4 Aprile 1992 Agrigento. Assassinato il Maresciallo dei Carabinieri Giuliano Guazzelli, l’Investigatore Puro.
Giuliano Guazzelli (Gallicano, Lucca, 6 aprile 1933 – Agrigento, 4 aprile 1992) è stato un militare italiano, vittima della mafia. Era soprannominato il mastino.
Giuliano Guazzelli fu assassinato il 4 aprile 1992 sulla strada Agrigento-Menfi sulla sua auto Fiat Ritmo, gli assassini a bordo di un Fiat Fiorino, lo sorpassarono su un viadotto, spalancarono il portellone posteriore e lo uccisero a colpi di mitra e fucili a pompa. A Menfi, cittadina d’adozione del maresciallo, fu proclamato il lutto cittadino.
Giuliano Guazzelli all’epoca dell’omicidio aveva già maturato l’età pensionabile, ma aveva deciso di restare in servizio, nonostante avesse subito numerosi intimidazioni ed era già riuscito a sfuggire ad un altro agguato.
Inizialmente il delitto fu attribuito alla Stidda, così nel dicembre 1992 vennero arrestati in Germania dei presunti killer.
Processati e condannati all’ergastolo dal Tribunale di Agrigento, vennero successivamente assolti dalla Corte d’Assise d’Appello di Palermo per insufficienza di prove.
Passati alla pista Cosa Nostra, per l’omicidio sono state inflitte sei condanne definitive al carcere a vita. All’ergastolo sono finiti Salvatore Fragapane, Joseph Focoso, Simone Capizzi, Salvatore Castronovo, Giuseppe Fanara e al latitante Gerlandino Messina.
Nel maxi-processo denominato “Akragas” sono stati inflitti anche 18 anni di carcere al pentito Alfonso Falzone che ha aiutato i magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo ad incastrare mandanti e sicari
Fonte: Wikipedia
Articolo di La Stampa del 7 Aprile 1992
«Questo funerale è una sconfitta dello Stato»
di Pierangelo Sapegno
Trovato il furgone usato dai killer, i clan di Racalmuto avrebbero ordinato di ammazzare il sottufficiale – Addio con rabbia al maresciallo di Agrigento vittima della mafia.
AGRIGENTO C’era tutto un paese dietro quel feretro avvolto nella bandiera. Menfi ha seguito in un silenzio irreale, nel vento che scuoteva le fronde, fra gli slogan elettorali scritti sui muri, i cartelloni pubblicitari strappati, l’ultimo viaggio di Giuliano Guazzelli, dietro la vedova chiusa nell’abito nero, stretta tra i figli, accanto agli sguardi di pietra delle autorità. «Non hanno ucciso un uomo qualunque», ammonisce monsignor Carmelo Ferraro, il vescovo di Agrigento, «ma un servitore dello Stato che ha dato la vita per la causa della giustizia». La folla che si è radunata dietro al feretro è così grande che la messa deve essere celebrata sul sagrato della chiesa. La gente invade lo slargo, si perde sulle stradine attorno. E’ il solito mesto, dolente corteo per salutare l’ultima vittima di una guerra che sembra a volte quasi senza speranza, per rendere omaggio a «un fratello che ha servito in trincea la società civile, la nostra tranquillità, i nostri diritti», come lo definisce mons. Ferraro. E’ un funerale che celebra ancora una volta, con tragica amarezza, la sconfitta dello Stato. «Fino a quando non si risponderà agli uomini della malasocietà», ammonisce il presule, la qualità della convivenza civile non sarà accettabile e neppure ammissibile. Ascoltano con sguardo severo il ministro Calogero Mannino, il vice segretario della de Sergio Mattarella, il comandante dell’Arma dei carabinieri Antonio Viesti, alti magistrati, autorità civili e militari. Monsignor Ferraro denuncia le tombe violate, come quelle del sovrintendente di polizia Aversa e del giudice Livatino, tuona contro l’incapacità di reagire con i fatti alle uccisioni di uomini giusti, contro l’impunità e l’impunibilità dei delitti: «Sostituite al silenzio e alla paura la responsabilità di tutti». ‘ Ora Menfi torna alla vita di tutti i giorni. E’ stata sepolta l’ultima vittima della mafia, l’ultimo martire che lo Stato ha abbandonato alla violenza della malasocietà, si sono chiuse le elezioni più difficili dell’isola. Si contano i voti, e si scopre che solo in parte il paese del maresciallo Guazzelli ha risposto all’appello di Cossiga. Ha votato l’80,6 per cento della gente al Senato, e il 77,6 alla Camera, un po’ meno dell’87 quando si presentarono alle urne l’81 per cento degli elettori, e un po’ di più delle regionali del ’91 (75,5). L’afflusso, però, si è davvero intensificato ieri sera dopo il discorso del Capo dello Stato davanti alla folla assiepata in Municipio, tanto che il sindaco Paolo Gallaci può ripetere che «un segnale è stato dato, i nostri cittadini hanno raccolto l’invito del Presidente». Certo è che la salma del povero maresciallo, di questo servitore dello Stato trucidato dai sicari incappucciati sulla strada che lo riportava a casa, sembra ora quasi travolta dalla confusione del dopo elezioni. Anche se le indagini cominciano a muovere i primi passi in direzioni più concrete. Così, ieri è stato ritrovato il furgoncino che i killer avevano adoperato per compiere l’agguato vicino a Villaseta. E’ un Renault 9, molto simile al Fiorino che alcuni testimoni avevano indicato come il mezzo che aveva affiancato la vecchia Ritmo del sottufficiale. Dentro, c’era un passamontagna. L’hanno trovato a Sanleone, una stazione balneare di Agrigento, appena 6 chilometri più a Sud del posto dov’era morto Giuliano Guazzelli. Un piccolo mistero, perché resta da spiegare come abbiano fatto i sicari a sfuggire così da vicino all’elicottero della polizia che s’era alzato in volo proprio in quella zona per dare la caccia ai due banditi che avevano rapinato le Poste di Montallegro. Ma fra i misteri e le ombre, appare adesso anche qualche sprazzo di luce. E se da una parte il procuratore distrettuale Pietro Giammanco smentisce una presunta collaborazione con le autorità mquirenti di Pietro Ribisi, uno dei «fratelli terribili» di Palma di Montechiaro, scolorando la pista che voleva il maresciallo ucciso perché aveva aiutato un pentito a tradire i segreti di Cosa Nostra, dall’altra prende sempre più corpo l’idea che il sottufficiale sia stato eliminato per una delle ultime inchieste di cui si stava occupando, quella sulla mafia di Racalmuto. L’anno scorso, a settembre, Giuliano Guazzelli aveva seguito le indagini su una strage, 4 morti e due feriti, che aveva rivoluzionato il volto delle famiglia padroni di quelle terre.
Articolo da L’Unità del 5 Aprile 1992
Fuoco sul maresciallo antimafia
di Saverio Lodato
Eliminato ad Agrigento l’uomo che sapeva tutto delle cosche.
