3 Agosto 1863 Palermo. Ucciso Giovanni Corrao, generale garibaldino: un delitto politico-mafioso.

Immagine: culturatrapani.altervista.org

Giovanni Corrao (Palermo, 17 novembre 1822 – Palermo, 3 agosto 1863) è stato un operaio, militare e patriota italiano.
Di umili origini (era calafato, un operaio specializzato al porto di Palermo), fu sempre avverso ai Borboni, contro i quali organizzò diversi tentativi di cospirazione.
Dopo essere stato in prigione ed in esilio, nel 1858 strinse un forte rapporto di corrispondenza con Rosolino Pilo, assieme al quale organizzò una spedizione in Sicilia. Il 12 aprile del 1860 i due sbarcarono a Messina a bordo della tartana viareggina Madonna del Soccorso, e successivamente si recarono a Palermo, attendendo l’arrivo di Giuseppe Garibaldi organizzando gruppi di volontari.
Dopo lo sbarco dei Mille, combatté per l’intera durata della campagna. Fu nominato generale dallo stesso Garibaldi, con il quale combatté anche in Aspromonte.
Dopo l’Unità d’Italia assunse il grado di colonnello dell’esercito, dal quale si dimise poco tempo dopo in coerenza con la sua avversione verso la politica del governo in Sicilia.
Tornato successivamente a Palermo, venne assassinato dalla mafia il 3 agosto 1863. Il delitto è rimasto sempre impunito, ma negli atti di indagine venne usato per la prima volta nella storia del Regno d’Italia il termine mafia. (culturatrapani.altervista.org)

 

 

Fonte: Centro siciliano di documentazione G. Impastato

Giovanni Corrao, un delitto “politico-mafioso” teso ad eliminare un protagonista della vita politica, scomodo per le sue doti e per il seguito popolare di cui godeva.

 

Immagine e Fonte: culturatrapani.altervista.org
Il Gen.Giovanni  Corrao: un garibaldino sui generis
Prof. Salvatore Bongiorno (Studioso di Storia e Filosofia)

Giovanni Corrao (Palermo, 17 novembre 1822 – Palermo, 3 agosto 1863) è stato un operaio, militare e patriota italiano.
Di umili origini (era calafato, un operaio specializzato al porto di Palermo), fu sempre avverso ai Borboni, contro i quali organizzò diversi tentativi di cospirazione.
Dopo essere stato in prigione ed in esilio, nel 1858 strinse un forte rapporto di corrispondenza con Rosolino Pilo, assieme al quale organizzò una spedizione in Sicilia. Il 12 aprile del 1860 i due sbarcarono a Messina a bordo della tartana viareggina Madonna del Soccorso, e successivamente si recarono a Palermo, attendendo l’arrivo di Giuseppe Garibaldi organizzando gruppi di volontari.
Dopo lo sbarco dei Mille, combatté per l’intera durata della campagna. Fu nominato generale dallo stesso Garibaldi, con il quale combatté anche in Aspromonte.
Dopo l’Unità d’Italia assunse il grado di colonnello dell’esercito, dal quale si dimise poco tempo dopo in coerenza con la sua avversione verso la politica del governo in Sicilia.
Tornato successivamente a Palermo, venne assassinato dalla mafia il 3 agosto 1863. Il delitto è rimasto sempre impunito, ma negli atti di indagine venne usato per la prima volta nella storia del Regno d’Italia il termine mafia.

