30 Giugno 1963 Palermo. Strage di Ciaculli. Dilaniati da un’auto bomba Mario Malausa, Silvio Corrao, Calogero Vaccaro, Eugenio Altomare, Marino Fardelli, Pasquale Nuccio e Giorgio Ciacci.

Funerale dopo la strage di Ciaculli (borgata di Palermo).
Foto da: digilander.libero.it

 La Strage di Ciaculli-Villa Sirena, località sita sulla stradale Gibilrossa-Villabate (Palermo], avvenne il 30 giugno del 1963 e fu il culmine di una serie di omicidi di boss di primo piano e a Villabate, poche ore prima, di due vittime innocenti, Giuseppe Cannizzaro e Giuseppe Tesauro, con l’esplosione di un’altra auto che avrebbe dovuto uccidere un’altro boss.

“A metà mattinata, arrivò una telefonata alla questura di Palermo, durante la quale l’interlocutore diceva che c’era un’automobile abbandonata in aperta campagna. La polizia si precipitò subito sul luogo, a Ciaculli dove trovò un’Alfa Romeo Giulietta, con gli sportelli aperti e una ruota a terra. Si capì subito che si trattava di un’auto bomba, anche perché nelle prime ore della stessa mattinata era scoppiata un’altra Giulietta a Villabate uccidendo un fornaio e un meccanico. Due ore dopo arrivarono gli artificieri che controllarono la macchina e dopo aver tagliato la miccia, leggermente bruciata di una bombola di gas situata al suo interno, dissero che ci si poteva avvicinare perché non c’era più pericolo.

Ma quando, il tenente Mario Malausa, aprì il bagagliaio per ispezionarlo, si provocò l’innesco della grande quantità di tritolo che c’era al suo interno. Si ebbe una grande deflagrazione che provocò una strage: morirono, dilaniati dalla defraglazione il tenente dei carabinieri Mario MALAUSA, i marescialli Silvio CORRAO e Calogero VACCARO, gli appuntati Eugenio ALTOMARE e Mario FARDELLI, il maresciallo dell’esercito Pasquale NUCCIO, il soldato Giorgio CIACCI.

Con questo atto criminoso si ebbe la conclusione della “prima guerra di mafia” nella Sicilia martoriata dal secolare terrorismo mafioso.
Le indagini, all’epoca, si concentrarono su un attentato fallito nei confronti del boss di Ciaculli Salvatore Greco, da parte dei rivali della cosca La Barbera, ma nessuno venne mai formalmente rinviato a giudizio per la strage.

Successive indagini investigative e giornalistiche avevano ipotizzato che obiettivo dell’attentato fossero gli stessi Carabinieri della Tenenza di Roccella e soprattutto il loro comandante, tenente Mario Malausa, autore di un rapporto alla magistratura sugli intrecci tra mafia e politici locali. In ogni modo, ancora oggi autori e mandanti della strage di Ciaculli sono ignoti e il caso,quindi, viene, ad oggi, considerato insoluto.

La strage, però, provocò una forte reazione dell’opinione pubblica e in particolare delle forze dell’ordine: le vittime erano tutti servitori dello Stato. Il governo procedette a centinaia di denunce e arresti, in Parlamento vennero varate alcune misure urgenti. Ma soprattutto si mise al lavoro la Commissione Antimafia. Costituita a febbraio dello stesso anno la commissione era rimasta inoperante. Ma sull’onda delle reazioni popolari e politiche alla strage di Ciaculli, il 6 luglio del ’63 era già insediata. Le audizioni della commissione si tennero dal 15 al 18 gennaio del ’64 al Palazzo dei Normanni di Palermo, sede dell’Assemblea regionale. Davanti ai membri della commissione furono convocati i maggiori esponenti della magistratura, della polizia, dei carabinieri, rappresentanti della stampa e delle istituzioni siciliane.
È diventato un cold case. Un silenzio grave che ancora oggi reclama verità”. (mazaracult.blogspot.it)

 

 

Funerale dopo la strage di Ciaculli (borgata di Palermo). Foto da: digilander.libero.it

 

 

Fonte: wikipedia.org

La strage di Ciaculli è stata un attentato mafioso, in cui hanno perso la vita sette uomini delle forze dell’ordine. La strage di Ciaciulli-Villa Serena fu una delle più sanguinose stragi ad opera della mafia durante gli anni sessanta che concluse la prima guerra di mafia della Sicilia del dopoguerra.

Ebbe luogo in contrada Ciaculli a Palermo il 30 giugno 1963: un’Alfa Romeo Giulietta imbottita di esplosivi uccise il tenente dei carabinieri Mario Malausa, i marescialli Silvio Corrao e Calogero Vaccaro, gli appuntati Eugenio Altomare e Marino Fardelli, il maresciallo dell’esercito Pasquale Nuccio, il soldato Giorgio Ciacci.

Questa guerra vide le uccisioni di importanti boss mafiosi: Salvatore La Barbera, Cesare Manzella e Salvatore Gambino. Vittime innocenti di un attentato ad un mafioso locale, caddero invece Pietro Cannizzaro e Giuseppe Tesauro rimasti uccisi dall’esplosione di un’auto imbottita di tritolo a Villabate. Il 30 giugno 1963, poche ore dopo quest’ultimo attentato, a seguito di una telefonata alla questura di Palermo, avvisante della presenza sospetta di un’auto una pattuglia di carabinieri si recò sulla stradale Gibilrossa-Villabate (Palermo) rinvenendo una Alfa Romeo Giulietta abbandonata con le portiere aperte. Sospettando che si trattasse di un’autobomba venne chiamata una squadra di artificieri. Questi ispezionarono l’auto e tagliarono la miccia di una bombola trovata all’interno e quindi dichiararono il cessato allarme. Viceversa l’apertura del bagagliaio da parte del tenente Mario Malausa, comandante della tenenza di Roccella, causò l’esplosione della grande quantità di tritolo ivi contenuta.

Le investigazioni ipotizzarono un mancato attentato preparato dalla cosca La Barbera contro il rivale boss di Ciaculli Salvatore Greco, tuttavia nessuno venne mai rinviato a giudizio. Si ipotizza che per questa guerra mafiosa con autobombe i boss mafiosi possano aver utilizzato come consulenti artificieri esperti dell’OAS, reduci della stagione di attentati con autobombe in Algeria durante la tentata repressione della insurrezione algerina nel 1962.

Altre indagini ed ipotesi giornalistiche conclusero che l’obiettivo della strage dovesse essere il tenente Malausa a causa di un rapporto che aveva consegnato alla magistratura riguardante gli intrecci fra politica locale e mafia.

Ad oggi non si conoscono i nomi dei mandanti degli autori di questa strage ed il caso è insoluto.

 

 

 

 

Fonte: ancispettoratosicilia.it 
MARESCIALLO CALOGERO VACCARO nato a Naro nel 1919.

Maresciallo Capo della Stazione dei Carabinieri di Roccella, ha ricevuto il 31 ottobre 1963 un encomio solenne alla memoria che così lo ricordava: “ Comandante di Stazione, partecipava in ambiente particolarmente difficile per senso di omertà, a complesse indagini per la identificazione ed arresto degli autori responsabili di omicidi ed atti intimidatori. In seguito all’improvvisa esplosione di un ordigno posto da malfattori all’interno di un’autovettura, cadeva vittima del dovere unitamente ad altri militari”. Lasciava moglie e figlio, Ignazio.

 

 

 

Fonte: mnews.it

CARABINIERE EUGENIO ALTOMARE

Il carabiniere Eugenio Altomare, aveva 31 anni. Era sposato da soli quindici giorni. (La Stampa del 1 Luglio 1963)

 

Fonte:  carabinieri.it
ALTOMARE Eugenio

Carabiniere Medaglia d’Oro al Merito Civile “alla memoria” nato a Rogliano (CS) il 21 gennaio 1931 – deceduto a Palermo il 30 giugno 1963.

