29 Luglio 1983 Palermo. Strage di Via Pipitone Federico. Persero la vita il magistrato Rocco Chinnici, i Carabinieri della scorta Maresciallo Mario Trapassi e l’ Appuntato Salvatore Bartolotta, ed il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi.
Rocco Chinnici, capo dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo, è stato ucciso il 29 luglio 1983 con una Fiat 127 imbottita di esplosivo davanti alla sua abitazione in via Pipitone Federico a Palermo, all’età di cinquantotto anni. Ad azionare il detonatore che provocò l’esplosione fu il killer mafioso Pino Greco. Accanto al suo corpo giacevano altre tre vittime raggiunte in pieno dall’esplosione: il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta, componenti della scorta del magistrato, e il portiere dello stabile di via Pipitone Federico, Stefano Li Sacchi.
In Assise il giudice Antonino Saetta si contraddistinse per le dure pene inflitte ai killer; fu anche lui ucciso, insieme al figlio Stefano, in un tragico attentato il 25 settembre 1988 a Caltanissetta.
Fonte: ecorav.it
Strage di via Pipitone Federico
Una città mollemente abbandonata nel caldo afoso dell’estate, si sveglia di soprassalto, scossa da un boato fragoroso. Sono passati pochi secondi dall’esplosione e via Pipitone Federico, la mattina del 29 luglio 1983, sembra la periferia di una città appena bombardata: una cinquecento imbottita di tritolo ha appena stroncato la vita e il coraggioso lavoro del Consigliere istruttore Rocco Chinnici, mentre stava per entrare in macchina con la scorta. Un massacro di uomini, un agglomerato di macerie, e poi calcinacci un pò dovunque, lamiere contorte, vetri infranti, briciole di muri sopra i lenzuoli che coprono i cadaveri; tutt’intorno, come spettri, gli investigatori e i magistrati, smarriti e increduli.
Chinnici era un magistrato con le idee chiare: a capo dell’Ufficio istruzione. dopo la morte dell’amico Gaetano Costa, non si fidava ormai di nessuno, ma aveva deciso di andare fino in fondo e di colpire duro laddove più alti e più forti erano gli interessi di Cosa Nostra.
“La Regione Siciliana? Il sessanta, settanta per cento dei fondi erogati alle aziende agricole finisce nelle mani di famiglie direttamente o indirettamente legate alla mafia”, aveva detto; e ancora: “Oggi non c’è opera pubblica in Sicilia che non costi quattro o cinque volte quello che era stato il costo preventivato, non già per la lievitazione dei prezzi ma perché così vuole l’impresa mafiosa, impresa alla quale spesso è interessato anche un colletto bianco”.
Parole come pietre, soprattutto se a pronunciarle un magistrato che lavora e indaga sui mille misteri di una città come Palermo. Ma tant’è: Chinnici era fatto così, insofferente ad ogni tentativo di condizionamento e di intralcio al suo lavoro. Anche quando per difendere la propria indipendenza ed autonomia, era stato costretto a scontrarsi direttamente con il braccio destro di Andreotti in Sicilia, Salvo Lima. Era accaduto in occasione delle indagini che avevano portato all’arresto di alcuni noti personaggi dell’entourage politico-imprenditoriale della corrente andreottiana in Sicilia. “Ricordo – ha raccontato il dr Paolo Borsellino – che una volta il Chinnici dopo che erano stati arrestati il Costanzo e il Di Fresco, su mandato di cattura, quest’ultimo, del collega Barrile, disse di avere avuto un colloquio con l’on. Lima sollecitato dal sen. Coco, in casa di quest’ultimo, nel corso del quale il Lima gli aveva fatto presente che questa iniziativa giudiziaria veniva considerata come una forma di persecuzione per la Democrazia Cristiana; al che egli Chinnici, aveva risposto che l’ufficio si interessava dei fatti specifici contestati a determinate persone, sempre che potesse avere rilevanza di appartenenza politica.”
Chinnici, tra l’altro, ha deciso di sciogliere l’enigma degli omicidi Mattarella e La Torre: fa sequestrare migliaia di documenti al Comune, continua le indagini che stava conducendo il collega Costa. A un certo punto vola a Roma sotto falso nome, va al CSM e denuncia: “Ci sono indagini che non si voleva si facessero”.
Il magistrato non nasconde di sentirsi isolato nella conduzione di queste indagini “scomode”; anche l’ufficiale della Guardia di Finanza che stava lavorando a questo filone d’inchiesta è stato trasferito. Passa qualche settimana, ma Chinnici, testardo, è ancora li che indaga, che mette insieme tassello su tassello per costruire un grande affresco di mafia e grandi complicità nella politica e nell’alta finanza, spingendo il piede sull’acceleratore delle indagini.
Chinnici, ad esempio, aveva confidato ancora al collega Paolo Borsellino di essere “convinto che ai fatti di mafia, almeno ad un livello alto, fossero coinvolti anche gli esattori SALVO. Ciò desumeva – spiegò successivamente BORSELLINO – da una telefonata fra taluno dei Salvo e il mafioso Buscetta risultante da una intercettazione contenuta nel processo Spatola, se non erro; telefonata che è stata pubblicata integralmente dalla stampa ove interlocutori sono certo “Roberto”, in cui si ritiene di identificare, il Buscetta, e tale Lo Presti parente dei Salvo, un anno fà scomparso senza che se ne abbia notizia. Non so poi da quali altri elementi, che ritengo ci fossero dal modo come il Chinnici parlava, egli desumesse la partecipazione di costoro. Contemporaneamente lamentava, ed era amareggiato per questo fatto che finiva con l’intralciare il rapido ed efficace svolgimento di attività, che nei confronti di costoro si agisse con “i guanti gialli” da parte di tutti, ed anzi aggiunse, nei loro confronti una volta, che se gli stessi elementi li avessero avuti nei confronti di altri certamente si sarebbe proceduto.”
Ma anche i Salvo sapevano di queste indagini, e non erano certo rimasti ad aspettare: per Rocco Chinnici già qualcuno aveva pronto il benservito, con un centinaio di chili di tritolo.
Il Consigliere istruttore riesce appena in tempo a visitare la vedova di Pio La Torre per dirle: “Adesso il caso La Torre chiaro. Dica alla sua amica Irma Mattarella che presto la manderò a chiamare, perché queste novità riguardano anche lei…”
Appena in tempo, prima che i giovani ed esperti artificieri di Cosa Nostra portino a termine la loro missione di morte.
Fonte: it.wikipedia.org
Rocco Chinnici, magistrato assassinato dalla mafia
Dopo la maturità conseguita nel 1943 presso il Liceo Classico “Umberto” a Palermo, si è iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza di Palermo, si è laureato il 10 luglio 1947.
È entrato in Magistratura nel 1952 con destinazione al Tribunale di Trapani. Poi è stato pretore a Partanna per dodici anni, dal 1954. Nel maggio del 1966 è stato trasferito a Palermo, presso l’Ufficio Istruzione del Tribunale, come giudice istruttore.
Nel novembre 1979, già magistrato di Cassazione, è stato promosso Consigliere Istruttore presso il Tribunale di Palermo.
«Un mio orgoglio particolare» – ha rivelato Chinnici – «è una dichiarazione degli americani secondo cui l’Ufficio Istruzione di Palermo è un centro pilota della lotta antimafia, un esempio per le altre Magistrature d’Italia. I Magistrati dell’Ufficio Istruzione sono un gruppo compatto, attivo e battagliero». Il primo grande processo alla mafia, il cosiddetto maxi processo di Palermo, è il risultato del lavoro istruttorio svolto da Chinnici, tra l’altro considerato il padre del Pool antimafia, che compose chiamando accanto a sé magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello.
Chinnici partecipò, quale relatore, a molti congressi e convegni giuridici e socio-culturali e credeva nel coinvolgimento dei giovani nella lotta contro la mafia. È stato il primo magistrato a recarsi nelle scuole per parlare agli studenti della mafia e dei pericoli della droga.
«Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi» – diceva – «fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai».
In una delle sue ultime interviste, Chinnici ha detto:
«La cosa peggiore che possa accadere è essere ucciso. Io non ho paura della morte e, anche se cammino con la scorta, so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un Magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare».