Nato il 17 novembre 1822 nel quartiere Borgo di Palermo, dove esercitò il mestiere di calafato ereditato dal padre, mostrò sin da giovane il coraggio e l’audacia necessari per conquistare il pieno rispetto degli altri. Nel 1848 egli manifestò la sua viva fede anti-borbonica a Messina, Catania e a Palermo, dove intrecciò diverse amicizie, organizzò squadre e condusse imprese che lo resero noto soprattutto negli ambienti democratici. Al ritorno dei Borboni lasciò l’isola per rifugiarsi a Malta, da dove rientrò poco dopo. Scoperto dalla polizia venne arrestato e confinato nel 1852 ad Ustica, da dove tentò la fuga, ma invano: fu subito preso e rinchiuso nelle prigioni della Cittadella di Messina. Nel 1856, avendo ottenuto il permesso di lasciare i Reali domini, si recò a Marsiglia e da qui negli SDtati Sardi, dove nel 1857 fu emesso nei suoi confronti un ordine di espulsione dal ministro Urbano Rattazzi, che lo riteneva soggetto «capacissimo di male azione e pericoloso anche in genere politico». Lasciati gli Stati Sardi si rifugiò a Malta, raggiunse poi Alessandria d’Egitto, per rientrare nel 1859 in Italia. Da Genova partì con Rosalino Pilo per preparare l’isola alla spedizione garibaldina, che egli seguì in tutte le fasi.
Nominato Colonnello dell’Esercito Regio, preferì dimettersi per la sua netta opposizione al governo di Torino, soprattutto sulla questione dello scioglimento dei volontari. Fu invece molto recettivo alla chiamata di Garibaldi al grido “O Roma o Morte” e nell’agosto del 1862, dopo aver raccolto numerosi volontari (pare che solo nel bosco della Ficuzza ne avesse radunati circa 3.000) seguì il Generale in Aspromonte. I suoi uomini ebbero qui il coraggio di aprire il fuoco contro i bersaglieri e fu necessario l’intervento risoluto di Garibaldi perché lui e i suoi volontari fossero riportati all’ordine.
In Sicilia, dopo il rientro, lo attendeva un tragico destino: il “Generale dei Picciotti”il 3 agosto 1863 venne assassinato in circostanze misteriose. Nulla si scoprì circa gli autori dell’assassinio, ciò che è certo è che una gran folla, proveniente per lo più dalle campagne del circondario palermitano, accompagnò il suo feretro, chiedendo a gran voce al governo che il delitto non rimanesse impunito.
La storia di questo personaggio diventa ancor più affascinante dopo la morte. La salma, che secondo la richiesta di alcuni nobili dell’isola, doveva trovare posto nella Chiesa di San Domenico vicino a quella di Rosalino Pilo, fu invece conservata, dopo l’imbalsamazione, nelle catacombe dei Cappuccini. Ma anche qui non ebbe vita semplice, poiché quando il Municipio di Palermo, dopo l’unificazione, dispose che tutti i cadaveri imbalsamati nelle catacombe venissero interrati, un frate nascose la bara contenente il cadavere mummificato del Corrao in un vano della terrazza coperta del convento, occultandola con un muro. La mummia venne scoperta durante dei lavori di ristrutturazione molto tempo dopo e rimase attrazione per i visitatori delle catacombe fino al 1960 quando, in occasione delle celebrazioni ufficiali del Centenario, che prevedevano anche la visita del Presidente della Repubblica, furono richiesti dei funerali solenni, celebrativi dell’Eroe, visto che quelli religiosi gli erano stati negati. Il 21 maggio 1960 il cadavere del generale Corrao, accompagnato da un degno corteo, trovava finalmente definitivo riposo nel chiostro della Chiesa di San Domenico, Pantheon riservato agli uomini illustri

Principale bibliografia di riferimento:

– De Maria U., Pagine ignorate della vita di Giovanni Corrao precursore dei Mille, in «Atti della R. Accademia di Scienze e Lettere ed Arti», Palermo 1941;
– Falzone G. , Il «GENERALE CORRAO», in «Archivio Storico Siciliano», serie IV, vol. I, Palermo;
– Guardione F., La spedizione di Rosalino Pilo nei ricordi di Giovanni Corrao, in «Rassegna Storica del Risorgimento», Roma 1917.

 

 

Recensione da graziagiordani.it 
Qualcuno ha ucciso il generale di Matteo Collura, Longanesi 2006
di Grazia Giordani
L’antiGattopardo – Giovanni Corrao nella Sicilia garibaldina

