30 Marzo 1960 Agrigento. Assieme al commissario Cataldo Tandoj viene ucciso un giovane passante, Antonio Damanti.

Si ringrazia per la foto Giovanni Perna di Dedicato Alle Vittime Delle Mafie

Antonio “Ninni” Damanti era uno studente liceale di 17 anni. Morì il 30 marzo del 1960 ad Agrigento. Si trovava sulla linea di fuoco che uccise il commissario Cataldo Tandoj, ex capo della Squadra Mobile di Agrigento, da alcuni mesi trasferito a Roma.

 

 

Tratto dal libro:  Delitto alle elezioni – Paolo Bongiorno sindacalista ucciso dalla mafia
di Calogero Giuffrida

(scaricabile) Pag. 78, 79, 80, 81

Il «caso Tandoy»

«La sera del 30 marzo del 1960 al numero civico 211 del viale della Vittoria dei killer si avvicinarono al commissario di polizia Cataldo Tandoy e spararono a bruciapelo. Tre proiettili raggiunsero il poliziotto che si accasciò a terra trascinando con sé la moglie Leila Motta che teneva per mano. Il commando colpì anche uno studente, Ninni Damanti vittima innocente. Un classico per i delitti di mafia. Le indagini si mostrarono subito difficili ed imbarazzanti: pista privilegiata quella passionale. Si scoprì che la moglie di Tandoy aveva una relazione extraconiugale. L’amante era Mario La Loggia, un potente di mestiere psichiatra, appartenente ad una delle famiglie borghesi più in vista della città, impegnato in politica con la Democrazia Cristiana. Con l’accusa di esserne stato il mandante La Loggia fu tratto in arresto con altri due presunti 78 complici, ma le convinzioni della magistratura naufragarono al processo. Chiusa la pista passionale restò in piedi quella legata al suo lavoro di capo della Squadra Mobile. Si accertò che nonostante il suo trasferimento a Roma Tandoy aveva deciso di portare avanti un’inchiesta sulla famiglia mafiosa di Raffadali che egli conosceva bene per via delle confidenze avute da tale Cuffaro. Chiese così all’agente Ippolito Lo Presti di inviargli un baule pieno di documenti al nuovo indirizzo romano. Nella cassa, successivamente perquisita, si trovò tutto tranne il dossier- Raffadali. Sul banco degli imputati questa volta finirono cinque raffadalesi. Venne sollevata l’eccezione della libera suspicione e per incompatibilità ambientale il processo si celebrò a Lecce: agli imputati furono inflitte pene severe. Ma poi usufruirono dei benefici di legge»16.

Cataldo Tandoy era arrivato ad Agrigento poco prima dell’assassino del dirigente sindacalista Accursio Miraglia, ucciso a Sciacca, il 4 gennaio del 1947. Era un funzionario digiuno di esperienze mafiose e di intrighi politici, ma intelligente e dotato di buon naso. «In poche settimane di indagini sul delitto Miraglia arrestò sei mafiosi devoti ai La Loggia: Carmelo Di Stefano di Favara; Rossi, Gurreri e Segreto di Sciacca, Montalbano di Caltabellotta e Oliva di Castelvetrano.

Tandoy era certo della loro colpevolezza; ma dovette rapidamente cambiar parere. I sei furono infatti prosciolti in  istruttoria e, come prima azione, denunciarono il commissario alla magistratura. Fu forse questo il primo avvertimento rivolto all’inesperto poliziotto che ancora non aveva capito da che parte spirasse il vento: Tandoy chinò il capo.

Nel 1951, quando fu ucciso Eraclide Giglio, il sindaco-boss di Alessandria della Rocca, Tandoy, che era ottimo segugio, seppe che la esecuzione era stata decisa durante una riunione avvenuta nella sacrestia di una chiesa di Aragona, ed individuò il sicario. Ma fu ancora una volta sfortunato: l’assassino di Giglio morì cinque minuti prima dell’arresto e la stessa fine fece un altro individuo indiziato. Tandoy rinunciò a mostrare troppo zelo e da quel momento egli divenne uno dei tanti amici degli amici, la cui carriera era legata al tatto che avrebbe dimostrato nell’esercizio delle sue funzioni, alla benevola cecità di cui avrebbe dato prova, al rispetto di certe regole non scritte.

