielmo di Carcaci abbia trattato in tal senso con l’ispettore generale di p.s. in Sicilia dott. Ettore Messana; ed è possibile che altri, a qualunque livello, abbiano tentato analoghi approcci. Ma non esiste traccia scritta né conferma verbale di tali trattative.

I morti nella miniera.

Cominciò così la convivenza dei tre gruppi: banditi-separatisti-carabinieri, ventidue uomini in tutto: quattordici più otto. Dalla caserma di Feudo Nobile gli otto militari furono trasportati dapprima verso nord, nel sughereto di San Pietro. Ma erano cominciati i rastrellamenti sistematici e le prime località a essere visitate e che da quel momento furono costantemente tenute d’occhio, erano quelle nelle quali i banditi avevano il loro covo. Bosco San Pietro era appunto una di queste. Perciò la permanenza in quel rifugio fu breve.
I giornali non riportarono subito la notizia della cattura dei carabinieri. Ma essa, giunta immediatamente al governo, provocò la stessa sera del 10 gennaio il seguente comunicato:
«L’odierno Consiglio dei ministri è tornato a occuparsi della situazione politica interna, in rapporto alle notizie di disordini pervenute particolarmente dall’Italia meridionale e dalla Sicilia».
Nuovamente, il giorno dopo, il Consiglio dei ministri volse la sua attenzione alla cosa.  Il ministro dell’Interno, il socialista Romita, fu al centro delle discussioni. Dal comunicato apparso il 12 gennaio sui giornali:

«Per quanto riguarda la Sicilia, il ministro ha comunicato che, essendo stato segnalato che un gruppo di circa cinquanta uomini, composto di elementi  separatisti e di delinquenti comuni, aveva costituito un campo in località S. Mauro, nei pressi di Caltagirone, venne disposta un’opportuna azione di polizia, che portò alla cattura di alcuni elementi e allo sbandamento degli altri.
I successivi fatti verificatisi in Sicilia, e cioè gli assalti condotti contro le caserme dell’Arma, hanno avuto i medesimi elementi misti, di separatisti e di     delinquenti comuni.
Il ministro ha comunicato di aver già disposto l’immediato invio di adeguati rinforzi di polizia, che, in collaborazione con le forze militari dell’isola, condurranno una decisa azione per l’annientamento di questa nuova forma di banditismo, al fine di restituire la necessaria tranquillità a quelle laboriose e pacifiche popolazioni. Contro i responsabili sarà proceduto con tutti i rigori di legge, mentre i favoreggiatori e i conniventi saranno inviati in campi di concentramento».