Certi scrittori sembrano essere rincorsi dalle trame da narrare, in un inevitabile inseguimento che non offre loro scampo. Questa è l’immediata sensazione che proviamo leggendo il nuovo romanzo di Matteo Collura Qualcuno ha ucciso il generale, in libreria dal prossimo 3 marzo. Ci sembra che l’autore – giornalista culturale del Corriere della Sera – di cui abbiamo da tempo apprezzato la folta produzione di romanzi e saggi, tra i quali: Associazione indigenti, Il Maestro di Regalpetra, Eventi, In Sicilia e Alfabeto eretico, non abbia potuto sottrarsi all’invito di quanti lo sollecitavano a mettere nero su bianco l’insabbiata vicenda dell’ affascinante e controversa figura di Giovanni Corrao, il generale, caro la cuore di Garibaldi, “precursore dei Mille”, un eroe avvolto in vita e in morte, dentro aloni di irrisolto mistero. L’ispiratrice più forte di questa sua biografia romanzata – che finisce piuttosto con l’essere un affresco di Sicilia garibaldina come in nessun testo accreditato avremmo mai potuto leggere – è stata certamente un’ agghiacciante fotografia. Per cui leggiamo: “Una fotografia lo ritrae, cadavere mummificato, novantasette anni dopo la morte. Il generale è tra due uomini, impettiti e seri, consapevoli, nell’espressione grave, di essere immortalati in compagnia di un eroe cui la Storia finalmente si è degnata di riconoscere la legittima gloria. Ho sotto gli occhi la foto e continuo a ripetermi che non ho mai visto nulla di più assurdo, di più macabro; nulla di più grottesco e nello stesso tempo di più ingenua e caricaturale messa in scena”. Va da sé che la mummia del generale, ritratta tra due parenti, dopo il ritrovamento nelle catacombe dei Cappuccini di Palermo, abbia tanto impressionato lo scrittore da indurlo a minuziose ricerche e ricostruzioni di misconosciuti avvenimenti, contagiando anche noi lettori di una curiosità sempre più viva, man mano che si procede nella lettura di pagine abitate da sospetti, congiure, folklore popolare; l’udito scosso dal fragore di cruente battaglie, l’olfatto carezzato dal profumo dei giardini d’arance, lo sguardo ammaliato dal fascino voluttuoso di un Meridione di allora e di adesso, espresso dall’autore con grazia musicale.
Il profilo di questo “Generale dei picciotti”, in gioventù saldatore di scafi, abile calafatato che “aveva buttato via quel mestiere d’oro per correre dietro all’ingannevole sirena della rivoluzione”, sbarcando a Messina per organizzare la rivolta dei Siciliani, ottenendo il sostegno dei potentati locali alla spedizione dei Mille, esce a tutto tondo, possente nella figura fisica di tenebroso gigante innamorato del rischio e dell’avventura, calunniato ingiustamente dell’assassinio – per invidia – dell’amico Rosolino Pilo, “cagliostresco” in alcune sue consuetudini di vita esoteriche, sprezzante del pericolo, assai stimato e amato dall’eroe dei due mondi. Per alcuni versi anche contraddittorio questo garibaldino sui generis che – quando l’esercito governativo gli propose di arruolarsi col grado di colonnello, accettò la nomina diminuita, rispetto a quella rimasta integra di Bixio ed altri che entrarono nell’Arma col titolo di generale – dimostrando una certa confusione d’idee, poca coerenza con la sua statura naturale di spirito libero, non irreggimentato. Ma la divisa regolare andava stretta al nostro indisciplinato condottiero che non tardò a spogliarsene con rinuncia dei vantaggi annessi.
Fin dalle prime righe della narrazione colluriana, dentro cui trovano posto suggestivi cammei di Crispi, Bixio, Garibaldi, Mazzini e Rosolino Pilo, rivisitati in chiave umana, lontana dalla visione dei testi scolastici, sentiamo vibrare l’interrogativo rimasto irrisolto sulla morte dell’ “antiGattopardo siciliano”.
Chi era veramente quel Giovanni Corrao? Si era proprio rassegnato alla vita di placido agricoltore, succeduta a quella di condottiero o covava ancora propositi di rivolta contro l’ingratitudine istituzionale di promesse non mantenute nei confronti della Sicilia? Sarebbe stato un riconosciuto eroe risorgimentale questo “indomabile garibaldino cui le sconfitte non avevano scalfito i battaglieri propositi” se un pretestuoso silenzio non l’avesse cancellato dai libri della Storia? Chi gli ha tolto la vita con due colpi di lupara, proprio in prossimità dell’anniversario della battaglia abortita in Aspromonte? Collura ci induce ad uniformarci alla sua persuasione di un delitto di mafia, su commissione dello Stato. Perché Corrao era diventato scomodo. Perché Corrao era un capopopolo pericoloso a cui furono tributati funerali esageratamente solenni e poi l’imbalsamazione nel convento dei Cappuccini, murato in una nicchia, “affinché riposasse al riparo da possibili profanazioni”.
A ricordarlo ai posteri ora c’è il monumento di Villa Garibaldi a Palermo, ma soprattutto c’è la riabilitazione nelle appassionate pagine dello scrittore suo conterraneo che qui ha saputo rinverdire la curiosità, restituendogli l’usurpata fama.