Ogni tanto aveva un guizzo di ribellione: quando fu ucciso Zarbo di Raffadali fermò per 48 ore un certo Mangione, guardia spalle di La Loggia, lo psichiatra. In quell’occasione Zarbo fu udito gridare: ‘Io so chi l’ha ammazzato’. C’era una vena di amarezza nelle sue parole. Anche se la sua attività di poliziotto doveva soccombere dinanzi a determinate connivenze, non rinunciava ad indagare. Aveva raccolto una miniera di notizie e avrebbe minacciato di rivelare al segretario della Dc Aldo Moro, che era stato suo compagno di scuola, i tremendi segreti della fazione Dc di Agrigento. I fatti di sangue che per dodici anni hanno contrassegnato la faida tra i due raggruppamenti elettorali contrapposti, le cosche mafiose e i loro collegamenti. «Tandoy non rinunciava ad indagare». Secondo gli inquirenti Tandoy fu ucciso «perché si preparava ad accusare La Loggia per l’uccisione degli esponenti Dc Giglio e Montaperto».

 

 

 

Articolo del Corriere della Sera del 23 Novembre 2007
SICILIA, LA DANZA DELLE VERITÀ
di Matteo Collura

Nella primavera del 1960 un fatto di sangue avvenuto ad Agrigento appassionò l’opinione pubblica italiana quanto è forse più dell’ «affare Montesi». Qualcuno aveva osato uccidere il commissario di pubblica sicurezza Cataldo Tandoj, poco prima del suo trasferimento dalla «città dei templi». Il commissario, un «forestiero», aveva una bella moglie, Leila Motta, anche lei non siciliana e che la tragica sera dell’ agguato lo accompagnava sottobraccio verso casa. A cadere assassinato non fu soltanto il funzionario di polizia, ma anche uno studente che si trovava a passare quando i sicari aprirono il fuoco. Le indagini presero subito un avvio che portò all’ arresto della bella vedova e di colui che era considerato il suo amante, un noto personaggio agrigentino, lo psichiatra Mario La Loggia, appartenente a una potente famiglia che in Sicilia rappresentava ai massimi livelli la Democrazia cristiana. Fu un delirio «da notizia» che sconvolse la città, con relativa, inevitabile disinformazione. Gli inviati rovistarono nei segreti di una comunità fino ad allora considerata non soltanto marginale, ma certamente al riparo dei vizi che il benessere succeduto al dopoguerra diffondeva nel ricco nord. Ne vennero schizzi di fango per tutti. Una piccola realtà di provincia di colpo si rivelò la sentina di tutte le dissolutezze, luogo ideale per il demone dei piaceri proibiti. Allusioni e discorsi trasversali, paure e minacce tennero col fiato sospeso gli agrigentini, mentre le lettere anonime si ammucchiavano sulle scrivanie degli inquirenti. E su tutto, oltre alla paranoia sessuale, la politica di bottega, i suoi meschini interessi, gli spregiudicati disegni, i compromessi, i misfatti. Finché non s’ impose, chiarissima, la pista mafiosa che portò alla scarcerazione della bella vedova e del professor La Loggia. Questo lungo preambolo è necessario se si vuole bene inquadrare il romanzo dello «scrittore postumo» Antonio Russello, La grande sete (pagine 170, 11), pubblicato senza alcun esito critico da Bino Rebellato nel 1963, come del resto era accaduto a tutti gli altri libri di Russello, da qualche anno riproposti dall’ Editrice Santi Quaranta di Treviso, che ha creduto in questo straordinario narratore siciliano morto nel 2001 nel Veneto, dove insegnò Lettere italiane. La grande sete racconta la stessa storia che nel 1966 (tre anni dopo Russello) diede alle stampe Leonardo Sciascia con A ciascuno il suo. Due diversi modi di ispirarsi a un clamoroso fatto di cronaca, ma entrambi felici nella resa letteraria. Sciascia usò la metafora del delitto per parlare di politica, per denunciare quello che gli era apparso come un fallimento storico: l’esperienza del centrosinistra; Russello si servì del «caso Tandoj» per andare a fondo dell’ animo siciliano, per mostrare il nucleo incandescente di una cultura che ancor oggi è alla base di tanto impegno sociologico, di tanta letteratura e cinema, oltre che di una inesauribile cronaca. Si potrebbe dire così: la Sicilia di A ciascuno il suo viene fuori da un disegno secco, essenziale, austero; come da un’ incisione, da un’acquaforte in bianco e nero. Quella de La grande sete da un acquerello abbagliato di luce, vivido di colori, quelli propri della Sicilia e di Agrigento in particolare. Forse con un appesantimento negli insistiti dialoghi filosofici. Ma un grande romanzo, questo di Russello; un magnifico affresco narrativo, come del resto gli altri suoi opportunamente riproposti: L’ isola innocente, La luna si mangia i morti, La danza delle acque. C’ è molto paesaggio, nella Grande sete, e personaggi che ricordano il migliore Brancati, e una musica in sottofondo che, dapprima stranamente, poi giustamente riproduce la toccante, trascinante melodia del wagneriano Preludio d’ amore e morte di Isotta. Un’ intenzione musicale che ad alcuni scrittori siciliani non è estranea. Come nel Bufalino di Argo il cieco, nel Giuseppe Mazzaglia della Dama selvatica, e compiutamente, dispiegatamente nello stesso Russello della Danza delle acque.

