5 aprile 1976 Palermo. Ucciso Salvatore Buscemi, 28 anni, non sottostava alle leggi della mafia.

Salvatore Buscemi, ventotto anni, venne ucciso dalla mafia a Palermo il 5 aprile del 1976. Il ragazzo venne “punito” per essersi introdotto nell’attività di contrabbando di sigarette senza affiliarsi a nessuna delle cosche mafiose che controllavano all’epoca questa attività.
Si trovava in un locale con uno dei suoi fratelli quando due uomini incappucciati entrarono e gli spararono. Lascia moglie e quattro figli.
Sua sorella Michela, fu tra le poche donne a costituirsi parte civile nel Maxi Processo.

Fonte:  vivi.libera.it

 

 

 

Fonte: iltarlopress.it
Articolo del 1 Settembre 2015
Incontro con Michela Buscemi, la donna audace che sfidò la mafia
di Serena Saputo

Ventinove anni sono passati da quel giorno in cui Michela Buscemi entrò in quella grande aula a chiedere giustizia per i suoi fratelli uccisi dalla mafia. Erano gli anni 80 e la mafia seminava morti, ammalava la Sicilia come un cancro in metastasi.  Nel febbraio del 1986 iniziò quello che passò alla storia come il primo maxiprocesso che vedeva gli imputati rinchiusi dentro celle come le bestie. Si dimenavano, si professavano innocenti, invocavano il “buon Dio” ma le loro mani erano state in grado di immergere corpi umani in vasche di acido.
Michela Buscemi, palermitana e prima di dieci figli, aveva perso due dei suoi fratelli: Salvatore nel 1976 e Rodolfo nel 1982.

Salvatore voleva essere libero, Rodolfo voleva combattere. Erano entrambi giovani e innocenti. Michela che amava i suoi fratelli come figli non ha esitato a costituirsi parte civile, e abbandonata dalla sua famiglia di origine che non ha appoggiato la sua scelta, ha deciso da donna libera e coraggiosa come poche di diventare la prima “collaboratrice di giustizia” e vivendo da quel giorno in poi accanto all’idea di una possibile morte imminente. Ma Michela non è stata solo una vittima di mafia, la sua vita è stata intrisa anche di altri dolori, molestata dal padre dall’età di 12 anni e mai amata dalla madre, ha conosciuto una violenza continua e una miseria non solo economica ma soprattutto morale. Michela adesso è una donna di 75 anni, è una persona che definisce “normale” la sua azione contro la mafia, è un’attivista italiana, fa parte dell’Associazione “Rita Atria – Donne contro la Mafia”, ha scritto un libro intitolato “Nonostante La Paura” edito da La Meridiana e pubblicato nel 1995. Noi de “Il Tarlo” abbiamo deciso di incontrarla, a Balestrate dove vive da anni, e questa è l’intervista che abbiamo deciso di riservarle, perché il suo coraggio e il suo spirito ribelle possano essere d’esempio. Semplicemente perché la dignità va raccontata.

Le risposte della signora Buscemi sono riportate fedelmente come da lei esposte durante il nostro incontro.

 

Signora Buscemi, lei è una vittima di mafia per l’uccisione dei suoi fratelli Salvatore e Rodolfo. Perché la mafia li ha uccisi?

Il primo ad essere stato ucciso è stato Salvatore (n.d.r. 5 Aprile del 1976), si era sposato ed era andato ad abitare nel quartiere Sant’Erasmo, (n.d.r. dove vi era insidiata la cosca mafiosa dei Marchese), siccome era disoccupato si  è  introdotto a fare contrabbando di sigarette, però mio fratello lo ha fatto senza il permesso della mafia, perché allora era la mafia che faceva queste cose, contrabbando eccetera, siccome mio fratello non era un mafioso, lui lo faceva per i fatti suoi e allora la mafia non gliel’ha permesso. Una sera mentre si trovava insieme ad un altro mio fratello, Giuseppe, e con parenti e altri amici, se ne dovevano tornare a casa quando ad un tratto, ci raccontò questo mio fratello superstite, che ha visto entrare due incappucciati, uno con la lupara e l’altro con la calibro 38. Lui non ha avuto neanche il tempo di formulare un pensiero, come per dire «cos’è una rapina?» che subito ha visto cadere Salvatore sotto i colpi della 38 mentre l’altro gli sparava un colpo al mento e uno all’addome.  A lui (n.d.r.  a Giuseppe) hanno sparato un colpo per farlo spaventare, lo hanno colpito nell’anca