Nota dell’autore a questo link: infinitestorie.it

 

 

Fonte: treccani.it
Giovanni Corrao
Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 29 (1983)

di Luigi Agnello

Giovanni Corrao – Nato a Palermo, nel quartiere marinaro del Borgo, il 17 nov. 1822, da Giuseppe e da Anna Maria Argento, esercitò come il padre il mestiere di calafato. Quasi sprovvisto d’istruzione, ma audace e risoluto, fu tra i più tipici esponenti popolari della rivoluzione siciliana del 1848-49: si distinse, a Palermo, nella giornata del 16 gennaio e nella successiva espugnazione del Castello a mare, ultimo presidio borbonico in città; in febbraio passò a Messina, dove compì tali atti di valore da meritare, il 23 sett. 1848, il grado e il soldo di capitano d’artiglieria, per deliberazione della Camera dei comuni (Le Assemblee del Risorgimento, Sicilia, II, Roma 1911, pp. 470 s.). Alla ripresa delle ostilità, nell’aprile 1849, il C. fu tra i rari ufficiali dell’esercito siciliano che mostrarono capacità militari e determinazione nel battersi, fino alla estrema resistenza tentata contro le truppe del generale C. Filangieri dal 7 al 9 maggio.

Ristabilita l’autorità regia in Sicilia, egli venne relegato nell’isola di Ustica, con provvedimento di polizia; ma, avendo osato una ingegnosa evasione, nel maggio 1852 fu rinchiuso nella più sicura cittadella di Messina, dove ebbe compagno di prigionia il letterato e patriota R. Villari.

In un’opera memorialistica questi ha poi tracciato del C. un singolare ritratto, in cui si combinano spavalderia sanguinaria e simpatico buonsenso, attitudine a pratiche mistiche, culminanti in visioni estatiche, e perizia nel preparare medicamenti stregoneschi (Villari, pp. 194, 202, 238, 244, 249-257).

Dopo una breve permanenza nelle Grandi prigioni di Palermo (maggio-agosto 1855), il C. ottenne la libertà, a condizione di emigrare dalle Due Sicilie. Sbarcato a Marsiglia nel settembre 1855, dimorò a Genova e, dalla fine del 1857, a Torino, ma il suo estremismo politico e la irregolarità della sua condotta privata – tra l’altro egli esercitava abusivamente la professione medica – indussero il governo sardo ad espellerlo dal territorio dello Stato, insieme all’amico G. Badia (18 apr. 1858).

Cercò asilo a Malta (maggio 1858), poi ad Alessandria d’Egitto (giugno-dicembre 1858) e, di nuovo, a Malta (gennaio-febbraio 1859), senza aggregarsi agli altri fuorusciti siciliani e formulando aspri giudizi non solo sul conto dei moderati, che facevano capo a M. Raeli, e dei repubblicani seguaci di P. Calvi, ma anche su quasi tutto il gruppo mazziniano, che si raccoglieva intorno a N. Fabrizi.

Si legò, invece, con R. Pilo e con lui organizzò un attentato, a cui consentì Mazzini, contro Napoleone III: nel marzo 1859, alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza, il C. giunse in Francia, deciso ad assassinare l’imperatore ma, per motivi imprecisabili, non condusse a termine la missione.

Dopo che fu stipulato l’armistizio di Villafranca e fu costituita, nell’agosto 1859, la lega militare centroitaliana, egli si portò a Modena, per entrare nelle file della brigata di I. Ribotti. Deluso dal fallito arruolamento e dalla debole tensione rivoluzionaria registrata nell’Italia centrale, si persuase definitivamente che l’iniziativa unitaria dovesse partire dalla Sicilia e concepì il progetto di tornarvi, per farla insorgere, con pochissimi compagni temerari e fidati o, addirittura, da solo, come attestano alcune sue lettere inviate a G. Oddo nel settembre 1859 (De Maria, pp. 513 ss., 520).

Tale progetto si precisò quando egli, alla fine del mese, si ricongiunse a Genova col Pilo, il quale procurò alla spedizione il sostegno di Crispi, l’avallo di Mazzini e, soprattutto, la promessa, sia pure vaga, di Garibaldi d’intervenire in caso di successo. Il 26 marzo 1860 il Pilo e il C. partirono da Genova su una vecchia paranza, pilotata da R. Motto, e dopo una traversata avventurosa sbarcarono presso Messina nella notte dal 10 all’11 aprile, quando il moto della Gancia era stato ormai represso, ma bande di ribelli incombevano ancora su Palermo dalle alture circostanti e tutta l’isola era in grande fermento.

