30 Settembre 1996 Varapodio (RC). Antonino (Nino) Polifroni, imprenditore, ucciso per non essersi piegato alle richieste di pagare il pizzo.

Foto da: stopndrangheta.it

A Varapodio (RC), dopo una lunga scia di atti vandalici e attentati intimidatori, l’imprenditore Antonino Polifroni viene assassinato a 49 anni per il suo ostinato “no” ai tentativi di estorsione mafiosa. L’impresa edilizia che aveva fondato tra mille sacrifici e che aveva suscitato l’interesse degli uomini dei clan è ora gestita dai tre figli. La famiglia ricorda annualmente Nino Polifroni, vittima della criminalità organizzata, attraverso un concorso scolastico per il conferimento di 20 assegni di studio ad altrettanti studenti della scuola primaria e secondaria di primo grado di Varapodio.
(Fonte: dasud.it)

 

 

 

Articolo del 24 Marzo 2009 di Gazzetta del Sud
VARAPODIO/ L’imprenditore ucciso 12 anni fa per mano della criminalità organizzata
Consegnate le borse di studio in memoria di Nino Polifroni
Fazzolari e Foti: assassinato prima che potesse godere i frutti del suo duro lavoro

VARAPODIO – “Assassinato perché non si è voluto piegare alla ndrangheta”. Così i giornali titolavano in prima pagina, nel lontano 1996, l’uccisione di Nino Polifroni, 46 anni, imprenditore vittima della criminalità organizzata e come tale formalmente riconosciuto dallo Stato.

Per ricordare Polifroni, a 12 anni dalla tragica scomparsa, i congiunti, supportati dal locale Istituto scolastico comprensivo e dall’Amministrazione comunale, hanno riproposto il concorso scolastico per l’assegnazione – da parte della famiglia – di 20 assegni di studio consegnati ai ragazzi della scuola primaria e secondaria di primo grado nel corso di una cerimonia volutamente svolta nel giorno in cui dappertutto si è celebrato il giorno della memoria delle vittime della criminalità organizzata.

Il dirigente scolastico e il vice sindaco Orlando Fazzolari hanno tracciato il profilo dell’imprenditore, considerato una risorsa per l’economia del paese, il quale «nel momento in cui si apprestava a godere i frutti del suo duro lavoro, iniziato da adolescente, è stato barbaramente stroncato da mano criminale».

Unitamente ai familiari dell’imprenditore assassinato, tanti i presenti alla manifestazione: il vice prefetto Enzo Covato; i consiglieri provinciali Rocco Biasi e Francesco D’Agostino; il maresciallo dei carabinieri Raffaello Ballante; il comandante della Polizia municipale Domenico Papalia; don Mimmo Caruso. Moltissimi, anche i cittadini che hanno affollato il Centro culturale polivalente che ha ospitato la manifestazione.

Diversi, comunque, i rappresentanti istituzionali che, pur avendo assicurato la loro presenza, non sono intervenuti. «Hanno perso l’occasione – ha dichiarato l’ing. Bruno Polifroni, figlio dell’imprenditore ucciso – di suffragare con i fatti il loro proclamato impegno in tema di legalità; anche perché – ha aggiunto – la manifestazione non aveva come oggetto la presentazione di un libro o l’inaugurazione di un impianto sportivo, ma qualcosa di ben più importante».

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Articolo del 21 Ottobre 2010 da malitalia.it
Un no che ti spegne la vita
di  Nicola Lillo