È stato insignito della Medaglia d’Oro al Merito Civile “alla memoria” con la seguente motivazione: “con eccezionale coraggio ed esemplare iniziativa, nonostante il clima di forte tensione per il rischio di possibili attentati mafiosi, non esitava unitamente ad altri colleghi a ispezionare un’autovettura abbandonata al cui interno un ordigno era stato disinnescato dai militari artificieri, venendo mortalmente investito dalla violenta deflagrazione di un ulteriore ordigno proditoriamente occultato nel vano portabagagli”. Palermo il 30 giugno 1963.

Alla sua memoria è intitolata, dal 16 novembre 2012, la Caserma sede della Compagnia Carabinieri di Rogliano (CS).

 

 

 

CARABINIERE MARINO FARDELLI

 

Fonte foto: cassino2000.com

 

Fonte: carabinieri.it

FARDELLI MARINO

Carabiniere Medaglia d’Oro al Merito Civile “alla memoria”, nato a Cassino il 16 giugno 1943 – deceduto il 30 giugno 1963.

Alla sua memoria è intitolata, dal 25 giugno 2013, la Caserma sede del Comando Compagnia Carabinieri di Cassino (FR).

Fu insignito della Medaglia d’Oro al Merito Civile “alla memoria” con la seguente motivazione: “con eccezionale coraggio ed esemplare iniziativa, nonostante il clima di forte tensione per il rischio di possibili attentati mafiosi, non esitava unitamente ad altri colleghi a ispezionare un’autovettura abbandonata al cui interno un ordigno era stato disinnescato dai militari artificieri, venendo mortalmente investito dalla violenta deflagrazione di un ulteriore congegno esplosivo proditoriamente occultato nel vano portabagagli. Chiaro esempio di elette virtù civiche ed altissimo senso del dovere, spinto fino all’estremo sacrificio. Palermo 30 giugno 1963”.

 

 

Fonte: cassino2000.com
Un monumento ed un piazzale a Caira ne tramandano la memoria
Il carabiniere Marino Fardelli: il sacrificio della vita in difesa delle Istituzioni
di Marino Fardelli

A 40 anni dalla strage di Ciaculli ne rievoca il sacrificio il nipote, che porta lo stesso suo nome.

[…]
Intanto a Caira, frazione di Cassino, paese natale del carabiniere Marino Fardelli, forte era lo sgomento e la rabbia per la morte così atroce di un proprio compaesano.

“Era il 30 giugno 1963, quasi a sera, eravamo circa cento persone tutte assiepate nella locale sezione D.C. di Caira, tutti attenti e commossi nel vedere in diretta televisiva l’elezione del papa Pio VI quando la diretta stessa venne interrotta da un’edizione straordinaria del “comunicato” che diede la notizia del terribile attentato, senza però fare nessun tipo di nome. Mentre si commentava il tragico evento, dopo un bel po’ arrivarono a Caira dei carabinieri che chiesero a noi ragazzi seduti quasi dinanzi all’attuale Posta, dove abitava la famiglia Fardelli. I carabinieri parlarono con uno zio, Francesco, che si preoccupò lui di dare la tragica notizia ai familiari. Subito in paese si sparse la voce. Tutti corremmo in Via Pila dove risiedeva la famiglia per rendere omaggio e cordoglio. Tanta tristezza avvolse il paese intero in pochi minuti9.
La salma proveniente dalla Sicilia, giunse il 3 luglio alle ore 22 alla stazione ferroviaria di Cassino. A riceverla c’erano un gruppo di carabinieri, alcuni familiari e parecchi amici e conoscenti. “Una volta raggiunta Caira, le spoglie sono state deposte e vegliate nella camera ardente allestita nella cappella mobile, colà funzionante dallo scorso mese di novembre, cioè da quando ebbe a verificarsi la sciagura del crollo del tetto della chiesa in muratura”.

Ricorda l’allora consigliere comunale Prof. Giuseppe Del Greco: “La sera dell’arrivo della salma feci, insieme ad altri tre collgehi consiglieri comunali, la veglia funebre all’interno della tenda allestita a camera ardente”.
Parteciparono alla funzione funebre, celebrata la mattina del 4 luglio vero le ore 9, oltre alle massime autorità locali e provinciali, l’intera popolazione della frazione di Caira e abitanti del centro di Cassino.
“La piazza adiacente la chiesa era stracolma, tutto il paese volle salutare Marinuccio. Lungo la strada erano presenti tante corone di fiori tutte tricolori, portate dai molti giovani del paese che parteciparono emozionati alla celebrazione funebre”.

 

 

 

TENENTE DEI CARABINIERI MARIO MALAUSA

Fonte: onoreaglieroi.splinder.com

Mario Malausa, tenente dei Carabinieri (Tripoli 27.01.1938 – Palermo 30.06.1963), lasciava la mamma Marianna, il papà Natale, veterinario, che morirà, stroncato dal dolore pochi mesi dopo, il 24.01.1964 e il fratello Franco.

Franco Malausa, noto imprenditore di Envie, deceduto nell’anno 2003, fu il primo parente delle vittime di mafia a costituirsi parte civile nel processo di Catanzaro.

Il Tenente Malausa aveva dato grandi grattacapi alla mafia. Dall’osservatorio della stazione dei carabinieri di Roccella ha saputo cogliere l’essenza del problema mafioso.

Sono suoi i primi rapporti, naturalmente inascoltati, che inquadrano nella giusta luce l’occupazione del potere da parte delle cosche e dei loro referenti politici. Malausa ha fatto nomi e cognomi.

Il 30 giugno del 1988, a ricordo del venticinquesimo anno dalla strage di Ciaculli, il Comune di Revello ha posato una targa nella strada del Centro Storico che collega le vie Vittorio Emanuele III e Giovanni Giolitti, già intitolata a Mario.

 

 

Fonte: archiviolastampa.it
Articolo del 1 luglio 1963
Il tenente ucciso abitava a Revello
Ultima dell’attentato “mafioso
La famiglia è originaria di Barge – Il padre è veterinario condotto, il fratello dirigente di industrie a Benevagienna e Bra

Saluzzo, lunedì mattina.

Il tenente dei carabinieri Mario Malausa, che ha trovato ieri tragica morte nell’attentato dinamitardo di borgata «Ciaculli» a Palermo, era molto noto nella nostra città, dove, nel 1957, si era diplomato in ragioneria. Abitava a Revello, dove suo padre, il dottor Natale Malausa, è il veterinario condotto; la casa dei genitori dello sfortunato ufficiale sorge in viale Umberto 7.

Mario Malausa aveva anche un fratello maggiore, Franco, di 26 anni, il quale è dirigente industriale: attualmente si occupa di due stabilimenti, uno a Benevagienna e l’altro a Bra.

Il giovane tenente dei carabinieri aveva compiuto gli studi medi a Saluzzo dopo il trasferimento della sua famiglia da Barge, di dove è originaria; dopo il conseguimento del diploma in ragioneria, era stato accolto all’Accademia militare di Modena e ne era uscito per frequentare a Torino, da sottotenente, la Scuola d’Applicazione d’Arma. Conseguito il grado di tenente in s.p.e. era stato assegnato a un reparto di carristi, ma ben presto aveva preferito entrare nell’Arma dei carabinieri e dopo il periodo di studio e di preparazione a Roma, dove si era brillantemente classificato, era stato mandato in prima nomina alla tenenza suburbana di Palermo.