 

 

Articolo da La Stampa del 5 Novembre 1961
Non era una tragedia d’amore la morte del commissario Tandoj
di Francesco Rosso
L’ombra della mafia sui delitti impuniti d’Agrigento

Abbattuto con quattro colpi di rivoltella mentre rincasava con la bella moglie – Una pallottola uccise anche un ragazzo affacciato alla finestra – I primi sospetti sul professor La Loggia amico di famiglia: il clinico ce ne parla senza alterare la voce Alla ricerca di un movente – Le misteriose indagini del funzionario – Una valigia con doppio fondo e tracce di stupefacenti

Agrigento, novembre.

Da alcuni giorni tento di indagare non sul delitto che ha il commissario Aldo Tandoj come vittima, ma sull’ambiente e sull’atmosfera in cui il delitto è avvenuto. Conoscenti antichi e occasionali mi raccontano ciò che sanno; nulla per fornire indisi sugli assassini, tuttavia rivelatore di una mentalità diffusa in ogni strato sociale. «Se il governo non scopre i responsabili, dicevano, perché dovrebbe esporsi un privato cittadino?». Questa frase l’ho sentita ripetere fino alla noia, e se per governo intendevano la polizia, parlando di un cittadino alludevano non soltanto alla popolazione di Agrigento, ma a quella siciliana in generale che considera il delitto un fatto privato fra il colpevole e la famiglia dell’ucciso, non un’offesa a tutta la società. Guardate come intruse dall’intera popolazione, magistratura e polizia hanno scarse possibilità di scoprire gli autori dei delitti voluti dalla mafia; nel momento decisivo delle indagini scatta con impressionante esattezza il dispositivo mafioso e dove pareva che la verità splendesse, torna a infittirsi la nebbia dell’incertezza. La diversione più ricorrente nei crimini mafiosi è il delitto passionale; rivalità politiche, affari tenebrosi in cui ballano i milioni, indisciplina alla legge implacabile della mafia, si camuffano da tragedia amorosa al fondo della quale non c’è quasi mai la verità, ma soddisfa l’opinione pubblica e serve da cortina fumogena per gli assassini veri. La sanguinosa vicenda di Aldo Tandoj si è svolta su schemi consueti, anche perché all’inizio delle indagini sembrò che gli elementi passionali avessero consistenza determinante. Gravemente mutilato in guerra, Aldo Tandoj era un buon compagno per l’avvenente moglie siciliana. Quando arrivò ad Agrigento per iniziare la carriera nella polizia, il giovane ufficiale pugliese incominciò a indagare su alcuni omicidi impuniti a Raffadali, paese natale di sua moglie, e quasi certamente agganciò i responsabili, ma senza poter fornire prove contro di loro. Da quei primi giorni di servizio nel 1946 alla sera del 30 marzo 1960, quando fu freddato con quattro colpi di rivoltella mentre rincasava sotto braccio alla moglie, il commissario Tandoj conobbe molti segreti della mafia agrigentina, fra le più attive della Sicilia, ma al momento di intervenire si trovò sempre con le mani legate. La sua condizione lo aveva introdotto anche negli ambienti «bene» di Agrigento, dove mondanità, cronaca nera, politica, appalti per opere pubbliche, offrono argomenti alle conversazioni, alle interessate alleanze, a contrasti insanabili. Si era formato un affiatato sodalizio fra i coniugi Tandoj e la famiglia del prof. Mario La Loggia, personaggio di rilievo nella società agrigentina, direttore dell’ospedale psichiatrico, presidente