“Assassinato perchè non si è voluto piegare alla ‘ndrangheta”. Titolavano così i giornali in quel lontano settembre del 1996. Quattro uomini gli spararono contro, concludendo la loro esecuzione con un colpo di grazia.
Un imprenditore di 49 anni riverso a terra, in un paesino di poche anime in provincia di Reggio Calabria, Varapodio. Padre di sei figli, il più piccolo di pochissimi mesi, ha continuato a dire “no” ai tentativi di estorsione mafiosa. E la ‘ndrangheta ha deciso di piegarlo con la più estrema delle azioni: l’omicidio.
Nino Polifroni ha speso una vita in sacrifici e stenti per portare avanti la sua creatura, un’azienda edile. Nel 1974 si trasferisce, con moglie e figli, nella casa che lui stesso aveva costruito.
Fu quello l’anno in cui prende vita il suo incubo. Si aspettava un avvertimento, e presto arrivarono le prime telefonate. Dalla parte opposta della cornetta, un uomo con forte accento calabrese chiede del denaro. Nino corre a denunciare il tentativo di estorsione. E così continuerà a fare per tutti i lunghi venti anni nei quali sarà sottoposto a questo stress continuo.
In terra di mafia non puoi permetterti troppa libertà. “La tua libertà finisce dove inizia quella dell’altro”. Lo ha insegnato Voltaire. Ma in Calabria non è così. Quello che è permesso alla ‘ndrangheta neppure allo Stato è dato. È una “libertà” invasiva, violenta che si trasforma in oppressione.Nino Polifroni era una persona particolarmente testarda e coraggiosa. Voleva affrontare a tutti i costi quelle persone. Si presentava agli incontri, ma nessuno si faceva vivo. Nella valigetta non portava con sé il denaro. Solo fogli di giornale. Ostentava il suo secco “no” alla ‘ndrangheta.
La reazione non fu altro che violenza. Fucilate contro la porta di casa; contro le finestre. Bicchieri, vetri, piatti disintegrati. Automezzi da lavoro incendiati, minacce telefoniche. Per molti anni fu il terrore.
Secondo Nino non avrebbero mai agito contro la sua persona. Si sbagliava.
Il 30 novembre del 1992, di ritorno da lavoro con il figlio Gianpiero, si ferma davanti all’ingresso di casa. Il figlio prosegue verso il cantiere dove avrebbe lasciato l’autobetoniera con cui viaggiavano. Nino, invece, suona il campanello della sua abitazione, pronto per la cena in famiglia.
Il silenzio serale di Varapodio viene rotto dal frastuono di un’arma da fuoco. Alcuni pallini da caccia esplosi da un fucile lo feriscono gravemente. Rischia di perdere la vista.
La ‘ndrangheta si fa sentire così. È questa l’espressione del suo potere, della sua “libertà”.Dopo molti anni si viene a conoscenza della verità sull’attentato. Era il 1996. Un mese prima della sua morte, Nino, venne avvicinato da alcuni compaesani, che gli riferirono l’identità del suo attentatore. Perchè solo dopo quattro anni? La paura dei cittadini di Varapodio era svanita? L’omertà finalmente sconfitta? No. Proprio pochi giorni prima l’attentatore era morto, ed ormai non avevano più nulla da temere. Nel 1998, dopo due anni dalla scomparsa di Nino, fu consegnato al figlio Bruno un fascicolo di atti giudiziari. La famiglia Polifroni ebbe la conferma che tutto il paese era a conoscenza dell’autore di quel gesto estremo. Soltanto loro erano all’oscuro di tutto.
I mesi successivi a quel 30 novembre del 1992 furono mesi pieni di terrore e di paura. Scortati e vigilati notte e giorno, Nino e i suoi figli si recavano con il giubbotto antiproiettile in cantiere. Uno stato di terrore costante. Continuarono le minacce, le telefonate, le lettere minatorie.
Nel 1996 la strategia della ‘ndrangheta cambiò. Mutano le richieste di estorsione. Non c’è più un filo diretto fra ‘ndranghetista e imprenditore. Le modalità ora sono subdole e celate. Si stabiliscono meccanismi che falsano il mercato. Non esiste più la libera concorrenza, fare impresa viene reso impossibile. La libertà economica non regna più nel territorio calabrese. Una forma di estorsione legalizzata, con emissione di fattura e con tasse regolarmente pagate.