Negli scorsi mesi, nonostante fosse nuovo dell’ambiente e non avesse ancora una grande esperienza pratica, le sue attitudini e la sua grande capacità di lavoro lo avevano particolarmente distinto; parecchie volte le cronache dei giornali palermitani lo avevano citato fra i più attivi nelle operazioni di controllo e di repressione del fenomeno tristissimo della malavita, di cui è infine caduto vittima.

La notizia della sua tragica fine è stata comunicata ieri pomeriggio ai familiari dal capitano Luigi Moiraghi, comandante della compagnia dei carabinieri di Saluzzo. Non si voleva che i genitori dell’infelice ufficiale apprendessero la terribile verità dai giornali. Lo avevano visto per l’ultima volta a Natale, durante una breve licenza, e lo attendevano presto a casa per un nuovo periodo di riposo. v. i.

 

 

 

 

Fonte:cadutipolizia.it
MARESCIALLO DI PUBBLICA SICUREZZA SILVESTRO CORRAO

Il maresciallo Silvio Corrao era uno dei migliori investigatori della Squadra Mobile di Palermo. In forza alla Sezione Omicidi, aveva arrestato oltre cinquanta assassini. Sposato, fuori servizio amava frequentare la libreria Flaccovio, ritrovo di intellettuali palermitani, e gli ambienti culturali della città.

Tutto ciò che fu ritrovato di lui e che venne riconsegnato alla moglie furono la fede nuziale, una scarpa, la cinghia dei pantaloni e la fondina della pistola.

 

 

 

Il maresciallo dell’esercito Pasquale Nuccio

Si ringrazia per la foto Giovanni Perna di Dedicato Alle Vittime Delle Mafie

“Il maresciallo artificiere Pasquale Nuccio era in licenza e sarebbe dovuto tornare in servizio nella giornata di oggi. Era stato invitato dal Comiliter a recarsi sul luogo dove era stata abbandonata la «Giulietta». Aveva una esperienza di disinnescatore, quasi trentennale. Circa due anni fa aveva disinnescato una bomba di aereo inesplosa di 500 chili, trovata in via Isidoro La Lumia, a Palermo, durante gli scavi per la costruzione di un palazzo.”  (La Stampa del 1 Luglio 1963)

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Il soldato Giorgio Ciacci.

Si ringrazia per la foto Giovanni Perna di Dedicato Alle Vittime Delle Mafie

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Fonte: ancispettoratosicilia.it

La cosiddetta “Strage di Ciaculli” ebbe luogo una torrida mattina del 30 giugno 1963.

Ecco il racconto di come andarono le cose.

Alle ore quattordici e trenta del giorno 30 giugno 1963, nella caserma dei carabinieri di Palermo suonava il telefono che informava i militari di un’automobile sospetta “Giulietta”, parcheggiata davanti al viale di Villa Serena (Borgata Ciaculli), presso i fondi dei fratelli Salvatore e Giovanni Prestifilippo.

Dopo lo scoppio di un’automobile nell’autorimessa del Di Peri, avvenuto durante la notte a Villabate, che aveva causato la morte di due persone, dal mattino e per tutta la giornata, Polizia e Carabinieri avevano ricevuto più segnalazioni di macchine sospette, ritrovate in diverse parti della Città. Per tutti questi veicoli erano stati chiamati gli artificieri del Corpo d’Armata per eseguire le dovute ispezioni.

L’Alfa Romeo Giulietta riempita di esplosivo, deflagrata a Villabate, era stata posizionata dinanzi a un’autorimessa di proprietà di un parente della famiglia Greco; la due persone rimaste uccise furono il guardiano ed un altro innocente passante.

Non era una novità.

Negli anni tra il 1962 ed il 1963 Palermo era in preda alla Prima Guerra di Mafia che vedeva contrapposti i clan Greco e La Barbera, in lotta per la supremazia nel settore del traffico della droga che in quegli anni vedeva una prima, impetuosa fioritura. Decine di persone vennero assassinate, alcune delle quali con l’uso di autobomba.

LA TELEFONATA

La solita telefonata” pensò l’appuntato al centralino, sporgendo il messaggio sulla scrivania del tenente Mario Malausa.

L’ufficiale prese il foglietto e diventò subito pensieroso. Sapeva che Villa Serena non era un posto qualunque. Vi abitava Totò Greco; la segnalazione era quindi di massimo interesse.

Il giovane ufficiale ordinava subito di mandare una pattuglia a piantonare l’automobile sospetta. – Che nessuno la tocchi e nessuno si avvicini !-.

Subito venne anche richiesto l’intervento degli artificieri del Corpo d’Armata. Quindi, dopo aver indossato cinturone e cappello, il tenente uscì dall’ufficio per avviarsi sul luogo segnalato ordinando al piantone di avvisare la Questura; il Comando Provinciale dei Carabinieri l’aveva già informato lui stesso.

LA GIULIETTA SOSPETTA

Quando Malausa giunse nel viale di Villa Serena, presso l’automobile sospetta erano già presenti due carabinieri e un uomo in borghese, il maresciallo di P.S. Silvio Corrao.

Il tenente strinse la mano al sottufficiale e salutò militarmente i due militari. Così fece anche il maresciallo Calogero Vaccaro, che aveva accompagnato Malausa. Gli artificieri ?- domandò subito l’ufficiale. – Arriveranno tra poco: stavano ultimando una verifica al centro -, rispose il maresciallo Vaccaro.

Intanto Corrao stava mostrando una bombola di gas liquido posta all’interno della “Giulietta”.

Vicino al bocchettone della bombola si intravedeva un pacchetto di carta avvolto con filo comune e una cordicella annerita all’estremità. – Ma quella è una miccia !- esclamò il tenente. – Una miccia che non ha bruciato – rispose il maresciallo Corrao.

La cosa era così evidente che l’ufficiale avrebbe voluto aprire lo sportello per verificare lui stesso il congegno ma decise di soprassedere: di certi aggeggi era meglio non fidarsi. Sarebbero stati gli artificieri a sbrogliare la situazione.

Poco dopo un’altra automobile dell’ Esercito Italiano si fermò all’imbocco della via e ne discesero due uomini vestiti in borghese: erano gli artificieri mandati dal Corpo d’Armata. Il tenente dei Carabinieri e i suoi subalterni li conoscevano bene: avevano lavorato insieme in almeno altre dieci occasioni.

Sorridenti si salutarono: non pensavano certo alla tragedia ormai imminente.

LA BOMBA

Corrao scambiò con il maresciallo Pasquale Nuccio, artificiere da molti anni, affettuose pacche sulle spalle; si chiesero notizie su moglie e figli mentre tutti intanto si avvicinavano alla “Giulietta”, compresi i due Carabinieri Mario Fardelli ed Eugenio Altomare.

– La miccia deve essersi spenta per qualche motivo – mormorò l’aiuto artificiere Giorgio Ciacci mentre andava disponendo sul cofano dell’autovettura un paio di pinze, un cacciavite, un paio di forbici da elettricista ed altri arnesi contenuti in una borsa.

– Sarà lavoro di un minuto: il pacchetto conterrà dell’esplosivo, ma sarà inerte; avrebbe dovuto esplodere con la miccia e far esplodere anche la bombola. Comunque sarà meglio che stiate tutti lontano e che non facciate avvicinare nessuno -.

– Siamo solo noi; ma staremo lontani -. Così dicendo il tenente Mario Malausa aveva dato l’esempio allontanandosi, seguito dal maresciallo Vaccaro, da Corrao e dai due Carabinieri.

Ciacci, dal vetro dello sportello, aveva dato uno sguardo all’interno e aveva azionato la maniglia della portiera: la vettura era aperta.

Fu un lavoro di due o tre minuti e il maresciallo Nuccio staccò il piccolo involto dal bocchettone della bombola e lo passò a Ciacci. – Non scoppia, mettilo via, è tritolo -.

LA STRAGE

Malausa e gli altri si erano di nuovo tutti avvicinati.