dell’ente turistico provinciale, fratello dell’ex presidente del governo regionale, bell’uomo elegante dai gesti misurati, parlatore eloquente. Leila Tandoj era soprattutto assidua di Danika La Loggia, moglie del professore, di origine slava e poco ossequente alle norme che regolano l’esistenza della società siciliana, ancora musulmana per certi aspetti. Alle due donne ed ai loro consorti si unirà sovente il barone Agnello, ricco latifondista rapito dai banditi che chiedevano molti milioni di riscatto e fortunosamente liberato da Aldo Tandoj.
Il sodalizio durò circa 11, anni, ed infine il commissario Tandoj fu trasferito a Roma dove visse da solo per alcuni mesi lasciando la moglie ad Agrigento, alla vigile cura degli amici che avrebbero provveduto a distrarla. Infine, decise di portarla con sé e tornò ad Agrigento in breve licenza per curare il trasloco. La sera del 30 marzo 1960, poco prima delle otto, rincasava a fianco della moglie nella centralissima Via della Libertà. Lo fulminarono con quattro rivoltellate. Alcuni passanti videro gli assassini, ma diedero indicazioni irrilevanti. Un proiettile vagante colpì un ragazzo, Antonio Damanti, che discorreva con un amico affacciato alla finestra. Il ragazzo mori all’ospedale, vittima incolpevole di intrighi nefandi; Aldo Tandoj morì sul marciapiede portandosi nella tomba una grossa soma di segreti. Le indagini si orientarono verso il mondo criminale ch’egli aveva combattuto, ma gli ingranaggi mafiosi non tardarono a muoversi: «La mafia non ha mai attaccato la polizia, si disse; bisogna cercare in altra direzione». La nuova direzione fu il delitto passionale, la cosiddetta pista solare di molti crimini mafiosi che Leonardo Sciascia ha sottilmente descritto nel libro «Il giorno della civetta». Nel caso di Aldo Tandoj c’erano molti elementi per sostenere la tesi passionale; la dimestichezza di sua moglie col prof. Mario La Loggia poteva essere una relazione amorosa. Il prof. La Loggia poteva aver pagato due sicari per uccidere l’amico che voleva privarlo di uno svago portandosi a Roma la moglie. Sospettati mandanti nel delitto su commissione, Leila Tandoj e Mario La Loggia furono arrestati il 10 maggio 1960 con cinque uomini che facevano da galoppini elettorali al professore, fra i quali doveva esservi il sicario dalla mira infallibile. Dopo sette mesi di carcere, tutti furono rimessi in libertà per insuffUcienza di indizi. Ciò non significa che siano stati assolti, l’istruttoria continua e si prevede che solo fra un paio di mesi Leila Tandoj, il prof. La Loggia e gli altri cinque conosceranno il verdetto del magistrato, che potrebbe essere di assoluzione piena, oppure di rinvio a giudizio. Tuttavia, opinano i difensori, il fatto che siano stati rimessi in libertà e già un’indicazione. Se così è, significa che il giudice istruttore si è trovato dinanzi al vuoto, autentico o artificiosamente creato. Tutto sarebbe crollato, a incominciare dalle conturbanti descrizioni di orge nella villa del prof. La Loggia, un campionario di gesti, parole, atteggiamenti che dovevano essere una trance de vie e sono, invece, un grossolano romanzo a fumetti per compresse fantasie provinciali.