Rocco Chinnici è stato ucciso il 29 luglio 1983 con una Fiat 127 imbottita di esplosivo davanti alla sua abitazione in via Pipitone Federico a Palermo, all’età di cinquantotto anni. Ad azionare il detonatore che provocò l’esplosione fu il killer mafioso Pino Greco. Accanto al suo corpo giacevano altre tre vittime raggiunte in pieno dall’esplosione: il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta, componenti della scorta del magistrato, e il portiere dello stabile di via Pipitone Federico Stefano Li Sacchi.
Telefono giallo – Rocco Chinnici, una strage annunciata
Puntata del 12 febbraio 1991
La morte del giudice Rocco Chinnici, duro attacco della mafia alle istituzioni, è al centro di questa puntata: all’epoca della messa in onda, a otto anni dall’omicidio, i processi avevano avuto come esito soltanto sei assoluzioni. Chinnici era stato ucciso il 29 luglio 1983 con una Fiat 126 imbottita con 75 kg di esplosivo, davanti alla sua abitazione a Palermo; ad azionare il detonatore, il sicario della mafia Antonino Madonia. Nell’attentato morirono anche il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi. In seguito i mandanti della strage vennero individuati nei cugini Nino e Ignazio Salvo, e l’iter giudiziario si concluse con dodici condanne all’ergastolo e quattro condanne a 18 anni per alcuni fra i più importanti affiliati a Cosa nostra. Ospite di Augias Giovanni Falcone, che ricorda il giudice Chinnici e spiega con parole semplici il senso della sua missione di magistrato nella lotta alla mafia.
Scheda da: liminaedizioni.it
Rocco Chinnici
L’inventore del “pool” antimafia
Autore : Leone Zingales
Edizione : LIMINA
Nel secondo volume dedicato ai protagonisti della lotta alla mafia il giornalista Leone Zingales racconta la storia del giudice Rocco Chinnici. Dopo il successo del libro su Paolo Borsellino il giornalista Leone Zingales, cronista a Palermo, torna in libreria con un nuovo volume che celebra il sacrificio di un magistrato ucciso dalla mafia con un’autobomba: Rocco Chinnici. Il Consigliere istruttore del Tribunale di Palermo fu ucciso la mattina del 29 luglio 1983 in via Pipitone Federico a Palermo. Una Fiat 126 imbottita di tritolo salt in aria mentre il magistrato si accingeva a salire sulla sua auto blindata. Assieme a Chinnici morirono i carabinieri di scorta, Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, e il portiere dello stabile in cui abitava il magistrato, Stefano Li Sacchi. Per la prima volta, i figli, Caterina, Elvira e Giovanni, raccontano la figura del padre sia dal punto di vista privato che professionale. Si parla di mafia, di speranza ma anche di omertà. Il volume arricchito da discorsi tenuti da Chinnici in dibattiti e conferenze, documenti autografi di Chinnici magistrato e stralci delle motivazioni delle sentenze processuali, oltre all’omelia pronunciata a Palermo dal cardinale Pappalardo il giorno dei suoi funerali. Significativa, infine, la lunga testimonianza resa dall’autista di Chinnici, Giovanni Paparcuri, che rimase gravemente ferito nell’attentato e qui racconta molte verit e tante amarezze circa il suo dopo attentato. Completa il volume una raccolta di foto dall’album di famiglia.
Appuntato dei Carabinieri SALVATORE BARTOLOTTA
Medaglia d’oro al valor Civile alla Memoria, con la seguente motivazione:
Preposto al servizio di tutela a magistrato tenacemente impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata, assolveva il proprio compito con alto senso del dovere e serena dedizione pur consapevole dei rischi personali connessi con la recrudescenza degli attentati contro rappresentanti dell’ordine giudiziario e delle Forze di Polizia. Barbaramente trucidato in un proditorio agguato, tesogli con efferata ferocia, sacrificava la vita a difesa dello Stato e delle istituzioni
Maresciallo dei Carabinieri MARIO TRAPASSI
Medaglia d’oro al valor Civile alla Memoria, con la seguente motivazione:
“Capo del servizio di scorta a magistrato tenacemente impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata, assolveva il proprio compito con alto senso del dovere e serena dedizione pur consapevole dei rischi personali connessi con la recrudescenza degli attentati contro rappresentanti dell’ordine giudiziario e delle Forze di Polizia. Barbaramente trucidato in un proditorio agguato, tesogli con efferata ferocia, sacrificava la vita a difesa dello Stato e delle istituzioni”.
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Il portiere dello stabile
di Via Pipitone Sig. STEFANO LI SACCHI
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Umberto Santino Ricorda Rocco Chinnici
Telejato – Pubblicato il 2 ago 2008
Umberto Santino del Centro Siciliano di documentazione Peppino Impastato ricorda Rocco Chinnici ucciso dalla mafia il 29 luglio 1983
Chinnici, l’intervista ritrovata
http://tv.repubblica.it/copertina/chinnici-l-intervista-ritrovata/73506?video
Nel marzo 1983, quattro mesi prima di essere ucciso, il consigliere istruttore di Palermo Rocco Chinnici rilascia un’intervista al giornale degli universitari della Fgci, Mobydick. A porgli le domande, sulla nuova legge riguardante la confisca dei beni ai mafiosi, è una giovane studentessa, Franca Imbergamo, oggi sostituto procuratore generale a Caltanissetta.Dopo 28 anni, quella cassetta è riemersa da una scatola, fra i ricordi di università. Ecco un brano dell’intervista a Chinnici, che parla della solitudine del giudice e della necessità di un impegno della società civile nella lotta alla mafia
Mafia, ucciso Rocco Chinnici
- Andato in onda:29/07/1983
A Palermo viene ucciso il giudice Rocco Chinnici, capo dell’ufficio istruzione del tribunale, insieme al portiere del palazzo e due uomini della scorta: Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta
Editoriale da L’Unità del 30 Luglio 1983
Mafia, Stato e questione morale
di Emanuele Macaluso
L’ultima volta che ho incontrato Rocco Chinnici è stato il 19 maggio scorso. Era venuto al Senato per interrogare Pecchioli e me nel quadro dell’inchiesta sull’assassinio di La Torre. Dopo l’interrogatorio discutemmo a lungo ed egli disegnò un panorama della situazione palermitana in cui si colloca la strage attuata ieri con implacabile freddezza e tecniche «moderne». Parleremo di questo. Prima vorrei ricordare l’uomo straordinario che fu Rocco Chinnici. L’avevo conosciuto anni fa nella casa di Cesare Terranova al quale era legato da grande amicizia ed affetto e dal quale poi aveva ereditato l’Ufficio istruzione di Palermo.
Chinnici era un uomo semplice e schietto; il suo viso ricordava la Sicilia contadina, pulita; i suoi occhi esprimevano bontà grande, intelligenza e fermezza. Come Cesare Terranova, del fenomeno mafioso sapeva cogliere sempre e solo l’essenziale, senza vagare tra le nuvole di teorie astratte, improbabili e romanzesche o nello scetticismo interessato e mistificatorio.
Terranova e Chinnici avevano lavorato per anni insieme ed entrambi avevano una comune visione dello Stato, dei problemi della Sicilia, della mafia e dei poteri politici ad essa collegati. In seguito, Chinnici aveva loravorato per anni con Gaetano Costa, altro magistrato forte, retto e colto col quale aveva una comune visione delle vicende siciliane e nazionali, del modo d’essere giudice e di sentirsi cittadino di questa Repubblica.
Cominciamo, per cercare di capire, proprio da questa triade di uomini forti assassinati.
Terranova fu ammazzato nel momento in cui, rientrando nei ranghi della magistratura dopo una proficua esperienza parlamentare, doveva assumere la responsabilità di direzione dell’Ufficio istruzione. Ma un Costa capo della Procura ed un Terranova capo di quell’alto ufficio per certi signori rappresentavano davvero il colmo. Così quel minaccioso binomio venne spezzato ancor prima di nascere, con l’assassinio di Terranova. Ma a rimpiazzarlo fu chiamato, appunto, Rocco Chinnici. non un uomo di paglia. A quel punto per impedire che si saldasse l’anello della Giustizia venne assassinato Costa, e le cose non si fermarono lì.