La bombola era piena e Nuccio faticava a farla uscire dallo sportello; Ciacci girò attorno alla macchina per dargli una mano dall’altra parte; dall’interno Nuccio, che ignorava del tutto la presenza di un sistema a doppia carica, aveva tolto la sicura; il lavoro era concluso.

Dopo qualche istante tutto finì in una fiammata accecante e in un boato spaventoso.

Un grosso polverone coprì tutto sollevandosi verso il cielo in volute dense e biancastre. Parecchie case nei dintorni ebbero tutti i vetri frantumati; fu anche danneggiata Villa Serena e per un raggio di 200 mt. piovvero detriti e pezzi di lamiera.

La bombola aveva solo rappresentato un esca e una seconda poderosa carica esplosiva, collegata alla porta del portabagaglio con un congegno a strappo, era stata attivata dal tenente Mario Malausa che lo aveva aperto.

Un solo carabiniere, gravemente ferito e rimasto paralizzato per il resto della vita, si salvò.

Era risaputo che Greco “cicchiteddu”, al quale secondo le ricostruzioni ufficiali era indirizzata la bomba, non dormiva da mesi in casa: già dall’attentato di febbraio si era visto che non abitava più a Ciaculli.

Le indagini dell’epoca si concentrarono su un attentato fallito nei confronti del boss di Ciaculli Salvatore Greco, da parte dei rivali della cosca La Barbera, ma nessuno venne mai formalmente rinviato a giudizio per la strage.

Successive indagini investigative e giornalistiche hanno ipotizzato che obiettivo dell’attentato fossero gli stessi Carabinieri della Tenenza di Roccella e soprattutto il loro comandante, tenente Mario Malausa, autore di un rapporto alla magistratura sugli intrecci tra mafia e politici locali.

Ad ogni modo, ancora oggi autori e mandanti della strage di Ciaculli sono ignoti e il caso è da considerarsi insoluto

LA RISPOSTA DELLO STATO

L’opinione pubblica insorse e la stampa si rese interprete del dolore e dell’orrore della generalità degli italiani che chiedevano giustizia per queste sette vittime della mafia.

La reazione dello Stato fu immediata e poderosa. In Sicilia sbarcano migliaia di carabinieri, l’isola venne rastrellata.

L’anno successivo verrà costituita la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia.

 

 

 

Articolo da L’Unità del 1 Luglio 1963
Esplode una Giulietta carica di tritolo 
di G. Frasca Polara
Orrendamente dilaniati gli artificieri che stavano aprendo il cofano dell’auto.
Uccisi sul colpo anche quattro carabinieri e un maresciallo di P. S.

PALERMO, 30
Il terrorismo mafioso ha seminato oggi pomeriggio la Morte fra le forze di polizia con l’ormai sperimentatissimo Sistema della «Giulietta» imbottita di esplosivo: nello spaventoso attentato dinamitardo sono rimasti uccisi quattro carabinieri (fra i quali un giovanissimo ufficiale), due artificieri – dell’esercito, un maresciallo della Squadra Mobile. Altri 4 carabinieri sono ricoverati in ospedale con ferite più o meno gravi.  Teatro della terrificante carneficina è stata, ancora una volta, la borgata palermitana dei Ciaculli, una delle centrali della criminalità mafiosa, da cui negli ultimi mesi sono partite le sentenze di morte per parecchi nemici della sanguinaria cosca dei Greco.

Probabilmente anche l’attentato di oggi ha un legame preciso con la guerra fra i Greco ed i La Barbera, che ha già provocato lo sterminio di decine di delinquenti dell’una e dell’altra parte impegnati nella lotta per il controllo della speculazione edilizia e dei merceati generali. La strage — ma ormai qualunque termine è troppo inadeguato per descrivere ciò che sta accadendo da sei mesi nel capoluogo siciliano — è avvenuta alle 16.15 esatte a conclusione di intense ore di indagini e di rilievi che polizia, carabinieri ed esercito stavano compiendo per far luce su un altro attentato compiuto stanotte: ancora una carica di tritolo fatto esplodere nel vicinissimo centro di Villabate e che ha causato un morto e due moribondi. Stamane, mentre erano ancora in corso le indagini per  l’attentato di Villabate ed appariva sempre più chiaro che esso doveva essere collegato alla guerra mafiosa di Palermo, una segnalazione anonima giungeva in questura: in un fondo a Ciaculli, all’interno di «Villa Serena», era stata rinvenuta apparentemente abbandonata una «Giulietta» con gli sportelli aperti ed all’interno della quale si notava una bombola di gas liquido.

Sul posto, poco dopo le 10, data l’eccezionalità della segnalazione, giungevano il capo della Mobile, Madia, il comandante del gruppo interno dei carabinieri, colonnello Siracusano, il comandante del nucleo di polizia giudiziaria, maggiore Favale, con i loro uomini. L’auto — di provenienza furtiva e per di più con targa falsa — aveva una gomma a terra e tutto lasciava ritenere che fosse stata abbandonata sul posto in seguito ad un fallito attentato dinamitardo.

Alla bombola infatti era colllegata una miccia bruciacchiata. Il dott. Madia chiedeva l’intervento degli artificieri dell’esercito ed in attesa del loro arrivo dava disposizione perché chiunque fosse tenuto a debita distanza dall’auto-bomba.
Dopo qualche ora d’attesa e quando sul posto non restavano che uno sparuto gruppo di agenti e carabinieri al comando del tenente dei CC. Mario Malausa, alle 15 giungevano gli artificieri, e il delicato lavoro per disinnescare la bombola, presunto veicolo di morte, aveva finalmente inizio. Quando però dopo oltre tre quarti d’ora gli artificieri al comando del maresciallo Pasquale Nuccio hanno completato il loro lavoro, tutti si sono guardati stupiti: nella bombola non c’era nulla, né gas compresso, né esplosivo.

Rinfrancati dalla singolare circostanza (che si e poi rivelata essere un tranello); poliziotti e carabinieri si sono messi a controllare  più attentamente l’auto, alla ricerca di qualche indizio o traccia dei misteriosi «preparatori» dello strano ordigno e di una spiegazione della singolare scoperta. Ad un tratto — così hanno riferito più tardi all’ospedale i pochi superstiti — il tenente a ha dato ordine di aprire il cofano-motore dell’auto. Uno dei presenti si è avvicinato al posto di guida della « Giulietta» ed ha fatto scattare il gancio del cofano. A questo punto è accaduta la terrificante tragedia: l’auto — che evidentemente era stata imbottita di esplosivo nella parte anteriore — è saltata in aria seminando la morte.

Ecco i nomi delle vittime: tenente dei carabinieri Mario Malausa di 24 anni; maresciallo Calogero Vaccaro, comandante della stazione dei carabinieri di Roccella, di 40 anni (sposato e padre di tre figli); carabiniere Mario Fardelli (deceduto alll’ospedale di Villa Sofia); carabiniere Eugenio Altomare, della stazione di Acqua dei Corsari sposatosi appena quindici giorni orsono; maresciallo di P. S. Silvio Corrao, in servizio alla Squadra Mobile (sposato e padre di quattro figli); maresciallo artificiere del Centro addestramento reclute Giorgio Ciaccio.

Altri quattro carabinieri, che si trovavano distanti alcune centinaia di metri dal luogo dell’esplosione, sono stati feriti lievemente; si tratta del brigadiere Muzzupappa e degli appuntati Gurrei, Gatto e Minerva. Gli unici due rimasti illesi perché di guardia alle autoradio, sono l’agente Giuseppe Piazza ed il maresciallo dei carabinieri Zappalà i quali, appena resisi conto della tragedia, si sono attaccati alle radio chiamando disperatamente soccorso.