Giuliano Guazzelli, 58 anni, capo del nucleo dei carabinieri della Procuraa della Repubblica, crivellato di colpi mentre tornava da solo a casa sulla sua vecchia «Ritmo». Era la «memoria storica» delle indagini sui boss.
La mafia torna ad alzare il tiro e lo fa alla vigilia del voto. Stato ancora una volta in ginocchio: ucciso Giuliano Guazzelli, marescialo dei carabinieri. Era uno dei pilastri dell’apparato investigativo ad Agrigento contro le cosche, era l’uomo che le combatteva da trent’anni. Era la memoria storica degli investigatori. In serata, ad Agrigento, è arrivato il ministro dell’interno Vincenzo Scotti.
AGRIGENTO. Massacrato come un cane. Una sventagliata di kalasnicov per zittire una volta per tutte un uomo-memoria-storia. L’Investigatore Puro, come lo chiamavano con affetto e deferenza i suoi colleghi. Il maresciallo che conosceva a menadito 30 anni di storia delle cosche agrigentine. L’uomo che le aveva braccate, studiate da vicino, e spesso inchiodate alle loro responsabilità. Tremendo giro di vite a ventiquattro ore dalla apertura dei seggi elettorali. Le previsioni più terribili – ancora una volta – si sono avverate in Sicilia.
La mafia mantiene sino in fondo la sua parola: insanguina la vigilia del voto. Lo fa alla sua maniera, spettacolare, con geometrica precisione, individuando ancora una volta l’anello giusto, l’anello forte della catena dello Stato in questa provincia. Giuliano Guazzelli non era un carabiniere qualunque. A 56 anni era diventato il capo della sezione di polizia giudiziaria della Procura di Agrigento. A 58 è stato assassinato. Non aveva mai scaldato la sedia, già da tempo avrebbe potuto andare tranquillamente in pensione, ma aveva preferito restare al suo costo. Né faceva mistero di volere restare in prima linea perché viveva il suo lavoro come una passione alla quale non sapeva davvero cedere.
E in prima linea rimase anche dopo un attentato dal quale uscì fortunatamente solo con qualche scalfitura: i sicari lo aspettavano lungo la provinciale agrigentina e spararono raffiche di lupara contro la sua auto (la macchina riparata, fu poi distrutta qualche tempo dopo, con una carica esplosiva). Ora eccolo li. Mezza faccia è andata via. Nella sua Ritmo verde, targata Agrigento 254378, si mescolano pozze di sangue, pezzi di calotta cranica, schegge di vetro. C’è una copia del Giornale di Sicilia. Un libro dal titolo tranquillizzante e che sembra fuori posto: «Letture interdisciplinari sull’ambiente. Alla ricerca di un’eco perduta».
Viadotto Morandi, bretella di collegamento Agrigento-Porto empedocle-Menfi. È questa la strada che il maresciallo percorreva ogni giorno per tornarsene a casa – a Menfi – dal Palazzo di Giustizia di Agrigento. Erano le 13.15 di ieri. L’Investigatore Puro, l’uomo-memoria storica, tornava in famiglia a bordo della sua auto un po’ vecchiotta, ad andatura molto lenta, ignaro della morte in agguato, sereno, come più tardi dirà di averlo incontrato Beppe Arnone, presidente della Lega per l’ambiente che é stato uno degli ultimi ad averlo incontrato. Il maresciallo ha già percorso quasi 6 chilometri. Sulla sua destra i fatiscenti quartieri di Villaseta e Monserrato, quartieri dormitorio, emblemi di un abusivismo diffuso che ha sfregiato irrimediabilmente la città dei templi. Ecco un Fiorino bianco, un furgone che i killer hanno scelto per seguire e sbarrare la strada al maresciallo. Tutto funziona a meraviglia. Gli tagliano la strada. Lo costringono a sterzare a sinistra, dalla parte opposta del guardrail. Si spalancano i portelloni del Fiorino. Kalashicov e lupara vomitano una prima rosa di proiettili che falciano il cofano e il vetro anteriore. Un killer a questo punto scende per esplodere dal finestrino a accanto al posto di guida la raffica di grazia. Lì il maresciallo si piega sul sedile affianco. I macellai se ne vanno indisturbati. Indisturbati, sebbene proprio da quelle parti, un’ora prima dell’agguato, una rapina messa a segno nel comune di Montallegro, a 15 chilometri dalla città, aveva fatto scattare il rituale dei posti di blocco, dell’elicottero che sorvegliava la zona dall’alto, degli allarmi smistati via radio. Come hanno fatto non si sa. Fatto sta che sono riusciti a passare indenni dagli sbarramenti, sebbene il Fiorino fosse stato rubato venerdì nel quartiere Monserrato, a pochi passi dal luogo dell’ennesima mattanza. Decine di persone che si sono affacciate dalle palazzine circostanti hanno potuto vedere tutto. E un testimone, che ha avuto la prontezza di spirito di rilevare il numero di targa del furgone, ha consentito agli investigatori di scoprire – appunto – che il mezzo era stato rubato.
Due ore dopo, il cadavere del maresciallo è ancora lì. La strada è stata chiusa. Si precipitano da Palermo il procuratore capo Pietro Giammanco, il procuratore aggiunto Paolo Borsellino. C’è – distrutto dal dolore – il giudice per le indagini preliminari Fabio Salamone che conosceva Guazzelli da una vita. C’è Beppe Cucchiara, giovane capo della Squadra mobile di Agrigento. C’è Gaetano Fiducia, il questore. C’è Giorgio Cancellieri, il generale dei carabinieri che è a capo del Comando siciliano. Scuotono il capo inespressivi. Gli agenti sono nervosi. Mormorano a bassa voce: «Bastardi, lo hanno massacrato». Sfoderano i soliti inutili pistoloni. Contano i bossoli lasciati sul selciato dal nemico mafioso. Qualche bossolo non si trova, e i conti non tornano con la trentina di buchi che hanno reso la Ritmoo simile ad una gruviera «Gli altri bossoli sono là» dice un giovane poliziotto in divisa «fra quelle margherite gialle». E’ una giornata calda, da primavera molto avanzata. Le mosche ronzano attorno alla vettura.
