4 Gennaio 1947 a Sciacca (AG) uccisione di Accursio Miraglia, segretario della Camera del Lavoro e dirigente comunista

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4 Gennaio 1947 a Sciacca (AG) uccisione di Accursio Miraglia, segretario della Camera del Lavoro e dirigente comunista. Il delitto, come del resto tutti gli omicidi di dirigenti e militanti del movimento contadino, è rimasto impunito.
Una delle iniziative (forse la più importante e duratura in quanto proprio nel 2004 se ne è festeggiato il sessantesimo anniversario) più voluta da Accursio Miraglia fu la fondazione della cooperativa “La Madre Terra”. Nacque esattamente il 5 novembre 1944, venne sancita alla Camera del lavoro più di 60 anni fa ed oggi è una grande realtà che conta circa mille soci con una superficie di duemila ettari coltivata a ulivi e più di 200 mila piante ricadenti nel territorio di Sciacca.
Grazie alla cooperativa “La Madre Terra”, Accursio Miraglia divenne la voce dell’umile gente che chiedeva l’attuazione delle leggi Gullo-Segni che destinavano alle cooperative i terreni incolti appartenenti ai latifondi. Memorabile rimase agli occhi della gente la cavalcata che riuscì ad organizzare per le vie del paese di Sciacca. Più di diecimila persone da quasi tutta la provincia, chi a piedi, chi a cavallo, chi sui muli, chi in bicicletta.

“Non approfittò mai della sua posizione, l’ultimo incarico fu quello di presidente dell’ospedale di Sciacca e anche lì seppe agire in maniera indimenticabile lasciando il segno, come del resto era sua consuetudine fare. I medici, le suore e gli infermieri, la sera del suo assassinio per mano della mafia il 4 gennaio 1947, ricambiarono l’affetto permettendo alle sue spoglie di rimanere intatte per quattro giorni in una bara aperta. Le veglie funebri furono due, una organizzata presso l’ospedale, l’altra presso la sede della Camera del lavoro. Tutta l’Italia diede l’estremo saluto ad un uomo che lottava con le parole, ad un uomo che con i suoi discorsi semplici riusciva a gratificare la gente a dare speranza e insegnare che la fratellanza e l’organizzazione erano fondamentali in quel periodo così difficile, diceva sempre: «Noi, organizzati, siamo un gruppo di fratelli. Se succede qualcosa, si ragiona»

Alla base del monumento dedicatogli dal popolo di Sciacca vi è una scritta di Miraglia che richiama questo valore della fratellanza che tanti nella società odierna non considerano affatto in quanto non rappresenta più un ideale raggiungibile in una società dominata dall’individualismo. La frase, riportata in un lavoro del nipote di Miraglia, dice: «Io non impreco e non chiedo alcuna punizione. Io che ho tanto amato la vita, chiedo ad essa di vedere pentiti coloro che ci hanno fatto del male».

Ecco anche il suo ultimo importante monito che diede all’ultimo comizio che tenne a Sciacca:
« La forza dell’uomo civile è la legge, la forza del bruto e del mafioso è la violenza fisica e morale. Noi, malgrado quello che si sente dire di alcuni magistrati, abbiamo ancora fiducia nella sola legge degli uomini civili, che alla fine trionfa nello spirito dell’uomo che è capace di sentirne il “Bene”. Temiamo, invece la violenza perché offende la nostra maniera di vedere e concepire le cose. Lungi dalla perfezione e dall’infallibilità, siamo però in buona fede, e non cerchiamo altro che la possibilità di ripresa della nostra gente e in altre parole di dare il nostro piccolo contributo all’emancipazione e alla dignità dell’uomo. È solo questo il filo conduttore che ci ispira e ci porta nel rischio. Non è colpa nostra se qualcuno non lo arriva a capire: non arrivi a capire, cioè, che ci sia, ogni tanto, qualcuno disposto anche a morire per gli altri, per la verità per la giustizia. Attento però a questo qualcuno che da sprovveduto e morto non diventi un simbolo molto ma molto più grande e pericoloso. »

Il suo motto:
« Meglio morire in piedi, che vivere in ginocchio. ».
Fonte:  it.wikipedia.org

 

 

 

Foto da corrieredisciacca.it

Articolo da L’Unità del 7 Gennaio 1947
Vile assassinio a Sciacca del Segretario della C.d.L.

Sospensione generale del lavoro – Un telegramma di Nenni . unanime deplorazione dei Partiti.

Agrigento, 6. Sabato sera alle 22 a Sciacca, al ritorno da una seduta alla Camera del Lavoro, di cui era Segretario, il compagno Curzio Miraglia è stato fatto segno, sulla soglia della sua abitazione, ad una raffica di mitra che, indirizzatagli da una trentina di metri di distanza, lo colpiva alla gola freddandolo all’istante.