Quando sono comincia ad arrivare i rinforzi c’era poco o nulla da fare. I feriti sono stati avviati all’ospedale — e uno di questi, il carabiniere Fardelli vi è deceduto poco dopo — ed è cominciato il tragico sopralluogo. Soltanto tre cadaveri, seppure orribilmente maciullati, erano ancora in qualche misura riconoscibi. Degli altri quattro non restavano che tracce minute, testimonianza orribile della furia criminale: pezzi di braccia, di gambe, di tronconi, erano sparsi per un raggio di duecento metri, tra gli aranceti e la sterpaglia.

Fino a tarda sera non era ancora possibile stabilire quanti fossero, esattamente, i morti. Poi, più tardi, facendo ‘appello nei commissariati, nelle stazioni dei carabinieri e al CAR, è stato possibile accertare che i caduti sono stati sette.
A «Villa Serena» — mai nome tanto tragicamente anacronistico — la visione è atroce: la strage spaventosa ha precisi e palpabili moventi, porta il nome e cognome dei criminali che l’hanno organizzata e dei loro mandanti che hanno consentito — direttamente o indirettamente — che le cosche mafiose sirafforzassero e si impossessassero della città.

Ormai, ogni giorno la morte è in agguato. Ovunque.
Per le strade. Sotto gli occhi di tutti. Il sangue scorre a fiumi da l’un capo all’altro della citta da l’uno all’altro dei paesi che le fanno corona, per conquistare una area edificabile, un posto di comando ai mercati genierali, una valigia di stupefacenti, un pozzo d’acqua, un appalto, un ente pubblico, un deputato d.c.

Queste cose le sanno perfettamente anche in questura e al ministero degli interni. Lo sapevano anche mnell’immediato dopoguerra quando, mentre i lavoratori e i carabinieri morivano sotto il piombo di Giuliano, il ministro Scelba faceva consegnare il lasciapassare a Gaspare Pisciotta e l’ispettore generate di P.S. Verdiani trattava con Giuliano.

Per la tragedia di stasera è unanime la convinzione che la strage non sia casuale, ma che elementi mafiosi abbiano, di proposito, preparato uno spaventoso tranello per farvi cadere gli agenti e i carabinieri. Gli elementi che confermerebbero in pieno questa tesi sono tre: la telefonata anonima della mattina in Questura, per fare accorrere sul posto gli agenti di P.S. e i carabinieri; il fatto che la « Giulietta »,. abbandonata a sportelli aperti nella borgata, non sia stata toccata da  nessuno prima dell’intervento della polizia e, in ultimo, il vero e proprio trucco – della bombola con la miccia attaccata. Bombola — come si è detto — vuota e quindi di nessuna pericolosità. E’ infatti evidente che gli organizzatori della terribile strage sapevano perfettamente che non appena gli artificieri si fossero resi conto che la bombola non costituiva pericolo, la « Giulietta » sarebbe stata rovistata da cima a fondo dagli inquirenti.

Per avere soltanto un’idea del clima di guerra guerreggiata a Palermo si pensi, comunque, che, senza andare ai numerosi omicidi degli ultimi tempi (soltanto quelli chiaramente di mafia, in sei mesi, in città, sono una ventina), appena poche ore – prima un’altra auto, quella di Villabate, era saltata in aria causando un morto e due feriti.A Ciaculli si sono recate, in serata, tutte le autorita militari e civili della regione.

La pietosa opera di recupero dei martoriati resti delle sette vittime dell’attentato è iniziata a sera alla luce dei potenti riflettori dei vigili del fuoco; malgrado tutto però le ricerche proseguiranno anche domani. Intanto sul posto cominciavano ad arrivare all’imbrunire i parenti delle vittime. La prima ad arrivare è stata Rosa Vella, la povera vedova del maresciallo Vaccaro; era con i figli, ed un gruppo di altii ufflciali dei CC. Le si sono fatti intorno impedendole l’accesso alla villa e tentando un impossibile conforto. Stanotte, a quanto pare, si svolgerà, su sollecitazione del ministro degli Interni, una riunione, qui a Palermo, in prefettura, alla quale prenderanno parte i più alti dirigenti degli organi di polizia, dei carabinieri, della magistratura e il direttore della divisione di polizia criminale dottor De Nardis che e stato spedito d’urgenza in Sicilia, dal ministro Rumor, insieme all’ispettore generale di P.S. dottor Parlato. Nel corso della riunione dovrebbero essere adottate eccezionali misure di ordine pubblico.

Non e stata ancora decisa la data dei funerali delle vittime; si presume tuttavia che le esequie avranno luogo non prima di dopodomani. L’onorevole Leone ha intanto inviato, al prefetto, un telegramma nel quale esprime la solidarieta del governo con le famiglie delle vittime.

Un altro telegramma di condoglianze ha inviato al prefetto anche il ministro dell’Interno on. Rumor. In una sua dichiarazione il presidente della Regione on. D’Angelo ha espresso alle famiglie delle vittime, con parole d! circostanza, le condoglianze del governo regionale.

È significativo il fatto che né il ministro Rumor e nemmeno il democristiano D’Angelo, nei loro telegrammi o dichiarazioni, abbiano pronunciato una sola parola di condanna contro la mafia e i crimini mafiosi.
Tutti hanno semplicemente sottolineato che gli agenti, i carabinieri e i due uominl dell’esercito, sono morti nell’espletamento del loro dovere e che la strage conferma ancora una volta «l’assoluta dedizione al dovere degli appartenenti all’esercito e alle forze dell’ordine».

Stanotte, intanto, è già stato operato un primo fermo. Si tratta di un giovane che era stato visto passare, subito dopo l’esplosione, nei pressi del luogo della tragedia. Il fermo è stato motivato dal fatto che il giovane in questione aveva la camicia macchiata di sangue.

 

 

 

Articolo da La Stampa del 1 Luglio 1963
Esplodono a Palermo due auto caricate a dinamite: nove morti
di  Franco Desio

I feriti sono una ventina – Il primo attentato all’una di notte – Ne restano vittime il guardiano di un «garage» e un fornaio che aveva dato l’allarme: aveva visto uscire un filo di fumo da una macchina in sosta e aveva sentito odore di bruciato – La seconda esplosione, avvenuta alle 16, è stata molto probabilmente un tranello dei «mafiosi» contro la polizia avvertita da una telefonata anonima che una vettura era stata abbandonata in un viottolo di campagna con una bombola bene in vista, collegata a una miccia – Chiamati gli artificieri e disinnescato l’ordigno, un tenente dei carabinieri ha aperto il cofano posteriore, in cui era nascosta una bomba «vera» – Dilaniato l’ufficiale, un piemontese già appartenente ai carristi, con due artificieri dell’Esercito, un maresciallo di P.S., un maresciallo dei carabinieri e due militi dell’Arma – Una dichiarazione del presidente della Regione.

Palermo, lunedì mattina. Nove morti e circa venti feriti sono il tragico bilancio, ancora non definitivamente accertato, di due attentati dinamitardi avvenuti nella giornata, di ieri a Palermo e precisamente nelle borgate Villabate e Ciaculli. Gli attentati denunciano una identica tecnica e sono in stretta relazione l’uno con l’altro.

L’esplosione nell’abitato di Villabate è avvenuta verso l’una del mattino. Un’automobile «Giulietta», nella quale era stata collocata una potente carica di tritolo, è saltata in aria davanti ad un’autorimessa. L’esplosione ha causato la morte del custode dell’autorimessa Pietro Cannizzaro, 59 anni, e del fornaio Giuseppe Tesauro, 42 anni. Un altro fornaio, Giuseppe Castello, 35 anni, è rimasto ferito.

I danni arrecati alle abitazioni che sorgono nel raggio di un centinaio di metri dal luogo dove era stata lasciata l’auto-bomba si calcola ascendano a circa 60 milioni di lire.