Quel giorno stesso, 12 gennaio, i giornali diedero, a parte, notizie di Feudo Nobile.
Catturatori e catturati migravano frattanto da una parte all’altra della Sicilia orientale, in preda al nervosismo e alla stanchezza. Forse non trascorsero mai più di una notte nella stessa fattoria; chi li ospitava non trqadiva poiché era in ogni caso persona di collaudata fiducia; e, quand’anche per improvviso ritorno sulla via dell’onestà o per qualsiasi altro evento avesse voluto, non poteva ugualmente farlo poiché chiunque ospitasse un bandito era sempre, da costui, tenuto d’occhio, né poteva allontanarsi finché il ricercato non s’era spostato altrove.
C’era però il pericolo che qualche contadino sconosciuto che a distanza avesse visto muoversi il drappello ne segnalasse la presenza, o semplicemente la direzione presa, ai carabinieri. Di qui la necessità di muoversi senza tregua.
«Degli otto prigionieri» scriveva in Sicilia Giuseppe Gennaro, «da allora ben poco si è saputo. Essi sono stati intravisti una volta, insieme ai quattordici “cavalieri”, dalle parti di Grammichele; ma nuclei subito partiti in rastrellamento da Caltagirone non trovarono alcuno. A noi personalmente risulta che essi sono trattati come prigionieri di guerra; i separatisti dicono anzi, “secondo le convenzioni internazionali di Ginevra”».
Un’altra corrispondenza giornalistica riferiva che, successivamente il gruppo era stato avvistato a ovest di Caltagirone, presso San Cono. Una cavalcata così appariscente non poteva sfuggire, tanto più che l’attenzione delle popolazioni era stata calamitata verso l’inaudito episodio.
Come aveva preannunciato il comunicato del Consiglio dei ministri, il contingente di soldati, carabinieri e polizia era stato rafforzato con colonne massicce di uomini del battaglione misto «Aosta» (carabinieri e fanti) e di reparti del 45° reggimento fanteria della divisione «Sabauda», nonché con carri armati leggeri.
La banda dei Niscemesi era stata localizzata – si disse – in una zona che comprendeva «gli estremi lembi delle provincie di Caltanissetta, Catania e Ragusa: un’ampia zona aspra, impervia, boscosa e di facili nascondigli, difficilissima ai movimenti di grossi reparti regolari». La zona era «circoscritta tra San Mauro, monte Moschitto, Niscemi e i boschi di San Pietro al centro, Feudo Nobile e quinti Acate all’estremo sud».
Mentre quel duro pellegrinaggio proseguiva, i giornali diedero notizia il 17 gennaio, di un episodio di guerriglia. Una colonna di militari pervenuta, da Caltanissetta, nel circondario di Caltagirone, fu assalita, nei boschi di San Pietro, da banditi; un sottotenente rimase ferito.
Anche se i banditi controllavano la campagna; anche se le forze governative non conoscevano né il numero dei fuorilegge né tantomeno quello dei separatisti (e lo consideravano certamente superiore a quello reale); anche se le informazioni erano assai imprecise (per più giorni, inspiegabilmente, si parlò di cinque anziché otto carabinieri); anche se l’iniziativa era tenuta dai ribelli e non dall’esercito; anche se l’offensiva governativa si risolse in un insuccesso; nonostante ciò, il terreno scottava sotto i piedi dei banditi . E la cattura degli otto militari, lungi dal costituire un’intimidazione per le forze regolari e lungi dal giovare alla liberazione di Concetto Gallo, si tramutò quasi subito, per i fuorilegge, in un motivo di impaccio. Che fare di quei prigionieri?
Rizzo e compagni non vedevano l’ora di sbarazzarsene. Comunque era ormai pacifico che non potevano rimandarli liberi: gli otto carabinieri avevano in quei giorni conosciuto, a uno a uno, i complici e i favoreggiatori della banda, coloro cioè che avevano dato loro ricetto e informazioni; e, col loro occhio abituato, una volta liberi sarebbero stati in grado di rintracciarli a uno a uno. E Rizzo voleva evitare fastidi ai favoreggiatori. Ma non certo per scrupolo o per altruismo. Molto più semplicemente, non voleva perdere quei rifugi: ciò che sarebbe sicuramente avvenuto se i titolari fossero stati individuati e arrestati.
Insomma: per la prima volta ebbe paura dell’«arma» di cui s’era impadronito.
I banditi, così, cominciarono a guardare con odio i loro imbarazzanti ostaggi. Secondo qualche voce – che non si elevò mai al rango di testimonianza sicché oggi è impossibile accettarla come verità, – queste torve e impetuose passioni si manifestarono anche con maltrattamenti di vario genere: dai digiuni alle lunche marce, dall’abbigliamento ridotto (non si dimentichi che era inverno) alle batoste.
Si può immaginare lo stato d’animo degli otto uomini e ciò che essi devono aver provato: disperazione, ricordo della famiglia, umiliazione per esser diventati i prigionieri proprio di coloro che essi avevano cercato inutilmente di imprigionare.
E tuttavia, strano a dirsi, non furono i nervi dei catturati a saltare per primi, bensì quelli dei briganti. Rizzo, che era fra tutti l’unica mente raziocinante, si accorgeva d’essersi legato un macigno al collo, troppo rischioso e pesante, del tutto privo – come i fatti avevano dimostrato – di potere contrattuale. Ogni giorno cresceva il passivo di quella convivenza.
Fu per queste ragioni che dovette maturare in lui l’idea di mettere fine a quell’affannosa diaspora ammazzandoli tutti e otto. Se della cattura si sono trovate tante ragioni ma nessuna sufficientemente plausibile, della strage il movente è stato individuato con sicurezza: la paura.

Si è avanzato il sospetto che l’ordine di ucciderli sia stato impartito dal comando separatista, come vendetta per la mancata liberazione di Gallo. Ma, a parte i recisi anzidetti dinieghi sempre venuti da questa fonte, la cosa sembra inverosimile anche per altri motivi:
a) i separatisti – schieramento politico non banda di delinquenti comuni – non avrebbero potuto considerare l’assassinio a freddo come un atto di ritorsione; per civiltà e per più vigile senso morale ripudiavano un gesto simile;
b) i separatisti, ordinando un eccidio come quello, avrebbero avuto tutto da perdere e nulla da guadagnare: indubbiamente i banditi, una volta catturati, avrebbero rivelato da che parte era venuto l’ordine; peraltro nessuno dei banditi superstiti accennò mai al comando dell’EVIS.
c) la generica disposizione del comando EVIS, di «assaltare le caserme dei carabinieri», mirava a risultati di prestigio e di intimidazione, non già a inutili stragi, dal cui peso i separatisti, quando sarebbe venuta l’ora della resa dei conti, non avrebbero potuto liberarsi neanche rifugiandosi sotto la corazza del movente politico (dell’amnistia per reati militari e politici a gennaio, del resto, non si parlava ancora; se ne sarebbe cominciato a parlare, alcuni mesi dopo, a maggio).
La paura che ebbero i banditi – giova ripeterlo – fu dunque alla base di quella condanna a morte collettiva.
Rizzo non comunicò a nessuno in anticipo la gelida e allucinante decisione. Non la comunicò, perlomeno, a nessuno dei separatisti.