 

Lei si è costituita parte civile nel maxiprocesso dell’86 senza l’appoggio e la partecipazione della sua famiglia d’origine. Ha compiuto un vero atto di coraggio e di libertà, che ricordi porta con sé di quel periodo?

Brutti. Più che altro la situazione è stata terribile per la famiglia originaria, per quello che ho dovuto subire da loro perché mia madre non voleva costituirsi parte civile e io dicevo: «come? io da sorella sì e tu da madre che ti hanno ucciso due figli, Salvatore di ventotto anni e Rodolfo di ventiquattro, non ti costituisci parte civile?». A un certo punto mentre eravamo per telefono per fortuna mia e sua, io insistendo le ho detto: «scusa ma che cosa hai nelle vene, acqua invece di sangue?» e allora lei mi ha detto: «speramo a Dio, u stessu duluri a pruvari, ai to figghi t’annu ammazzari!». A queste parole non ci ho visto più, non so cosa ci ho detto per telefono perché mi sono bloccata e così ho deciso di proseguire per la mia strada e fare finta che erano tutti morti in una strage perché erano tutti d’accordo, le mie sorelle, i cognati e gli altri miei fratelli. Sono trent’anni che per me quella famiglia l’ho cancellata

 

Lei infatti nel suo libro intitolato “Nonostante la Paura”, ha definito sua madre come una “matruzza” incapace di avere coraggio e di difendere i suoi figli. Ma perché anche i suoi fratelli e le sue sorelle hanno reagito allo stesso modo?

Per paura. Io capisco che uno può avere paura, non pretendevo che si mettessero… diciamo, che si costituissero parte civile tutti quanti ma far sì che almeno la madre si costituiva parte civile insieme a me, no che invece mi hanno attaccato tramite i giornali, mi ha madre mi ha attaccato tramite i giornali dicendo che ero pazza!

 

Potremmo dire che lei è stata l’unica ad avere una reazione da “madre” nei confronti di quelli che invece erano suoi fratelli

Sì, perché io essendo la maggiore (n.d.r. di dieci figli) li ho cresciuti io ai miei fratelli, mia madre li partoriva e appena l’ostetrica se ne andava ci cominciavo a badare io. Specialmente a Rodolfo che era il terz’ultimo. Per me Rodolfo era il mio “coccolino”, il mio preferito, c’erano diciotto anni di differenza, per me era come un figlio, perciò compravo le cose per lui, i vestitini e lui mi ricambiava con tanto affetto. Quindi poi la sua morte è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso

 

Rodolfo, perché è stato ucciso anche lui?