Il 12 aprile i due cospiratori s’incamminarono verso Palermo e lungo il percorso si dettero a rianimare le forze insurrezionali, incitandole a tenersi pronte per l’arrivo di Garibaldi, il quale peraltro esitava a muoversi, nell’attesa di notizie incoraggianti dalla Sicilia. Arrivati a Piana dei Greci, il 20 aprile, trovarono i resti delle squadre che si erano rifugiate colà dopo la sconfitta subita a Carini (18 aprile) e li riorganizzarono. Alla fine di aprile posero il loro quartier generale sull’altopiano dell’Inserra e al principio di maggio lo trasferirono a Carini, dove arruolarono volontari, fino a radunare più di mille uomini, dei quali il Pilo assunse la direzione politica e il C. quella militare. Intanto stabilivano contatti con quasi tutti i nuclei rivoltosi della Sicilia occidentale e con il comitato liberale di Palermo, meditando di attaccare la città e di accendere l’insurrezione generale nell’isola.

Il 12 maggio, però, seppero dello sbarco di Garibaldi e il 17 ricevettero una sua lettera che annunciava la vittoria di Calatafimi e disponeva che essi subordinassero la propria azione a quella dei Mille, limitandosi a molestare il nemico. Pertanto risalirono sui monti di San Martino, ma qui vennero assaliti, il 21 maggio, da preponderanti truppe borboniche: il Pilo fu ucciso, appena cominciò il combattimento, e il C. diresse una difficile ritirata a Montelepre. Con le squadre preservate dallo sbandamento, il 27 maggio investì Palermo da ovest, mentre i Mille vi irrompevano dalla parte quasi opposta, ma fu respinto e penetrò in città il giorno seguente. Dopo l’armistizio del 30 maggio fu inviato da Garibaldi incontro alla colonna di G. V. Orsini, che tornava da Corleone con l’artiglieria, e la scortò fino a Palermo (6 giugno).

Con questo episodio si conclude il resoconto che il C. dettò, successivamente, all’amico S. Mattei delle gesta compiute da lui e dal Pilo (F. Guardione, La spedizione di R. Pilo nei ricordi di G. Corrao, in Rass. stor. del Risorgimento, IV[1917], pp. 810-844).

La narrazione è scorrettissima nella lingua e pervasa d’ingenua presunzione, nondimeno consente di misurare l’importanza dei ruolo che ebbe il C. nella preparazione della impresa dei Mille, grazie alle molteplici entrature e al grande credito di cui disponeva in quel composito mondo popolare, talvolta malandrinesco, che alimentava la insorgenza isolana.

Ottenuta subito la fiducia di Garibaldi, e la nomina a colonnello dell’esercito meridionale (17 luglio), condusse nella battaglia di Milazzo (20 luglio) un reggimento di circa quattrocento picciotti, che egli stesso aveva reclutato, e vantò poi il contributo del proprio reparto alla vittoria in una relazione ancora più scorretta di quella citata, in quanto scritta interamente di suo pugno (G. Paolucci, G. C. e il suo battaglione alla battaglia di Milazzo, in Arch. stor. sicil., n. s., XXV [1900], pp. 127-145).

Ferito gravemente sul Volturno (1° ottobre), dovette rinunciare (15 novembre) al comando della brigata sicula, nel quale era succeduto a G. La Masa (18 ottobre). Tuttavia, volle intervenire a una riunione del comitato mazziniano di Napoli tenuta il 19 ottobre, due giorni prima del plebiscito, per sostenere che si doveva avanzare immediatamente verso Roma, minacciando che “se fosse avvenuta l’annessione egli sarebbe andato a Palermo a sollevare il popolo”, secondo la testimonianza di un ufficiale che riferì le vicende del reggimento Corrao nel corso della campagna meridionale (N. Rammacca, Da maggio ad ottobre 1860. Dalla Niviera di San Martino delle Scale a Santa Maria Capua Vetere in Documenti e memorie della rivoluzione siciliana del 1860, Palermo 1910, pp. 417-430).

Tornato a Palermo, si adoperò per dare effetto alle sue minacce, ponendosi a capo della protesta di vasti strati sociali contro il regime luogotenenziale e, specialmente, contro la coscrizione obbligatoria. Il suo impegno suscitò allarme nello stesso partito d’azione, di cui egli guidava l’ala sinistra locale: in una drammatica lettera, inviata da Torino il 29 apr. 1861, Crispi lo scongiurava, a nome proprio, di Garibaldi e di Mazzini, di “mantenere l’ordine”, paventando altrimenti ingerenze borboniche (Roma, Museo centrale dei Risorgimento, Carte Crispi, busta 657, fasc. 13).