Chinnici in una recente intervista al nostro giornale dichiarava: «Diremo — con sentenze istruttorie — perché sono stati uccisi La Torre, Dalla Chiesa e Mattarella». Ecco, dunque, arrivare puntuale la sentenza di morte eseguita in modo tale da far sapere che nessun ostacolo potrà arrestare la mano omicida del terrorismo politico-mafioso. Per ammazzare un uomo hanno fatto una strage. Nella carneficina avebbero potuto coinvolgere non quattro ma anche quaranta persone. Il terrorismo mafioso ha fatto così un nuovo salto di qualità. C’era da aspettarselo. Gli interessi in giuoco sono enormi.
La storia di questi tre magistrati fornisce una chiave di lettura per comprendere il carattere dei delitti palermitani. l Palazzo di Giustizia è stato decapitato, se altri si fanno avanti devono sapere sin d’ora la sorte che li attende.
La stessa ispirazione ha guidato la mano che ha assassinato La Torre, Mattarella, Dalla Chiesa. Non si tratta di «vendette» collegabili ad un fatto giudiziario o amministrativo, ad una inchiesta o ad una iniziativa legislativa. No. Viene assassinato chi in modo efficace mette in discussione l’esercizio di un potere reale che si esercita in tutti i gangli della vita della città e dello Stato. Di fatto il terrorismo politico-mafioso esercita oggi il dominio su una parte della società ottenendo con tutti i mezzi consenso od obbedienza.
Più volte abbiamo detto che occorre dare una spiegazione delle ragioni per cui si è venuti a capo del terrorismo «rosso» e non di quello nero e meno che mai del terrorismo politico-mafioso. Se non si guarda al retroterra economico, sociale, politico e culturale di questi fenomeni si finisce per non capirne nulla. l terrorismo mafioso non può essere sconfitto con una retata o con dei «pentiti». È indispensabile una adeguata organizzazione repressiva (che al momento non esiste) ed occorre che lo Stato abbia un volto nuovo, il volto di uno Stato forte e giusto, capace di ottenere reali consensi. Molti voti che oggi i partiti di governo riscuotono nelle zone dominate dal potere mafioso vengono da strati che vogliono che le cose non cambino o da tanta gente convinta che nulla può cambiare e che tanto vale acconciarsi, rassegnarsi, convivere con la mafia ed il malgoverno. Questa è una verità amara ma è la verità. Le chiacchiere, le deprecazioni, le proclamazioni d’intenti, i riti funebri sono ormai controproducenti. I telegrammi e i discorsi d’occasione possono essere scritti già oggi per i morti che verranno. Questi gesti sono destinati semmai ad allargare la fascia dello scetticismo. La credibilità dei governi è zero. E, del resto, quale credibilità può avere un ceto politico di governo che ha archiviato la vicenda Cirillo, impone ai funzionari l’omertà, usa il potere come strumento privato? La questione morale, il risanamento dello Stato, l’adozione di nuovi metodi di governo sono la sostanza vera della lotta al terrorismo politico-mafioso.
E cosa può fare di diverso il nuovo governo? Intanto c’è da dire che nelle bozze programmatiche il terrorismo politico-mafioso è ignorato. Sì, ignorato. Eppure in Sicilia sono stati assassinati il capo del governo (Mattarella) ed il capo dell’opposizione (La Torre), il capo della polizia (Dalla Chiesa) ed i capi del potere giudiziario, e con loro tanti altri innocenti. Chi può aprire gli armadi dove sono custoditi tanti scheletri? Certo non potrà farlo chi ha avuto le chiavi sino ad oggi. Sta qui il punto nodale di una vicenda che non è siciliana o napoletana ma coinvolge ed investe tutta la nazione.
Articolo da La Repubblica del 20 Novembre 1986
STRAGE CHINNICI, RITORNA IN AULA MICHELE GRECO, ‘PAPA’ DELLA MAFIA
CATANIA (f.c.) Il papa ci sarà. Accusato al grande Processo a Cosa Nostra di 72 omicidi, ritenuto il capo della Commissione della mafia, ma praticamente ancora incensurato, Michele Greco ha fatto sapere da tempo alla corte d’ Assise di Palermo che i
ntende rinunciare alla presenza nell’ aula-bunker dell’ Ucciardone fino a che non si sarà concluso il dibattimento che prende il via oggi alle Assise d’ appello di Catania per la strage Chinnici (29 luglio 1983, quattro morti, diciannove feriti). Una strage che è stata già esaminata in tutti e tre i gradi di giudizio previsti dal codice e che per Michele Greco, ma non solo per lui, ha avuto esiti contrastanti: ergastolo in primo e secondo grado, quando era latitante, annullamento della condanna da parte della Cassazione nel giugno scorso, quando il papa era in carcere da poco più di tre mesi. La Cassazione ha azzerato il processo e lo ha fatto avvertendo che la credibilità di confidenti come il libanese Bou Chebel Ghassan e di pentiti della mafia come Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno, Vincenzo Sinagra e Stefano Calzetta va valutata con la massim
a attenzione. Le parole dei collaboratori della giustizia ha sentenziato la corte suprema, provocando polemiche a non finire sfociate anche in interrogazioni parlamentari non hanno alcun valore se non sono suffragate dai famosi riscontri obiettivi. Michele Greco è uno dei principali imputati del maxiprocesso di Palermo, i pentiti ne sono il supporto pressoché indispensabile. Che cosa succederebbe del processo di Palermo se la corte d’ Assise d’ appello di Catania assolvesse il papa? Per capire l’ importanza del processo che si aprirà questa mattina qui a Catania è bene ripercorrerne le tappe.
L’ ISTRUTTORIA Viene affidata alla magistratura di Caltanissetta perché così vuole la legge quando, come vittima o come imputato, c’ è di mezzo un magistrato. Il procuratore della Repubblica Sebastiano Patanè vuole assolutamente concluderla in 40 giorni senza formalizzarla, cioè senza passare gli atti al giudice istruttore. Lavora senza soste. E, alla scadenza del termine fissato, affida alla corte d’ Assise il compito di processare sei imputati, tre latitanti (Michele Greco il papa, il fratello Salvatore il senatore, il cugino, anch’ egli di nome Salvatore, detto l’ ingegnere) e tre detenuti (Vincenzo Rabito, Pietro Scarpisi e lo stesso Ghassan), lasciandosi aperto uno spiraglio che gli consenta di proseguire le indagini con più calma per arrivare a smascherare altri responsabili del complotto, senza trascurare le inquietanti indicazioni contenute nel diario lasciato dal magistrato assassinato.
IL PRIMO PROCESSO Si apre a Caltanissetta il 5 dicembre 1983, ad appena quattro mesi dalla strage. Va avanti per 113 udienze. Vengono ascoltati i nastri delle registrazioni delle telefonate di Ghassan con gli imputati e con i funzionari della polizia con i quali collaborava, vengono interrogati più di cento testimoni, tra i quali magistrati palermitani e commissari di polizia. Esplode la polemica: da un lato, tra il procuratore Patanè e il presidente della corte Antonino Meli, che lamenta l’ invadenza del collega; dall’ altro, tra il commissario Ninni Cassarà (che verrà assassinato dalla mafia due anni dopo), il quale afferma che Chinnici stava per accusare di associazione mafiosa i cugini Nino e Ignazio Salvo, e i colleghi del magistrato ucciso, che smentiscono il funzionario. Il 29 giugno ‘ 84, il Pm Renato Di Natale chiede 5 ergastoli e l’ assoluzione di Ghassan per non aver commesso il fatto. Il 23 luglio, la sentenza: ergastolo per i fratelli Michele e Salvatore Greco, ritenuti mandanti della strage, 15 anni per i loro presunti gregari Rabito e Scarpisi, condannati per associazione mafiosa e assolti dal concorso in strage, assoluzione con formula piena per Salvatore Totò Greco, scomparso dalla circolazione da 23 anni, e per il libanese.