Egli è il sesto segretario di Camere del Lavoro che, nel giro di pochi mesi è stato ucciso in terra di Sicilia. Profonda è l’indignazione che quest’ultimo crimine politico ha suscitato tra i lavoratori siciliani e particolarmente tra i contadini poveri della zona che han perduto in Curzio Miraglia uno strenuo assertore dei loro diritti.

La segreteria regionale della C.G.I.L. riunita immediatamente a Palermo, ha votato all’unanimità un ordine del giorno in cui, di fronte al susseguirsi di questi crimini contro rappresentanti dei lavoratori, crimini che sono rimasti ancora impuniti e chiede al Ministro degli Interni provvedimenti immediati e d’emergenza. Si chiede inoltre la destituzione immediata dell’attuale comandante dell’Arma dei Carabinieri e delle altre autorità di polizia in Sicilia dimostratesi sinora incapaci di colpire i responsabili di tali crimini.

I rappresentanti del PC, del PS, del PRI, della DC, del PLI e del (?) hanno votato un ordine del giorno di protesta per la carenza delle forze di polizia di fronte al ripetersi di simili delitti richiedendo un’inchiesta parlamentare. Il PLI e il (?), però, non hanno accettato la parte dell’o.d.g. che rilevava come gli assassini siano rivolti contro i difensori dei contadini siciliani e come sia necessario tutelare la libertà dei cittadini alla vigilia delle elezioni regionali.

Il Presidente del Consiglio ad interim, compagno Pietro Nenni, ha inviato alla Camera de lavoro di Sciacca il seguente telegramma:

«Esprimo lavoratori Sciacca mio profondo cordoglio per assassinio Segretario Camera Lavoro Miraglia. Ho dato disposizioni perché tutto sia messo in opera per arrestare autori istigatori delitto. Violenza reazionaria non arresterà opera giustizia perseguita dai lavoratori».

In segno di protesta e di solidarietà il 9 corr. Alle 11, in tutte le aziende della Sicilia il lavoro verrà sospeso per un’ora, mentre i servizi pubblici verranno sospesi per 30 minuti e per 10 minuti si fermeranno tutti i treni. Anche i negozi resteranno chiusi mezz’ora.

 

 

Articolo da L’Unità del 16 Gennaio 1947
L’arresto del latifondista siciliano mandante del delitto di Sciacca
Anche l’amministratore dell’agrario e l’esecutore materiale del crimine nelle mani della polizia

PALERMO, 15 – iL corrispondente per la Sicilia dell Associated Press informa che le autorità di pubblica sicurezza hanno proceduto a tre arresti in seguito al criminale assassinio del compagno Accursio Miraglia, segretario della Camera del lavoro di Sciacca.
Gli arrestati sono un latifondista agrigentino e il suo amministratore, indicati come mandanti del delitto, e una terza persona qualificata come «delinquente abituale», probabilmente esecutore materiale.
La  polizia si è limitata a dare il nome del latifondista: Enrico Rossi.
La notizia confermerebbe quanto il popolo siciliano aveva immediatamente denuncialo, attraverso le sue organizzazioni, in numerosi telegrammi, ordini del giorno e mozioni di protesta: e cioè che i veri colpevoli dell’infame serie di delitti  consumati contro i difensori dei contadini siciliani devono ricercarsi tra forze della reazione agraria, pronta a tutti i crimini pur di difendere i propri privilegi feudali.
Occorre ora che l’inchiesta vada a fondo nell’associare tutte le responsabilità, sia in questo delitto che nei sei che l’hanno preceduto; occorre che i colpevoli, diretti e indiretti paghino — e presto — per le loro scelleratezze.

 

 

Articolo da L’Unità del 15 Aprile 1947
Gli assassini di Miraglia assicurati alla giustizia

SCIACCA, 14. — In seguito alla confessione di Calogero Curreri, arrestato giorni fa quale esecutore materiale dell’assassinio del compagno Accursio Miraglia, avvenuto il 4 gennaio u. s. sono finalmente caduti nelle mani della giustizia tutti gli altri esecutori e i mandanti del delitto.

Sono state arrestate in tal modo dieci persone: fra esse si distinguono il dr. Parlapiano Vella, grosso agrario e fratello di un ex-deputato, attuale candidato della lista monarchico-qualunquista per le elezioni siciliane.