Cerchi di gesso sull’asfalto. Gli uomini della scientifica si aggirano con gli scatoloni pieni di lettere dell’alfabeto. Ad ogni lettera corrisponderà un proiettile. Ma un intero alfabeto questa volta non è bastato. Alle 16,30, quando ormai tutti i sopralluoghi sono stati ultimati, gli uomini con i guanti prendono di peso il corpo del maresciallo e lo trascinano fuori dall’auto. Una Mercedes nera, il carro funebre, entra a marcia indietro e si affianca alla Ritmo. Un uomo della scientifica, al quale non hanno trovato in tempo i guanti regolamentari, si aggira disgustato con le mani sporche di sangue. Il volto dell’investigatore Puro ormai è irriconoscibile. Il maresciallo indossava un pullover a rombi blu e rossi, pantaloni di velluto, a coste larghe. Se ne va il carro funebre. Se ne va il carro dei carabinieri. L’elicottero continua a ronzare alto. Inutilmente. Anche i giudici se ne vanno in Procura per il consueto vertice. Non hanno una bella cera. Che c’è da indagare, da scoprire? Non è forse vero che otto mesi fa, dalla Procura di Agrigento fu chiamato a Roma, proprio perché si temeva per la sua vita, anche il sostituto Roberto Sayeva? Non è qui che un anno e mezzo fa venne massacrato quel Rosario Livatino, il giudice ragazzino che le cosche canicattinesi si erano stufate di vedere al lavoro? E non è forse proprio qui l’epicentro di una mafia feroce che da tempo – si dice – è diventata tanto spavalda da portare la sua canditatura alla leadership di Cosa Nostra? Abbiamo forse già dimenticato il massacro di un altro giudice, Antonino Saetta, e di suo figlio, ancora una volta da queste parti? Mai che si sia saputo nulla di questi omicidi. Ma si sa oggi che tempra di investigatore fosse Giuliano Guazzelli.
Era stato il carabiniere che aveva consentito l’istruzione del primo processo alla mafia agrigentina. Il cosiddetto «processo di Villaseta», che aveva visto alla sbarra, per la prima volta, una quarantina di nomi di spicco. Processo che si era concluso in primo e secondo grado con pesanti sentenze per associazione mafiosa a capi mafia del calibro di Antonino Ferro, Antonio Guarneri, Vincenzo Colletti e Cesare Lombardozzi. Sentenze che – circostanza da non sottovalutare in tempi come questi – avevano persino retto al vaglio della Cassazione. Il giudice Salamone, che istruì quel processo, ieri mattina ci ricordava che senza Guazzelli quel dibattimento non sarebbe mai iniziato. Si sarebbe forse celebrato il processo alla mafia di Raffadali? Altre cosche sanguinarie alla sbarra, per la prima volta, altre condanne dure, altri clan momentaneamente disarticolati dall’iniziativa repressiva. In quel caso, invece, in Appello fioccarono molte assoluzioni. Ma indipendentemente da come poi andassero le cose, tutto iniziava sempre per colpa sua. Per colpa di questo investigatore che ne sapeva una più del diavolo.
Cucchiara, capo della Squadra mobile: «Era una persona di grandissimo carisma, una fonte insostituibile di notizie.
Correttissimo. Lavorava con tutti i giudici e tutte le procure della Sicilia che per un motivo o per un altro, si imbattevano con il problema della mafia agrigentina». Dice il maresciallo Canoli, che per anni ha lavorato fianco a fianco con Borsellino: «Lo scriva chiaro e tondo: in quella macchina é colato a picco un pezzo consistente, molto consistente, dello Stato in terra di Agrigento». Ma un pezzo di Stato che era anche molto sfiduciato, nonostante la sua grandissima passione lavorativa. Beppe Arnone, presidente della Lega ambiente siciliana, e che dai banchi del Consiglio comunale di Agrigento é stato a protagonista di un durissimo scontro con il Procuratore capo agrigentino Beppe Vayola, conclusosi con la proposta di trasferimento del magistrato da parte del Csm, é stato forse l’ultimo ad incontrare il maresciallo Guazzelli. Ora Arnone ricorda: «C’eravamo incontrati questa mattina, verso le 10.30 proprio di fronte alla caserma dei carabinieri. Fra noi un rapporto di stima. Era sereno come al solito. Toccammo anche l’argomento elettorale, mi disse apertamente che questa volta non sarebbe andato a votare per protesta verso uno Stato che da queste parti non funzionava proprio. Un investigatore come lui, tanto attaccato al dovere da restare al suo posto oltre all’età pensionabile, era certamente colpito e ferito dalla progressiva destrutturazione di quegli uffici giudiziari che in passato avevano anche dimostrato di saper colpire la mafia. Qualche tempo addietro mi aveva manifestato disappunto per il trasferimento di Sayeva. Oggi gli sembrava incredibile che fossero rimasti solo la dottoressa Silvia Romagnoli e il sostituto Stefano Manduzio». Oggi, questo Investigatore Puro lascia tre figli, Riccardo, Giuseppe e Teresa, e la moglie.
Fonte: fuoririga.com
Articolo dal Giornale di Sicilia del 12 ottobre 2004.
Ergastolo per gli autori del delitto del maresciallo Guazzelli
di Gero Tedesco
ROMA. Ore 21 e 30 di ieri: la Suprema Corte di Cassazione mette il suo sigillo sul più importante processo contro le cosche agrigentine. Diciannove ergastoli, 19 condanne per complessivi 147 anni di carcere e nessuna assoluzione. Questo il verdetto dei giudici che hanno chiuso l’iter giudiziario della maxi inchiesta «Akragas» che colpì duramente le cosche della provincia di Agrigento. Imputati erano 39 tra presunti boss e picciotti delle famiglie di Cosa nostra. Per il presunto capo clan cattolicese Gaetano Amodeo, deceduto nei mesi scorsi, è stato dichiarato il «non doversi procedere». I magistrati con l’ermellino hanno confermato la sentenza emessa il 22 marzo del 2003 dalla Corte d’Assise d’Appello di Palermo, presieduta dal giudice Alfredo Laurino con a latere Biagio Insacco. Nel processo erano compresi venti omicidi commessi tra gli anni ’80 e ’90.
Il carcere a vita è stato deciso per gli autori del delitto del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli. L’ergastolo per l’assassinio del sottufficiale è stato inflitto all’ex presunto capo della cupola agrigentina Salvatore Fragapane, ai presunti boss Joseph Focoso, Simone Capizzi, Salvatore Castronovo, Giuseppe Fanara e al latitante Gerlandino Messina. Carcere a vita anche per i presunti sicari del brigadiere della polizia penitenziaria Pasquale Di Lorenzo. Il massimo della pena, per aver commesso 7 omicidi, è stato pure deciso per Luigi Putrone, inserito nella lista dei 20 latitanti più pericolosi d’Italia. Ergastolo anche per quattro agrigentini ritenuti carcerieri del piccolo Giuseppe Di Matteo. Ecco tutti i verdetti della Cassazione: Calogero Castronovo, ergastolo; Giuseppe Brancato, ergastolo; Alfonso Capraro, ergastolo; Antonino Iacono, 8 anni; Giuseppe Virone, 4 anni; Cesare Lombardozzi, 4 anni, Arturo Messina, ergastolo (tutti di Agrigento). Filippo Alba: 2 anni e 2 mesi, Salvatore Falzone, 4 anni; Pasquale Fanara, 6 anni; Salvatore Lombardo, 2 anni e 4 mesi; Paolo Nobile, 8 anni; Francesco Vella, 5 anni; Alfonso Falzone, 18 anni; Carmelo Gambacorta, 14 anni; Giuseppe Gambacorta, ergastolo; Gerlandino Messina, ergastolo; Giuseppe Messina, ergastolo; Salvatore Messina, ergastolo; Giuseppe Putrone, ergastolo; Luigi Putrone, ergastolo; Pasquale Salemi, 20 anni e sei mesi; Antonino Sanfilippo, 4 anni e 6 mesi (Tutti di Porto Empedocle). Mario Capizzi, ergastolo, Simone Capizzi, ergastolo (Ribera). Luigi Cacciatore, 6 anni (Joppolo). Vincenzo Di Piazza 6 anni (Casteltermini). Joseph Focoso, ergastolo (Realmonte). Giuseppe Falsone, ergastolo (Campobello di Licata). Vincenzo Licata, ergastolo (Grotte). Giuseppe Mormina, 4 anni e 6 mesi; Domenico Terrasi, 5 anni e 6 mesi ( tutti di Cattolica Eraclea). Giuseppe Renna, ergastolo; Filippo Sciara, ergastolo (Tutti di Siculiana). Salvatore Fragapane, ergastolo; Giuseppe Fanara, ergastolo ( Tutti di Santa Elisabetta). Ignazio Gagliardo, 8 anni (Racalmuto). Il processo si è fondato principalmente sulle accuse dei collaboratori di giustizia Pasquale Salemi, Alfonso Falzone e Giulio Albanese.