Perché Rodolfo stava indagando sugli assassini di Salvatore. Quando Salvatore è morto Rodolfo aveva 18 anni e stava con me che studiava per geometra e mio padre non voleva che studiava, voleva che andava a lavorare perciò stava da me. Così quando Salvatore è stato ucciso lui ha voluto indagare sugli assassini e portare le prove alla giustizia, tutto quà. Loro però (n.d.r.  i mafiosi del clan dei Marchese del quartiere Sant’Erasmo) hanno capito che lui stava indagando e prima ha ricevuto le minacce da Vincenzo Sinagra (n.d.r.  futuro pentito di mafia) che gli ha detto di allontanarsi dal quartiere che era meglio per lui, Rodolfo però ha continuato. Quel giorno si trovava con Matteo (n.d.r. Rizzuto, 18 anni, fratello di Rosetta, moglie di Rodolfo) da Benedetta (n.d.r. la vedova di Salvatore) per sistemare un lampadario, lo hanno chiamato sotto casa con una scusa di lavoro e Benedetta ci ha raccontato che lei li stava guardando dal balcone quando a un certo punto è squillato il telefono ed è rientrata, quando è uscita di nuovo in balcone loro non c’erano più, erano spariti. Da allora per un anno e mezzo non abbiamo saputo che fine avevano fatto tutt’e due, solo quando c’è stato il processo abbiamo saputo come e perché. Io in quel periodo ero con il pancione e insieme a mio marito andavamo a Corleone per le campagne a cercare dentro i contenitori perché pensavo che il corpo si trovava da qualche parte, a volte mi sembrava di vedere qualcuno che somigliava a mio fratello e lo seguivo ma non era mai lui. Ho saputo tutto dopo, durante il maxiprocesso quando Sinagra ha detto che fine avevano fatto, ha detto che li avevano portati nella “camera della morte” che si trovava sotto l’edificio dove abitava Benedetta nel quartiere Sant’Erasmo, c’erano dei magazzini di conservazione di pesce salato ma all’interno nascosta in fondo c’era questa camera dove torturavano e uccidevano le vittime, le scioglievano nell’acido. Nel caso di mio fratello e suo cognato, prima li hanno strangolati e siccome l’acido come disse Sinagra, non era di buona qualità, li hanno buttati a mare. E questa è stata la fine di Rodolfo e Matteo

 

In quel periodo lei ha ricevuto diverse minacce, le hanno messo una bomba nel bar che gestiva con suo marito. Come avete reagito a questo accaduto?

Io ero incinta di Michela di otto mesi, quella sera (n.d.r. il 31 Ottobre 1982, quattro mesi dopo la scomparsa di Rodolfo) arriva la telefonata, io abitavo a Borgo Nuovo, io e mio marito siamo scesi al bar e abbiamo trovato tutto devastato, allora mi sono detta: «beh, calma e sangue freddo, non voglio perdere la bambina» , così è venuta mia madre e insieme ad altri miei fratelli abbiamo raccolto tutti i cocci durante la notte. Poi l’indomani mattina è venuta mia cognata Benedetta, la vedova di Salvatore, con la macchina che stava portando Rosetta all’ospedale perché da quando aveva partorito l’ultimo figlio non voleva mangiare, le ho detto di farla scendere dalla macchina ma lei non aveva neanche la forza di camminare. Era rimasta la macchinetta del caffè intatta e perciò ci ho fatto un caffè e poi il pasticcere ha portato i cornetti, ci ho dato un caffè e un cornetto ma appena li ha mangiati ha rimesso tutto, il suo corpo non era più abituato a mangiare. Quella è stata l’ultima volta che ho visto Rosetta viva, l’hanno ricoverata due giorni dopo per un’epatite virale fulminante

 

Si stava lasciando morire…

Sì, si stava lasciando morire perché per lei suo marito era tutto, era marito, fratello, amante, tutto, si è vista abbandonata. Povera ragazza, ventun anni. Rodolfo è stato ucciso a maggio e lei è morta il 7 novembre. Aveva partorito a ottobre e ha lasciato un bambino di 35 giorni e una bambina di due anni e mezzo! Anche lei indirettamente è stata una vittima della mafia

 

Mi scusi ma perché questo attentato al suo bar? Il processo inizia nell’86 mentre questo accade nell’82, dopo la scomparsa di Rodolfo. Stava già indagando sugli assassini dei suoi fratelli?

Allora, io conoscevo un maresciallo della Criminalpol che abitava vicino a dove avevo il bar, questo maresciallo quando c’è stato l’omicidio di Rodolfo giusto giusto si trovava a Roma, quando è ritornato io l’ho chiamato e abbiamo parlato, gli ho detto che le due vedove Rosetta e Benedetta conoscevano gli assassini perché vivevano nello stesso quartiere, si davano del ‘tu’ figuriamoci, io invece non li conoscevo, li conoscevo per soprannome e per sentito dire. All’epoca c’era come vicequestore a Palermo Ninni Cassarà e perciò lui mi disse: «parlerò con Ninni Cassarà e facciamo finta che è venuto a lui in mente di chiamare le due vedove», lo hanno fatto ma loro non hanno parlato, non hanno detto niente, loro hanno fatto solo la denuncia con mia madre quando è scomparso Rodolfo ma non hanno detto niente che sospettavano dei Marchese. Perciò io come potevo fare che invece a me avevano raccontato tutto?  Così mi ero messa a cercare, a parlare con questo maresciallo di nascosto mentre si prendeva il caffè al bancone, fin quando mi hanno messo questa bomba. Come l’hanno saputo (n.d.r. che parlava con questo maresciallo) non lo so! Quando ci parlavo mica c’era nessuno! Non lo so, forse l’hanno fatto per intimidire tutta la famiglia? non lo so