Qualche minuto prima dell’una, quando già da circa mezz’ora il custode dell’autorimessa di corso Vittorio Emanuele n. 412 aveva abbassato la saracinesca e si era messo a dormire nell’interno di un’autovettura, uno sconosciuto ha bloccato una «Giulietta» davanti alla saracinesca del garage, ne è sceso e si è allontanato a piedi, per salire pochi metri più avanti a bordo di un’altra automobile dove si trovavano ad attenderlo due persone. Il terzetto è scomparso velocemente nel buio della notte.

La «Giulietta» parcheggiata dinanzi l’autorimessa (che è di proprietà del commerciante Giovanni Di Peri, il quale l’aveva data in locazione al meccanico Pietro Savioli), non ha destato nessun sospetto, neanche a una pattuglia di carabinieri che era passata di là poco prima della violenta esplosione: appariva normale che qualche ritardatario avesse lasciato l’auto davanti al garage. Verso l’una i due fornai Tesauro e Castello, che lavoravano in un panificio attiguo all’autorimessa, usciti a prendere una boccata d’aria fresca, si sono intrattenuti a parlare qualche minuto sul marciapiede e hanno avvertito un puzzo di bruciato provenire dalla « Giulietta » parcheggiata proprio davanti a loro. Avvicinatisi, i due fornai hanno notato un filo di fumo che si sprigionava dall’auto. Ritenendo che si trattasse di un principio d’incendio, hanno bussato alta saracinesca per dare l’allarme al custode dell’autorimessa.

Ma proprio mentre il custode Pietro Cannizzaro, svegliatosi al richiamo dei due fornai, alzava la serranda, una tremenda esplosione l’ha investito in pieno, dilaniandolo orrendamente. Il fornaio Giuseppe Tesauro, che si era allontanato di qualche passo, è stato proiettato dallo spostamento d’aria sotto un autocarro che si trovava fermo sul lato opposto della strada; il suo collega, Giuseppe Castello, rimasto un po’ più distante dall’autobomba, è stato raggiunto da numerose schegge e scaraventato a terra. La « Giulietta », ridotta  ad un ammasso di rottami, è stata catapultata sull’altro lato della strada: una ruota è stata ritrovata più tardi a circa 150 metri dal luogo dell’esplosione.

La deflagrazione ha provocato anche il crollo del muro esterno di una vicina salumeria e i vigili del fuoco, subito accorsi, hanno dovuto demolire l’intera bottega essendo rimasti pericolanti anche gli altri muri di sostegno. Per un raggio di oltre cento metri tutti i vetri delle case vicine sono andati in frantumi, diverse imposte sono state scardinate e la grande vetrata della filiale del Banco di Sicilia è stata ridotta in briciole. Tutto intorno erano disseminati i rottami dell’auto disintegrata dalla tremenda esplosione che ha scavato una profonda buca davanti all’autorimessa ed ha altresì danneggiato l’impianto della illuminazione pubblica, abbattendo tre pali di sostegno dei fili della corrente elettrica.

Aiutati da alcuni fornai del vicino panificio, rimasto anch’esso danneggiato, carabinieri e guardie di P. S. che si erano subito recati sul posto a bordo di automezzi, hanno provveduto a trasportare all’ospedale Giuseppe Tesauro (trovato pieno di ferite ma ancora in vita sotto l’autocarro dove era stato scaraventato dalla deflagrazione) e il suo compagno Giuseppe Castello. Poco dopo il ricovero in ospedale, però, il Tesauro è deceduto, mentre il Castello è stato dichiarato guaribile in una decina di giorni.

L’attentato dinamitardo, che ha destato molto panico tra gli abitanti di Villabate che si sono svegliati di soprassalto e si sono riversati a precipizio sulle strade pensando a un terremoto, è parso subito da inserire nel quadro della cruenta lotta che, senza esclusione di colpi, divampa da qualche anno fra gli esponenti della malavita palermitana. Proprietario dell’autorimessa davanti alla quale era stata parcheggiata l’auto-bomba è infatti il settantenne Giuseppe Di Peri, che nel 1956 fu ferito con due fucilate caricate a « lupara ». Egli abita col figlio Giovanni al piano superiore dello stesso stabile ed è opinione degli inquirenti che l’attentato di ieri notte avesse appunto per scopo un macabro « avvertimento » ai Di Peri, padre e figlio.

Durante le indagini per far luce sull’attentato di Villabate, carabinieri e polizia si sono recati nella tarda mattina alla vicina borgata di « Ciaculli » per procedere al fermo di alcune persone sospette.
Qui è avvenuto il secondo attentato, in cui sono tragicamente morte sette persone: un tenente dei carabinieri, un maresciallo di P. S., due artificieri dell’Esercito, un maresciallo dei carabinieri e due militi dell’Arma.

Molto probabilmente si è trattato di uno spaventoso trabocchetto preparato dalla «mafia», forse dagli stessi autori dell’attentato di ieri notte, ai danni della polizia. Alle 11 di ieri mattina, infatti, negli uffici della Squadra Mobile era giunta una telefonata anonima in cui si avvertiva che una «Giulietta» era stata notata in una stradina di campagna a poca distanza dalla provinciale di Gibilrossa, alla borgata «Ciaculli». Subito sono partiti il capo della Mobile, dottor Madia, il suo vice, dottor Mendolia, il tenente dei carabinieri, Malausa, e un folto gruppo di agenti di P.S. e di carabinieri. La segnalazione era esatta. L’auto era effettivamente nel luogo indicato, aveva gli sportelli aperti, e bene in vista sui sedili posteriori c’era una bombola per gas liquido, cui era collegata una miccia piuttosto rudimentale che sembrava essere già stata accesa e poi spenta frettolosamente da qualcuno.

Gli inquirenti hanno deciso di far piantonare l’auto e hanno richiesto un invio di artificieri al 56° Reggimento di fanteria del Car di Palermo. Dopo alcune ore sono giunti infatti il maresciallo Pasquale Nuccio e il soldato Giorgio Ciacci, suo aiutante. Alcuni funzionari, fra cui il dottor Madia, erano già rientrati in sede. Erano circa le 16. Attorno ai due militari che disinnescavano l’ordigno si è fatto il vuoto; dopo pochi minuti il maresciallo Nuccio ha detto agli altri che potevano avvicinarsi, ormai non c’era più nessun pericolo, la miccia non poteva più fare esplodere la bombola.

Il tenente Malausa si è allora accostato al baule, ha infilato la chiavetta, ha provato ad alzare il coperchio. Una esplosione terribile ha squassato il gruppetto di uomini che stavano attorno alla «Giulietta». Sette di loro sono morti, sei sul colpo, orrendamente dilaniati, ridotti in brandelli, e il settimo poco dopo il ricovero all’ospedale di Santa Sofia di Palermo. Il «vero» ordigno dinamitardo era nascosto, la innocente bombola di gas liquido era soltanto l’esca per la polizia.

Ecco i nomi delle sette vittime della barbara strage freddamente attuata dalla Mario Malausa, comandante della tenenza suburbana di Palermo; maresciallo di P.S. Silvio Corrao, della «squadra mobile»; maresciallo capo dei carabinieri Calogero Vaccaro, comandante della stazione di Roccella; carabinieri Eugenio Altomare e carabiniere Marino Fardelli (morto in ospedale), della stazione di Roccella; maresciallo artificiere Pasquale Nuccio, in forza presso il 46° Reggimento di fanteria del Car; soldato aiuto artificiere Giorgio Ciacci, del medesimo reggimento.

Il tenente dei carabinieri Mario Malausa aveva 24 anni. Era di Ravello (in provincia di Cuneo) e proveniva dall’esercito (carristi). Dopo aver frequentato l’Accademia, era divenuto effettivo nell’Arma dei carabinieri e da poco tempo comandava la tenenza suburbana di Palermo.