IL PROCESSO D’ APPELLO Comincia il 28 aprile ‘ 85. Sempre latitanti i Greco, la novità è rappresentata dai pentiti. Sfilano sul pretorio gli stessi personaggi che vedremo un anno dopo a Palermo: Stefano Calzetta dice di avere battuto la testa e di non ricordare niente; Angelo Epaminonda afferma di non aver mai conosciuto i Greco, ma di avere saputo che erano collegati con il boss catanese Nitto Santapaola. Totuccio Contorno, invece, preferisce scrivere alla corte: Confermo tutto, ma non vengo in aula perché mi esporrei troppo alla vendetta di quanti hanno interesse a farmi tacere per sempre. La testimonianza accusatoria di don Masino Buscetta viene allegata agli atti. Il Pm Pietro Sirena chiede 5 ergastoli e 3 anni per Ghassan per associazione mafiosa. Il 14 giugno, la sentenza: ancora ergastolo ai fratelli Greco, ancora assolti Totò Greco e Ghassan, 22 anni per concorso in strage a Scarpisi e Rabito, assolti stavolta dall’ associazione mafiosa. Fu strage comune dicono però i giudici cioè non voluta a fini terroristici.
LA CASSAZIONE Michele Greco viene arrestato il 20 febbraio scorso, a 10 giorni dall’ inizio del maxiprocesso di Palermo. Il 3 giugno, la Cassazione azzera il caso Chinnici, cancellando tutte le condanne e disponendo un nuovo processo da celebrare a Catania. LA MOTIVAZIONE E’ di 116 fogli protocollo, parla di vizi logici e giuridici contenuti nella sentenza d’ appello. Dice che la motivazione della condanna è apparente, cioè basata su affermazioni apodittiche. Il nodo è rappresentato dall’ uso dei confidenti e dei pentiti. Ai primi, cioè a Ghassan, sarebbe stato dato eccessivo credito, nonostante le contraddizioni delle due dichiarazioni; quanto ai secondi, Buscetta, Contorno e Sinagra, i giudici d’ appello avrebbero dovuto ascoltarli di persona invece di accontentarsi di acquisire agli atti i loro interrogatori. E infine: per assurgere al rango di prova, la chiamata di correo deve essere suffragata da riscontri obiettivi ad essa estrinseci.
Articolo da La Repubblica del 22 Novembre 1986
MICHELE GRECO: ‘ROCCO CHINNICI? UN GIUDICE SEMPRE GENTILE CON ME’
di Franco Coppola
CATANIA Nessuno la vuole ingoiare questa cosa! E’ un boccone che nessuno vuole digerire! Io non sono di Ciaculli, sono di Croceverde Giardini!. A una domanda di un cronista, Michele Greco il papa perde la flemma che sembrava un suo connotato specifico e sbotta: La verità è che sono un perseguitato. La mia forza è la pace interiore. Se uno non ce l’ ha, nessuno te la può dare, non si compera in un negozio. L’ imputato numero uno del maxiprocesso a Cosa Nostra e, ora, della strage in cui trovarono la morte il giudice Rocco Chinnici e altre tre persone parla davanti a microfoni e taccuini. Dopo lunghe trattative, il presidente Grassi concede che, in una pausa della seconda udienza, i giornalisti possano avvicinarsi alla gabbia con vetri antiproiettile dove il papa avvolto in un cappottone di cammello fuma tranquillamente il suo mezzo toscano. Il processo è ancora impantanato nelle secche delle battaglia procedurale che divide da un lato l’ accusa, pubblica e privata, dall’ altra la difesa a proposito della riapertura o meno del dibattimento. L’ accusa vuole in aula i grandi pentiti della mafia, Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno e Vincenzo Sinagra, nella certezza che le loro parole possano essere determinanti per provare la responsabilità nell’ eccidio di via Pipitone Federico dei fratelli Greco e dei due imputati minori Vincenzo Rabito e Pietro Scarpisi; la difesa, invece, insiste perché si presenti davanti alla Corte d’ assise d’ appello investita del caso dalla Cassazione, che ha annullato gli ergastoli inflitti a Caltanissetta ai fratelli Michele e Salvatore Greco e i 22 anni di carcere comminati agli altri due imputati il libanese Bou Chebel Ghassan, il confidente della polizia che preannunciò la strage al capo della Criminalpol di Palermo Antonino De Luca. Il dibattimento riprenderà martedì e la Corte prenderà le sue decisioni in settimana. Gira voce che Ghassan avrebbe scritto agli avvocati del papa una lettera in cui chiede scusa di tutto e rivela di essersi inventato le accuse contro Michele Greco. Non si spiegherebbe però perché, solo un mese fa, il libanese ha scritto un’ altra lettera al magistrato che condusse l’ inchiesta sulla strage, Sebastiano Patanè, dicendo di confermare tutte le accuse e chiedendo di essere convocato perché ha ancora qualcosa da dire. Gli avvocati Giuseppe Mirabile e Luigi Lo Presti insistono molto sulla citazione di Ghassan: Abbiamo forse dimenticato, tuona Mirabile che in primo grado c’ era Ghassan e solo Ghassan come elemento d’ accusa? Abbiamo dimenticato che allora veniva proclamata la sua assoluta credibilità come fonte indiscutibile di verità processuale? Oggi, l’ accusa non ha più bisogno di lui? Come mai? Perché tanta preoccupazione? Ha detto di avere ancora qualcosa da dire: e allora sentiamolo, quest’ uomo dalle mille maschere! E’ stato già ascoltato 58 volte? Sentiamolo una cinquantanovesima. Invece, Buscetta e Contorno non servono, perché non hanno mai detto una parola sulla strage Chinnici; essi parlano solo di un’ associazione mafiosa ai cui vertici sarebbero i fratelli Greco: una sorta di diabolica ingegneria giudiziaria chiamata teorema Buscetta, secondo cui la Commissione di cui, ma non c’ è la minima prova, farebbero parte i Greco sarebbe responsabile di tutti i delitti di mafia. Tra l’ altro, Buscetta e Contorno si trovano in America e non verrebbero mai in Italia. Per gli Usa sono cosa loro, non vogliono che l’ Italia interferisca. Signori, Michele Greco è un uomo d’ ordine, un uomo di legge e non il capo della mafia che i suoi calunniatori interessati vorrebbero fare apparire. Poco dopo, Michele Greco da di sé un ritratto ancora più adamantino. Quello di un uomo religiosissimo, tutto casa e Bibbia, dedito all’ agricoltura, amato e benvoluto da tutti, vittima di una diabolica macchinazione. Che opinione aveva di Rocco Chinnici? La sua morte potete definirla la tragedia del secolo. E’ sempre stato molto gentile con me. Una volta si interessò a mio figlio che faceva il cineasta. Lei si ritiene un perseguitato? Certo, ma io ho pazienza e sopporto. Ho dignità io. La violenza non fa parte della mia vita. Non so perché mi perseguitino. Bisognerebbe chiederlo a qualcun altro. Ma è meglio fermarci qui e non parlarne più. Chissà se lo potremo mai gridare un giorno…. Conosce Scarpisi e Rabito? Sconoscevo la loro esistenza. Non sapevo che erano al mondo, lo possono testimoniare anche loro. Sono diventati famosi come i gemelli del gol del Torino, Pulici e Graziani. Pensa che verrà assolto? Ci spero, anche se… Fortunatamente, ho una grande pace interiore. Come viveva da latitante? Ero solo, in montagna, avevo solo due cose: la Bibbia e il breviario. Perché è chiamato il papa? Mi chiamano papa, re, generale… Pazienza. Chi scriveva lettere anonime contro di me mi chiamava papà, poi è caduto l’ accento. Come faceva ad avere tante conoscenze di rango se si definisce un contadino? A sedici anni cominciai a frequentare il tiro a volo. Ora ne ho 62. Fatevi un po’ il conto. Lì, al tiro a volo, ho conosciuto il miglior ceto della società palermitana. Lì ho fatto amicizie che sono durate tutta la vita. L’ ultimo tema è ancora la serenità interiore. La devo a quel grande ospite illustre che ho qui dentro da quando sono stato battezzato. Ce l’ ho anche se mi portano nei sotterranei con le catene ai piedi.
da L’Unità del 30 Luglio 1983
Stralci dell’intervento che il giudice Rocco Chinnici svolse al convegno internazionale su «Mafia e potere», nell’aula magna dell’università di Messina nei giorni 19-23 ottobre 1981.