Il costo di un opera per alcuni è minore, per altri molto, molto più cara. Si va ad incidere sulla materia prima, che viene pagata ad un prezzo inferiore. Ed è così infatti che a Nino fu imposta la fornitura di mattonelle da un’azienda in particolare. Alla consegna urlò senza paura: “Dì al tuo padrone che non ho mai accettato estorsioni e neppure adesso”. Furono queste le parole che segnarono la sua fine.
Una vera e proprio esecuzione. E’ il 30 settembre 1996.
Sostegno e solidarietà arrivarono da parte dei concittadini, gli stessi che per quattro anni non vollero ammettere le loro conoscenze sull’attentato subito dall’imprenditore.
Bruno, figlio maggiore di Nino Polifroni, ancora dopo diversi anni, porta con sé rabbia, tristezza e due grosse delusioni. La prima è venuta dalla magistratura. “Il caso fu assegnato ad un magistrato che si concentrava su piste sbagliate. Più volte cercai di fargli capire le mie ragioni”. Interrogò la moglie di Nino più e più volte, sottoponendola ad una sofferenza maggiore di quella che già stava provando. Durante un interrogatorio il figlio decise di portarla via a forza, rischiando una denuncia.
Anni dopo fu lo stesso Bruno ad essere sentito dai Carabinieri. Gli rimproverarono di non aver aiutato le istituzioni per la ricerca degli assassini di suo padre. Ma fu proprio lui a cercare di indirizzare le indagini verso la verità. Altro non poterono fare se non dare ragione a Bruno, chiedendo scusa a nome dello Stato. Uno Stato assente, distratto e, nel peggiore dei casi, connivente.
La seconda delusione derivò, invece, da quell’antimafia “che fa molto fumo e niente arrosto”. “Noi abbiamo fatto iniziative – continua Bruno – su nostro padre. Abbiamo creato un memoriale biennale, con una borsa di studio da assegnare alle classi medie inferiori del paese. Ogni biennio avvisiamo la stampa e le maggiori autorità della zona. Ma gli inviti sono spesso declinati”.
Non è sufficiente una lettera o un telegramma per spiegare le proprie assenze. In regioni come la Calabria bisogna andare oltre. Bisognare mandare segnali, bisogna essere presenti, la politica deve schierarsi, non può restare in quella zona grigia, mista di omertà e connivenza. “Loro partecipano a manifestazioni politiche, ma a quelle dell’antimafia vera no. Finché questo non cambia, qui non si sveglia nessuno”. Parole che rimbombano come un eco. Rimbalzano sui muri delle caserme, delle prefetture, delle questure, e ritornano indietro.
Ma la lotta di questa coraggiosa famiglia calabrese continua tutt’ora. Enzo, il secondogenito, porta avanti, insieme al fratello Leandro, l’azienda del padre. Si occupano di appalti pubblici. Uno dei maggiori interessi della mafia calabrese. “C’è qualcosa che ti fa lottare, ma è molto difficile. Oggi sto portando avanti un’opera importante sul territorio. Subisco attentati e si è comunque lasciati soli dalle istituzioni”. La voce di Enzo nasconde una grande paura. Pochi giorni fa ha subito un altro attentato nel suo cantiere. Era una domenica. Ha telefonato alle forze dell’ordine, che hanno preso tempo. “Chiameremo noi domani, oggi non abbiamo mezzi disponibili”. Enzo attende ancora quella chiamata.
“La nostra forza è portare a compimento il suo pensiero”, è questo che fa andare avanti Bruno, Enzo, Leandro, Giampiero, Nicoletta e Danilo. Sei fratelli che onorano, tutti insieme, il nome di loro padre. Un esempio di coraggio, di dedizione. In una Calabria ancora piegata dal giogo della ‘ndrangheta, l’esempio di queste famiglie smuove gli animi, bagna le palpebre, scalda il cuore. E dà a sua volta forza, coraggio, voglia di cambiare, anche a noi giovani, abitanti di un’Italia, quella del nord, che sembra così distante da quelle regioni, ma che sempre una e indivisibile è.
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Fonte: ricerca.repubblica.it
Articolo del 21 marzo 2015
Storia di Nicoletta: “Papà non pagò il pizzo, prese sette colpi di lupara”
di Caterina Giusberti
Ventisei anni, calabrese, vive in città “Studio legge, farò il magistrato Penso a mio padre tutti i giorni” “Da noi la mafia è sotto gli occhi di tutti, qui al nord è più difficile capire gli ambienti sani da quelli equivoci”