Fonte: fuoririga.com
Articolo dal Giornale di Sicilia del 14 luglio 2005.
La cattura di Joseph Focoso, l’assassino di Guazzelli
di Gero Tedesco
AGRIGENTO. È stato trovato in pantaloncini, seduto sul letto, in un paesino della Germania. In quella regione tedesca della Land-Saar dove ci sono centinaia di ristoranti gestiti da palmesi, empedoclini, realmontini e favaresi. Una «Little Agrigento» in piena regola. Lui, Joseph Focoso di 36 anni, inserito nella lista dei 40 latitanti più pericolosi d’Italia, è rimasto in silenzio. Poi gli agenti del «Bka» tedesco e della Dia italiana gli hanno rivolto la domanda formale: sei tu Joseph Focoso di Realmonte? Un attimo d’esitazione e la risposta: «Sì sono io». È finita così la latitanza di quello che viene definito uno dei sicari più spietati di Cosa Nostra. Sulla sua testa la condanna a otto ergastoli, confermati in Cassazione, per diversi omicidi. Il più efferato è quello del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli, portato a termine il 4 aprile del 1992 sul viadotto che collega Agrigento con Porto Empedocle.
L’irruzione è scattata ieri mattina, alle 9,15, nella città di Spiesen-Elsverberg. In tutto sono entrati in azione dieci uomini di una speciale squadra investigativa italo-tedesca: otto agenti del «Bka» e due funzionari della Di». Quest’ultimi arrivati dalle sezione di Agrigento e dal Centro Operativo di Palermo. La casa dove Focoso è stato arrestato è quella dei suoi genitori, da tempo emigrati e presenti al momento dell’operazione. Focoso è nato in Germania ma poi si trasferì in Sicilia: a Realmonte. Nell’Agrigentino, tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90, avrebbe commesso ben otto omicidi. Sotto i suoi colpi cadde anche il maresciallo Guazzelli. Inoltre è accusato del tentato omicidio di Gaetano Farruggia e del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo. Il collaboratore di giustizia Alfonso Falzone, lo ha indicato come rappresentante della «famiglia» mafiosa di Realmonte dipendente dal mandamento di Siculiana. Sull’omicidio Guazzelli, il «pentito» ha dichiarato che Focoso sparò contro il sottufficiale con due pistole. In quell’occasione il realmontino inciampò e si ferì ad un ginocchio ma i componenti del clan lo aspettarono e riuscì a fuggire con loro. Per quel delitto Focoso ebbe un compenso di cinque milioni di lire. L’ex super latitante sparì sette anni dopo quando seppe che un suo cugino, Pasquale Salemi, si era pentito. Salemi però non fece il suo nome. A inchiodarlo, con le sue rivelazioni, fu Falzone. Le indagini che hanno portato alla cattura di Focoso, in collaborazione con l’autorità tedesca, sono state coordinate dal procuratore di Palermo Piero Grasso, dall’aggiunto Anna Maria Palma e dai sostituti Ambrogio Cartosio e Gianfranco Scarfò. Un grosso impulso si è avuto negli ultimi dodici mesi con il lavoro di decine di uomini della Dia di Agrigento e Palermo. La richiesta di estradizione in Italia è stata già presentata, tutta la procedura è già definita. L’arrivo del sicario di Cosa Nostra, al momento detenuto nel carcere di Saarbruken, in Italia potrebbe essere questione di pochi giorni. «È un arresto importantissimo – dice il procuratore aggiunto Anna Maria Palma -. Una risposta dello Stato a chi si macchia di reati gravissimi. Un atto dovuto verso la famiglia Guazzelli che non potrà lenire il grande dolore per quel barbaro omicidio ma che può avere nuova fiducia dopo essere stata colpita così duramente negli affetti». Ieri mattina il telefono è squillato in casa Guazzelli, a chiamare gli investigatori: a rispondere è stata la signora Maria Montalbano, vedova del maresciallo ucciso. Un momento di commozione poi la risposta: «Grazie».
Fonte: iltirreno.gelocal.it
Articolo del 31 marzo 2107
Il ricordo di Guazzelli vive nella sua Gallicano
di Francesco Cosimini
Il carabiniere antimafia fu ucciso ad Agrigento il 4 aprile di 25 anni fa Per celebrare il valore del militare ecco una serie di eventi in suo onore
GALLICANO. Giuliano Guazzelli, carabiniere originario di Gallicano, aveva 58 anni quando, il 4 aprile 1992, fu assassinato da Cosa Nostra. Stava guidando la sua Ritmo, sotto il cielo della Sicilia, lungo la Agrigento-Porto Empedocle, sul manto del viadotto Morandi. Qua, così, si spensero vita, affetti e carriera del maresciallo, una valorosa ed instancabile figura dell’antimafia legata ai più alti valori della legalità. Fu un dramma per i colleghi ed i suoi cari quel giorno; un tragico tassello in più da aggiungere al biennio ’92-’93, cioè quello in cui la mano della mafia scagliò i colpi più pesanti.
L’organizzazione malavitosa in quel giorno e punto della statale 115 volle uccidere il militare d’origini garfagnine. Guazzelli, infatti, dal 1954 si era trasferì a Menfi dove si sposò e costruì la sua famiglia. In quelle calde terre siciliane divenne un braccio dell’antimafia ed infatti, scavando coraggiosamente e proficuamente fra i rapporti dell’organizzazione malavitosa, diventò uno tra i migliori investigatori ed esperti del fenomeno. Per questi motivi Guazzelli, detto “Il Mastino”, fu condannato da Cosa Nostra. Ad ogni anniversario dalla morte, i luoghi a lui cari ricordano i valori di uomo ed eroe della legalità. Come nel caso di Gallicano, terra natia di Guazzelli che martedì 4 aprile onorerà il venticinquennale dalla scomparsa con un programma speciale. «Anche quest’anno – spiega il sindaco David Saisi – la nostra amministrazione comunale rinnoverà l’impegno per una politica della legalità e della giustizia sociale ricordando il concittadino Giuliano Guazzelli. Ogni anno promuoviamo iniziative sul tema della legalità rivolte ai ragazzi dell’istituto comprensivo di Gallicano e all’intera comunità».