«Dicevano che avrei fatto uccidere Aldo perché voleva condurre la moglie a Roma; lei pensa ci sia città più adatta per nascondere una relazione d’amore illegale!». Dietro alla sua scrivania, il prof. La Loggia discorreva della sua vicenda senza alterare la voce; psichiatra di buona fama, conosce i moti dell’animo e sa dominarli. Gli domandai chi poteva avere interesse ad accusarlo del delitto per commissione, ed egli rispose: «Colui che ha ucciso Tandoj, evidentemente». E chi ha ucciso Tandoj? Forse non lo sapremo mai, come non sapremo chi ha ucciso il sindacalista Miraglia, il segretario provinciale della dc Montaperto, il sindaco di Favara, il vice-sindaco di Licata, il vice-seqretario regionale dc Campo, il candidato dc alle elezioni regionali Gilio e moltissimi altri di nome più oscuro, tutti agrigentini «giustiziati» alle spalle come il commissario Tandoj.
La tesi del delitto passionale sembra sia stata ora abbandonata, ma intanto i veri colpevoli si sono costruiti alibi incrollabili; in questi casi la mafia rivela una versitilità diabolica, crea testimoni falsi e per chiudere una certa partita arriva a offrire il colpevole alla polizia, ma morto. Alcuni giorni dopo l’uccisione di Miraglia, il commissario Tandoj fu chiamato al telefono ed una voce sconosciuta gli disse che l’assassino del sindacalista giaceva morto su una trazzera vicino a Castelvetrano. Trovarono il cadavere di Bartolomeo Oliva crivellato dalla lupara: era un contadino con qualche trascorso penale, ma quasi certamente estraneo all’assassinio di Miraglia. Quando vuole liberare gli amici potenti dai sospetti per un delitto clamoroso, la mafia fa uccidere un qualsiasi ladro di bestiame e lo indica autore del crimine.
Ha tentato di fare altrettanto per l’uccisione di Aldo Tandoj. Mi ha raccontato un amico che pochi giorni dopo il delitto ci fu a Castel Termini, borgata poco lontana da Agrigento, una riunione eccezionale di mafiosi che incaricarono un di offrire alla polizia l’assassino del commissario, s’intende morto. La polizia avrebbe rifiutato e le indagini scivolarono lungo la pista solare del delitto passionale. Non posso affermare l’autenticità dell’episodio, ma conoscendo i metodi della mafia lo credo verosimile; molti delitti sono stati archiviati dopo la scoperta degli autori già «giustiziati» dalla mafia, ma quanti di quei morti erano gli assassini reali?
E’ un rompicapo che nemmeno il commissario Tandoj ha potuto risolvere, la mafia rimane indecifrabile anche per i tutori dell’ordine che, talvolta, ne sono vittime loro stessi, e non solo fisicamente. «Tandoj conduceva una vita superiore ai suoi mezzi» mi diceva il prof. La Loggia. Altri mi hanno sussurrato che sulla sua automobile sono state trovate tracce di stupefacenti e che nel suo alloggio di Roma aveva una valigia a doppio fondo. «Che faceva con una simile valigia un commissario di polizia?». Un movente a quel delitto, benché vago e offensivo per il morto, bisogna trovarlo dopo che la moglie e gli amici di Aldo Tandoj sono stati scarcerati. Il prof. La Loggia ha ripreso le sue occupazioni professionali e mondane, la signora Leila Tandoj ha ottenuto a ottobre la licenza magistrale per fare la maestrina e, dice, «rifarsi una vita». La mamma di Antonio Damanti, il ragazzo ucciso per errore, vaga in una sua dolente malinconia disfacendo la sera e rifacendolo la mattina, il letto del figliolo, per risentirlo vivo. Intanto, l’istruttoria prosegue nel segreto degli uffici e tra l’indifferenza degli agrigentini, avvezzi ai delitti impuniti.