Quando, nel luglio 1862, Garibaldi decise di muovere dalla Sicilia per liberare Roma, i picciotti radunati dal C. costituirono il nerbo della spedizione. Il 28 luglio egli si dimise con espressioni polemiche da colonnello dell’esercito regolare (La Campana della Gancia, 1° ag. 1862), per assumere, col grado di generale, la luogotenenza della Legione romana (8 agosto), in cui ebbe altresì il comando del reparto più consistente, cioè dell’unica brigata (13 agosto).

Il C. attribuiva all’impresa un significato eminentemente sovversivo e, appena intuì che essa sarebbe stata stroncata dal governo al di là dello stretto di Messina, tentò di convincere Garibaldi a restare in Sicilia per sollevarla e iniziare così la riscossa democratica nazionale (Pantano, pp. 63 s.).

Ad Aspromonte furono solo i siciliani della brigata Corrao, posta sulla destra dello schieramento legionario, che risposero alla fucileria delle truppe regie, nonostante l’ordine di non sparare ripetuto da Garibaldi. Cessato il fuoco, egli eluse l’accerchiamento alla testa di un consistente drappello di volontari, che ricondusse in Sicilia.

Qui mantenne in armi quattrocento uomini della sua brigata, pronti a entrare in azione qualora “Garibaldi e i suoi si mettessero sul banco per essere processati”, come rivelò a Crispi in una lettera del marzo 1863 (Roma, Arch. centrale dello Stato, Carte Crispi provenienti dall’Arch. di Stato di Palermo, fasc. 129, Sottofasc. 14).

Anche dopo che fu concessa l’amnistia per i fatti di Aspromonte, egli non smise, anzi intensificò i preparativi di una rivoluzione isolana che sarebbe dovuta dilagare in tutto il territorio italiano, ispirandosi a un generico programma di democrazia sociale. Appare infondata, infatti, l’accusa di separatismo che diffusero contro di lui principalmente gli azionisti moderati, allo scopo di incrinarne il carisma, come risultò falsa, per i funzionari di polizia più scrupolosi, la denuncia che egli stringesse accordi con borbonici e clericali,(Scichilone, pp. 148 s.); è probabile, invece, che si collegasse con gruppi di bassa mafia.

Il carattere unitario del suo progetto sedizioso può trovare conferma nella imputazione con cui egli venne tratto in arresto il 29 apr. 1863: era accusato, infatti, di volere “proclamar la repubblica nel Siciliano e nel Napolitano per incarico avutone da Garibaldi, il che dovea altresì avvenire nell’alta Italia” (Raffaele, p. 391).

Rilasciato pochi giorni dopo, scampò a una misteriosa aggressione omicida (Scichilone, p. 151), ma il 3 ag. 1863, nella imminenza del giorno anniversario di Aspromonte, per il quale si attendeva lo scoppio della insurrezione, egli venne ucciso in un agguato alle porte di Palermo. L’avvenimento ebbe enorme risonanza in Sicilia (Il Precursore, 5, 10, 13 agosto) e nella democrazia radicale italiana (per il cordoglio di Garibaldi si veda ibid., 28 agosto), ma il processo contro gli ignoti assassini venne archiviato in fretta e, in seguito, il fascicolo contenente gli atti istruttori scomparve dagli archivi del tribunale palermitano.

Autorevoli fonti memorialistiche – innanzitutto la testimonianza di E. Pantano, corredata da un’ampia e impressionante documentazione, cui hanno poi attinto le ricostruzioni storiografiche più accurate – inducono a ricercare la matrice del delitto nella collusione locale tra la polizia, i settori crispini del partito d’azione e la nascente alta mafia governativa.

