4 Settembre 1990 Calanna (RC). Ucciso Angelo Versaci, vigile urbano di 43 anni.
[…] Un vigile urbano viene ammazzato anche a Calanna, un piccolo comune aspromontano a due passi dalla città di Reggio Calabria. È la sera del 4 settembre 1990 e Angelo Versaci, quarantatre anni, dopo avere passato il pomeriggio con la moglie Annamaria Catalano, dipendente dell’ufficio postale, torna in paese. Ha voglia di spensieratezza, va al bar dove ci sono gli amici. Gioca al biliardo, poi ne approfitta per una partita a carte come spesso si fa nei paesi. All’ora di cena torna verso casa. suona il citofono, Annamaria gli risponde, va ad aprire. Proprio in quel momento un killer si avvicina e gli spara contro tre colpi di fucile: uno va a segno sulla spalla, gli altri due lo centrano alla testa. […]
Tratto da Dimenticati – Vittime della ‘ndrangheta di Danilo Chirico e Alessio Magro
Articolo di La Stampa del 13 Settembre 1990
Solo silenzio sui morti d’Aspromonte
di Paolo Guzzanti
Solo silenzio sui morti d’Aspromonte – Viaggio a Villa San Giovanni: dall’inizio dell’anno cinque delitti, ma nessun colpevole – Solo silenzio sui morti d’Aspromonte – La parola d’ordine è omertà, chi sgarra viene ucciso
VILLA SAN GIOVANNI. Si avvicina, mentre cerco il luogo in cui l’hanno ucciso, e mi sussurra: «Era arrogante, sempre con quella pistola in tasca, sempre a strombazzare che lui non aveva paura di nessuno. E si vede che quelli lì l’aspettavano, non ne potevano più». Si allontana un po’. I ragazzini che giocano nel giardino della chiesa si fermano un attimo, come se si aspettassero anche loro una rivelazione. E il signore distinto che abita a pochi metri dal punto in cui martedì mattina Pietro Laface è stato fucilato con la lupara, allontanandosi ancora sussurra in modo impercettibile: «Per sapere chi l’ha fatto ammazzare, bisognerebbe chiederlo a quegli assessori». Da una porta con la tenda, si affaccia una donna vestita di nero e una ragazza con gli occhiali. Chiedo al mio interlocutore, con il tono della massima discrezione: quali assessori? Spalanca gli occhi e fuggendo a piccoli passi biascica: «Voci, voci, le solite voci». Giustizia paralizzata Salgo la minuscola Via dei Garibaldini: terra, polvere, sassi e fichi d’india. La donna vestita di nero ha un secchio rosso pieno d’acqua sporca e fa il gesto di vuotarlo sul terrazzino. Le chiedo se è la suocera dell’ucciso. Risponde con voce di panico: «Sì, ma se ne vada via. I bambini dormono e io devo lavare». Dunque, è la madre della moglie di Pietro Laface, che aveva la pistola in tasca e che è stato fucilato con ferocia: due colpi ai fianchi, e poi urla mentre correva perdendo sangue. Un colpo ancora nella schiena e un ultimo mentre scalciava per terra. Pallettoni con fucile a canne mozze. Schianti di tuono: tutta Villa San Giovanni ha sentito quei terribili colpi. Un investigatore che mi ha supplicato di non nominarlo, mi ha appena detto: «Omertà assoluta, strapotere totale della mafia, impunità garantita, giustizia paralizzata, silenzio generale, morte per chi sgarra». Omertà assoluta. E’ vero. Questa donna ha visto suo genero alle sette e mezza del mattino riverso nel fango del suo stesso sangue rantolare e poi morire. Ha in casa suo figlio. Ma se potesse negherebbe anche di conoscerlo: «E che ne so io di mio genero? Che ne so dei fatti suoi? Abitava lontano, a Villa Mesa. Adesso vada via che devo lavare». E vuota per la seconda volta il secchio d’acqua su macchie che vede soltanto lei. Mi dice un poliziotto: «Qui hanno tutti il porto d’armi. Se gli levi l’arma, si sentono finiti». Quanto a lui, la vittima, l’assassinato, era armato ma risultava che fosse una persona per bene: mai una chiacchiera, mai un impiccio con la giustizia. Piccolo imprenditore, certo: lavorava con appalti, ma robetta. Però questa non è Italia: qui siamo alle pendici della «Libera Repubblica d’Aspromonte» e anche la robetta, gli affarucci da dieci, cento milioni, devono seguire il loro corso, cioè il corso della mafia. E la mafia, in questa parte della libera repubblica d’Aspromonte ha anche un reuccio, un re fuggiasco che si chiama Nino Imerti, latitante storico, scampato al terribile attentato con autobomba di cinque anni fa (tre morti) che in un certo senso lo ha santificato. Imerti è alla macchia e fa, disfa, comanda, condanna. Chi può dire quale infrazione avrà mai compiuto nel feudo dei reucci mafiosi il disgraziato Laface che si illudeva, figuriamoci, di potersi