 

 

 

Articolo da La Stampa del 23 Agosto 1992
TANDOJ sesso e morte nella Sicilia che brucia
di Enrico Deaglio
Un luogo, una storia. Agrigento 1960: da una catena di delitti, il primo «cadavere eccellente»

AGRIGENTO. Il luogo, se con l’immaginazione gli si toglie un po’ di cemento, è ancora uguale a come era quella sera di trentadue anni fa. Il viale della Vittoria parte dalla stazione ferroviaria, a sinistra allinea i palazzotti borghesi, il marciapiede con i pini. A destra termina invece in una scarpata al fondo della quale si stende la valle dei templi. Di li scapparono i due assassini. Erano le 19,45 del 30 marzo 1960 e una coppia percorreva a braccetto viale della Vittoria verso casa. Era buio. Due persone li seguirono e spararono sei colpi da breve distanza. L’uomo si accasciò colpito a morte e trascinò nella caduta la donna, che però rimase illesa. Uno studente liceale, che sostava con amici poco più in là, si trovò sulla traiettoria di un proiettile e morì all’istante. Così cominciò il giallo dell’estate 1960.
L’uomo era il commissario di polizia Cataldo Tandoj, 44 anni, dirigente della Squadra Mobile di Agrigento, il primo «cadavere eccellente» della Sicilia recente. La donna era sua moglie Leila Motta, bellissima. Il ragazzo, che non c’entrava niente, si chiamava Nini D’Amanti e sua madre, per anni, in desolata solitudine, continuò a disfargli il letto la sera e a rifarglielo la mattina per sentirlo ancora vivo. «La pacifica quiete agrigentina questa sera è stata funestata da un duplice omicidio che non trova riscontri negli annali della nostra cronaca»: così era scritto nella prima nota giornalistica sul delitto. Non era vero, perché la quiete agrigentina era in quegli anni punteggiata di delitti quotidiani. Ma si poteva scrivere, perché nel resto d’Italia, a quei tempi, di Agrigento nessuno sapeva nulla. Né aveva interesse a sapere, come dimostrano due dimenticati episodi di quel 1960.
Il primo riguardava un «convegno internazionale» promosso da un gruppo di intellettuali sulla situazione igienica di Palma di Montechiaro, uno dei paesi allora sconosciuti che circondano Agrigento. Vi parteciparono Danilo Dolci, Jean-Paul Sartre, René Dumont, Leonardo Sciascia, Paolo Sylos Labini, Giorgio Napolitano, ognuno appassionato a proporre, a far conoscere la realtà del sottosviluppo e a mobilitare coscienze e capitali. Sui giornali italiani, di quel convegno che fece sapere come a Palma la metà dei bambini moriva per i vermi, comparve poco o niente. Le Monde mandò a seguire i lavori l’inviato Claude Troeller, esperto di problemi del Terzo Mondo. Scrisse: «Sono stato in India, in Cina, in Libano, ma ciò che ho visto a Palma di Montechiaro i miei occhi non lo potranno dimenticare facilmente: l’Italia è una nazione civile, è una nazione importante. Come può permettere tutto ciò?». Il secondo episodio riguardò Indro Montanelli, già giornalista famoso. Intervistato dal Figaro Littéraire, se ne uscì con questa frase: «Ah, la Sicilia! Voi avete l’Algeria, noi abbiamo la Sicilia. Ma voi non siete obbligati a dire agli algerini che sono francesi. Noi, circostanza aggravante, siamo obbligati ad accordare ai Siciliani la qualità di Italiani». In Sicilia si scatenò una rivolta. Montanelli venne denunciato al Procuratore della Repubblica di Milano, i monarchici proposero di togliergli la cittadinanza italiana, decine di Consigli comunali mandarono telegrammi di protesta. E gli edicolanti di tutta la Sicilia esposero grandi cartelli in cui annunciavano che «per le gravi ingiurie ignobilmente lanciate contro l’intero popolo siciliano sarà rifiutata la vendita dei giornali contenenti articoli di Indro Montanelli». I cartelli rimasero appesi per settimane.
Il commissario Cataldo Tandoj venne ucciso in mezzo a tutto ciò. Alla periferia d’Italia, tra Terzo Mondo e sicilianità offesa. Era capitato in mezzo alla violenza tenebrosa dei paesi agrigentini e lì stava la ragione del suo omicidio.
Ma a questo risultato si sarebbe giunti solo molti anni dopo: quella sera di pacifica quiete agrigentina, regnò la paralisi. Il cadavere rimase per ore sul marciapiede, perché nessuno voleva prendersi la responsabilità di spostarlo. L’autopsia non venne eseguita per rispetto verso la famiglia. E intanto si lavorava, una copiosa produzione di lettere anonime cominciava a occuparsi della vita privata del commissario portando alla ribalta i personaggi che sarebbero stati popolari per tutta l’estate, al pari dei vincitori delle Olimpiadi di Roma e dei «fatti» della rivolta popolare contro il governo Tambroni del luglio.