Il campo dei banditi e dei guerriglieri era in contrada Rafforosso, sette-otto chilometri a ovest di Caltagirone. I prigionieri erano stati sistemati, tutti insieme, in una stanza. In un’altra avevano preso posto i banditi. I pochi guerriglieri se ne stavano in disparte e non avevano contatti con gli altri: obbedivano al loro compito, che era quello di osservarli direttamente: si limitavano a tener d’occhio la porta di accesso alla loro «prigione» e alla finestra.
La sera del 28 – secondo una testimonianza di Avila junior che nessun altro fu in grado, o ebbe voglia, di confermare – arrivò al campo «un giovane sui vent’anni che indossava un impermeabile chiaro»; non si seppe mai chi fosse: Costui parlò con Rizzo, che in quell’occasione apparve essere quel che effettivamente era, il capo della banda; e lo stesso Avila udì accennare a certe automobili pronte «a portar via i carabinieri». Di queste macchine non si seppe più nulla, e  nulla si seppe del giovane che, dopo il rapido colloquio con Rizzo, si eclissò e mai più fu rivisto. E’ possibile che fosse un emissario del comando separatista; è pssobile che Avila avesse interpretato erroneamente qualche frase udita; in astratto è anche possibile che questa visita sia stata un’invenzione del giovane bandito.
Comunque, fu proprio quella sera che Rizzo decise la morte dei suoi prigionieri.
Due ore prima di mezzanotte quando l’oscurità era scesa da parecchie ore e quando il freddo era intenso, egli diede l’ordine ai suoi uomini di far uscire i carabinieri dalla loro «prigione»; li fece legare assieme a coppie, con le loro stesse manette d’ordinanza.
Così gli otto iniziarono il loro viaggio senza ritorno.
La marcia durò un’ora e mezzo, finché arrivarono nel feudo Rigiurfo_Costanzo, di proprietà della principessa Deliella, precisamente in contrada Bubonia. E’ in territorio di Mazzarino, provincia di Caltanissetta; vi esistono numerose miniere di zolfo.
Il terreno è costellato di «buche d’assaggio». Fu soll’orlo do una di quelle buche che avvenne lo scempio.
«La buca» riferì un inviato speciale «si presentava con un diametro di tre metri e una profondità approssimativa di quindici. Una rudimentale scaletta, scavata nel terreno di roccia argillosa, conduceva al fondo».
L’ì Saporito comunicò che ora sarebbero stati liberati. Non c’era nessun rapporto logico fra il trovarsi dinansi a qulla «buca d’assaggio» e l’imminente liberazione; e ancor meno ce n’era fra queste due circostanze e il successivo ordine che l’ex ergastolano diede agli otto carabinieri di spogliarsi di tutti gl’indumenti che avevano:
«I vostri vestiti ci servono» disse.
Li liberò dalle manette e li fece denudare. Uno, il brigadiere Amenduni, conservò la panciera; altri due la maglietta e le calze bianche della divisa.
Secondo una versione, Rizzo disse:
«La vostra vita non vale la libertà di Concetto Gallo».
Ma è probabile che questa battura sia stata inventata. Il bandito Milazzo riferì più tardi un’altra lapidaria e lugubre frase, anch’essa di Rizzo:
«Inginocchiatevi e raccomandatevi l’anima a Dio».
Anche questo sa di romanzesco, ed è inverosimile che un rozzo brigante abbia pronunciato – nello stato di eccitazione e di malumore in cui si trovava – un’esortazione così melodrammatica.
A questo punto, saino state o no pronunciate tali parole, fu consumata la strage.
Fujrono uccisi a uno a uno, coi mitra e coi moschetti. Ognuno assistette alla fucilazione dei compagni. Il brigadiere si strinse al petto una fotografia dei figli, e con quella fra le dita venne poi ritrovato.
Poi i cadaveri furono rovesciati dentro la miniera abbandonata.
Di quegli otto uomini non si seppe più nulla per quattro mesi.
Ma la loro sorte, anche prima che se ne trovassero i cadaveri, poteva esser facilmente intuita.
La luce – se luce fu – poté esser fatta, quasi per caso, giovedì 23 maggio. All’alba, fu arrestato a Catania «mentre usciva da una casupola del Viale Mario Rapisardi, dove aveva pernottato con la sua amante», uno dei boia della miniera: Milazzo “lavanna di pudditro”. Adranita di nascita, egli s’era spostato, dopo la fine dell’alleanza fra Niscemesi e separatisti (aprile), in provincia di Catania. Era stato segnalato agli uomini dell’ispettorato generale di pubblica sicurezza, e il dott. Ribizzi aveva organizzato l’operazione per la cattura.L’operazione era riuscita.
«Sottoposto al più stringente degli interrogatori» scrisse un cronista «il M ilazzo confessò che gli otto carabinieri erano stati uccisi e dichiarò di aver partecipato lui stesso all’eccidio. Guidò quindi la polizia al rinvenimento della macabra fossa».
I cadaveri vennero alla luce il 25 maggio 1946. Tra i più alti funzionari di polizia che erano presenti quel giorno alla miniera del fondo Rigiurfo-Cotumno si trovavano: il commissario dogg. Giuseppe Ribizzi, comandante dei nuclei mobili dell’ispettorato di p.s. per la Sicilia orientale (poi Questore); il commissario dott. Rosario Il dott. Melfi – che ha rievocato quella storia nel corso di un colloquio accordatoci quando era questore di Roma, nell’ottobre 1968 – si calò nella fossa con un carabiniere. Una prima volta il militare sceso, senza trovare i resti. Era risalito e aveva detto: «Nulla».
Il commissario diede un’occhiata interrogativa al bandito Milazzo, e il bandito annuì con un movimento del capo.
Stavolta scesero in due: il dott. Melfi e il carabiniere. Smossero un po’ di pietre e dellaterra che si erano ammucchiate: alla luce d’una torcia si scoprì qualche traccia di quei corpi.
allora l’esplorazione fu completata da tre carabinieri. Essi si calarono nella buca, ma «non osarono toccare il fondo», poiché rimossa che era stata la terra, ora «un fetore irresistibile ne scaturiva e nient’altro era possibile distinguere che un groviglio informe di terra e cadaveri». Così, si dovette aspettare che arrivassero sul posto i mezzi adeguati a quella esplorazione sotterranea. I commissari Melfi e Saetta sirvegliarono per due giorni il piantonamento della miniera da parte di agenti e carabinieri. L’operazione cominciò alle 10 del mattino del 27 maggio.
In una cronaca del tempo si legge:

Diversi metri cubi di terreno furono estratti assieme ai cadaveri. Questi apparivano come mummificati, ischeletriti: pesavano sui trenta chili ciascuno. Presentavano tutti una larga ferita all’occipite, e numerosi colpi d’arma da fuoco avevano squarciato i loro petti, colpi tirati a distanza ravvicinata. I volti erano sfigurati ma non irriconoscibili. Subito dopo l’estrazione (l’ultimo cadavere fu restituito alla luce alle 14,05), i miseri resti furono composti nelle casse, che erano state subito approntate a Mazzarino. Caricate su un camion, le casse furono trasportate a Mazzarino, dove ricevettero la benedizione. Indi, salutate al passaggio da due fitte ali di popolo commosso e riverente, furono avviate a Caltanissetta, dove furono loro tributate solenni onoranze.

 

 

 

Fonte:  carabinieri.it
Dalla rivista Luglio 2014
Gli eroi di Feudo Nobile
di Giusi Parisi
Nell’anno del Bicentenario è doveroso il ricordo dei tanti eroi dell’Arma ai più sconosciuti che sacrificarono la propria vita per salvarne molte altre. Come gli otto carabinieri che nel 1945, in una Sicilia devastata, caddero vittime del feroce fuorilegge Salvatore Rizzo

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale l’Italia si presentava come un cumulo di rovine fumanti, un coacervo di opposte fazioni che si contendevano i brandelli di un Paese allo stremo. Nonostante il 25 aprile del 1945 avesse suggel­lato l’epilogo dell’immane conflitto, il ritorno alla normalità appariva lontano nella nostra patria, sospesa fra un Regno non più esistente e una non ancora nata ­Repubblica.
A ciò si aggiungeva il fenomeno del banditismo, che imperversava nell’intera penisola, ma assumeva connotazioni allarmanti soprattutto nel Meridione. Famigerata era, in particolare, la crudeltà di gang come quelle capeggiate da Ezio Barbieri e Sandro Bezzi al Nord, dal “Gobbo del Quarticciolo” a Roma, da Giuseppe La Marca nel napoletano, da Salvatore Giuliano in Sicilia.