 

 

Articolo da L’Unità del 29 Gennaio 1963
Per la mafia giustizia bendata
di G. Frasca Polara

Due delitti legati al martirio di Accursio Miraglia – L’assassinio di Tandoy: un dossier che scottava troppo? – Raffiche di mitra per chi « pesta i calli»

PALERMO, 28.
Il PCI ha annunciato che, nel corso dei lavori della Commissione d’inchiesta sulla mafia, la cui nomina dovrebbe considerarsi ormai imminente, i parlamentari comunisti chiederanno che il governo, i prefetti, i questori, l’arma dei carabinieri, la polizia e la guardia di finanza forniscano, riesumandoli dagli archivi, tutti i rapporti riservati, i fascicoli, gli elenchi e quanto altro possa servire a una integrale documentazione sul consolidamento e sulla evoluzione del fenomeno mafioso dal 1944 a oggi.
E’ certo che tutti gli organi interessati, primi tra tutti il governo e la magistratura, opporranno notevoli resistenze alla consegna degli atti, dai quali emergerà senza ombra di dubbio il quadro dei compromessi che, sin dai celebri episodi collegati alia vicenda Giuliano e al processo di Viterbo (chi dimentica che Pisciotta aveva il lasciapassare firmato da Scelba? O che l’ispettore generale di P.S. si incontrava con i banditi regalando loro spumante e panettone?), costituisce una delle pagine più fosche del dopoguerra.
A maggior ragione, la richiesta comunista offre quindi la possibilità di individuare non solo origini ed effetti della potenza mafiosa nella Sicilia occidentale, ma anche le cause del misterioso e frequente incepparsi della macchina della giustizia nell’Isola quando si tratta di crimini che portano il marchio della mafia. La recentissima commemorazione del XVI anniversario dell’assassinio del compagno Accursio Miraglia è stata, per esempio, l’occasione per sottolineare come, in questo senso, il «caso» del segretario della Camera del lavoro di Sciacca sia esemplare e illuminante.
Miraglia, come tanti altri sindacalisti vittime del terrorismo agrario e mafioso, guidava nel dopoguerra la lotta dei contadini del circondario di Sciacca, in provincia di Agrigento, per la distruzione del feudo e la riforma agraria.

La notte del 4 gennaio 1947, sulla porta di casa, Accursio Miraglia fu ucciso da alcune raffiche di pistola-mitragliatrice. Per giorni, la salma, esposta nella camera del lavoro di Sciacca, venne visitata dai lavoratori di tutta la provincia, mentre l’esecrazione per il crimine si allargava nell’Isola dove, ovunque, erano in corso le grandi lotte pe la terra. L’ondata di protesta costrinse polizia e carabinieri ad aprire una inchiesta. Per la polizia, indagavano il commissario Zingone, capo della squadra mobile di Agrigento, ed il vice-commissario Tandoy (lo stesso che verrà ucciso, nel ’60, ad Agrigento, da assassini rimasti ignoti malgrado il clamore suscitato dal delitto). In capo a pochi giorni dall’uccisione di Miraglia, Zingone e Tandoy giunsero all’arresto degli assassini del sindacalista. Questi erano: Calogero Curreri, Pellegrino Marciante, Carmelo Di Stefano, Antonino Sabella e Francesco Segreto. Nel rapporto, erano indicati anche i mandanti (alcuni grossi proprietari terrieri della zona) e il prezzo pagato da costoro agli omicidi: un milione. ‘ Curreri e Marciante, inoltre, avevano reso piena confessione del delitto. La denuncia suscitò enorme scalpore: la mafia decise, quindi, di intervenire per parare il duro colpo. Zingone, Tandoy e un maresciallo dei carabinieri furono accusati di avere estorto le confessioni con la violenza e, nelle more del processo, gli accusati dell’assassinio di Miraglia furono rimessi silenziosamente in liberta. Ma il processo contro i poliziotti non venne mai: essi furono assolti in istruttoria per non aver commesso il fatto. Il che, in altre parole, voleva dire che doveva essere immediatamente riaperta la istruttoria contro Curreri e soci, in quanto costoro non erano mai stati seviziati per confessare la loro partecipazione all’assassinio del sindacalista. Invece, la pratica si arenò perché la magistratura non continuò l’istruttoria contro i sospettati né li fece nuovamente incarcerare. Intanto, per il commissario Zingone era venuto l’ordine di trasferimento in Sardegna, il classico provvedimento punitivo di sempre; mentre per Tandoy cominciò un lungo periodo di assuefazione alla tradizionale impotenza degli organi di polizia: il « caso » Miraglia restò per lui l’unico in  cui fosse riuscito a mettere le mani sugli assassini. Da allora, molte volte avrebbe avuto a che fare con delitti di mafia contro dirigenti popolari, ma ormai aveva capito l’antifona e preferiva conservare in un dossier personale e segreto i risultati, i veri risultati, delle sue personali inchieste. Si dice anzi che la vera causa dell’assassinio di Tandoy sia stato proprio quel dossier che, dopo tredici anni, cominciava a scottare troppo.