Il maresciallo capo dei carabinieri Calogero Vaccaro aveva 48 anni ed era nato a Naro (Agrigento). Era sposato, con tre figli.

Il carabiniere Eugenio Altomare, aveva 31 anni. Era sposato da soli quindici giorni.

Il maresciallo artificiere Pasquale Nuccio era in licenza e sarebbe dovuto tornare in servizio nella giornata di oggi. Era stato invitato dal Comiliter a recarsi sul luogo dove era stata abbandonata la « Giulietta ». Aveva una esperienza di disinnescatore, quasi trentennale. Circa due anni fa aveva disinnescato una bomba di aereo inesplosa di 500 chili, trovata in via Isidoro La Lumia, a Palermo, durante gli scavi per la costruzione di un palazzo.

Il brigadiere Giuseppe Muzzapappa di 34 anni, rimasto ferito, deve la salvezza al fatto di essersi allontanato dall’auto di un centinaio di metri, un attimo prima dell’esplosione. Il carabiniere Salvatore Gatto di 28 anni, anch’egli ferito, è stato il primo a dare l’allarme. Nonostante perdesse molto sangue è riuscito a mettersi in contatto radio con il comando, facendo funzionare il radiotelefono installato su una camionetta. La strage ha vivamente impressionato la cittadinanza.

Particolare rimpianto ha destato la fine del maresciallo  P.S. Silvio Corrao, che era assai noto anche negli ambienti giornalistici della città. Il Corrao era soprannominato « il maresciallo-letterato» per la particolare predilezione che dimostrava per gli studi di carattere letterario. Era uno dei più assidui frequentatori della libreria « Flaccovio », centro culturale della città. Il Corrao lascia la moglie e quattro figli in tenera età.

Il presidente della Regione siciliana, on. Giuseppe D’Angelo, informato — nel corso dei lavori del comitato regionale dc —  del grave episodio criminoso, ha fatto la seguente dichiarazione: « Sono profondamente addolorato di quanto è avvenuto. In questo momento, assieme al cordoglio vivissimo per la morte e il ferimento di tante persone, dirigenti, ufficiali, agenti di polizia e carabinieri nello esercizio del loro difficile compito di sovrintendere e custodire l’ordine pubblico, desidero esprimere il più alto apprezzamento della Regione per le forze dell’ordine impegnate nell’ingrato compito di estirpare la piaga della malavita in questa nostra Sicilia. Desidero anche manifestare i sensi della mia personale solidarietà e del Governo che rappresento alle famiglie dei caduti, e le manifestazioni del mio conforto a quelle dei molti feriti. Ritengo, infine, di interpretare il pensiero dell’opinione pubblica siciliana nell’esecrare gli autori della strage e nell’augurarmi che essi possano essere presto chiamati a render conto dei loro crimini, di fronte alla giustizia degli uomini».

 

 

 

 

Foto e Articolo del 29 Giugno 2013 da reportagesicilia.blogspot.it 
STRAGE DI CIACULLI, QUANDO L’ITALIA SCOPRÌ LA MAFIA
di Ernesto Oliva

Il 30 giugno di 50 anni fa l’Italia distratta dalla bolla del benessere economico scoprì cosa fosse la mafia.
Nel pomeriggio di quella domenica infatti una Giulietta colore azzurro imbottita di tritolo esplose all’interno del fondo Sirena, nella borgata palermitana di Ciaculli.

Persero la vita in sette: il tenente dei Carabinieri Mario Malausa, da un anno comandante della tenenza suburbana di Palermo, di stanza all’interno della caserma “Carini”; il maresciallo della sezione omicidi della Squadra Mobile di Palermo, Silvio Corrao; il maresciallo dell’esercito Pasquale Nuccio; il maresciallo dei Carabinieri Calogero Vaccaro, comandante della stazione di Roccella; il soldato d’artiglieria Giorgio Ciacci; gli appuntati dei Carabinieri Eugenio Altomare e Marino Fardelli, anche loro della stazione di Roccella.

La notte precedente, un’altra Giulietta era saltata in aria nella vicina Villabate, dinanzi l’autorimessa del boss Giovanni Di Peri; in quell’attentato avevano perso la vita il custode Pietro Cannizzaro ed il fornaio Giuseppe Tesauro.
L’utilizzo di quelle autovetture per la realizzazione di attentati contrassegnò all’epoca la feroce faida palermitana tra il clan Greco e quello dei fratelli La Barbera.

Lo scontro – come ebbe a scrivere in quei mesi alla famiglia il tenente Mario Malausa – rendeva Palermo una città ai margini della legalità. “In meno di 20 giorni” – riferiva il tenente – “ho avuto ben 7 omicidi. Ho molto, molto lavoro, dato che la lupara e il mitra cantano continuamente”.
La morte dei sette uomini in divisa all’interno del fondo Sirena fu la conseguenza non di un attacco diretto contro lo Stato, ma di un errore nelle operazioni di bonifica che avrebbero dovuto disinnescare la Giulietta.
Il processo alla mafia palermitana celebrato nel 1967 a Catanzaro non riuscì ad individuare i nomi di chi piazzò quell’auto che fece strage: una verità ancor oggi rimasta oscura.
“L’attenzione è rivolta alla bombola sul sedile posteriore dalla quale – scriverà Michele Russotto nel saggio “La Sicilia e gli anni Sessanta”, edito da Anvied nel 1989, del quale ReportageSicilia ripropone le prime cinque fotografie del post  – la lunga miccia bruciacchiata fa capire che è stata accesa male perchè si è spenta prima di arrivare a fare deflagrare la bomba. In un paio di minuti il maresciallo Nuccio neutralizza l’ordigno, libera la bombola dal suo supporto e la fa rotolare lentamente lungo la sconnessa mulattiera. Ma sul sedile posteriore della Giulietta c’è un altro ordigno. E’ un barattolo pieno di bacchette di tritolo dal quale pende una miccia che non si capisce dove sia collegata. Nuccio è alle prese con questo secondo ordigno. E’ il momento fatale. In un attimo il rumore dell’esplosione assorda tutti coloro che sono rimasti davanti al cancello che immette nel fondo di villa Serena. Al posto dell’automobile carica di tritolo si alza un fungo nerastro pieno di metallo e brandelli umani che ricadono per terra e sugli alberi del vicino agrumeto…”.

La strage di Ciaculli riesce a scuotere un’Italia in cui – come scriverà invece Giuseppe Di Lello nel saggio “Giudici”, edito da Sellerio nel 1994 – “la lunga catena di delitti degli anni Cinquanta e Sessanta è servita a tener desta solo l’attenzione degli italiani incuriositi dal folklore di questa strana isola e da questi ancor più strani isolani, mentre la grande maggioranza degli stessi palermitani è rimasta alla finestra, preoccupata non più di tanto per un fenomeno che riguarda solo gli affiliati alle bande criminali e che, comunque, sembra fisiologico per una città che cresce a vista d’occhio, sempre più opulenta”.
L’eccidio del 30 giugno 1963 darà un’accelerazione all’avvio – l’8 luglio –  dei lavori della Commissione Parlamentare Antimafia: un’azione di contrasto che nei decenni a seguire sarà costellata da delitti eccellenti, stragi di magistrati e perduranti legami fra uomini politici e cosche.
Oggi la strage di fondo Sirena è relegata fra i polverosi ricordi degli episodi di mafia in Sicilia.
I familiari degli uomini morti nell’esplosione furono allora risarciti con un milione di euro.
A due delle sette vittime nell’esplosione della Giulietta – Eugenio Altomare e Marino Fardelli – sono state invece recentemente intitolate la compagnia dei Carabinieri di Rogliano e la ANC di Cassino.