«ll merito di una presa di coscienza nella lotta contro la mafia va, indubbiamente, a quelle forze politiche riformatrici e progressiste e a quegli studiosi, che per vocazione hanno combattuto la mafia, fin dal suo affermarsi come forza occulta, reazionaria e criminale; va alle vittime di ieri e di oggi, che operando nel campo politico o della amministrazione dello Stato, hanno portato avanti la lotta per la redenzione delle zone nelle quali la malapianta ha messo radici. Abituati a guardare in faccia alla realtà riteniamo che non sarà impresa facile debellare il fenomeno; in democrazia, si sa, la soluzione dei problemi richiede tempi lunghi, e pertanto è giocoforza ammettere che la mafia, costituendo, oggi, uno dei più gravi e complessi problemi della vita nazionale, continuerà ad imperversare, ad insanguinare città e campagne; probabilmente, così come è avvenuto in passato, avrà periodi di minore o maggiore virulenza a seconda delle risposte e della reazione che i pubblici poteri sapranno opporre, tuttavia, fino a quando non sarà in grado di disporre di leggi e mezzi più efficaci, fino a quando i maliosi avranno la possibilità di ricavare migliala di miliardi da traffici illeciti (droga e tabacco), dagli appalti pubblici, dai sequestri di persona, fino a quando la mafia potrà realizzare stretti rapporti con settori del potere, sarà possibile solo ottenere risultati parziali e contingenti, ma non debellarla defìnitivamente. Sarà certo possibile attraverso convegni, dibattiti e commissioni di inchiesta conseguire una migliore conoscenza del problema e mediante nuove leggi e mezzi più efficaci ottenere risultati operativi, ma nessuno deve illudersi. Se è vero — ed in proposito non possono sussistere dubbi — che in talune zone dell’isola la mafia permea taluni settori del potere fino al punto da identificarsi, talvolta, con essi, se è vero come è stato scritto che il Presidente della Regione Piersanti Mattarella alla cui memoria tutti ci inchiniamo, è stato eliminato per aver voluto portare ordine e legalità in quei settori della vita regionale nei quali ordine e legalità erano gravemente compromessi, a seguito delle infiltrazioni della mafia, si comprenderà come il cammino da percorrere per liberare l’isola dalla mafia sia lungo, difficile, pieno di insidie.A nostro avviso l’aspetto più rilevante, più emblematico che dà alla mafìa un connotato del tutto particolare, è costituito dal rapporto con settori del potere. Non vogliamo invadere il campo riservato ad altri; non possiamo però esimerci dall’affermare che se oggi la mafìa è problema nazionale, se essa oggi costituisce grave pericolo per le istituzioni democratiche (poiché il di lei potere destabilizzante non è meno insidioso di quello di altre forze eversive), tutto ciò è anche conseguenza diretta dei rapporti occulti e palesi che la legano al potere, in un groviglio di interessi che sono di natura politica ed insieme economica: se è storicamente vero che in Sicilia ogni riforma tendente a riscattarci dallo stato di arretratezza economica e sociale nel quale ci dibattiamo è fallita, o se si sono raggiunti risultati che hanno cambiato poco o nulla, ciò è conseguenza della infausta opera che la mafìa ha esercitato sul potere; senza dire, che là dove essa stessa è diventata potere — neit piccoli come nei grandi centri — ha gestito la cosa pubblica al di fuori della legge e contro la legge.
Non c’è stato e non c’è grosso scandalo nella Sicilia occidentale nel quale non sia presente la mafia.
Titeniamo che se il legislatore vuole concretamente impegnarsi nella lotta contro il terrorismo mafioso (ci sia consentita la espressione dal momentto che la mafia, recentemente, ha mutuato metodi propri del terrorismo di diversa matrice), deve agire con decisione, fermezza e senza ritardi che appesantirebbero la già drammatica situazione della Sicilia occidentale, in due direzioni. In primo luogo, uscendo da una situazione di incertezza che affonda le radici in un passato nel quale si credeva ancora sull’eco di discorsi di uomini politici prestigiosi, che la mafìa fosse costituita da uomini che «coltivavano l’amor proprio di popolo, l’affetto portato al parossismo, la fedeltà fino all’esasperazione», si deve stabilire che la mafìa non solo è associazione per delinquere, ma associazione certamente più pericolosa e diversa da quella prevista dall’art. 416 C.P. e che, pertanto, essendo di per sé, per la sua sola esistenza un pericolo per la collettività, deve essere colpita con apposita norma sanzionatoria, anche indipendentemente dalla prova diretta che gli associati mafiosi abbiano specificamente programmato crimini; occorre cioè acquisire definitivamente il concetto giuridico che la mafia è indissolubilmente legata al crimine ed è anzi un fattore produttivo di esso, onde il mafioso anche quando non abbia programmato alcuna immediata attività criminosa, è comunque elemento disponibile a tal fine e quindi pericoloso e dannoso per l’ordine pubblico e per la collettività. La proposta che intendiamo formulare è di introdurre nella nostra legislazione penale la figura autonoma del reato di associazione mafiosa.
Altro elemento caratterizzante della qualità di mafioso e connesso al prestigio e al grado di intimidazione esercitato dall’affiliato alla mafia in un determinato contesto territoriale, è costituito dall’assoluto controllo di una più o meno consistente massa di suffragi elettorali che, proprio per essere legati non ad una determinata ideologia politica ovvero alla stima ed alla fiducia per un determinato candidato presentano un singolare fenomeno di trasmigrazione da una elezione all’altra, in schieramenti politici diversi e soprattutto a favore di candidati diversi spesso portatori di concezioni politiche assai, differenti.
È evidente allora che ciò che lega tali dati non è l’ideologia e nemmeno il clientelismo cioè la devozione verso un determinato uomo politico, fenomeno di costume quest’ultimo, forse deteriore, ma pur sempre lecito, ma l’azione «persuasiva» che il mafioso locale esercita in occasione delle elezioni orientando suffragi da lui controllati secondo gli equilibri economici e sociali ritenuti più convenienti n quel determinato momento storico.
Oggi tutti sappiamo quali enormi profitti le «famiglie» mafiose traggono dalla produzione e dal commercio di sostanze stupefacenti. Le stesse considerazioni valgono per gli appalti di opere pubbliche. Passando alla fase conclusiva non ci pare fuori luogo, sul piano della concretezza e tenendo sempre presente la necessita di identificare ed individuare i responsabili del reato di appartenenza ad associazione afiosa, la istituzione della c.d. «Banca dei dati» della quale tanto si parla. Il centro ovrebbe potere essere utilizzato dai magistrati ogni qualvolta essi conducono accertamenti su soggetti imputati o indiziati del reato di associazione mafiosa. La Banca dei dati, o centro di raccolta, ovviamente dovrebbe essere affidato ad ufficiali di p.g. e a magistrati particoarmente qualificati che abbiano esperienza specifica nel campo delle indagini e degli accertamenti sulla mafia. Il centro dovrebbe avere la sede principale a Roma, con diramazioni nelle province più colpite dal fenomeno mafioso.
Infine, riteniamo indispensabile la ricostruzione della Commissione Antimafia, con carattere permanente. La nostra richiesta non è politica in senso stretto ma attiene, per usare una espressione recente, alla politica della giustizia.
Secondo noi, con la istituzione della Commissione permanente, lo Stato nella sua espressione più qualificata qual è il Parlamento, oltre ad avere in ogni momento un quadro aggiornato della realtà siciliana, farebbe sentire la sua presenza; in settori, che per varie ragioni, oggi hanno perduto, nei confronti del cittadino, di credibilità. Come siciliani, non dovremmo avvertire alcun disagio; dovremmo tenere conto del fatto che ogni azione tendente a combattere la mafia, è diretta contro una minoranza assai esigua, che ha gettato nel fango il buon nome di cinque milioni di cittadini.»
Fonte: tg24.sky.it 29 Luglio 2013
“Il boato e un cratere”: trent’anni fa moriva Rocco Chinnici
Il 29 luglio 1983 il magistrato perdeva la vita per un attentato. In Così non si può vivere (Castelvecchi), i giornalisti De Pasquale e Iannelli ricostruiscono la sua storia pubblicando per la prima volta il diario nella veste autografa.
ESTRATTO
di Fabio De Pasquale e Eleonora Iannelli
Erano ancora in pigiama. Si ritrovarono catapultati in strada, strappati ai loro letti e al torpore dell’estate. Il destino, quella mattina, diede loro appuntamento di buon’ora.