Per cercare di far luce sulla non troppo misteriosa morte di Miraglia, i suoi parenti — che a distanza di sedici anni lottano ancora per la punizione di tutti i colpevoli — hanno chiesto di recente al giudice istruttore Tumminello, della procura di Agrigento, gli atti relativi ai due procedimenti penali: quello contro i sospetti assassini cosi facilmente scarcerati (risiedono ancora quasi tutti nell’Agrigentino), e quello contro Zingone e Tandoy. Ma il magistrato ha opposto all’avvocato Grillo, legale dei Miraglia, un netto rifiuto, non escludendo — a suo dire — la eventualità di una riapertura dell’istruzione. Tuttavia, neppure questo, a tre anni di distanza dalla richiesta, è avvenuto. Perché? Chi, per sedici anni, e in qual modo, è riuscito a contrastare il corso della giustizia?
D’altronde, a queste domande aveva già dato una eloquente risposta, poco dopo l’uccisione di Miraglia, un ufflciale dei carabinieri che partecipava alle indagini: il colonnello Geronazzo. L’ufficiale fece leggere il rapporto conclusivo sulle indagini al compagno Scaturro, allora dirigente delle organizzazioni bracciantili della zona e oggi deputato all’Assemblea regionale, e gli disse: «Lei è il primo a vedere questo documento. C’è tutto: le dichiarazioni sono precise e complete. Però vedrà come riusciranno a capovolgere il processo, perché i ruffiani della mafia sono qui dentro, in mezzo a noi. Credo che pesterò molti calli, e per questo — concluse amaramente il colonnello Geronazzo — probabilmente mi trasferiranno. O mi ammazzeranno».
La previsione si realizzò puntualmente: l’ufficiale fu trasferito poco dopo nella zona di operazioni di Partinico, per la caccia a Giuliano e dopo qualche tempo, alla vigilia di un nuovo trasferimento ordinato da Roma, Geronazzo, sulla piazza di Partinico, venne ammazzato a raffiche di mitra. Ecco del materiale per l’inchiesta parlamentare: gli investigatori del caso Miraglia sono stati uccisi o «eliminati» e tre delitti — Miraglia, Geronazzo e Tandoy — troppo intimamente collegati l’un l’altro per non suscitare fondati sospetti d’una stretta connessione. sono ancora impuniti.
G. Frasca Polara

 

 

 

Articolo da La Sicilia del 24 Aprile 2005
Accursio Miraglia, delitto annunciato 
di Dino Paternostro
Il sindacalista paladino dei contadini di Sciacca fu ucciso il 4 gennaio del 1947
A quanti temevano per lui diceva: «Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio»

«Meglio morire in piedi, che vivere in ginocchio!», soleva dire Accursio Miraglia. Una frase presa in prestito dal romanzo di Ernest Hemingway «Per chi suona la campana», ma che lui ormai sentiva come sua. La ripeteva spesso alla moglie, alle sorelle e ai compagni del partito e del sindacato, ogni volta che gli agrari e i gabelloti mafiosi lo minacciavano o gli facevano arrivare l’invito a farsi i fatti propri.  In quei primi anni del secondo dopoguerra, Miraglia era dirigente del Partito comunista e segretario della Camera del lavoro di Sciacca. Si era messo in testa di far applicare anche nel suo paese i decreti Gullo sulla concessione alle cooperative contadine delle terre incolte o malcoltivate. E il 5 novembre 1945 aveva costituito la «Madre Terra», una cooperativa di centinaia di braccianti e contadini poveri, alla quale fece assegnare diversi ettari di buona terra. Un gravissimo affronto alla “sacra” proprietà privata, che, giorno dopo giorno, faceva imbestialire i latifondisti e i gabelloti mafiosi, che decisero di fargliela pagare.

Il 4 gennaio 1947, verso le nove e mezza di sera, Accursio Miraglia era appena uscito dai locali della sezione comunista per tornare a casa. A “scortarlo” c’erano quattro compagni: Felice Caracappa, Antonino La Monica, Tommaso Aquilino e Silvestro Interrante. Percorsero un tratto di strada insieme, poi Interrante e Caracappa si staccarono dal gruppo per far rientro nelle loro abitazioni. Gli altri due, invece, accompagnarono il dirigente contadino fino a 30-40 metri da casa sua, lo salutarono e ritornarono indietro. Ma passarono solo pochi secondi e il silenzio fu rotto da numerosi colpi di pistola. Capirono subito che i colpi erano diretti contro Miraglia. La Monica «ritornò indietro e vide un giovane, piuttosto esile, di media statura, con cappotto e berretto, che impugnava un’arma da fuoco lunga, dalla quale fece partire un’altra raffica di colpi. Lo sparatore era in mezzo alla strada, sotto una lampada accesa dell’illuminazione pubblica, e, dopo aver sparato, si allontanò di corsa verso l’uscita del paese. La stessa scena fu vista da Aquilino», scrive Umberto Ursetta, nel volume «Nelle foibe della mafia. Accursio Miraglia e Placido Rizzotto,  sindacalisti», che uscirà a giorni come supplemento de “l’Unità”. Probabilmente, insieme a questi due uomini ce n’era un altro, che si allontanò di corsa dopo gli spari.
Miraglia morì riverso sulla porta della propria abitazione, tra le braccia della giovane moglie russa, Tatiana Klimenko. Di corsa, erano arrivati La Monica e Aquilino.