La moglie del commissario, innanzitutto. A 36 anni, Leila Motta era una bellezza. Figlia del vicequestore del paese di Raffadali, durante la guerra era stata crocerossina e in un ospedale militare siciliano aveva conosciuto Tandoj, figlio di un colonnello, barese, compagno di scuola di Aldo Moro che nel 1960 era segretario nazionale della de. Leila Motta l’aveva incontrato in un letto d’ospedale, gravemente mutilato da ferite di guerra. L’aveva sposato e, dicevano i corvi, la coppia era risultata mal assortita. Troppo bella lei, troppo scialbo e più vecchio lui, e perdipiù mutilato. Ed ecco entrare in scena il professor Mario La Loggia, figura singolare. Psichiatra, fratello dell’ex presidente della Regione siciliana, famiglia democristiana potentissima. Era molto anomalo: un gaudente, un moderno. Sposato con Danika Pejorie, montenegrina, bella, elegante, spavalda e straniera, non sembrava inconsolabile dopo che la moglie era scappata da casa per trasferirsi nella villa patrizia del barone Giuseppe Agnello, proprietario di immensi feudi, pochi anni prima rapito da ignoti banditi e salvato fortunosamente proprio dal commissario Cataldo Tandoj.
E il corvo produce in continuazione lettere sulla relazione d’amore tra l’eccentrico psichiatra e la bellissima Leila. Fino a quando, il 18 maggio 1960, la svolta nelle indagini: Leila Motta e Mario La Loggia arrestati come mandanti dell’omicidio del commissario. Esecutori, due mezzadri al soldo della famiglia La Loggia. Movente: eliminare dalla scena lo scomodo commissario e permettere ai due «amanti diabolici» di continuare il proprio spasso.
E allora sì che arrivarono i cronisti, da tutta Italia e da mezza Europa, alla scoperta della «dolce vita» di Agrigento. Dagli articoli di allora: «Trovate bustine di stupefacenti nell’auto di Tandoj. Morfina? Vizio contratto a seguito dei dolori per le ferite di guerra?». «Orge in casa del professor La Loggia». «Droga al circolo del tennis». «Un tubetto di sostanza a base di oppio nella casa dello psichiatra». «Un doppiofondo nella valigia del commissario». Le notizie uscirono a getto continuo per tutta l’estate. Per i quotidiani siciliani, il delitto Tandoj si rivelò una manna: le tirature erano superiori al tasso di alfabetismo, perché nessuno, anche se illetterato, voleva rinunciare a conoscere le storie e i vizi del potente incarcerato: Mario La Loggia era infatti potentissimo. Così contadini e pastori andavano all’edicola, prendevano il giornale e se lo facevano leggere la sera quando tornavano a casa. Decine di fotografie famose: Leila Motta con vestiti fasciami e scollati e un lungo bocchino alla sigaretta. Danika al tavolo del poker. Il trio La Loggia – Danika – Leila alle serate mondane.
Gli ingredienti erano tutti presenti: sesso, denaro, politica, droga, sangue, mistero. Ne mancava uno, sospeso nell’aria, ma mai nominato: la mafia. Ma la mafia a quel tempo non esisteva e, se esisteva, non avrebbe mai ucciso un commissario di polizia, era una bestemmia sostenerlo. I rotocalchi non la vedevano, gli inviati di molti giornali che stazionarono per settimane ad Agrigento – c’erano, tra gli altri, Alfredo Todisco, Lietta Tornabuoni, Giovanni Russo, Mauro De Mauro – la sentivano, la palpavano, ma non trovavano agganci con l’istruttoria che i magistrati di Agrigento stavano conducendo, ostentando la massima sicurezza.
Il professor La Loggia e Leila Motta restarono in carcere sette mesi e vennero liberati alla vigilia del Natale 1960. Prosciolti da ogni accusa, così come i due presunti esecutori. Arrivò un nuovo magistrato e le indagini presero un corso diverso, ma a questo punto l’interesse per la vicenda era caduto. Indiziati erano diventati anonimi contadini, di nessun interesse, in realtà – a leggere le carte – molto vicini alla mappa dell’Agrigento criminale dei nostri giorni.