Fonti e Bibl.: Notizie sul C. sì possono ricavare da: Palermo, Società siciliana per la storia patria, Sala Lodi, carpetta 8, camicia 4, Cenni biogr. di G. C. (manoscritto anonimo, forse di G. Paolucci); R. Viliari, Cospirazione e rivolta, Messina 1882, pp. 40, 49, 451-462, 681; F. Guardione, Il dominio dei Borboni in Sicilia dal 1830 al 1861, II, Torino 1907, ad Indicem;G. Manacorda, in Diz. del Risorg. naz., II, Milano 1930, sub voce;G. Falzone, Il “general C.”in Arch. stor. sicil., s. 4, I (1975), pp. 169-187. Per la sua partecipazione ai fatti del 1848-49 si veda. G. La Masa, Documenti della rivoluz. siciliana del 1847-49, I, Torino 1850, p. 89; P. Calvi, Mem. stor. e critiche della rivoluzione sicil. del 1858, III, Londra [ma Malta] 1851, p. 330; G. Arenaprimo, La rivoluz. del 1848 in Messina, in Memorie della rivoluz. siciliana dell’anno MDCCCXLIII, I, Palermo 1898, pp. 110, 125 s.; D. Piraino, Mem. stor. messinesi dell’ultima guerra, dal 3 al 7 sett. 1848, Messina 1929, pp. 18, 20; L. Tomeucci, Messina nel Risorg., Milano 1963, ad Indicem. Per il periodo dell’esilio si veda: U. De Maria, Pagine ignorate di G. C. precursore dei Mille, in Atti della R. Acc. di scienze lettere e arti di Palermo, s. 4, II (1941), 2, pp. 489-529; G. Berti, I democratici e l’iniziativa merid. nel Risorgimento, Milano 1962, pp. 720 ss.; N. Giordano, Lettere scelte dal carteggio di G. Oddo presso la Soc. sicil. di storia patria, in Il Risorg. in Sicilia, n. s., III (1967), pp. 25-34; Lettere di R. Pilo, a cura di G. Falzone, Roma 1972, ad Indicem. Sulla impresa compiuta con R. Pilo nel 1860 e sulla sua partecipazione alla campagna garibaldina nel Mezzogiorno si veda: R. Motto, Relazione esatta della spedizione di R. Pilo e F. C. avvenuta nel 1860, Pisa 1877; G. Garibaldi, Le memorie … redazione definitiva … 1872, (ed. naz.), pp. 413, 434 ss.; Id., IMille (idem), ad Indicem;Id., Scritti e discorsi politici e militari (idem), I, p. 289; C. Agrati, I Mille nella storia e nella leggenda, Milano 1933, ad Indicem;G. Mazzmi, Scritti editi ed inediti, (ed. naz.), LXVIII, p. 136; E. Librino, R. Pilo nel Risorg. ital., in Arch. stor. sicil., s. 3, III (1948-49), pp. 1-261; G. Falzone, Sicilia 1860, Palermo 1962, pp. 49-60, 123-130, 171-203; P. Pieri, Storia militare del Risorg., Torino 1962, ad Indicem. Per la sua attiv. dal 1861 al 1863: G. Bruzzesi, Dal Volturno ad Aspromonte, Milano s. d., pp. 93 s., 96, 99, 113 ss., 118, 121, 124 s., 127 s., 133, 270, 290-293, 325 e passim;R. Maurigi, Aspromonte. Ricordi storico-militari, Torino 1862, pp. 7, 31 ss., 41, 53, 55 s. e passim;G. Pagano, Avvenimenti del 1866. Sette giorni d’insurrezione a Palermo, Palermo 1867, pp. 24, 26, 29 s.; G. Guerzoni, Garibaldi, II, Firenze 1882, pp. 303 s.; G. Raffaele, Rivelaz. stor. della rivoluzione dal 1848 al 1860, Palermo 1883, pp. 390 ss.; F. Guardione, Aspromonte, Palermo 1923, ad Indicem;G. Garibaldi, Le memorie, pp. 493, 610 s.; G. Pipitone Federico, Lo spirito pubblico in Sicilia prima e dopo la tragedia di Aspromonte, in La Sicilia nel Risorg. ital., II (1932), I, pp. 110, 122; E. Pantano, Memorie. Dai rintocchi della Gancia a quelli di S. Giusto, I, (1860-1870), Bologna 1933, ad Indicem;G. Scichilone, Documenti sulle condizioni della Sicilia dal 1860 al 1870, Roma 1952, ad Indicem; P.Alatri, Lotte polit. in Sicilia sotto il governo della Destra (1866-74), Torino 1954, ad Indicem;F. Brancato, La Sicilia nel primo ventennio del Regno d’Italia, in Storia della Sicilia post-unificazione, I, Bologna 1956, ad Indicem;G. Cerrito, Radicalismo e socialismo in Sicilia (1860-1882), Messina-Firenze 1958, ad Indicem; S.F. Romano, Storia della mafia, Milano 1963, pp. 117-120; L. Sciascia, I pugnalatori, Torino 1976, p. 67.