Poco dopo, arrivarono anche quattro carabinieri, attirati dagli spari. A 51 anni, Accursio Miraglia morì “in piedi”, perché non si era voluto piegare alla mafia e agli agrari, perché non volle tradire i suoi contadini. E questo lo capirono bene a Sciacca, dove il dirigente sindacale era benvoluto ed amato dagli onesti. Non era il primo omicidio di mafia. Prima di lui, erano già caduti tanti altri capilega. Il delitto Miraglia, però, fece tanto scalpore in Sicilia e nell’intero Paese. A Sciacca arrivarono tutti i dirigenti sindacali e politici della sinistra, a cominciare dal segretario regionale del Pci Girolamo Li Causi e dal sottosegretario alla giustizia Giuseppe Montalbano. Il funerale non poté tenersi prima di sei giorni, perché erano tanti i cittadini che volevano tributargli l’ultimo saluto. La bara col corpo di Miraglia rimase scoperta tre giorni all’ospedale civico e tre giorni nel salone della Camera del lavoro. Infine, l’11 gennaio si svolsero i funerali, a cui partecipò l’intera popolazione. I preti non vollero che Miraglia fosse portato in chiesa, perché era un morto ammazzato e per giunta comunista. Ma le esequie civili furono lo stesso solenni ed imponenti. In Sicilia, gli operai sospesero il lavoro per dieci minuti. In Italia, per cinque. In tutte le fabbriche suonarono le sirene. Dalla Camera del lavoro al cimitero, la bara fu portata a spalla dai contadini. Era una giornata d’inverno, fredda ed uggiosa, ma non pioveva. Solo quando il corteo funebre arrivò davanti al portone d’ingresso del cimitero, cadde qualche goccia di pioggia, che bagnò la bara. «Un ti vosiru benidiciri l’omini, ma ti binidiciu Diu», esclamò un anziano contadino.

Dietro l’assassinio la longa manus della Cia?
Non c’é dubbio che l’assassinio di Accursio Miraglia, avvenuto quando ancora l’Italia era governata da una coalizione di unità nazionale, che comprendeva tutti i partiti antifascisti, fu voluto dalla mafia e dagli agrari.
Come non ci sono dubbi che questi godevano della protezione di “pezzi” della politica e delle istituzioni statali. Il figlio Nicola, però, sulla base delle ricerche storiche di Giuseppe Casarrubea e Nicola Tranfaglia, è convinto che possa esserci stata anche la complicità della CIA americana, come per Portella delle Ginestre: «Probabilmente – dice – un vero processo giudiziario sarà impossibile riaprirlo, ma ad un processo storico non voglio rinunciare». E proprio a questa ipotesi sta lavorando con la fondazione intestata al padre.

Lo scandalo del processo: tutti assolti

LA STORIA. Tra «aggiustamenti», colpi di scena e ritrattazioni alla fine nessuno risultò colpevole

Oltre ad essere un dirigente politico e sindacale della sinistra, Accursio Miraglia era anche direttore dell’Ospedale civico di Sciacca, proprietario di una piccola industria del pesce, amministratore di una fornace per la produzione di laterizi e direttore del teatro “Rossi”. Un personaggio pubblico di rilievo, dunque, la cui tragica fine non poteva passare sotto silenzio. A condurre le indagini sul delitto fu la polizia, che fermò un certo Calogero Curreri, indicato da La Monica e Caracappa (i due militanti comunisti che la sera del 4 gennaio 1947 avevano accompagnato Miraglia) come facente parte del commando omicida. Altri testimoni (tra cui la moglie di Miraglia e le sorelle Brigida ed Eloisa) indicarono nel proprietario terriero, cavaliere Rossi, e nel suo gabelloto Carmelo Di Stefano, alcuni dei possibili mandanti dell’assassinio. In appena nove giorni di indagini, gli inquirenti, quindi, si convinsero delle responsabilità di Rossi, Di Stefano e Curreri, che furono formalmente accusati dell’omicidio, individuandone la causale «nel contrasto, anzi nell’odio,  che il Rossi ed i suoi familiari nutrivano verso il Miraglia» per essersi battuto a favore dei contadini.