Le celebrazioni inizieranno la mattina dall’auditorium “Falcone, Borsellino, Caponnetto” nella cittadella scolastica del comprensivo in via “Maresciallo Giuliano Guazzelli” intitolata così dall’aprile 2015. Qui alle 10.30 si aprirà una tavola rotonda con don Andrea Bigalli (coordinatore per la Toscana di Libera), Angelo Corbo (scorta superstite della strage di Capaci dove perse la vita Falcone) e il figlio di Guazzelli. Anche il pranzo scolastico sarà speciale: Cir Food e Libera Terra serviranno prodotti coltivati da aree confiscate alla mafia. Nel pomeriggio, alle 17.30, nella zona del sottopasso per l’ipermercato Conad, un evento inaugurerà il “Murales della legalità”
tutto dedicato al maresciallo. Ultimo appuntamento sarà alle 21, nell’auditorium “Giuliano Guazzelli” in via dell’Eremo: qua andrà in scena, per la cittadinanza e a ingresso gratuito, lo spettacolo “La Vita in Musica” a cura dell’associazione Tutti per Uno di Firenze.
Fonte: grandangoloagrigento.it
Articolo del 24 agosto 2018
Il maresciallo Guazzelli assassinato: un segnale ai Ros che accelerò la “Trattativa Stato – mafia”
Entra mani e piedi nell’inchiesta e nella sentenza del processo “Trattativa Stato – mafia” l’omicidio del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli.
Nelle oltre 5500 pagine di motivazioni un capitolo specifico al delitto spiega le ragioni del massacro. E riscrive un’altra storia ad oggi non nota.
Il maresciallo Giuliano Guazzelli è stato assassinato il 4 aprile 1992 e, dopo iniziali incertezze che avevano indirizzato le indagini ed un conseguente processo nei confronti di soggetti riconducibili alla c.d. “stidda“, è stato definitivamente accertata, con sentenze passate in cosa giudicata, la piena riconducibilità di tale omicidio all’organizzazione mafiosa “Cosa nostra” specificamente nella sua articolazione operante nel territorio di Agrigento ove è avvenuto l’agguato mortale.
In questa sede è sufficiente prendere atto di tale risultanza già definitivamente accertata, senza necessità di ricostruire più dettagliatamente il fatto omicidiario. È utile, invece, ricostruire la figura del maresciallo Guazzelli, i suoi rapporti con i colleghi e l’attività che egli nel periodo immediatamente antecedente alla sua uccisione stava conducendo.
A tal fine è stato, innanzitutto, esaminato nel dibattimento il figlio del maresciallo Guazzelli, Riccardo. È opportuno, tuttavia, qui, dare conto di tale importante deposizione.
Riccardo Guazzelli è stato esaminato in qualità di testimone all’udienza del 13 febbraio 2014 ed ha, innanzitutto, riferito, appunto, di essere figlio del maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso in data 4 aprile 1992:
«Mio padre è stato ucciso il 4 aprile del 92 sul Viadotto Morandi, che è una bretella di uscita da Agrigento verso Porto Empedocle e poi di ricollegamento sulla SS115 …. … …Mio padre era un sottufficiale dei carabinieri che al momento dell’uccisione faceva servizio presso il Nucleo di Polizia Giudiziaria presso il Tribunale di Agrigento»,
del quale, quindi, ha ricostruito la carriera e gli incarichi ricoperti nell’Arma dei Carabinieri:
«Mio padre si arruolò nell’Arma dei Carabinieri giovanissimo, a 17 anni, e quasi subito venne in Sicilia e… ……. Toscana, della provincia di Lucca, e praticamente venne in Sicilia e ha fatto tutta la carriera in Sicilia. Lui inizialmente si arruolò come Carabiniere semplice poi, dopo alcuni anni, il concorso per sottufficiale e da che fece la scuola sottufficiali. Fatta la scuola sottufficiali, se non ricordo male, la prima assegnazione fu il Battaglione a Palermo e poi varie stazione dei Carabinieri. Poi iniziò, se non ricordo male, inizio anni 70, fu applicato qua a Palermo al Nucleo Investigativo, dove fece servizio fino alla morte del Colonnello Russo. Dopo di che, fu trasferito ad Agrigento, applicato alla Stazione Carabinieri di Palma di Montechiaro, poi ritornò al Nucleo investigativo ad Agrigento, dove fece servizio fino al momento in cui poi fu trasferito presso, diciamo, l’aliquota di P.G. presso la Procura di Agrigento stesso»,
soffermandosi, poi, specificamente su alcuni dei servizi svolti, tra i quali, quello presso la Stazione o la Compagnia dei Carabinieri di Castelvetrano ove ebbe a collaborare, tra gli altri, con l’allora Ten. Subranni:
«..ha prestato servizio a Castelvetrano … … … Penso che sia stato subito dopo la, diciamo… Fine anni 60, fine anni 60… … … non ricordo se era la stazione o la compagnia…. … … Penso che ci siano stati più ufficiali, perché c’è stato per alcuni anni, ricordo, l’allora Tenente o Capitano Noto, il Tenente Subranni, poi Capitano, non so se ci sia stato pure quello che poi sarebbe diventato il Colonnello Russo, questo sinceramente non me lo ricordo».
Il teste, quindi, a quel punto, ha manifestato di non ricordare più alcune circostanze di fatto già oggetto di dichiarazioni dallo stesso rese nell’ambito delle indagini per l’omicidio del padre ed in alcuni processi nei quali successivamente è stato chiamato a testimoniare e, tuttavia, a fronte delle contestazioni formulate dal P.M. anche per sollecitarne la memoria, il medesimo, pur ribadendo di non avere più ricordo di quei fatti, ha sempre confermato il contenuto delle dichiarazioni precedentemente rese di cui gli è stata data lettura.
La prima di tali circostanze di fatto confermate seppur soltanto dopo la contestazione del P.M. riguarda la collaborazione che il padre ebbe con Subranni anche dopo il servizio a Castelvetrano allorché ebbe a trasferirsi a Palermo alle dipendenze del col. Russo. Il teste, poi, ha riferito che dopo l’omicidio del col. Russo il padre venne trasferito alla Stazione dei Carabinieri di Palma di Montechiaro:
«All’esito dell’omicidio del colonnello Russo, lui rimase, per motivi suppongo di sicurezza, in aspettativa per un po’ di tempo. Dopo di che ho detto che è stato trasferito alla Stazione dei Carabinieri di Palma di Montechiaro»
e che poco prima dell’uccisione nell’aprile 1992 il padre, prossimo ad andare in pensione avendo maturato una anzianità di quaranta anni di servizio, era stato contattato da personale dei servizi segreti:
«Aveva fatto quaranta anni effettivi di servizio ed era, diciamo, da un punto di vista pensionistico, pronto a potere andare in pensione, ma era uno che non mollava, voglio dire, avrebbe voluto continuare ancora…. … … Ma io ricordo che lui aveva avuto dei contatti con i Servizi, ricordo questo particolare diciamo di persone che vennero da Roma per contattarlo, per vedere se c’era, insomma, la sua disponibilità a potere transitare là. Non so da un punto di vista, diciamo, operativo, se era possibile, però».