Correvano per inerzia, dietro il boato terrificante, con un sinistro presagio dentro il cuore. Il tempo e lo spazio si fermarono, per Giovanni ed Elvira, alle 8:05 di venerdì 29 luglio 1983.
In via Giuseppe Pipitone Federico, nella Palermo residenziale nata dal «sacco» edilizio degli anni Sessanta-Settanta, l’aria calda era irrespirabile. L’atmosfera rarefatta, surreale, come nel peggiore degli incubi di due ragazzi di 19 e 24 anni. Una gigantesca coltre di fumo, di polvere e di gas avvolgeva tutto: la scala, l’androne, il palazzo al numero civico 59, la loro casa. E la strada, dove non c’erano più l’asfalto, i marciapiedi, le auto parcheggiate, quelle che di solito cominciavano a transitare, i pedoni che camminavano. Era tutto informe.
Al centro, un grande cratere. Intorno, un groviglio, un ammasso di lamiere, calcinacci, vetri, macerie. Pezzi di cose indefinite. Dentro quell’inferno, dove qualcuno era stato dilaniato, o esalava l’ultimo respiro, e altri miracolosamente scampavano alla morte, c’era il loro papà, il giudice Rocco Chinnici.
Appena cinque minuti erano trascorsi da quando lui aveva dato loro il «buongiorno». Era entrato nelle loro camere, come sempre, con il vassoio del caffè. Un buffetto sul viso e il vocione familiare, rimasto ancora a rimbombare tra le pareti squassate dall’esplosione di un’utilitaria, una Fiat 126 verde, una qualsiasi, ma imbottita di tritolo: «Arrivederci ragazzi, a più tardi».
Non l’avrebbero mai più visto, con la sua figura imponente di omone di 58 anni, all’apparenza burbero, ma in realtà «un pezzo di pane».
Rigoroso, un po’ autoritario, però affettuoso e presente, anche quando il peso delle responsabilità e la paura per i suoi cari lo schiacciavano. Quella mattina, com’era sua abitudine, il giudice-papà aveva già smaltito tre ore di lavoro. Chino sui faldoni, prima ancora che spuntasse l’alba, a leggere gli ultimi verbali di polizia e carabinieri, ad annotare appunti e riflessioni, per poi discuterne con i suoi colleghi, in ufficio, nel piano ammezzato del Palazzo di giustizia.
Ma lì non sarebbe mai arrivato. Restarono soli Giovanni ed Elvira, in quello scenario di morte. Attoniti, annichiliti, fino al sopraggiungere delle urla della gente che accorreva, delle sirene delle volanti e delle ambulanze. Soli, per un tempo che sembrò loro infinito.
A scoprire, per primi, la tragedia della loro famiglia e di una città intera, della cosiddetta «società civile», destinata a piangere e a tremare ancora a lungo. Non c’è terapia che possa aiutare a elaborare tanto strazio. A casa Chinnici, per trent’anni, il dolore viscerale è stato protetto col riserbo. Oggi i figli hanno deciso di raccontare tutto di quel giorno, comprese le sensazioni più riposte, ma soprattutto di parlare dell’antefatto della strage.
Di rompere il silenzio e svelare la loro verità sulla «condanna a morte». Per amore, per amore del padre e della storia della Sicilia, scritta anche da lui, dal giudice Rocco Chinnici.
Giovanni, quasi cinquantenne, è avvocato, libero professionista, già responsabile dell’ufficio legale di un istituto di credito a Palermo. Torna ai suoi 19 anni, quando il pensiero più incombente era quello delle prime materie di Giurisprudenza. Aveva un sogno il più piccolo dei tre figli: diventare magistrato, lavorare pure lui in quell’austero Palazzo di giustizia, dove da bambino, talvolta, scorazzava nei corridoi deserti di pomeriggio, o faceva i compiti in un angolino della scrivania. Ma il padre non voleva che seguisse le sue orme. Lo rimbrottava bonariamente. Il suo istinto di protezione era profetico. Ricorda tutto Giovanni, ogni attimo di quella torrida mattina. Non ha voluto e non ha potuto rimuovere nulla.
«Io ed Elvira eravamo ancora in pigiama. Sentimmo un boato, un’esplosione. Sembrava la fine del mondo. Era successo qualcosa di tremendo a papà. Lo capimmo subito, senza neanche affacciarci al balcone. Scendemmo precipitosamente, dal terzo piano, giù per le scale. C’era fumo, fumo dappertutto. Vedemmo prima il corpo del portiere, a terra, il povero Stefano, ma non riuscivamo a trovare papà. Girammo attorno, con l’angoscia nel cuore.
Lo scoprii io. Gridai a Elvira: “Guarda, è lì”. Non auguro a nessun figlio, anzi proprio a nessuno, di vedere con i propri occhi uno strazio simile. Ci chinammo, urlammo di disperazione, ci abbracciammo. Poi rimanemmo ammutoliti».
Il racconto si interrompe. Al suo posto, parlano le foto raccapriccianti e i commenti a caldo pubblicati sulla stampa. Il quotidiano del pomeriggio, «L’Ora», titolò: Palermo come Beirut. E il giorno dopo: È una guerra in cui cadono solo i buoni. Raccogliendo successivamente le dichiarazioni degli inquirenti, chiosava con amara ironia: «Ma quale Conca d’oro. Questa è soltanto la Conca d’odio. La solitudine degli investigatori palermitani nella città delle stragi e dei massacri mafiosi viene fuori crudamente».
Lo storico quotidiano di Palermo, il «Giornale di Sicilia», il giorno seguente titolò: Per uccidere Chinnici hanno fatto una strage, agguato mafioso al tritolo. Il presidente Pertini: è una sfida alla Repubblica. Grande attenzione anche sui giornali nazionali, con reportage ed editoriali: A Palermo come a Beirut. Non è sfida ma è guerra, scrisse «la Repubblica». E riportando le parole di Pertini: La lotta alle cosche non avrà tregua. Lo Stato accetta la sfida. Il «Corriere della Sera» titolò: Strage della mafia, ucciso un giudice. Per assassinare il capo dell’ufficio istruzione del Tribunale è stato impiegato un quintale di tritolo. E ancora: Terrore mafioso: Palermo come Beirut. Strage per uccidere il giudice Chinnici. La passività e l’inerzia dello Stato lasciano aperta la strada alla sanguinosa sfida. Così «l’Unità» che, in un editoriale del direttore Emanuele Macaluso, tratteggiava la figura della vittima: Vorrei ricordare l’uomo straordinario che fu Rocco Chinnici. L’avevo conosciuto anni fa nella casa di Cesare Terranova al quale era legato da grande amicizia ed affetto e dal quale poi aveva ereditato l’Ufficio istruzione di Palermo [in realtà, Terranova era stato designato dal Csm, ma non aveva avuto il tempo di insediarsi, perché ucciso il 25 settembre 1979, nda]. Chinnici era un uomo semplice e schietto; il suo viso ricordava la Sicilia contadina, pulita; i suoi occhi esprimevano bontà grande, intelligenza e fermezza. Come Cesare Terranova, del fenomeno mafioso sapeva cogliere sempre e solo l’essenziale, senza vagare tra le nuvole di teorie astratte, improbabili e romanzesche o nello scetticismo interessato e mistificatorio.
Ha conservato tutto il figlio Giovanni, in una carpetta che custodisce gelosamente nel suo studio di casa. La rassegna stampa della «memoria». Il suo pensiero corre alla mamma che ora non c’è più. «A lei, come a mia sorella Caterina, il destino ha risparmiato, almeno, lo strazio dell’esplosione. Si trovava a Trapani, per lavoro, e rientrando in città precipitosamente, assieme a un cugino, credeva di raggiungerci in una camera di ospedale. Eravamo, invece, in una camera mortuaria».
Ricordando il padre che vide, per l’ultimo abbraccio, ricomposto sotto un lenzuolo bianco, il figlio minore cerca di ricostruire la vigilia dell’attentato: «Era preoccupato papà, più teso del solito», racconta Giovanni, «nonostante si sforzasse di apparire sereno con noi. Non ci parlava apertamente dei suoi timori, ma li immaginavamo. Arrivavano strane telefonate a casa, nel cuore della notte. Una volta, a rispondere era stata la mamma ed era rimasta sconvolta. Lui minimizzava, però teneva sempre un registratore sul comodino, accanto al telefono. E registrava tutto. Quelle minacce si rivelarono serie, fondate. Papà le aveva riferite alle forze dell’ordine e al Consiglio superiore della magistratura, ma evidentemente furono sottovalutate. Aveva detto di temere per la sua vita e pure per quella di Falcone e Borsellino, i suoi più stretti collaboratori.