Nello sfacelo di un Paese allo sbando, gli integerrimi Carabinieri, con la loro carica d’umanità, si ergevano come immagine stessa dello Stato, residuo baluardo a difesa della legalità. Fra i tantissimi episodi eroici dei quali è da sempre costellata la storia della Benemerita – ricordiamo, in quel periodo, i fulgidi esempi di Salvo D’Acquisto e dei Martiri di Fiesole – ci è sembrato giusto sottolineare, nell’anno del Bicentenario dell’Arma, il sacrificio di uomini il cui eroismo è rimasto nell’ombra, poco noto ai più.

L’episodio che vogliamo raccontare ebbe luogo in una Trinacria ridotta alla fame, preda della più totale anarchia. Un terreno fertile per boss del calibro di Salvatore Giuliano e Salvatore Rizzo che, operanti l’uno nel palermitano e l’altro nella zona orientale dell’iso­la, s’infiltrarono, autoproclamandosene “colonnelli”, nell’Evis (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia), a sua volta braccio combattente del Mis (Movimento Indipendentista Siciliano), di cui facevano parte molte persone oneste anche se disperate le quali, attirate dal miraggio di un futuro più splendente nella propria terra divenuta autonoma, credettero in buona fede di agire per il meglio. I padrini, invece, si ammantarono di questi ideali per tramutare i propri picciotti in “guerriglieri”, giustificando in tal modo efferati attacchi diretti in particolare verso le Forze di Polizia, con l’obiettivo eversivo di sostituirsi allo Stato ufficiale, formandone uno alternativo, dominato dalla mafia.
Salvatore Rizzo, dopo aver raccolto il testimone del sanguinario Rosario Avila (freddato per intascarne la taglia) alla testa dei Niscemesi – una consorteria malavitosa che già dal 1943 seminava terrore ed omertà nella provincia di Caltanissetta – il pomeriggio del 9 gennaio 1946 si servì di un escamotage: una fittizia denuncia, sporta nella Stazione dell’Arma di Feudo Nobile, minuscolo centro agricolo perso nella campagna gelese, da un gruppo di contadini, per un pascolo abusivo verificatosi, a loro avviso, in Contrada Giaquinto.

L’indomani, onde effettuare il relativo sopralluogo sia per acquisire ulteriori elementi sia per individuare gli autori del reato, sortirono quindi appiedati, in pattuglia, il Comandante del presidio, brigadiere Vincenzo Amenduni, insieme con Vittorio Levico, Emanuele Greco, Pietro Loria e Mario Boscone, quattro degli otto carabinieri in servizio presso il medesimo distaccamento.
Fu mentre perlustravano i paraggi delle Case Bonvissuto e si accingevano a rientrare nel piccolo avamposto che i militari, scorgendo i coloni che fuggivano spaventati, gridando alla vista di un rilevante stuolo di fuorilegge a cavallo armati di tutto punto, compresero di essere caduti in un’imboscata. Troppo tardi: l’estremo tentativo di resistere, rifugiandosi in una cascina, si rivelò infatti vano perché, a seguito di un’aspra battaglia, furono accerchiati e, una volta esaurite le munizioni, catturati e disarmati dai gregari di Rizzo, i quali, subito dopo, assalirono la caserma di Feudo Nobile, appiccandovi il fuoco e irrompendovi abbat­tendo la porta con una granuola di proiettili e bombe a mano, allo scopo di smantellare completamente l’acquartieramento. Qui trovarono e fecero prigionieri altri tre carabinieri: Mario Spampinato, Fiorentino Bonfiglio e Giovanni La Brocca. Un solo milite, il carabiniere Pasquale Parisi, riuscì a scampare al vile agguato, in quanto si era recato alla Tenenza di Gela per ritirare la posta.