difendere con una pistola in tasca? E chi può dire per che cosa sono morti gli altri? Qui, a Villa San Giovanni, a pochi metri dall’imbarco dei grandi traghetti che inghiottono treni, autocarri e automobili, regna un medioevo cupo e tuttavia danaroso, in cui la Repubblica Italiana non entra. Gli altri morti recenti sono Antonino Lisi, «piazzalista» dei traghetti Caronte, ammazzato il ventisei gennaio di quest’anno; il vicesindaco di Villa San Giovanni, Giovanni Trecroce, fucilato sotto il Municipio da cui usciva al termine del Consiglio comunale; l’architetto Pietro Princi (il quale girava anche lui armato su un’Alfa 164), ucciso a marzo; e per ultimo, nel mese di giugno, Francesco Salzone, titolare di autoservizi, che i carnefici vennero a prendere mentre se ne stava tranquillo a guardare la televisione. Nessuno di questi delitti è stato punito. Anzi, i crimini non sono stati neppure decifrati. E gli uccisi, inoltre, non si aspettavano di essere stati condannati a morte. L’anonimo inquirente osserva: «Ormai si uccide per niente, o per pochissimo. La vita umana non vale più di qualche milione, talvolta centinaia di migliaia di lire. La sfrontatezza della malavita non conosce limiti». Ciò spiega perché persino la suocera dell’ucciso desideri semplicemente dimenticare di aver conosciuto il suo stesso genero. Da Villa San Giovanni a vedere i funerali di Pietro Laface. Il suo paese è in montagna, dopo venti chilometri di forre di agrumeti, fichi d’india, colli coperti da grandi ulivi con le foglie argentate. L’aria è fresca e in lontananza tintinna la campana a morto della parrocchia di Cavanna. Il furgone funebre, vuoto, precede gli adolescenti maschi dai precoci baffetti, che portano ciascuno una piccola corona inchiodata su un trespolo di legno. La strada è stretta, le macchine si fermano, i furgoni ronzano ai lati senza spegnere il motore. Dietro ai ragazzi, la bara portata a spalla e coperta di gladioi. Poi la moglie e i parenti stretti in macchina. Quindi tutti gli uomini del paese, poi tutte le ragazze, quindi tutte le vecchie e per ultimi gli uomini adulti che avanzano sciattamente chiacchierando, ridendo, con le mani in tasca. La strada è coperta di fiori: garofanini rossi legati a steli di plastica neri. La folla calpesta fichi d’india che formano poltiglie rosate. La gente evita i poliziotti La campana suona, la bara entra in chiesa, una chiesina di cemento armato, orrenda dalle pareti bianche con le immagini della Via Crucis. Le donne entrano, gli uomini restano fuori aspettando che apra un piccolo emporio senza insegna che fa anche il caffè. Si vedono anche facce di poliziotti e la gente li sbircia e li evita. Il prete sull’altare ha gli occhiali da sole, i paramenti viola e un microfono appeso al collo che fa gracchiare gli altoparlanti. Le donne si accalcano e si siedono. Il sacerdote dice: «Chiediamo perdono a Dio se non siamo stati operatori di pace e di giustizia». Usa proprio il termine «operatori», come se si parlasse di netturbini o agenti di viaggio. Poi si toglie il microfono. A occhio e croce qui di operatori di pace e di giustizia non ce n’è neanche uno. Il morto se ne sta tranquillo sotto i suoi gladioli; la suocera seguiterà a tirare secchiate d’acqua e i passanti seguitano a dire che quello là era un tipo arrogante perché diceva di non aver paura di nessuno. Lungo la strada che porta alla chiesa si legge un’altra partecipazione funebre appiccicata al muro e che risale a una settimana fa: «Stroncato barbaramente da uomini crudeli Angelo Versaci di anni 43 è stato strappato ai suoi cari in Calanna». Chi sarà Angelo Versaci e di quanti Angelo Versaci e Pietro Laface e Pietro Princi e Giovanni Trecroce è fatta la cronaca minore di questa Italia da camera ardente e da discarica, il cui sangue non fa neppure notizia? Reggio Calabria aspetta i miliardi dell’ultima innaffiata mentre le belve già ringhiano e si uccidono intorno al malloppo. Non c’è traccia di miseria, tutt’altro, semmai soltanto di caos e arroganza, sottomissione e voglia di non vedere e non sapere. E poi, vedere e raccontare, a che scopo? Deposizioni e delitti diventano tonnellate di pratiche inevase, fascicoli defunti come gli uomini cui si riferiscono.
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Versaci finì nel mirino dei killer a sera, proprio davanti casa, per essersi messo di traverso rispetto a dinamiche poco limpide. Ma ancora oggi il delitto è avvolto nel silenzio.