Nel prosieguo della deposizione il teste ha affrontato il tema dei rapporti del padre con il maresciallo Scibilia che da ultimo aveva prestato servizio al R.O.S. di Messina.
Anche il tema dei rapporti tra il maresciallo Guazzelli e il gen. Subranni è stato ulteriormente approfondito su sollecitazione del P.M. e, in particolare, il teste ha precisato che si trattava di rapporti anche familiari e di amicizia.
Orbene, dalla predetta deposizione, per quanto caratterizzata da una scarsa volontà collaborativa, poiché il teste ha sostanzialmente sempre atteso le contestazioni da parte del P.M. delle dichiarazioni precedentemente rese per poi confermarle (anche quelle ben più recenti in cui aveva manifestato di ricordare i fatti remoti degli anni 1991-1992), si ricava, per quel che rileva ai fini della ricostruzione degli accadimenti prospettata dalla Accusa che sarà valutata nel prosieguo, che:
l) il maresciallo Guazzelli, sino al giorno della sua uccisione, ha avuto intensi rapporti di collaborazione – oltre che di amicizia – con il gen. Subranni anche al di là delle proprie formali attribuzioni funzionali;
2) il maresciallo Guazzelli ha intrattenuto anche rapporti con l’on. Mannino, incontrandolo più volte e, in particolare, da ultimo qualche mese prima dell’omicidio dell’on. Lima e subito dopo il medesimo omicidio (quindi, nel mese di marzo 1992), raccogliendo, in entrambi i casi, i timori espressamente manifestati dal Mannino per la propria vita;
3) il maresciallo Guazzelli, qualche giorno prima di essere ucciso (il 4 aprile 1992), ha incontrato il gen. Subranni (sul punto, contestato dalla difesa degli imputati Subranni e Mori all’udienza del 2 marzo 2018 sulla base della tesi che il fatto che Guazzelli sia stato prelevato all’aeroporto con l’autovettura e dall’autista di Subranni non proverebbe il successivo incontro, non sembra necessario aggiungere alcunché, avuto riguardo alla chiara testimonianza di Riccardo Guazzelli, persino sullo spostamento della partenza del padre proprio per consentire quell’incontro, del tutto trascurata dalla difesa medesima).
Altri elementi utili alla ricostruzione dei fatti si ricavano, altresì, dalle dichiarazioni del teste gen. Giuseppe Tavormina, il quale ha confermato, sia pure dopo una contestazione, di avere anch’egli incontrato il maresciallo Guazzelli pochi giorni prima che questi venisse ucciso. È da evidenziare, dunque, la singolare coincidenza che il maresciallo Guazzelli, che ben conosceva Mannino e dal quale, peraltro, aveva già raccolto le esternazioni sul pericolo che riteneva su di lui incombente sia prima che dopo l’omicidio Lima, abbia poi incontrato pochi giorni prima di morire entrambi i generali dell’Arma, Tavormina e Subranni, cui lo stesso Mannino si era rivolto per le medesime preoccupazioni esternate al Guazzelli.
Ed è stato lo stesso teste Tavormina, pur non avendone un ricordo, a non escludere che nell’incontro avuto con Guazzelli si sia parlato di Mannino.
Conclusioni sull’omicidio del maresciallo Guazzelli
Anche in questo caso non vi sono sicuri elementi per affermare che il maresciallo Guazzelli sia stato ucciso da “Cosa nostra” nell’ambito della strategia delineata dai vertici di questa tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 ovvero anche soltanto come segnale lanciato da “Cosa nostra” all’on. Mannino ed ai Carabinieri cui il predetto si era già rivolto per tutelare la propria persona dall’incombente vendetta della medesima associazione mafiosa.
Certamente non possono, invero, escludersi causali più direttamente collegate alle attività che il maresciallo Guazzelli stava portando avanti nella provincia di Agrigento e, dunque, appare del tutto superfluo ricostruire tutte le vicende in qualche modo collegate ai procedimenti concernenti l’on. Mannino instaurati presso le Procure di Sciacca e Agrigento sui quali, invece, si è molto dilungata la difesa degli imputati Subranni e Mori insistendo anche per l’ulteriore acquisizioni di documenti che la Corte già nel corso dell’istruttoria dibattimentale ha ritenuto – e continua ora a ritenere – superflui.
Ma non può essere dubbio che l’uccisione del maresciallo Guazzelli, avvenuta nel contesto di tutti quei rapporti tra Mannino da un lato e Subranni, Tavormina e lo stesso Guazzelli dall’altro in relazione ai timori per la propria vita manifestati dal primo e, peraltro, temporalmente pressoché in coincidenza con gli incontri avuti da quest’ultimo sia col gen. Tavormina che col gen. Subranni, possa avere accresciuto nello stesso gen. Subranni la sensibilità verso i temi della sicurezza di persone a lui in qualche modo e a vario titolo vicine e possa, quindi, averlo indotto ad assumere, sollecitare o avallare quell’iniziativa dei suoi subordinati Mori e De Donno finalizzata ad instaurare una interlocuzione con i vertici mafiosi.
Una conferma, ancorché non necessaria, di tale conclusione, che, seppure di carattere logico-deduttivo, si fonda su dati di fatto accertati e su una valutazione complessiva degli stessi, si trae anche da una annotazione rinvenuta sulle agende del col. Riccio a proposito di una confidenza che il collega Sinico ebbe a fargli. Delle dichiarazioni del col. Riccio può già qui anticiparsi, in sintesi, sia che ovviamente per l’utilizzazione delle dette dichiarazioni nella parte relativa alle confidenze raccolte dal Sinico non sussistono ostacoli di sorta, sia che in questo caso le dichiarazioni intervengono a supporto di una risultanza documentale autonomamente acquisita ancorché proveniente dallo stesso Riccio.