 

Però quando poi lei si costituisce parte civile e diventa a tutti gli effetti una “collaboratrice di giustizia”, arriva un momento in cui decide di ritirarsi dal processo perché vengono minacciati anche i suoi figli.

Sì, arriviamo a questo punto quando è cominciato il processo d’appello. Si avvicinava la Pasqua, una sera mi arriva una telefonata, una voce camuffata mi ha detto: «signora si ritiri dal processo se no prima di Pasqua avrà un morto in famiglia» e mi blocca il telefono. Fino a quel momento delle altre minacce non avevo detto niente a nessuno, ero entrata a far parte dell’Associazione Donne contro la mafia, e le altre mi incoraggiavano e mi confortavano, ma stavolta l’ho dovuto dire a mio marito e lui mi ha supplicato di smettere perché non avevamo paura per noi ma per i nostri figli, così sono andata dal mio avvocato e lui stesso mi ha consigliato di ritirarmi per evitare altre vittime innocenti. Così mi sono ritirata ma prima sono voluta andare in aula per spiegare i miei motivi, che mi sembrava una cosa normalissima, a quanto pare però non era una cosa normale perché la stampa si interessò del mio caso, dopo pochi giorni mi chiamò il giudice Ayala che voleva sapere, l’avvocato Fragalà che disse: «la signora con le sue parole ha gettato un’ombra su questo processo!», un altro procuratore mi disse: «signora, se ognuno di noi gettasse la spugna, come andrebbe a finire?», ma poi il mio avvocato ha preso le mie difese ma comunque all’uscita dal tribunale sono stata assalita dai giornalisti. Ma lo sa la paura che io avevo quando andavo al processo? Io avevo una cinquecento che con un pugno si apre! Non mi portavo mai a nessuno per paura che ci mettevano una bomba, mi ricordo che prima di aprire lo sportello ci pensavo cinque volte, prima di inserire la chiave ci pensavo dieci volte, con tutto quello che si sentiva dire in quel periodo

 

Nonostante il suo ritiro dal processo però la sua battaglia è continuata. Ha ricevuto comunque giustizia per i suoi fratelli?

Si in effetti ho ricevuto giustizia perché ci sono state delle condanne pesanti, non erano condannati solo per i miei fratelli perché man mano hanno scoperto tanti altri omicidi, c’erano 470 imputati, le varie cosche

 

Torniamo al suo libro “Nonostante La Paura”. Lei in questo testo ripercorre la sua storia sin dall’infanzia e racconta che prima di diventare una vittima di mafia, lei è stata vittima di molestie da parte di suo padre e di soprusi in famiglia. Com’è stato vivere in un clima così traumatico?