«Lo hanno giustiziato con sette colpi di lupara, l’ultimo vicinissimo, quando era già a terra. Un’esecuzione in piena regola». Nicoletta Polifroni ha 26 anni, è calabrese, ma vive a Bologna da sette anni. Capelli lunghi neri, orecchini, borsetta. A prima vista una fuorisede come tante, forse solo un po’ più riservata. «Non voglio che il mio passato diventi un’etichetta, un biglietto da visita. Ma in occasioni come questa ne parlo volentieri, mi rendo conto che la responsabilità che mi sento addosso da quel giorno è reale».

Studia legge, vuole fare il magistrato. Tre parole: «Io ci credo». L’ha deciso diciannove anni fa, il 30 settembre del 1996, quando le ammazzarono il papà, Antonino detto Nino. Faceva l’imprenditore edile e si rifiutava di pagare il pizzo. Lei aveva sette anni e mezzo, andava alle elementari. Di quei giorni ricorda i vetri antiproiettile, le telefonate minatorie, un ordigno inesploso sotto casa. E la mamma che chiedeva insistentemente di cambiarla. «Mio padre – racconta – fu uno dei primi a denunciare, a sottrarsi. Subì pressioni per vent’anni, ma non cedette. Anzi li sfidava: spesso si presentava agli appuntamenti per consegnare i soldi con una valigetta vuota: era diventato un bersaglio».

L’omicidio di Antonino Polifroni si inserì nella faida di Oppido Mamertina. «Sei clan si contendevano il territorio. Per questo avevano aumentato le estorsioni, avevano bisogno di molti soldi». All’omicidio seguì un processo, che si concluse con un’archiviazione. Ma Nicoletta non vuole la pietà di nessuno, soprattutto non vuole che l’omicidio di suo padre copra i suoi studi, il suo impegno all’università. «Ci ho messo molto a realizzare che posso essere professionale, senza ignorare il mio passato. Adesso ho capito che pure un magistrato può essere umano. Anzi, che è necessario lo rimanga. Prima ritenevo che dovesse essere soltanto un tecnico, separavo nettamente i due piani, non volevo venissero confusi».

Qui a Bologna ha visto una mafia diversa da quella che conosceva. «Al sud ci sono certe situazioni evidenti. E’ come camminare in quartiere malfamato, la riconosci, sai di cosa avere paura. Qui invece sto sempre sul chi va là, faccio più fatica a definire la pulizia degli ambienti che frequento». Manca ancora consapevolezza del radicamento della mafia al nord? «In ambito accademico ho trovato molta sensibilità, forse quello che manca ancora è la visione di insieme, la capacità di passare dal piano teorico a quello pratico. Di accorgersi di quello che abbiamo sotto gli occhi».

 

 

 

Fonte: drive.google.com   
Articolo del 24 agosto 2016
La resistenza solitaria di “Mastru Ninu”
di Luciana De Luca
L’imprenditore Antonino Polifroni di Varapodio ucciso a colpi di fucile il 30 settembre del 1996
Il figlio Bruno racconta suo padre, la sua dedizione al lavoro e la tenace battaglia per preservare la sua libertà.

«Mò cu to figghju nda pigghjamu». Minacce a lui e alla sua famiglia, telefonate, lettere, attentati sui cantieri e colpi di fucile sparati prima solo per ferire, poi togliergli la vita, il 30 settembre 1996.

La ‘ndrangheta voleva farlo cedere a tutti i costi per annoverarlo, a pieno titolo, in quell’esercizio di vinti che assicuravano entrate certe e potere sui territori.