Rossi e Curreri vennero arrestati e condotti nel carcere di Sciacca, mentre non si poté arrestare il Di Stefano perché ricoverato nell’ospedale di Sciacca. Qualche giorno dopo, fu l’ispettore di pubblica sicurezza Messana a far tradurre il cavalier Rossi dal carcere saccense a quello di Palermo.
Durante il viaggio, però, il detenuto accusò un improvviso malore e fu fatto sostare nel famigerato ospedale di Corleone, diretto dal capomafia del luogo Michele Navarra. Qui, il dott. Dell’Aria gli rilasciò un certificato, dove dichiarava che il Rossi «era affetto da enterorraggia in atto». Una patologia sospetta, ma “provvidenziale”, che ne consigliò il ricovero nella clinica Orestano di Palermo, evitandogli così l’onta del carcere. Ma i colpi di scena non finiscono qui. Giorni dopo, la polizia trasmise alla Procura della Repubblica di Palermo le “carte” dell’inchiesta,  che in pochi giorni ordinò la scarcerazione degli imputati per mancanza di elementi concreti di colpevolezza. «In effetti, gli indizi raccolti a loro carico appaiono molto fragili e di difficile tenuta in sede processuale», osserva Umberto Ursetta. Aggiunge, però, che fu forte il sospetto che l’ispettore Messana ebbe troppa fretta di chiudere l’indagine, presentando «denuncia contro alcuni individui sospetti, non sostenuta da alcuna prova, allo scopo di farli subito scarcerare e lasciare quindi il delitto impunito».

La decisione della Procura di Palermo suscitò molte proteste. L’on.  Li Causi e l’on. Montalbano presentarono un’interrogazione  parlamentare, chiedendo che le indagini fossero rifatte in maniera approfondita. E qui un nuovo colpo di scena. La polizia e i carabinieri arrestarono nuovamente Calogero Curreri, ma stavolta insieme a Pellegrino Marciante e Bartolo Oliva. I primi due, interrogati dagli inquirenti, confessarono il delitto ed indicarono quali mandanti il cavalier Rossi, il cavalier Pasciuta, il cavaliere Vella e il gabelloto Carmelo Di Stefano. Caso risolto, dunque? Nemmeno per sogno. Davanti al Procuratore di Palermo, Curreri e Marciante ritrattarono le loro confessioni, accusando le forze dell’ordine di averle estorte con violenze inenarrabili. Il giudice, quindi, prosciolse tutti per non aver commesso il fatto, denunciando per torture e sevizie il commissario Giuseppe Zingone, il maresciallo dei CC Gioacchino Gagliano e il brigadiere Salvatore Citrano, il maresciallo di P.S. Angelo Causarano e gli agenti di P.S. Vincenzo La Greca e Ernesto Moretto. Incredibilmente, però, anche il procedimento penale contro i “torturatori”, avviato dalla Procura di Agrigento, si concluse col loro pieno proscioglimento. Ma, se non ci furono violenze, gli imputati dell’assassinio non avrebbero dovuto essere assolti. E, nel dubbio, s’imponeva almeno la riapertura delle indagini. Invece niente. Solo un colpevole silenzio, che dura fino ad oggi.
D.P.

 

 

 

 

Blu Notte – Terra e libertà

Terra e libertà. Gli omicidi di Miraglia, Rizzotto e Carnevale

 

 

 

Fonte:  mafie.blogautore.repubblica.it
Articolo del 16 ottobre 2020
Accursio Miraglia, un delitto oscuro

a cura di Nicolò Miraglia e Asia Rubbo

Quella di Accursio Miraglia è la storia di un uomo e di un sognatore che fu sindacalista e politico, ma anche molto altro. Fu lui a creare e a dirigere la prima Camera del Lavoro siciliana, nonché a contribuire al risveglio dei contadini nella lotta al latifondo. Suo figlio, Nicolò Miraglia, aveva solo tre anni quando, nel 1947, venne ucciso per mano mafiosa. Per tutta la vita l’uomo si è fatto testimone della lotta e degli ideali del padre, battendosi in prima persona per una verità che, ancora oggi, non è arrivata.

Mio padre nacque a Sciacca, in Sicilia, dov’è cresciuto con quattro fratelli, un padre impiegato al comune che morì molto giovane e una madre che, seppur tra difficoltà economiche, tirò avanti la famiglia. Accursio aveva un’intelligenza fuori da normale, tant’è che si diplomò in ragioneria col massimo dei voti. Immediatamente il Credito Italiano di Catania lo volle nella banca e dopo solo un anno lo mandò direttamente a Milano, per dirigere la sezione economica. Fu vivendo a Milano che mio padre divenne anarchico e prese la tessera, perché in quella città cominciò a vedere tutte le difficoltà in cui viveva la povera gente. Frequentando Porta Ticinese, si dedicò all’organizzazione dei primi scioperi, sia in banca che fuori. Naturalmente venne cacciato per incompatibilità di vedute e, una volta tornato a Sciacca, creò un’industria di pesce salato, perché qui abbiamo la seconda flotta peschereccia d’Italia.