Da quel momento cominciò il calvario degli otto ostaggi: imbavagliati e legati con corde e fil di ferro, furono trascinati da quel manipolo di scellerati (fra cui Avila junior) – a cui si erano uniti pure alcuni separatisti sventolando il vessillo giallo-rosso del loro movimento – in direzione dell’etnea Caltagirone, dato che il recondito hinterland siciliano offriva un sicuro ricetto ai malfattori, eludendo ogni possibilità di controllo territoriale. Furono stenti e sevizie di ogni genere, per i prigionieri, obbligati a spostarsi di masseria in masseria, magari ascoltando impotenti il brusio dei colleghi i quali, a breve distanza, erano impe­gnati a cercarli, raccogliendo tracce significative, come gli alamari, i fregi, le controspalline che i delinquenti avevano loro strappato o le diverse suppellettili frutto del saccheggio della guar­nigione, perse durante il passaggio della lugubre carovana.
Ad un certo punto, un barlume di speranza sembrava si fosse acceso per i carabinieri rapiti: i briganti si dichiararono infatti disposti a rilasciare i militari in cambio della scarcerazione di Concetto Gallo, il leader dell’Evis, da poco assicurato alla giustizia. Non è difficile dunque immaginare l’alternanza di gioia e di paura che albergava nei cuori di quei poveretti, mettendo a dura prova la loro tempra sotto il profilo fisico e morale. Ma, ahimé, le trattative, protrattesi per tre settimane, fallirono ed i sequestrati si resero conto d’avere ormai il destino segnato, senza appello.
La sera del 28 gennaio Rizzo decise quindi di assassinarli tutti, anche perché i rastrellamenti sistematici si erano intensificati ed il cerchio si stava stringendo sempre più, rischiando di tramutarsi in un cappio intorno al suo collo. Il bandito perse la testa: di colpo si rese conto di quanto stesse rischiando a mettersi contro l’Arma dei Carabinieri, cui aveva sottratto quegli uomini. Decise così di sbarazzarsene subito, in quanto rappresentavano un problema troppo oneroso e complesso da gestire.
Due ore prima della mezzanotte, egli incaricò dunque i suoi scagnozzi di far uscire dal reclusorio i segregati, legandoli insieme a coppie utilizzando le loro stesse manette, per intraprendere una marcia di circa un’ora e mezzo, che li condusse al Feudo Rigiulfo, nelle pertinenze della principessa Deliella, in Contrada Bubonia, ricadente nel territorio nisseno di Mazzarino.
Giunti nei pressi di una delle numerose “buche d’assaggio” caratteristiche di quel comprensorio ricco di miniere di zolfo, i prigionieri vennero liberati, denudati e falciati a raffiche di mitra e colpi di moschetto in sequenza, assistendo l’uno alla carneficina dell’altro; il brigadiere spirò stringendo al petto una foto dei figli, con cui venne poi ritrovato. Come ultimo atto di un così macabro rituale, i cadaveri furono gettati nella capiente fossa del diametro di tre metri per una profondità di quindici, orrido sepolcro di quei prodi, di cui per lungo tempo non si seppe più nulla.
Il velo del silenzio e dell’oblio su cotanta barbarie venne squarciato solo quattro mesi dopo, successivamente all’arresto, avvenuto a Catania, di uno degli esecutori materiali dell’eccidio in seguito condannato all’ergastolo, il bandito Giuseppe Milazzo che, sottoposto a stringenti interrogatori, confessò tutto e guidò gli inquirenti sul luogo della strage.

Il rinvenimento dei cadaveri non fu cosa semplice: bisognò calarsi due volte nell’alveo della cava abbandonata, per intravederne qualche residuo, poiché taluni quasi mummificati ed altri in avanzato stato di decomposizione si erano amalgamati con i detriti del suolo argilloso, tanto da rendersi necessario l’impiego dei mezzi appositi per l’esplorazione sotterranea e l’estrazione dei corpi. Un ausilio all’identifica­zione fu quindi fornito da qualche tratto peculiare o dai pochi indumenti intimi che i defunti avevano ancora addosso.
Il primo ad essere esumato dalla fossa, Fiorentino Bonfiglio, oriundo di Cereale, nel savonese, aveva un dente d’argento; il brigadiere Vincenzo Amenduni, di Barletta, era ancora protetto da una maglia di lana e da un cinto erniario; poi Mario Spampinato e Vittorio Levico che, nativi rispettivamente di Misterbianco, nel catanese, e Bolognetta, nel palermitano, che avevano conservato i calzini di cotone bianco; il quinto, Mario Boscone, di San Lorenzo Colli, ulteriore località della capitale sicula, appariva con la mano sinistra ancora sul capo in un inutile gesto di difesa, perpetuatosi in eterno; Emanuele Greco, di Alia, nel distretto di Palermo, venne alla luce con la bustina sul viso, come avesse voluto ripararsi dall’insostenibile abominio di quei momenti agghiaccianti; poi Pietro Loria, proveniente da Roccamena, sempre nell’ambito della Conca d’Oro, dai bei capelli intatti di un castano rimasto brillante, ed infine Giovanni La Brocca, di Gioia del Colle (Bari). Ragazzi stroncati nel fiore dell’esistenza, privati di un futuro sereno e del variegato bagaglio di esperienze che ogni essere umano ha diritto di colleziona­re, nel corso della sua avventura terrena. Le spoglie, ricomposte in casse speciali, furono trasportate su un camion a Mazzarino, dove fu loro impartita la benedizione, per essere poi avviate, fendendo due ali di folla commossa, a Caltanissetta, in cui furono oggetto d’imponenti onoranze funebri.