È stato molto brutto, ha cominciato quando io avevo appena dodici anni e poi diceva (n.d.r. il padre) che non dovevo dire niente a mia madre, però non è mai arrivato dove voleva arrivare perché per fortuna li voleva consenzienti i figli! Poi ci ha provato con tutte, non ci ha provato solo con me, io ero la prima e sono stata perseguitata fino a 21 anni quando sono andata via di casa, sono scappata. La notte mi veniva a “disturbare’” sempre, dormivo con un occhio solo perché poi la casa era pure piccola, quando poi ci hanno dato un’altra casa, una casa popolare con quattro stanze, mi sono detta: «finalmente abbiamo una stanza per me e mia sorella e mi posso chiudere a chiave», ma lui un giorno ha fatto sparire le chiavi, così poteva venirmi a “disturbare”.  A diciassette anni non ce l’ho fatta più e l’ho detto a mia madre, in un primo tempo lei mi ha fatto capire che mi credeva, ma poi si è fatta convincere da lui e anzi, mi sono fatta una nemica perché lei era diventata, non so come dire, tipo gelosa di me, mi diceva parolacce! Insomma ho capito che di questa donna non mi potevo fidare e dovevo badare agli altri figli, dovevo proteggerli quindi man mano che crescevano gli dicevo: «quando c’è papà solo a casa e la mamma non c’è state attenti, non ci state vicino!».  Questo mi ha fatto perdere la fiducia negli uomini, quando mi sono sposata con mio marito, noi ci siamo sposati per amore, abbiamo festeggiato le nozze d’oro si figuri, poi sono arrivati i figli e io di nascosto controllavo il comportamento di mio marito. Lui però era una perla e non sapeva niente (n.d.r. delle molestie subite dal padre), l’ha saputo quando è stato pubblicato il libro perché io non gliel’avevo detto all’inizio per paura che lui poi non mi lasciava andare a trovare i miei fratelli e le mie sorelle

 

A proposito del suo libro, cosa l’ha spinta a raccontare la sua storia e a mettersi a nudo, e soprattutto a rivelare questi aspetti della sua vita?

È stato il desiderio. Fin da ragazzina quando ho scoperto le intenzioni di mio padre avrei voluto scrivere su questa cosa, volevo portare questo messaggio alle ragazze che in famiglia subiscono queste cose e non hanno il coraggio di ribellarsi. Sentivo dei racconti tra le altre persone che si nascondevano, zitti perché era stato lo zio, il cugino, ma io volevo raccontare la mia storia per essere di aiuto. Così è passato tempo e poi l’ho scritto molti anni dopo il processo, parlando pure dei miei fratelli e della mia lotta alla mafia

 

Ecco signora Buscemi, lei che è stata non solo vittima di mafia ma anche di molestie, e che ha vissuto sulla propria pelle cosa significava nascere “femmina” in un periodo in cui le donne non avevano nessuna voce in capitolo sulla propria vita, cosa si sente di dire a tutte le donne e le ragazze che vivono situazioni del genere in famiglia, e che molto spesso non hanno il coraggio di ribellarsi, di denunciare o anche semplicemente di parlarne con qualcuno?

Dico a queste ragazze che non devono avere paura e devono trovare il coraggio di ribellarsi e non soccombere a queste molestie in famiglia o anche fuori dalla famiglia, è importante. Io quando mi sono decisa, io volevo attirare l’attenzione di mia madre, siccome allora non avevamo la luce elettrica, ho bevuto il petrolio del lume, ma lei niente, la seconda volta mi sono bevuta un po’ di candeggina, mi sono sentita malissimo, ma mia madre mi ha detto: «ma vulevi moriri? l’acido t’avevi a biviri no a candeggina!», a queste parole tu che pensi? che ci andavo a dire qualche cosa? Ecco perché io ho scritto “matri, matruzze e matrazzi”, la differenza qual è? le madri difendono i figli a costo della vita, le matruzze fanno i figli per modo di dire senza curarsene, i matrazzi sono quelle che li abbandonano, o che li uccidono. Mia madre era una matruzza, i figli li ha fatti ma poi non li accudiva, non li difendeva. E non li difendeva da vivi figuriamoci da morti! Però dico, può darsi che ci sono ancora madri come la mia che non ti puoi fidare, però ci sono madri che ascoltano i figli, che li amano, se hanno una madre che li ascolta devono parlare e farsi aiutare

 

Ma secondo lei il coraggio si può “imparare”, o coraggiosi si nasce?

Penso che forse coraggiosi si nasce. Io sono sempre stata così, quando ho una cosa da dire la dico, si dice:”megghiu perdiri n’amico ca scattarimi u viddicu!”, questo è un detto palermitano. Ho sempre avuto questa cosa di dire le cose in faccia senza paura, se mi faccio una nemica va bene, se invece tu mi apprezzi che te lo dico davanti vuol dire che…ma molti non l’apprezzano!