Era il periodo fascista e mio padre una volta a settimana finiva in gattabuia, perché comunista. Malgrado questo però, continuava a stare vicino ai poveri e agli operai. Negli anni ‘30 l’industria andava benissimo e fu così che aprì una rappresentanza di ferro e metalli, una gioielleria, divenne l’amministratore del teatro di Sciacca e infine fu anche presidente dell’ospedale. Finiti tutti i suoi lavori, la sera andava alla Camera del Lavoro dove insegnava a leggere e a scrivere a tutti gli analfabeti di Sciacca, in modo particolare ai contadini. A loro spiegava il Codice Civile, convinto che si potessero fare tutte le battaglie del mondo, ma nei limiti della legge. Mio padre veniva definito “cattocomunista”, perché era molto cattolico e numerose sono le lettere in cui si rivolge direttamente a Gesù. Era benvoluto da tutti e lo è ancora, a 73 anni dalla sua morte.

Con tutte queste attività, per i soldi che aveva, oggi mio padre sarebbe un miliardario. Lui diceva sempre “io lavoro perché mi servono i soldi per darli agli altri.” Amava il prossimo più di sé stesso, “io ho i miei proventi, ho la mia intelligenza e la mia cultura e la devo mettere a disposizione degli ultimi, che non hanno potuto studiare” e così ha fatto per la popolazione di Sciacca. Nel 1944, ha creato la cooperativa “Madre Terra” che esiste ancora oggi. Allora c’era la legge Gullo-Segni che prevedeva che i contadini, per ottenere un lotto di terreno incolto, avrebbero dovuto unirsi in cooperative. I sindacalisti, da tutti gli angoli della Sicilia, hanno cercato di fondare queste cooperative per dare finalmente la terra ai contadini. Purtroppo, sono stati molto pochi i lotti ottenuti rispetto a quelli disponibili, perché tra mafia, latifondo e gli americani era difficile che la terra andasse ai contadini, tant’è che furono 50 i sindacalisti uccisi in quel periodo.

Mio padre fu sindacalista e comunista, certo, ma fu anche molto altro. Era un benefattore nel vero senso della parola: sosteneva l’orfanotrofio di Sciacca, aiutava le donne che non avevano la dote così che potessero sposarsi senza fuggire. Era tutto il contrario della mafia: la mafia toglie, lui invece dava a tutti e senza chiedere nulla in cambio. A volere la sua morte però non è stata la mafia. La mafia ha sparato, ma l’omicidio di mio padre è gemellato con la strage di Portella della Ginestra, gli imputati furono gli stessi. Molti documenti riportano il fatto che, da parte dell’America, ci fu il tentativo di silenziare la strategia comunista. Il tutto nasce con il patto di Yalta e la divisione del mondo in Oriente e Occidente, da un lato la Russia e dall’altro l’America. L’Italia, terra degli americani, stava di fronte a Grecia e Albania, ad un passo dal blocco orientale. Il confine era l’Adriatico e il luogo ideale per piazzare gli armamenti americani era proprio la Sicilia, che al tempo però era comunista e quindi rappresentava un pericolo. Il problema andava risolto e la mafia, durante quegli anni, è stata manovalanza utile per controllare il territorio, infatti finita la guerra tutti i capimafia divennero sindaco del paese. A Sciacca le cose andavano meglio perché c’era Accursio Miraglia, la mafia stava almeno a 30 km da qui, ma comunque anche lui era destinato a morire.

Venne ucciso la sera del 4 gennaio del 1947. La polizia accorse subito poiché, a sua insaputa, era tenuto sempre sotto osservazione. Dopo solo tre ore, gli assassini erano già stati incarcerati e quindi si sarebbe potuto procedere contro di loro. A Sciacca c’è il Tribunale e quindi la cosa più sensata sarebbe stata iniziare la fase istruttoria e fare il processo, ma questo non avvenne. Il processo venne bloccato. Un suo fraterno amico, sottosegretario alla Giustizia, ottenne dal Governo la riapertura del processo e fu così che si creò il primissimo pool antimafia, formato da poliziotti e carabinieri da tutta la Sicilia, che riprese le indagini e arrestò nuovamente gli stessi uomini. C’erano tutte le prove, finanche una confessione scritta da uno e confermata dall’altro. Venne chiamato anche un medico a certificare che, prima e dopo la confessione, gli imputati si trovassero nello stesso stato di salute. Tuttavia, la Procura generale di Palermo mise nuovamente i bastoni tra le ruote al processo, dichiarando che quelle confessioni erano state ottenute con la tortura. Una volta scarcerati i delinquenti, furono i poliziotti a dover subire un processo per il supposto reato di tortura. Ovviamente poi vennero assolti, il fatto non sussisteva. Il tutto fu organizzato perché gli assassini di mio padre non dovevano andare in galera, dopodiché è stato apposto il segreto di Stato e non se n’è saputo più niente. A Sciacca venne anche il capo dei Servizi Segreti, che dichiarò che il tutto era stato fatto per insabbiare le prove e di certo non per fare giustizia. Noi abbiamo inoltre richiesto di avere i documenti di queste istruttorie, ma l’avvocato si è rifiutato di rilasciare i documenti in quanto era possibile la riapertura del processo.