 

 

 

Fonte:  cosavostra.it
Articolo del 25 giugno 2018
La strage di Ciaculli e la Prima guerra di mafia
di Silvia Bortoletto

Sicilia. Provincia di Palermo. Ciaculli. I volti fatiscenti di case anonime sono abbagliati da un sole tronfio, che penetra anche tra le strette viuzze del centro. Non lesina di inondare di luce calda le pietre delle chiese, dei palazzi barocchi, dei teatri. Il cielo è azzurro, senza nuvole. Il vociare continuo, a tratti assordante, tra le bancarelle dei mercati rionali, scandisce i passi di una coreografia familiare: una danza intima che lega la storia di una città alle vite dei suoi abitanti.

Una cadenza dolce, regolare, lascia posto al ritmo sincopato di una danza macabra. è la prima guerra di mafia: Cosa Nostra è divisa. Le famiglie di Palermo – La Barbera e Greco su tutte – si affrontano, apertamente, nelle strade. Sono sanguinarie: imbracciano le consuete lupare ed impiegano con sempre più non-chalance ordigni esplosivi. Mietono vittime. Anche innocenti. Sono vittime collaterali. Inevitabili, in una guerra senza confine per ribadire “aree di competenza” altrimenti inesistenti.

Dal cuore della capitale siciliana si estende, la guerra; ne segue le arterie principali, fuori, fino alle estremità. È in questa cornice che prende forma la sagoma sbiadita della Strage di Ciaculli – una borgata agricola a sud-est di Palermo – ed i volti sfuocati dei suoi protagonisti: sette uomini delle Forze dell’Ordine nel ruolo di vittime collaterali. Sbiadito può essere il ricordo della strage, quanto netta e demarcata è la fine della prima guerra di mafia che essa inevitabilmente comporta.

È il 30 giugno del 1963. Il tenente dei carabinieri Mario Malausa, il maresciallo di Pubblica Sicurezza Silvio Corrao, il maresciallo Capo dei Carabinieri Calogero Vaccaro, gli appuntati Eugenio Altomare e Marino Fardelli, il maresciallo dell’esercito Pasquale Nuccio ed il soldato Giorgio Ciacci, si recano a Ciaculli per ispezionare un’Alfa Romeo Giulietta, dopo una segnalazione anonima alla questura di Palermo.

L’auto era stata abbandonata nei pressi di Ciaculli, con le portiere aperte. Desta preoccupazione. Viene chiamata una squadra di artificieri: il sospetto di un’altra autobomba era forte. Poche ore prima, infatti, nella notte, nella zona di Villabate, a cinque chilometri in linea d’aria da Ciaculli, l’esplosione di un’auto abbandonata di fronte all’autorimessa del boss Giovanni Di Peri, aveva provocato la morte di due persone: il custode del garage Pietro Cannizzaro ed il fornaio Giuseppe Tesauro. Anch’essi vittime collaterali.

Dopo l’ispezione dell’automobile ed il disinnesco di una bombola di gas rinvenuta al suo interno, non sembrava esserci più alcun motivo di allarme.

Quando il tenente Mario Malausa apre il bagagliaio però, l’esplosione. Si ipotizzò che il tritolo fosse inizialmente destinato ai rivali di Ciaculli – Salvatore Greco e Giovanni Di Peri – da parte degli affiliati al centralissimo clan di Porta Nuova, allineato coi La Barbera, tra cui Pietro Torretta, Michele Cavataio, Tommaso Buscetta e Gerlando Alberti. Altra ipotesi investigativa conduce ai proprietari di Villa Serena, adiacente al luogo dove esplose la bomba, dei fratelli Prestifilippo, probabilmente i destinatari dell’attentato.

La reazione dello Stato – gli arresti che seguono l’attentato dinamitardo sono centinaia – sorprende Cosa Nostra. La Commissione provinciale dell’organizzazione criminale siciliana viene sciolta. La guerra intestina va terminata. Si mantiene un profilo basso, fino a che non si saranno calmate le acque.

Pietro Torretta, assieme al pentito Tommaso Buscetta, si vedono assolti per insufficienza di prove dai reati loro imputati per i fatti di Villabate e Ciaculli durante il processo di Catanzaro, iniziato nel 1968 proprio ai danni dei protagonisti della prima guerra di mafia. Nell’ambito dello stesso processo, Pietro Torretta viene condannato a 27 anni di carcere per omicidio, mentre per Buscetta l’unica imputazione, e successiva condanna a dieci anni, è quella per associazione a delinquere. (Si deve attendere il 1982 e la legge Rognoni-La Torre per il reato di mafia).

Vent’anni dopo la strage di Ciaculli, Tommaso Buscetta, divenuto nel frattempo collaboratore di giustizia, addosserà la completa responsabilità delle autobombe sanguinarie a Michele Cavataio, detto “il Cobra”, a capo della famiglia dell’Acquasanta, convenientemente morto nel 1969; convenientemente ucciso da un commando composto da uomini del clan di Corleone, tra cui il futuro “capo dei capi”, Salvatore Riina, e del clan di Riesi.

L’evento pretestuoso che dà il via alla prima guerra di mafia è una partita di eroina spedita in America nel dicembre 1962 dalle famiglie Greco e La Barbera. Il quantitativo di droga sarebbe stato minore di quello inizialmente pattuito. Il mafioso Calcedonio Di Pisa ne paga le conseguenze. Siamo nell’ambito di quell’inchiesta che verrà successivamente soprannominata “Pizza Connection”: una rotta commerciale diretta dalla Sicilia agli Stati Uniti per il traffico di stupefacenti. Secondo le dichiarazioni dello stesso Buscetta rilasciate negli anni ’80, lo stesso Michele Cavataio, figura quantomai emblematica, sarebbe stato l’autore materiale dell’omicidio di Calcedonio Di Pisa, membro della Commissione provinciale, cui all’epoca faceva capo Salvatore Greco, con l’intento di far ricadere la colpa sui fratelli La Barbera e, così facendo, provocare la reazione violenta dei Greco. Indiscrezioni mai accertate vedono dietro la prima guerra di mafia e dietro le azioni di Cavataio nei fatti di Villabate e Ciaculli, un consorzio di famiglie mafiose determinate a scalzare il dominio indiscusso dei Greco e La Barbera.

A prescindere dai veri o presunti mandanti, la tattica sembra funzionare: lo screzio incrina i rapporti tra le famiglie reggenti di Palermo. E dà il “la” ai conflitti.

È il rapporto di vassallaggio che lega i boss locali agli affiliati, marcando drammaticamente lealtà ed alleanze, che impone a questi ultimi di scendere in campo, su fronti opposti, per eliminare i rivali. Ci si batte per ribadire accordi taciti sulle aree di competenza, in particolare per la gestione del traffico di stupefacenti e degli appalti. Territorio ed influenza, insomma, su cui si svolgono i soliti business: droga, appalti. Ed oggi se ne aggiungono di nuovi: è un ambiente indubbiamente resiliente, e necessariamente “creativo”, quello criminale. Si reinventa.

Rimane, costante, la solita nenia. Stridula. Sibilante. È l’accompagnamento musicale ad una vecchia, nuova danza macabra, che si rigenera imperturbabile come un supplizio, una condanna. E lega la storia della città alle vite dei suoi abitanti. Il padre di Malausa sarebbe deceduto pochi mesi dopo la strage di Ciaculli per il dolore della perdita del figlio. Il fratello Franco fu il primo parente di una vittima di mafia a costituirsi parte civile in un processo (quello di Catanzaro). Alla moglie del maresciallo Corrao fu restituita la fede nuziale, una scarpa, la cintura e la fondina della pistola. Tutto ciò che rimaneva di lui.

 

 

 

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