 

Giovanni Falcone ha detto: “la mafia è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà pure una fine”. Lei crede a questa affermazione?

Sì che ci credo, come ha un inizio avrà una fine. Ci credo perché la mafia se noi vogliamo la possiamo sconfiggere, infatti io ho scritto la poesia “A morti ra mafia”, se leggi nell’ultima pagina (n.d.r.  mi indica il suo libro che tengo tra le mani). È un sogno ma io spero sempre che questo sogno si possa avverare un giorno, anche quando io non ci sarò, anche se sarebbe bello vederlo, ma non siamo eterni

 

Come si può sconfiggere la mafia?

Eh come si può sconfiggere, impegnandoci tutti. Cominciando dalle piccole cose. Ecco perché io vado nelle scuole dove vengo chiamata a parlare della mia esperienza. Sono stata nel nord Italia ma anche all’estero, Svizzera, Germania, le mie interviste sono arrivate persino in Giappone, in Cina, nel Cile pure!

 

 

 

 

Fonte: statoquotidiano.it
Articolo del 9 marzo 2012
Vite di lupara. Buscemi: in ogni parola il mio cuore

Manfredonia – MICHELA Buscemi, figlia del coraggio scrive: “Fu una sera di primavera, il 5 aprile 1976. Salvatore il primo dei miei fratelli fu ucciso a colpi di lupara

”. La morte e la fame della Palermo del dopoguerra sono narrate attraverso il suo sguardo intenso di donna e di madre. Piovono così i ricordi e i suoni del passato, il cantico del suo cuore raggiunge così i nostri, ammutoliti dalle piaghe della sofferenza. Restano pagine bagnate dalle lacrime, lucenti come l’alba della ribellione interiore.

NONOSTANTE LA PAURA. È un’opera scritta dal coraggio di chi non ha rinnegato la paura di perdere la propria vita sotto i colpi della violenza domestica e le minacce della mafia. Michela Buscemi si è costituita parte civile al primo maxi processo di Palermo per denunciare la morte dei suoi fratelli, Totò e Rodolfo.

L’INFANZIA PERDUTA. Michela dichiara: “Ho scritto questo libro per i giovani, per dare un messaggio a chi soffre. Col nostro silenzio la mafia diventa sempre più grande. Come vincerla? Attraverso i piccoli gesti della vita quotidiana: dare precedenza nel traffico a chi ne ha diritto, fare lo scontrino, essere onesti con se stessi e con gli altri”. Le parole della narrazione si legano con la sua voce dal forte accento siciliano: “Era il 1947, avevo otto anni, quando iniziò la mia vita in quella casa senza cucina e senza bagno. Non avevamo né luce né acqua, usavamo il lume a petrolio, oppure una candela, si cucinava con il carbone”. Il buio e poca luce, così anche la sua piccola vita era povera degli abbracci dei genitori. Una povertà assoluta e spietata.

Descrive: “Volevo andare a scuola, ma i miei genitori me lo impedivano, dovevo restare a casa per accudire i bambini. Durante l’inverno eravamo senza scarpe, maglie e abiti, infreddoliti e affamati. Dovevo fare la servetta presso una famiglia, i miei genitori mi vendettero per un mese. Avvertii la prima volta la sensazione dell’abbandono”. In sala il silenzio.

LA VIOLENZA DEL PRIMO NEMICO: MIO PADRE. “Linneda! Tua madre sta morendo, corri a comprare il ghiaccio!” gridò mio padre. Tornai a casa col ghiaccio. Mia madre stava morendo di setticemia. Eravamo dieci figli e in più ventisei aborti procurati. Quando il dottore e l’ostetrica uscirono, li guardai con odio, li ritenevo responsabili di tutti gli aborti di mia madre. L’ultimo aborto era di cinque mesi. Mia sorella di nove anni andò a curiosare. Il feto era piuttosto grande che lo sistemarono in una scatola di scarpe”. Michela Buscemi si racconta con disarmante semplicità: “Linneda, domani mattina alle cinque verrai con me a prendere il vino a Terrasini”.