Si riferisce ad una annotazione rinvenuta in una agenda sotto la data del 13 febbraio 1996 relativa alla confidenza fattagli da Sinico riguardo alla paura suscitata nel gen. Subranni dall’omicidio Guazzelli in quanto “vicino” a Mannino:
Pm Di Matteo: «Senta, facciamo un attimo un passo indietro. Cortesemente, prenda l’agenda alla data del 13 febbraio del 1996… 13 febbraio 96, Roma, lavoro in ufficio … Sinico confermato. Subranni. Confermato, Subranni aveva paura della morte di Guazzelli, maresciallo vicino Mannino»
Dich. Riccio: «A Mannino … … …Si, c’è una A piccolina… … … De Donno fu fatto rientrare di corsa dalla Sicilia. E poi faccio una mia considerazione, faccio trattino, Guazzelli, fu un avvertimento per (fuori microfono) Mannino e soci? … … … Si, o “e soci” o ”solo soci da Mannino” … … … allora, il discorso nasce prima di questa annotazione e come in altre volte mi accadeva di fare, con Ilardo affronto diciamo la questione Guazzelli perché ne riporto l’articolo sui quotidiani di quel tempo, che parlavano appunto della morte di Guazzelli, che si diceva, se non ricordo male, ammazzato dalla Stidda. E sollecito Ilardo a parlare e Ilardo mi fa una faccia contrariata dicendo… E mi fa capire in maniera abbastanza diciamo, abbastanza chiara che i fatti non erano in quel modo. Cioè, mi fa capire che l’omicidio non era nato perché avevano timore di Guazzelli come un sottufficiale che operasse fattivamente Cosa Nostra, ma che rappresentasse altri aspetti. E poi disse… Ovviamente rimandò ad altri momenti, diciamo, di approfondire questa, diciamo, questa vicenda. E successivamente a questo incontro, trovandomi al Ros perché facevo lì servizio e lavorando in ufficio, quella mattina chi incontrai con Sinico, eravamo nell’ufficio di Sinico, che era un ufficio con altri colleghi, c’erano anche degli altri colleghi, ho portato il discorso su Guazzelli per capire… Perché volevo capire quello che mi aveva fatto intendere, se c’era effettivamente qualcosa, come era il pensiero loro su quello che era, diciamo che riguardava Guazzelli, perché io non lo conoscevo assolutamente. E Sinico che mi dice che quando avviene la morte di Guazzelli, il generale Subranni si è spaventato moltissimo, mi è spaventato moltissimo, tanto è vero che hanno fatto rientrare di corsa dalla Sicilia De Donno perché avevano paura che anche a De Donno poteva succedergli qualcosa. E io me lo sono annotato proprio perché c’era stato il discorso giorni prima con Ilardo. E allora ho fatto le mie considerazioni, siccome lui mi aveva detto, come ho scritto poi nelle relazioni e anche che Mannino era strettamente controllato dalla famiglia di Agrigento, il discorso aveva, con questi fatti, per me una connotazione diversa, e che poi ovviamente in sede di collaborazione avrebbe dovuto spiegarmi … …. Confermato che Subranni aveva paura della morte di Guazzelli, che era un maresciallo vicino a Mannino, questo me l’ha detto il capitano Sinico … Certo, del Ros. E in più mi dice che in quell’occasione, alla notizia della morte di Guazzelli, fecero rientrare di corsa De Donno dalla Sicilia perché avevano paura che anche a De Danno potesse succedere, fare la stessa fine di Guazzelli, punto … Poi io faccio la considerazione … ricollegandomi a quello che in precedenza mi aveva detto Ilardo e che mi era servito per sollecitare il discorso di Sinico»
Pm Di Matteo: «Ma Mannino… Perché lei fa riferimento, se pure lei ha detto come deduzione, avvertimento solo a Mannino o a Mannino e soci? A chi fa riferimento?»
Dich. Riccio: «Al Ros… che erano… Che Mannino era in contatto con il Ros, era in relazioni con il Ros, quello che ho dichiarato… Sinico sicuramente me ne dà conferma, adesso così non ne ho ricordo»
Pm Di Matteo: «Lei è stato sentito proprio su questo appunto il 22 novembre del 2012 … E ha detto, pagina 2: va bè, i fatti annotati si riferiscono effettivamente ad una conversazione con il capitano Sinico. Presi l’argomento dell’omicidio Guazzelli perché qualche tempo prima aveva formato oggetto della mia interlocuzione con Ilardo, scaturiti, come tante altre volte, dalla pubblicazione su un quotidiano locale, eccetera, eccetera. In sostanza Ilardo mi chiarì che l’omicidio Guazzelli era una cosa molto più grave di quella che poteva apparire e mi rappresentò che successivamente ne avrebbe parlato più diffusamente… A quell’epoca Ilardo mi aveva già parlato del fatto che l’onorevole Mannino era nelle mani di Cosa nostra, cosi come successivamente scrissi nel rapporto Grande Oriente… Sulla base di questi spunti fornitimi da Ilardo, il 13 febbraio provocai la discussione con Sinico, che mi disse le cose che ho annotato, e cioè che quando venne ucciso Guazzelli, il generale Subranni, evidentemente intimorito, aveva fatto urgentemente rientrare dalla Sicilia il capitano De Donno. E lo ha riferito. Nella stessa conversazione, Sinico mi riferì, come ho annotato, dello stretto rapporto tra il Guazzelli e l’onorevole Mannino e mi confermò quanto già avevo sentito nell’ambiente del Ros in merito al fatto che il Mannino fosse molto vicino agli stessi Ros»
Dich. Riccio: «Esatto, l’ho detto adesso;… »
Pm Di Matteo: «Riesce a ricordare prima di Sinico, chi e in che termini all’interno del Ros riferì dello stretto rapporto tra Mannino e gli stessi Ros?»
Dich. Riccio: «Questi erano discorsi generici, come per dire che tante volte si parlava di confidenti, mi si diceva: il generale Subranni ha come confidenti Ciancimino padre o Badalamenti e il colonnello Mori io c’ho, come si chiama, quello che c’ha le corse automobilistiche che si è costituito … Siino. Ecco, erano discorsi che si avveniva quando si parlava … Dire diciamo adesso chi l’ha detto non me lo ricordo … Sì, perché si parlava, perché io tornato dalla Sicilia, mi fermavo… Perché non sapevo… Mi fermavo negli uffici del Ros con i colleghi e si parlava delle esperienze, di quello che stavamo facendo in quel momento, venivano naturali fuori questi discorsi…»
Pm Di Matteo: «Comunque Sinico…»
Dich. Riccio: «Mi ha colpito quel fatto e l’ho segnato perché abbiamo avuto quel discorso prima io e come si chiama, e Ilardo, e allora Ilardo mi parla di Mannino, infatti io l’ho messo anche nella relazione e l’ho messo anche nel rapporto… e in quell’istante mi spiega anche il ruolo della Stidda, perché dice tante volte noi, per non chiedere l’autorizzazione a Cosa nostra per fare una azione, usavano strumentalmente altri ambienti, tipo Stidda, per cui noi nascondevamo la nostra attività dietro la manipolazione di un interesse della Stidda…»
Pm Di Matteo: «Aspetti, aspetti, poi ci dirà l’esempio, ma sul punto specifico. Stesso verbale del 22 novembre 2012, allora, dunque: nella stessa conversazione Sinico mi riferì, come ho annotato, dello stretto rapporto tra il Guazzelli e l’onorevole Mannino e mi confermò quanto già avevo sentito nell’ambiente del Ros in merito al fatto che il Mannino fosse molto vicino agli stessi Ros. Adr: quanto al rapporto Guazzelli – Mannino, certamente me ne riferì anche llardo. Fu invece personalmente il colonnello Mori a parlarmi per primo dei rapporti di conoscenza diretta tra Vito Ciancimino e il generale Subranni. Ciò avvenne nel momento in cui stava costituendosi il Ros e si discuteva di come affrontare le indagini sulle famiglie mafiose siciliane. In quel frangente Mori mi disse del pregresso rapporto Ciancimino – Subranni, senza specificarmi altro. Quindi qua lei è stato netto nel dire che fu Mori a parlarle del rapporto Ciancimino – Subranni»
Dich Riccio: «Sì, molto probabilmente sì… Mi sembra anche lui direttamente mi parlò della sua conoscenza con Sinico, con Siino, perché a me in un accertamento che feci a Bagheria, mi viene fuori questo personaggio e lui mi disse sì, io l’ho conosciuto, anzi mi ha fatto anche da confidente…»
Pm Di Matteo: «E ricorda che tra gli altri lo stesso Mori le parlò di questo rapporto diretto Ciancimino – Subranni?»