Ma Antonino Polifroni, classe 1947, orfano di padre carabiniere e cresciuto tra le intemperie del dopoguerra, da una madre rimasta sola troppo presto, aveva la scorza dura e soprattutto la consapevolezza che con la fatica e l’impegno avrebbe potuto costruire la sua fortuna. E così è stato. Da adolescente conseguì il brevetto di tornitore meccanico all’Istituto per orfani di guerra a Lecce. A 16 anni lavorava già come muratore e lentamente, mattone su mattone, cresceva, si organizzava con altri artigiani dell’edilizia per fare impresa. A 19 anni si sposò e l’anno dopo ebbe il suo primo figlio, Bruno. Poi arrivarono Enzo, Gianpiero, Leandro, Nicoletta e Danilo.

“Mastru Ninu”, sempre con i piedi ben saldati a terra, spostò presto la sua attenzione verso i lavori pubblici, ponti, strade. I suoi cantieri erano sicuri, affidabili. La sua capacità imprenditoriale pubblicamente riconosciuta. Nel 1976 raggiunse l’ambito traguardo di iscrizione all’Albo nazionale dei costruttori, il primo a Varapodio.

E con i successi e i guadagni arrivarono anche le richieste estorsive.

La ricchezza andava condivisa. Così pensavano gli uomini di ‘ndrangheta che curavano gli interessi dei padrini della piana. Lo si evince dalle telefonate registrate da Bruno, l’informatico della famiglia, nelle quali si chiedeva ripetutamente a Nino il pagamento di 100 milioni di vecchie lire, poi diventati 150, perché lui non voleva ascoltare «i consigli degli amici».

«Papà lavorava come un pazzo dalla mattina alla sera e questo lo rendeva consapevole e forte davanti alle richieste che gli venivano fatte – spiega Bruno -. Sarebbe stato pronto a offrire occupazione nella sua impresa, ma a dare soldi che lui guadagnava onestamente a gente che riteneva fosse un suo diritto averli con la prepotenza, questo proprio no. Lui rifiutava questa logica e sapeva bene il rischio che correva. Ma nonostante tutto non si è mai piegato».

Il figlio ricorda la tensione del padre, i giubbotti antiproiettile da indossare per andare al lavoro e le serrande di casa abbassate appena iniziava a fare buio. Ai ragazzi veniva persino proibito di uscire la sera. Ma Nino non poteva e non voleva accogliere quelle richieste.

Glielo impediva la sua coscienza di uomo libero che si era fatto da solo trasportando, ancora adolescente, le pietre dal fiume per costruire le case.

Glielo vietava la consapevolezza che sarebbe diventato una marionetta nelle mani di uomini violenti e ignoranti e soprattutto la certezza che avrebbe lasciato ai suoi figli un’eredità sulla quale sarebbe gravata una ipoteca difficilmente estinguibile.

Segue: drive.google.com

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Fonte:  memoriaeimpegno.it
Postato il 30 settembre 2016
Grazie papà. Il ricordo del figlio di Nino Polifroni

E sono venti.
Pensandoci bene ed escludendo quando gli eventi agiscono contro natura, è logico che prima o poi un figlio raggiunga il padre sotto molti aspetti. Uno di questi è l’età.
In quest’anno siamo coetanei. Lui si è fermato per aspettarmi, io da venti corro per raggiungerlo.
E ora che è successo posso meditare sulla sua storia da una diversa angolatura: prima d’ora, da figlio cercavo di immaginare il suo punto di vista, da persona ormai matura negli anni, e a come si potesse sentire quando era continuamente vessato dalla ‘ndrangheta.
Ora che siamo coetanei, ho riavuto poche settimane fa il coraggio di rispolverare documenti e registrazioni del 1992: volevo risentire e studiare le sue reazioni nei momenti più bui, quando era giornalmente minacciato insieme ai suoi figli e qualche delinquente tentava di estorcergli denaro.
Ho riascoltato le sue parole, il suo fiatone nel tentare di mantenere la calma, la tensione nel non sapere fare altro per combattere quel nemico invisibile.
Allora i mezzi erano altri e anche le Forze dell’Ordine non avevano gli strumenti che oggi hanno. Li avrebbero presi quei maledetti, ne sono certo.
Caro papà, hai avuto coraggio e determinazione, proprio come tutti quanti in questi venti anni hanno scritto. Non so come hai resistito, ma ricordo che a volte ti bastava una parola, un conforto di noi figli e tu proseguivi nella tua idea: “se vonnu sordi, u vannu u zzappanu”….
Certo, senza la tua tenacia, oggi, invece di essere tutti qui a ricordarti ci saremmo occupati solo di vivere una normale giornata di settembre. E spesso ci siamo arrabbiati con te, perché più volte siamo caduti nell’errore di pensare che avremmo preferito fosse così.
Ma mentre ti raggiungevo nell’età ho capito che nulla succede per caso e ogni storia ha il proprio significato da mostrare: grazie per averci insegnato a vivere e a farlo da persone libere.
Se tu non ti fossi sacrificato per noi, oggi saremmo ancora imprigionati e schiavi di quei delinquenti.
Grazie papà.
Bruno Polifroni