Si scoprì allora che quello di Tandoj era soltanto l’ultimo di una catena di delitti che aveva visto cadere il sindacalista della Cgil Accursio Miraglia, il sindaco di Favara, il vicesindaco di Licata, il vicesegretario regionale della de, un candidato democristiano alle elezioni regionali, accompagnati da un’altra lunga serie di morti sconosciuti, trovati pieni di mosche nelle trazzere della campagna. Scriveva, nel 1962, l’inviato della Stampa Alfredo Todisco: «La mafia, questa associazione invisibile, erige sui fatti di cui è protagonista una versione travestita che, grazie a false testimonianze, paure, complicità misteriose, si sostituisce alla verità. Per usare una espressione di Orwell, la mafia riscrive la cronaca».
La verità giudiziaria arrivò otto anni dopo il delitto, dalla corte d’Assise di Lecce. Otto ergastoli per gli omicidi di Tandoj e gli autori di altri cinque omicidi. Braccianti, mezzadri dei paesi intorno a Agrigento, capeggiati da un giudice conciliatore, il professor De Carlo di Raffadali. Tandoj non era stato ucciso per passioni d’amore, ma perché si temeva potesse rivelare, trasferito a Roma, segreti di mafia ben custoditi. Segreti che conosceva, perché a essi si era mescolato.
Aveva fatto da mediatore in vendite di terreni, trattando con il capo mafia Genco Russo; si era fatto prestare denaro («cinquantamila lire») da un mafioso di Siculiana, di nome Gerlando Caruar.a. Un cognome che sarebbe diventato, trent’anni dopo, molto importante: la famiglia Caruana di Siculiana, secondo le ultime conoscenze mafiologiche, risulta essere diventata la più potente organizzazione internazionale di traffico di droga.
Così finì la storia del primo commissario di polizia ucciso in Sicilia. Dei ventidue imputati, otto vennero condannati all’ergastolo, ma in realtà, gli altri avendo preso in tempo la via del Canada, in carcere rimase una sola persona, Giuseppe Galvano. Cinque anni fa, dopo 27 anni di detenzione, ebbe la pena sospesa, perché paralizzato e in grado di respirare solo con l’ossigeno. Fu trasportato a Raffadali, a morire presso parenti.
Dimenticati dal tempo, i due supposti «amanti diabolici» di trentadue anni fa, sono rimasti nelle loro case e quando si incontrano lui la saluta con un rispettoso inchino. Il professor Mario La Loggia, in pensione, lo si può incontrare a passeggio per via Atenea e il suo nome lo si può leggere alla base del masso che fa da tomba alle ceneri di Pirandello. Lo fece sistemare lui nel 1962, allora presidente del l’Azienda del Turismo, e ci si può immaginare una certa soddisfazione nell’unire il suo cognome all’autore dello strapotere delle apparenze. Oggi, in qualità di presidente dell’Associazione Auto d’Epoca, fa sfilare periodicamente per la città le fantastiche decapotabili di una volta.
Leila Motta prese prima il diploma magistrale, poi si laureò in lingue all’Istituto Orientale di Napoli ed è da tanti anni ormai la professoressa di francese al liceo di Agrigento. Dalla casa di viale della Vittoria scende verso i templi e lì si siede a correggere i compiti. Alle ultime elezioni politiche è stata candidata per la lista dei Verdi Sole che ride. Della vecchia storia parla pacatamente con totale distacco.
«Non vollero dire che era stata la mafia, mentre era chiaro. Un giorno viaggiavo in treno e un signore mi riconobbe. Mi disse: sa perché le è capitato tutto quello che le è capitato? Perché lei era una bella donna e aveva un nome esotico. Credo che avesse ragione». Anche Danika, la stravagante straniera, ogni tanto si fa vedere a Agrigento.
Per il resto, non c’è più nulla del clima di allora. La città è oppressa dal cemento di speculazione. Dai rubinetti non scorre l’acqua.
Se fosse stato ucciso adesso, il commissario Tandoj, la sua storia rimarrebbe sui giornali per non più di due giorni. Perché da queste parti, ormai i morti di mafia si fatica a contarli. Marescialli dei carabinieri, presidenti di squadre di calcio, avvocati, giudici ragazzini, sindaci, ex sindaci, candidati, assessori, passanti, capimafia attempati, ragazzi, imprenditori, mediatori, pastori, spacciatori, latitanti, pentiti, camionisti, bidelli… Morti accolte con assuefazione e lontananza, senza che nessuno più si affatichi a inventare raffinati castelli di falsità verosimili.

 

 

 

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Articolo del 6 febbraio 2016
di Elio Di Bella

Agrigento non dimentica: Ninni Damanti, vittima della mafia

 

 

 

 

 

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