Malgrado la verità sul suo omicidio sia ancora taciuta, la memoria e il ricordo di mio padre sono vivi a Sciacca da più di 70 anni. I suoi funerali si tennero dopo una settimana, perché le suore dell’ospedale vegliarono e pregarono davanti al suo cadavere per tre giorni, in segno di riconoscenza per il bene che aveva fatto all’ospedale di Sciacca. Poi, per altri tre giorni, lo tennero alla Camera del Lavoro della città e da tutta l’Italia vennero gli uomini dei principali partiti, da tutta Italia. Al tempo Sciacca contava 20.000 abitanti, i giornali dissero che ai suoi funerali c’erano 40.000 persone. Mio padre andò ai funerali con la bara scoperta: tutta Sciacca volle dare l’ultimo saluto ad Accursio. In sua memoria le industrie d’Italia si fermarono per 5 minuti, in Sicilia per 10 minuti, così come anche in treni.

A quei tempi la domanda più frequente ai figli e alle figlie dei tanti sindacalisti uccisi era “Ma a tuo padre chi gliel’ha fatto fare? Se l’è andata a cercare!”. Mio padre però, venne inondato di affetto sia da vivo, sia dopo la sua morte. Oltre ad essere pittore, musicista e filosofo, era legato a tutti gli uomini più importanti, non solo d’Italia, ma di Europa. Malgrado il tempo trascorso infatti, la sua eredità continua. Qualche anno fa avevo organizzato un convegno con la fondazione intestata a mio padre, invitando personaggi importanti di tutta Italia. Oltre al convegno, c’è stato anche un pranzo e volevo che in tavola ci fossero anche i pesci di Sciacca e i prodotti dei terreni confiscati: 25 casse di pesce, per 200 persone. L’indomani mi sono recato alla marina per saldare il mio debito e i pescatori hanno risposto “Per Miraglia il pesce sarà sempre gratis”.

A Sciacca c’è anche un monumento dedicato a mio padre: all’inizio furono gli uomini di partito a chiedermi di costruire un grande memoriale dedicato a mio padre, io risposi di no, perché Accursio Miraglia non era solo un sindacalista e un comunista. Oggi, il monumento che c’è a Sciacca, è stato voluto dai lavoratori della città ed è stato finanziato con le loro 50 lire, non con un grande finanziamento politico. Nel monumento ho voluto che ci fosse la frase di una lettera di mio padre “Io non impreco e non chiedo a nessun dio nessuna punizione, io che ho tanto amato la vita chiedo ad essa quello che qualche volta mi ha dato, la soddisfazione di vedere pentiti coloro che ci hanno fatto del male”. Lui non conosceva la parola odio, non portava odio a nessuno. Miraglia non era il fanatico politico con sogni di rivoluzione armata, ma era un uomo che ha sempre messo il bene degli altri di fronte al suo. Il suo motto “Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”, tratto da un’opera di Hemingway, fu utilizzato anche da Che Guevara anni dopo e oggi, Papa Francesco dice cose che avrebbe detto anche mio padre. Questo non perché siano ispirati direttamente da lui, ma perché il bene parla una sola lingua.

Purtroppo, per cinquant’anni, ho visto passeggiare l’assassino di mio padre in giro per Sciacca. La nostra è un’Italia dove la verità non viene mai resa nota e quindi io sono sempre in prima fila per raccontarla e per raccontare Accursio Miraglia, la sua storia, i suoi sogni e la sua lotta. Ho una grande responsabilità, ma che porto con molto orgoglio. Mi faccio testimone della storia di mio padre, di un uomo che ha dedicato la sua vita agli altri. Il suo ultimo comizio si concluse con questa frase: “Non è colpa nostra se qualcuno non lo arriva a capire, non arrivi a capire cioè che ci sia, ogni tanto, qualcuno disposto anche a morire per gli altri per la libertà, per la giustizia”.

Sapeva che lo avrebbero ammazzato. Quando mia madre gli diceva “Ma Accursio tu hai tre figli” lui le rispondeva “Sì, hai ragione, ma oltre a tre figli ho tutti i poveri della Sicilia, devo pensare anche loro” e al suo “Sì ma ti uccideranno”, Accursio rispondeva “Sì, uccideranno me, ma non la mia storia”. Infatti, tutt’ora esiste la cooperativa Madre Terra, una scuola porta il suo nome, così come molte strade e tanti sono i modi in cui viene ricordato. Nella zona alta di Sciacca, dove vivono i vecchi contadini, alla domanda “chi era Accursio Miraglia?” loro rispondono piangendo. In loro e in tutta la città, infatti, il ricordo di mio padre è ancora indelebile, perché come Miraglia oggi è ancora un simbolo, come previsto da lui stesso nel suo comizio finale “attento però a questo qualcuno che da sprovveduto e morto non diventi un simbolo molto ma molto più grande e pericoloso”.

 

 

 

 

 

 

 

 

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