«Agli otto valorosi di Feudo Nobile», ha asserito il generale B. dei Carabinieri in congedo Michele Di Martino, appassionato dell’excursus storico della Benemerita, «il Comando Generale dell’Arma tributò un Encomio Solenne; a posteriori, il 26 maggio 1996, su input dell’Associazione Nazionale Carabinieri di Bolognetta, fu collocata, presso l’odierna Stazione dell’Arma di Mazzarino, una lapide commemorativa in onore di questi coraggiosi militi. Sei di essi – Boscone, Greco, Loria, Spampinato, Levico e La Brocca – riposano nel Sacrario dedicato ai Carabinieri caduti nell’adempimento del loro dovere, ospitato nel Cimitero dei Rotoli, a Palermo: una stele, sita da­vanti all’ossario, ne reca impressi i nomi».

«Mio zio», ha aggiunto la signora Lucia Galatola, nipote del carabiniere Giovanni La Brocca, «era il più giovane degli eroi di Feudo Nobile, contando al momento del decesso appena vent’anni. Faceva parte di una nutrita prole di undici figli e possedeva, a quanto mi riferiscono i miei congiunti, un carattere solare, positivo, essendosi arruolato con l’intento di garantire un domani più roseo alla sua famiglia; nonostante la verdissima età, aveva già la fidanzata, a riprova della sua precoce maturità. Sono cresciuta nel mito di questa icona di tutore della legalità, ritenendolo un modello da emulare, del quale vado molto orgogliosa. Mi è stato inoltre raccontato il toccante dettaglio secondo cui, quando i suoi resti riemersero dallo scavo, il riconoscimento fu agevolato dai candidi calzini, i quali, realizzati a mano dalla mamma con cura amorevole, indossava ancora. Si optò dunque, al pari degli altri cinque commilitoni, per la tumulazione nel Cimitero palermitano dei Rotoli, dove ogni anno, il 4 novembre, viene deposta una corona di fiori; all’epoca, fra i parenti degli estinti, scarseggiava la disponibilità finanziaria per provvedere ad un’ulteriore soluzione».

«Mi pregio d’aver conosciuto personalmente la signora Rosaria Xerra, vedova di Fiorentino Bonfiglio, spentasi il 14 aprile 2014 ad oltre novanta primavere», ha concluso il luogotenente Domenico Resciniti, Comandante della Stazione Carabinieri di Gela. «A lei ho cercato di far costantemente sentire la vicinanza della grande famiglia della Benemerita, sia con visite di cortesia sia prodigandomi per accompagnarla alle periodiche celebrazioni svoltesi in occasione della ricorrenza del 26 maggio. La signora, che risiedeva a Gela, la cui municipalità ha approntato una targa nella locale Villa Garibaldi a perenne memoria dei Carabinieri massacrati di Feudo Nobile, nel 2002 aveva donato al Museo Storico dell’Arma, a Roma, cimeli e documenti del marito, il quale è inumato nel camposanto della città della consorte, e pagine inerenti alle traversie di quegli ardimentosi decimati. Recentemente, poi, ho condotto la signora Lucia Galatola, ch’era venuta nella Stazione da me diretta, a visitare le vestigia della caserma di Feudo Nobile, tuttora esistente, che i proprietari del terre­no su cui sorge hanno adibito alla fruizione del pubblico. La signora Galatola ci teneva particolarmente, ed ha affermato che voleva portar via con sé un piccolo sasso di quel posto, come ricordo».

 

 

 

Fonte: ruvolive.it
Articolo del 18 ottobre 2016
di Elena Albanese

Medaglia d’oro ″Alla memoria″ al brigadiere Vincenzo Amenduni

A capo della stazione dei Carabinieri di Feudo Nobile, in Sicilia, fu trucidato insieme ad altri sette colleghi dai Niscemesi del feroce fuorilegge Salvatore Rizzo

E’ l’inizio del 1946. Il 25 aprile dell’anno precedente, solo alcuni mesi prima, l’Italia è stata liberata dall’occupazione nazifascista. La guerra è finita, ma la nostra penisola ne è uscita devastata. La Sicilia, come buona parte del meridione, è ostaggio – fra le altre cose – del banditismo. Nella zona orientale dell’isola imperversano i Niscemesi capitanati da Salvatore Rizzo, fuorilegge senza scrupoli ed eversivi nei confronti dello Stato ufficiale.