Aveva chiesto aiuto, rinforzi in ufficio, ma rimase solo, con i suoi fedelissimi, ad affrontare un lavoro improbo e pericoloso. Le misure di protezione restarono invariate. Anzi, alcuni mesi prima, addirittura, gli era stato tolto il presidio notturno dei carabinieri sotto casa.
Se ci fosse stato, i killer non avrebbero potuto agire indisturbati, parcheggiare l’auto e piazzare l’esplosivo davanti al nostro portone. Se la Criminalpol e la Questura avessero avvertito papà della soffiata ricevuta sull’organizzazione di una strage, forse lui si sarebbe andato a rinchiudere in un bunker come fece poi il suo successore. Avrebbe adottato misure di sicurezza ancora più rigorose.
Invece, nulla. La sua morte non fu improvvisa, imprevista. Fu annunciata. Preceduta da una raffica di velate intimidazioni e poi di pesanti minacce, fuori e dentro il Palazzo di giustizia «sonnolento», come lo definiva lui stesso. Un crescendo, fino alla notizia riservata sull’arrivo dell’esplosivo a Palermo, pochi giorni prima dell’autobomba. Rimase tutto nei cassetti».
Per gentile concessione dell’editore © 2013 Lit Edizioni Srl.
Tratto da Fabio De Pasquale, Eleonora Iannelli, Così non si può vivere, Castelvecchi
ROCCO CHINNICI: PALERMO COME BEIRUT
Diario civile
La storia di Palermo è così. Una staffetta continua sul filo della morte, un testimone passato di mano in mano, nel corso degli anni più duri. Un funerale dietro l’altro, a chiedersi continuamente chi sarà la prossima vittima. E’ successo anche nel 1983, quando un’autobomba esplosa sotto la sua casa di Palermo uccise il giudice Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia, nella prima strage mafiosa di stampo terroristico. Col magistrato, rimasero uccisi il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta, e il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi. Uomo schivo e gentile, magistrato determinato e rigoroso, Chinnici ha attraversato la storia della Sicilia, occupandosi della strage di viale Lazio e diventando Consigliere Istruttore nel 1979, dopo la morte di Cesare Terranova. Fu lui a scegliere Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, come uomini di punta del suo pool di magistrati e ha indirizzarli nel metodo investigativo che avrebbe portato all’istruttoria del maxiprocesso, nel 1985. Il racconto della vita di Chinnici si intreccia così agli anni più duri di Palermo, e incontra gli uomini dello Stato che sono caduti per combattere la mafia, uno dopo l’altro, da Emanuele Basile a Pio La Torre, da Carlo Alberto Dalla Chiesa a Gaetano Costa, da Boris Giuliano a Cesare Terranova. A ricordare il giudice Chinnici, insieme alle sue interviste e le immagini di repertorio, le testimonianze della figlia Caterina Chinnici, anche lei magistrato, dell’ex Genarale dei Carabinieri Angiolo Pellegrini, e dello storico Salvatore Lupo
Articolo del 29 Luglio 2014 da palermo.repubblica.it
Così Rocco Chinnici svelò la “mafia spa”
Capì che il delitto Impastato non era il gesto di un terrorista. Iniziatore del pool intuì il peso finanziario di Cosa nostra
di UMBERTO SANTINO
Tratto da: lesiciliane.org/casablanca
Ho cominciato a frequentare Rocco Chinnici dopo l’assassinio di Peppino Impastato. L’inchiesta era stata subito chiusa, in base alla convinzione, diffusa dalle forze dell’ordine e condivisa da gran parte della magistratura, che si fosse trattato di un atto terroristico compiuto da un suicida o da un attentatore inesperto, ma le denunce dei compagni di militanza, dei familiari di Peppino, che rompevano con la parentela mafiosa, di noi del Centro siciliano di documentazione, che aveva cominciato a operare già nel 1977, l’avevano fatta riaprire. E abbiamo trovato subito in Chinnici un magistrato attento alle nostre istanze e impegnato, con intelligente tenacia, nella ricerca della verità.
Ma Chinnici non era soltanto un grande magistrato, era anche, naturaliter, un maestro di vita. Non solo nel palazzo di giustizia, ma in un contesto più ampio. Per anni ha partecipato a incontri nelle scuole, a seminari, convegni e dibattiti, aprendo una strada che allora non era molto frequentata. E molto spesso mi sono trovato al suo fianco. Così, nell’aprile del 1982, nell’ambito dei seminari su droga e tossicodipendenza, organizzati all’Università di Palermo dal Centro di documentazione intitolato dal 1980 a Peppino Impastato (una scelta che in molti ambienti produsse più isolamento che approvazione), ha svolto una relazione sullo sviluppo della tossicodipendenza in Italia, e nell’aprile del 1983, nel corso di un seminario sulla legge antimafia, ha parlato del problema della prova nel processo penale. Il suo contributo era sempre lucido e appassionato. E anche quando avevamo vedute diverse, come per esempio sul problema del proibizionismo, il dibattito con lui era all’insegna del rispetto e della volontà di trovare un terreno comune.
Per l’inchiesta sull’assassinio di Peppino Impastato il ruolo del consigliere istruttore Chinnici è stato decisivo. Sua è in gran parte la sentenza che riconosceva che si era trattato di un omicidio di mafia, completata e firmata dal suo successore, Antonino Caponnetto, e pubblicata nel maggio del 1984. Senza quella sentenza sarebbe stato difficile, se non impossibile, continuare le indagini, che portarono all’individuazione dei mandanti e alla loro condanna. In quella sentenza c’era anche un accenno al depistaggio delle indagini, che farà da base per la richiesta alla Commissione parlamentare antimafia di accertare le responsabilità delle forze dell’ordine e della magistratura.
Negli anni successivi alla strage del 29 luglio 1983 l’immagine di Chinnici è stata spesso posta in ombra, eppure il suo ruolo ha lasciato il segno. Il pool antimafia, che portò al maxiprocesso del 1986, fu formalizzato da Caponnetto, ma era stato avviato da Chinnici. Sua l’idea che le indagini sulla mafia dovessero ripercorrere la catena che salda le singole vicende criminali in un contesto unitario. Sua la rigorosa ricostruzione dell’evoluzione della mafia in quegli anni, con al centro l’impero economico-finanziario dei Salvo e l’interazione con settori delle istituzioni e della politica. A chi sosteneva che questi rapporti ormai facevano parte del passato, in una relazione presentata a un incontro con i magistrati, svoltosi nel giugno del 1982, rispondeva: “Oggi, più di ieri, la mafia, inserita com’è nella vita economica dell’Isola, non può fare a meno di tali rapporti”. E in quella relazione sottolineava il ruolo crescente a livello internazionale della ‘ndrangheta e della camorra, allora e anche dopo ignorate o sottovalutate.
Sua la scelta di raccogliere nel pool magistrati che sono entrati nella storia del nostro paese, non solo per la tragica fine ma per il livello di professionalità maturata all’interno di un lavoro collettivo. Grazie alle sue scelte, Giovanni Falcone ha potuto dedicarsi alle indagini finanziarie, con risultati che restano ancor oggi un punto di riferimento a livello internazionale.
La memoria di un movimento antimafia maturo, di cittadini consapevoli di vivere una storia di liberazione, che ha senso solo se è corale e condivisa, dovrebbe evitare di erigere altari per alcuni e dimenticare gli altri. Forse a Chinnici non è giovata la grande sobrietà che lo contraddistingueva. Ma in un mondo in cui troppo spesso si fa a gomitate, la sobrietà è un merito e una virtù. Ricordo i colloqui con lui in una stanza a pianterreno del palazzo di giustizia, con una grande vetrata. Mi diceva che quando era stata collocata era a prova di proiettile (ma nel frattempo gli arsenali si erano aggiornati). E alla mia domanda su quanti fossero i magistrati impegnati in inchieste sulla mafia, rispondeva: “Pochi, meno di dieci”.