Dich. Riccio: «Sicuramente, se l’ho detto sì, allora avevo un ricordo ancora più preciso, comunque io con loro parlavo, non è che parlassi con altre persone, i miei interlocutori del Ros erano loro”».
Per completezza, va, altresì, evidenziato che la difesa di Subranni e Mori ha fortemente contestato la contestualità di quelle annotazioni sotto la data del 13 febbraio 1996 (anche in sede di discussione, esibendo alla Corte, all’udienza del 2 marzo 2018, la copia della relativa pagina dell’agenda per evidenziare il carattere più minuto della scrittura rispetto a precedenti e successive annotazioni, nonché richiamando l’interpretazione contenuta in altra sentenza) e che, però, il col. Riccio, sul punto, ha fornito spiegazioni di cui non può negarsi la plausibilità: «Non è che ho integrato… … L’ho scritto nello stesso giorno, nello stesso momento, ho scritto diciamo il… E infatti l’ho messo diciamo… Sono partito dal centro perché sicuramente il discorso con il Capitano Sinico e gli altri colleghi è avvenuto nella mattinata, perché sennò l’avrei scritto tutto sotto. E allora io sono partito come spazio temporale, per ricordarmelo, in quell’arco di tempo, e poi dopo ho messo la freccia perché non c’era più spazio e ho continuato sotto» tenuto conto che le annotazioni precedenti con grafia più ampia sono relative ad impegni programmati e, dunque, ragionevolmente possono farsi risalire anche al giorno precedente rispetto a quella relativa all’occasionale colloquio di quel giorno con Sinico che ben potrebbe essere stato, poi, inserito la sera così come riferito da Riccio, dopo che durante il giorno erano state già scritte altre più semplici annotazioni più di routine.
A ciò si aggiunga che, nell’ipotesi di una postuma falsa integrazione dell’agenda, non si comprenderebbe neppure perché non sia stata operata da Riccio in una pagina nella quale vi era tutto lo spazio necessario per inserire l ‘annotazione con l’usuale grafia più ampia, così che, anzi, proprio la più minuta grafia resa necessaria da quel limitato spazio e la sua prosecuzione con una freccia appaiono rendere genuina l’annotazione medesima nei tempi indicati da Riccio (la sera dello stesso giorno) e con modalità che non sono certo inusuali per chiunque utilizzi agende per appuntare ricordi personali non destinati a lettura di terzi (d’altra parte, per analoghe modalità di annotazioni , basti esaminare l’agenda, acquisita agli atti, di Bruno Contrada, in particolare alla pagina del 29 settembre 1992 nella quale ad una prima annotazione segue quella relativa a “Pranzo da Scotto” a sua volta seguita dalla prosecuzione della prima annotazione con una freccia di collegamento, ovvero la pagina del successivo 18 dicembre 1992 nella quale vi sono ugualmente un’annotazione ed un successivo commento non consecutivi ma legati da una freccia).
Certo, va anche detto che il teste Sinico, citato dalla difesa degli imputati Subranni, Mori e De Donno, ha smentito di avere avuto quel colloquio oggetto dell’annotazione di Riccio:
Avv. Milio: «… lei ha mai parlato con il colonnello Riccio dell’omicidio del Maresciallo Guazzelli, avvenuto il 4 aprile 92 in provincia di Agrigento, diciamo?»
Dich. Sinico: «No»
Ma tale generica negazione, a prescindere dai rapporti di fedeltà (che non è un termine offensivo, come ritenuto, invece, dalla difesa di Subranni e Mori in sede di discussione all’udienza del 2 marzo 2018, che, poi, ha anche ironizzato ricorrendo al paragone del cane, se è vero che la fedeltà è addirittura richiamata nel motto dell’Arma dei Carabinieri sin dall’inizio del secolo scorso) e riconoscenza che legano il teste all’imputato Mori, tanto che quest’ultimo ebbe a chiamare il Sinico presso di sé al Sisde:
Pm Di Matteo: «… Le volevo chiedere se è vero, e mi può confermare che lei, dopo che il Prefetto Mori venne designato quale direttore del Sisde, passò anche lei al Servizio segreto civile e se questo è avvenuto attraverso una proposta diretta di Mori, formulata contestualmente a lei e al suo collega, all’epoca credo maggiore o tenente colonnello Ierfone»
Dich. Sinico: «Si»
Appare poco credibile alla luce della precisione di quell’annotazione (non comprendendosi, peraltro, per quale ragione Riccio avrebbe dovuto falsificarla o anche soltanto attribuirla al Sinico piuttosto che direttamente a Subranni o Mori) e della coerenza della stessa con l’intero contesto delle risultanze concernenti Mannino e l’omicidio del maresciallo Guazzelli di cui si è detto.
In conclusione, dunque, può ragionevolmente ritenersi che anche tale omicidio si pone come antecedente logico-fattuale dell’iniziativa che di lì a poco Subranni, unitamente a Mori, avrebbe deciso di intraprendere per tentare un contatto diretto con i vertici dell’associazione mafiosa nelle persone dei suoi capi assoluti Salvatore Riina e Bernardo Provenzano.
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Articolo del 30 marzo 2022 da luccaindiretta.it
Gallicano ricorda il maresciallo Guazzelli, ucciso dalla mafia 30 anni fa
agrigentonotizie.it
Articolo del 4 aprile 2022
Trenta anni dopo l’agguato, Agrigento si ferma e ricorda il suo “mastino”: c’è anche il comandante generale dell’Arma Teo Luzi.
I carabinieri e l’intera comunità rinnovano i sentimenti di profonda riconoscenza dell’attività svolta dal sottufficiale nel contrasto alla criminalità mafiosa , di cui il maresciallo maggiore aiutante Giuliano Guazzelli era “memoria storica” e profondo conoscitore