Ed è proprio in questo contesto, nella provincia di Caltanissetta dell’immediato dopoguerra, che vive e opera Vincenzo Amenduni. Nato a Ruvo nel marzo del 1906, dopo aver conseguito la maturità classica, svolge il servizio militare nei Carabinieri. Nel 1932 sposa Maria Masi, da cui ha tre figli. Dal 1940, con il grado di brigadiere, dirige la caserma di Feudo Nobile, nei pressi di Gela.
Il 9 gennaio riceve da un gruppo di contadini una denuncia – poi rivelatasi tragicamente fittizia – per un pascolo abusivo. La mattina dopo si reca dunque sul posto indicato, in contrada Giaquinto, insieme a quattro colleghi della stazione. Mentre perlustrano la zona, l’arrivo di un gruppo di briganti a cavallo fa loro capire di essere caduti in un’imboscata. Tentano di resistere rifugiandosi in una cascina, ma una volta finite le munizioni vengono catturati dai gregari di Rizzo che, poco dopo, si recano nella caserma dandole fuoco e sequestrando anche gli altri tre militari rimasti all’interno.

Gli otto ostaggi, imbavagliati e legati, vengono costretti a un viaggio nelle campagne siciliane in compagnia dei loro aguzzini in fuga dalle Forze dell’ordine, che nel frattempo hanno cominciato le ricerche. Quasi 20 giorni di stenti e sevizie – durante i quali si tenta anche una trattativa per il rilascio, poi fallita – culminati nella drammatica esecuzione del 28 gennaio, quando Rizzo, sentendosi ormai braccato, ordina di farli uccidere tutti.

Vengono assassinati a colpi di mitra e di moschetto, assistendo ognuno alla morte degli altri prima di lui, e gettati in una fossa profonda quindici metri nell’agro di Mazzarino, dove vengono ritrovati solo quattro mesi dopo, il 25 maggio, a seguito dell’arresto di uno degli esecutori materiali che, messo alle strette, confessa e guida gli inquirenti sul luogo della strage. E’ difficile riconoscere i corpi in avanzato stato di decomposizione, quasi mummificati. Vincenzo Amenduni indossa ancora una maglia di lana e un cinto erniario e stringe a sè la foto dei figli Amelia, Michele ed Elvira.

L’arma dei Carabinieri e la Sicilia non hanno mai dimenticato il sacrificio di questi eroi, tributando loro encomi, rinnovandone ogni anno il ricordo, intitolando piazze e incidendo lapidi commemorative.

Ora per il 39enne brigadiere ruvese arriva anche la Medaglia d’oro al valore “Alla memoria”, decretata lo scorso 5 aprile dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella su proposta del Ministro della Difesa Roberta Pinotti.

«Con ferma determinazione, esemplare iniziativa ed eccezionale coraggio, nel corso di un servizio perlustrativo, unitamente ad altri militari, non esitava ad affrontare un soverchiante numero di fuorilegge, appartenenti a pericolosa banda armata – si legge nella motivazione -. Fatto segno a proditoria azione di fuoco, replicava con l’arma in dotazione, dopo aver trovato rifugio all’interno di un fienile, resistendo strenuamente sino al termine delle munizioni, allorchè veniva catturato. Costretto a marcia forzata nell’agro nisseno per 18 giorni, sottoposto ad atroci sofferenze fisiche, ininterrotto digiuno e vessazioni, veniva, infine, barbaramente trucidato. Chiaro esempio di elette virtù militari e altissimo senso del dovere».

 

 

Leggere anche:

accentonews.it
Articolo del 10 luglio 2019
Testimone della strage di Feudo Nobile, Giuseppe ricorda gli amici carabinieri uccisi dai banditi
Di Filippa Antinoro

Sono rimasti impressi nel suo cuore i volti di quegli amici uccisi barbaramente nel gennaio del 1946 in quella che è stata definita la Strage di Feudo Nobile. Sebbene siano trascorsi 73 anni Giuseppe Cristallo, 93 anni, ricorda benissimo quella terribile esperienza in cui si è trovato coinvolto.
Giuseppe aveva appena 18 anni, ma già lavorava come campiere nel fondo agricolo adiacente alla caserma dei Carabinieri sita proprio a Feudo Nobile, territorio di Gela.
[…]

 

 

antimafiaduemila.com
Articolo del 28 gennaio 2020
La Strage di Feudo Nobile: otto carabinieri lasciati a morire
di Luca Grossi
28 gennaio 1946. In quella data Vincenzo Amenduni, Fiorentino Bonfiglio, Mario Boscone, Emanuele Greco, Giovanni La Brocca, Vittorio Levico, Pietro Loria e Mario Spampinato, venivano barbaramente uccisi dai banditi di Salvatore Rizzo in quella che venne ribattezzata come la Strage di Feudo Nobile.

 

 

 

 

 

 

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