Ora sono di più, ma l’azione di guerra con cui nell’estate del 1983 hanno voluto falciare la vita di Rocco Chinnici, di Salvatore Bartolotta e Mario Trapassi, di Stefano Li Sacchi, facendo di Palermo una succursale di Beirut, voleva anche sottolineare la solitudine di chi allora si batteva contro la mafia, registrando l’indifferenza e l’avversione di tanti, qualcuno indicato con nome e cognome in un diario, e non arretrando di fronte a pericoli e minacce. Forse l’immagine più efficace di come lavoravano i magistrati in quegli anni è l’ascensore nel palazzo di giustizia in cui Chinnici si incontrava con il procuratore Gaetano Costa, per non far sentire quel che avevano da dirsi
a orecchie indiscrete. Costa, isolato dai sostituti che non firmarono un suo provvedimento, doveva cadere su un marciapiedi di via Cavour il 6 agosto del 1980. E se per Chinnici, dopo varie disavventure, si è fatta in qualche modo giustizia, per Costa stiamo ancora ad agitare ombre.
Fonte: video.repubblica.it
28 luglio 2017
Palermo, 34 anni fa l’attentato a Chinnici. Ritrovata la bobina con le minacce della mafia
di Salvo Palazzolo e Giorgio Ruta
La voce dell’emissario dei boss è nitida: “Volevo sapere quando lei fa il suo compito e il lavoro che è giusto fare, perché ora c’è gente che deve andare a fare il Natale a casa e dipende soltanto da lei”. Il consigliere istruttore Rocco Chinnici non si scompone, lascia parlare il suo interlocutore, sta registrando quella conversazione che avviene sul telefono di casa e adesso prova a cercare una traccia per arrivare a chi negli ultimi tempi lo minaccia. Qualche giorno prima un uomo che diceva di essere “l’avvocato Russo” aveva avvertito: “Il nostro tribunale lo ha già condannato, lei entro questa settimana deve mettere fuori i ragazzi”. E’ il 1980, Chinnici, l’inventore del pool antimafia, sta indagando sui delitti politici di Palermo, Mattarella e Reina, è già un uomo a rischio. Il 29 luglio 1983, un’autobomba di Cosa nostra uccide il giudice, il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile di via Pipitone Federico, Stefano Li Sacchi. Uno dei sopravvissuti, l’autista giudiziario Giovanni Paparcuri, è oggi l’animatore del museo realizzato dall’Anm nell’ufficio bunker di Falcone e Borsellino, dentro un archivio ha ritrovato quella bobina con le minacce, una testimonianza importante dei giorni terribili a Palermo.
FILM:
raiplay.it/video/2018/01
Rocco Chinnici – È così lieve il tuo bacio sulla fronte
Palermo, 29 luglio 1983. Sembra una mattina come tante, calda e piena di luce. Rocco Chinnici saluta la moglie e i figli prima di andare al lavoro in tribunale. Pochi secondi dopo, un boato agghiacciante esplode in strada. Sul selciato i corpi dilaniati di due uomini della scorta, oltre a quello del giudice e del portiere del palazzo. Partono da qui il racconto e i ricordi di Caterina, la figlia maggiore di Rocco, anche lei magistrato.
raiplay.it/video/2018/10
Diario civile – ROCCO CHINNICI: PALERMO COME BEIRUT
La storia di Palermo è così. Una staffetta continua sul filo della morte, un testimone passato di mano in mano, nel corso degli anni più duri. Un funerale dietro l’altro, a chiedersi continuamente chi sarà la prossima vittima. E’ successo anche nel 1983, quando un’autobomba esplosa sotto la sua casa di Palermo uccise il giudice Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia, nella prima strage mafiosa di stampo terroristico. Col magistrato, rimasero uccisi il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta, e il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi. Uomo schivo e gentile, magistrato determinato e rigoroso, Chinnici ha attraversato la storia della Sicilia, occupandosi della strage di viale Lazio e diventando Consigliere Istruttore nel 1979, dopo la morte di Cesare Terranova. Fu lui a scegliere Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, come uomini di punta del suo pool di magistrati e ha indirizzarli nel metodo investigativo che avrebbe portato all’istruttoria del maxiprocesso, nel 1985. Il racconto della vita di Chinnici si intreccia così agli anni più duri di Palermo, e incontra gli uomini dello Stato che sono caduti per combattere la mafia, uno dopo l’altro, da Emanuele Basile a Pio La Torre, da Carlo Alberto Dalla Chiesa a Gaetano Costa, da Boris Giuliano a Cesare Terranova. A ricordare il giudice Chinnici, insieme alle sue interviste e le immagini di repertorio, le testimonianze della figlia Caterina Chinnici, anche lei magistrato, dell’ex Genarale dei Carabinieri Angiolo Pellegrini, e dello storico Salvatore Lupo
Leggere anche:
vivi.libera.it
Rocco Chinnici – 29 luglio 1983 – Palermo (PA)
“La cosa peggiore che possa accadere è essere ucciso. Io non ho paura della morte e, anche se cammino con la scorta, so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un Magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare.”
vivi.libera.it
Mario Trapassi – 29 luglio 1983 – Palermo (PA)
Accettare alcuni incarichi in quegli anni a Palermo rappresentava una scelta precisa, un chiaro segno del posto che si voleva occupare nella lotta contro la mafia. E così Mario non ha mai voluto nascondere da che parte stava, al fianco di chi voleva fare la sua parte. Proteggere il giudice Chinnici e il suo lavoro, la sua vita, costi quel che costi.
vivi.libera.it
Salvatore Bartolotta – 29 luglio 1983 – Palermo (PA)
Accettare alcuni incarichi in quegli anni a Palermo rappresentava una scelta precisa, un chiaro segno del posto che si voleva occupare nella lotta contro la mafia. E così Salvatore non ha mai voluto nascondere da che parte stava, al fianco di chi voleva fare la sua parte. Proteggere il giudice Chinnici e il suo lavoro, la sua vita, costi quel che costi.
vivi.libera.it
Stefano Li Sacchi – 29 luglio 1983 – Palermo (PA)
Tutti noi scegliamo il modo in cui vogliamo vivere, se bloccati dalla paura e forti nell’affrontarla. E così anche Stefano, svolgendo il suo lavoro come portiere in uno stabile. Sapeva che Rocco Chinnici rischiava di essere ucciso da Cosa nostra, ma lui non modificò in nessun modo il suo atteggiamento nei confronti del giudice, ostentando con orgoglio la sua conoscenza.
One Comment
Antonino Russo
A differenza della “legalità” italo-padana, durante il periodo dell’indipendenza duosiciliana la Sicilia è nota del personaggio che divenne il primo promotore della lotta contro la mafia, Salvatore Maniscalco. Nonostante che la storiografia ufficiale lo definisce come un sanguinario, Maniscalco fu un commissario intelligente, fedele ai Borbone e instaurò la legalità propriamente vicina alla clemenza popolare auspicata dalle disposizioni e dai decreti regi di Ferdinando II, riuscendo a mantenere basso il tasso della criminalità nell’isola. Il commissario Maniscalco aveva collaborato con il generale Filangieri e con il Procuratore del Re Giuseppe Mario Arpino per favorire la massima tutela ai sudditi siciliani e la loro sicurezza da minacce provenienti da bande armate al servizio dei baroni che cercavano di esportare il loro indipendentismo demagogico attraverso gli atti del disordine, nei confronti dei quali Maniscalco li reprimeva mediante la collaborazione dei sudditi che non volevano sottostare al loro dominio, diventando un obiettivo da colpire dagli esponenti del baronaggio con attacchi facenti parte dei piani golpisti, come l’omicidio del commissario Giovanni Vico nel 1837, la prima vittima della violenza rivoluzionaria e mafiosa. Il commissario sopravvisse in vari attentati filo-baronali ma sarà costretto a seguire il destino del popolo duosiciliano e della dinastia borbonica fino alla sua morte. Però Maniscalco si sacrificò moralmente a combattere l’illegalità diffusa dai mafiosi fedeli dei baroni e a diffondere il senso di cordialità verso i siciliani applicato dai Borbone prima con i napolitani. E’ senza alcun dubbio che Maniscalco, prima di Chinnici, favorì la nascita dell’antimafia ma concordo per l’affermazione del magistrato che la mafia è nata dopo l’unità d’italia.