 

 

 

 

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  • Antonino Russo

    Giovanni Corrao, vittima della mafia? come fate a considerarlo una vittima se egli guidava le squadre di gabellotti e delinquenti comuni servi dei baroni che tenevano in ostaggio la Sicilia dai Borbone. Corrao, sebbene fosse mazziniano, dette un sostegno alle forze baronali, facendosi assoldare, assieme a Pilo e La Masa, dai massoni liberal-repubblicani e dagli agenti piemontesi in presenza privata, intervenuti dopo la richiesta di sostegno da parte dei baroni. Lo stesso Corrao, insieme ai mafiosi della Mamma siciliana e con l’autorizzazione dei baroni autobattezzatesi liberali o repubblicani, manovrò il popolo basso siciliano per fargli trasmettere la propaganda di odio verso la dinastia non tirannica fino a istigarlo con la forza. Casomai la vittima di Cosa Nostra lo era Rosolino Pilo, perché veniva colpito improvvisamente e follemente da un mafioso in fuga dopo la perdita dei primi soldati mercenari dell’esercito garibaldesco in uno scontro con gli soldati duosiciliani a San Martino. Una persona che si allea con la criminalità organizzata per fare un favore ad una élite desiderosa a prendere il potere non può essere chiamata vittima. Purtroppo ho il timore che Corrao sia il mandante dell’omicidio di Pilo per la gelosia che la vittima avesse preso il comando delle intere squadre di picciotti, maggiormente mafiosi e pochi di estrazione popolare, e un picciotto mafioso meno esperto di armi, offeso per lo schiaffo ricevuto da Pilo per il suo atteggiamento prepotente, lo avrebbe fatto fuori. Quindi la vittima della mafia siciliana è Rosolino Pilo, non Corrao.

  • Livio Cortese

    Forse bisognerebbe staccarsi un po’ da certe definizioni. Il generale Corrao doveva avere un certo carisma, diciamo, e capacità aggregativa. “Lavorava” con la gente che aveva a disposizione, certo senza chiedere loro la fedina penale. Erano condizioni di emergenza! Che poi questa gente combattesse per il proprio utile, oppure per sincero patriottismo, o per il gusto di battersi… era comunque utile all’unificazione nazionale.
    Non credo molto alla “dinastia non tirannica” dei Borboni; e penso ci credessero meno ancora la maggioranza dei patrioti di allora, di spiccato orientamento repubblicano. La valutazione di Garibaldi e dei suoi di “puntare” sul Regno di Sardegna (imparentati coi Borbone, figurati come vanno le cose tra famiglie regnanti…) si spiega con ragioni logistiche e strategiche: Garibaldi stesso non ha utilizzato la propria posizione per fare carriera politica o militare, come si sa. E la scelta di fare dell’Italia un regno dev’essere dipesa dalla volontá di vedere nazione e popolo in qualche modo coesi, uniti. Tant’é che dopo l’unità, decenni dopo, figli e nipoti di G Garibaldi continuavano a portarne avanti il pensiero e l’azione in vari contesti bellici. Mai da mercenari (anche se, come classica accusa, piace sempre…) : in tempo di pace, ciascuno svolgeva il proprio mestiere. Alcune fonti parlano di “prove di golpe” che i repubblicani italiani compivano ancora alla vigilia della prima guerra mondiale, che peró rimescoló le carte in modo poi inestricabile.
    La massoneria…c’era. Ha avuto un ruolo determinante nella storia e nell’unificazione italiana, si sa e c’é poco da fare. Determinante in termini di appoggi, mezzi, contatti sovranazionali.
    (Benché interessato all’argomento, non farei parte di una loggia,é qualcosa che non mi appartiene.)
    Ma questo non rende piú losco o deteriore il Risorgimento: si tratta pur sempre di gruppi costituiti da persone, esseri umani, con le proprie motivazioni e i propri caratteri. C’é chi é in buona fede e chi no. Non si puó essere categorici e buttare via la massoneria solo perché abbiamo sentito parlare (e quanti sono andati oltre gli articoli di giornale?) di logge P2 e simili, o perché si dá retta soltanto a fonti cattoliche,necessariamente avverse a concentrazioni di potere non ecclesiastiche.
    Certo, si puó essere rigorosamente di parte illudendosi che ció significhi rigore, carattere e decisione. Ma questo vuol dire raggiungere (forse) il 50% di una qualsivoglia “verità”. Veramente troppo poco.
    E pensando al senso di una nazione, di un popolo uniti, non è possibile essere per una parte sola o sperare nel sopravvento di una maggioranza. Troppi esempi storici xi mettono in guardia.

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