 

Chi era Nino Polifroni

Antonino (Nino) Polifroni, imprenditore, fu ucciso per non essersi piegato alle richieste estorsive da parte della ‘ndrangheta. L’omicidio avvenne a Varapodio, in provincia di Reggio Calabria, il 30 settembre del 1996, dopo una lunga scia di atti vandalici e attentati intimidatori. L’uomo aveva fondato un’impresa edilizia e, al momento dell’omicidio, aveva 49 anni.

Per anni Nino aveva subito intimidazioni, minacce e anche un attentato il 30 novembre 1992. Ma ogni volta aveva denunciato chi lo ricattava, non aveva mai accettato alcun compromesso.

 

 

 

 

Nino non è solo – In viaggio per testimoniare la memoria – Capitolo 2
Pubblicato il 21 mar 2017
“Nino non è solo”
La testimonianza dei figli e di chi ha seguito il suo esempio

 

Capitolo 2 del videoreportage
“In viaggio per testimoniare la memoria – La Calabria di Antonino Polifroni incontra il Liceo da Vinci”

Antonino Polifroni è stato un imprenditore edile calabrese della città di Varapodio. Era un innovatore nel suo ambiente, un padre di famiglia, promotore dell’artigianato locale e uomo di grande generosità: basti pensare che finanziava la squadra di calcio della sua città.
Ma oltre a tutti questi pregi, ne aveva anche un altro: si rifiutava di pagare il pizzo. Questa qualità purtroppo gli è stata fatale. Altri imprenditori della sua zona cominciarono a seguire il suo esempio e così stava diventando una minaccia. Inoltre il coraggioso Antonino non subiva silenziosamente le estorsioni e le minacce di cui era vittima, ma le denunciava, sempre.
Il 30 settembre del 1996 gli ‘ndranghetisti decisero di ammazzarlo, lasciando 6 bambini – il più piccolo di loro aveva solo 20 mesi – senza il loro papà.
I figli, oggi, seguono a testa alta l’esempio del padre e, durante loro viaggio in Calabria, gli studenti del Liceo da Vinci hanno raccolto le toccanti riflessioni di due di loro, rispettivamente di Bruno e Nicoletta Polifroni.
Il secondo giorno della loro esperienza, i ragazzi hanno partecipato a una conferenza in cui sono intervenute molte figure istituzionali locali e personaggi cardine della lotta contro la mafia. Tra di essi, due testimoni di giustizia, l’imprenditore Tiberio Bentivoglio e Antonino Bartuccio, ex sindaco di Rizziconi, hanno parlato della loro esperienza diretta, lasciando le testimonianze più significative del viaggio.

Il video “In viaggio per testimoniare la memoria – La Calabria di Antonino Polifroni incontra il Liceo da Vinci” è a cura degli studenti del Liceo Leonardo da Vinci di Casalecchio di Reno, con il supporto di Officina delle Muse

 

 

 

Leggere anche:

 

Articolo del 7 febbraio 2020

Storia dell’imprenditore Nino Polifroni, la sua fabbrica nella tenaglia tra Stato e mafia

 

 

antimafiaduemila.com
Articolo del 30 agosto 2021
CNDDU: commemorazione dell’uccisione di Antonino Polifroni, vittima della ‘Ndrangheta

 

 

 

 

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