“Ero felice per questa proposta di mio padre. Ad un tratto fermò il motore e m’invitò a scendere. All’improvviso mi abbracciò stretta stretta. Cercava di baciarmi sulla bocca e continuava a biascicare parole all’orecchio. Con un braccio mi teneva e con l’altra mano si slacciava la cinghia dei calzoni. Mi misi a correre tra le lacrime. Feci un balzo sul muretto e gli gridai singhiozzando che avrei preferito morire sfracellata sulle rocce piuttosto che accontentarlo. Non era più mio padre, ma un nemico dal quale difendermi. Ogni notte dormivo con un coltello sotto il cuscino e un manico di legno”.

MATRI, MATRUZZI E MATRAZZI. La morte ha sempre vegliato col suo sguardo cupo sulla giovane vita di Michela Buscemi che tentò il suicidio prima sorseggiando il petrolio della lampada, poi la candeggina. La ferma volontà di lottare ha prevalso sugli impeti del sopruso. “Era nel dicembre 1985 quando ricevetti la lettera per presentarmi al maxiprocesso. Incoraggiai mia madre a costituirsi parte civile. Poi mi confessò di avere paura e di non voler mettere piede in Tribunale. Era la madre vigliacca di sempre, incapace di difendere la famiglia e i miei fratelli prima da mio padre, ora dalla mafia.

Ci sunnu matri, matruzzi e matrazzi, recita un proverbio siciliano. Le matri sacrificano la vita per i propri figli, le matruzze sono povere dentro, incapaci di difenderli, le matrazze abbandonano i figli”. “Ho impresse nella memoria le testimonianze di Buscetta, Contorno e di Sinagra. Ricevetti diverse minacce da parte della mafia e restai sola contro tutti, compresa la mia famiglia di origine. Ora faccio parte dell’Associazione Donne contro la mafia e il Centro Impastato che mi hanno sempre sostenuto in questa battaglia”. Tra la solitudine e la solidarietà, tra la paura e il coraggio ritrovato Michela Buscemi insieme a numerose donne, ha continuato a lottare contro la mafia, sulle ceneri della morte ha preferito riscrivere la sua vita di donna. La forza delle parole ha imprigionato la paura, ha sconfitto gi assassini dei suoi fratelli, ha castigato il malaffare. Come di riflesso l’onnipotenza delle parole incute terrore alle bocche fumanti delle armi.

A MORTI RA MAFIA. Un inno alla giustizia e alla speranza è la sua poesia “La morte della mafia”. L’altro giorno mi sono svegliata, sentivo una grande confusione intorno. Ho pensato . “Ne hanno ammazzato un altro”. Mi sono affacciata spaventata, ma ho visto un mare di gente che cantava felice. “Che succede?”. “Come non lo sai?” “La mafia è morta”! Vieni, scendi anche tu, stiamo celebrando i funerali. Questa volta non si piange, si ride e si canta. “Vieni, scendiamo a seppellirla!”.

mariapia.telera@statoquotidiano.it

 

 

 

Articolo da “Casablanca – Storie dalle città di frontiera”
Michela Buscemi Una donna del popolo libera e orgogliosa
di Graziella Proto
Dopo la prima testimonianza nel suo bar non ci andò più nessuno. Isolata da tutti, ha condotto la sua guerra con il solo appoggio del marito, un uomo dolcissimo che paga la sua scelta d’amore con la disoccupazione a vita. Un sacco di libri sulla sua storia, convegni, incontri, interviste. Adesso stanno per girare una fiction sulla sua vita e sul suo coraggio, ma lei povera era e povera è rimasta.

All’appuntamento la troviamo già lì ad aspettarci. Completo pantalone nero, alta, bruna, due occhi scuri che scrutano in profondità. Ti sorride subito ed immediatamente il suo viso si illumina. “Alla fine del mese – racconta – ho un incontro con un regista che vuole girare un film sulla mia storia … e poi andrò in una scuola di Perugia, Padova, Aosta… poi alla presentazione del libro di Nando… e poi…”, “ma ti danno una percentuale sui libri che pubblicano su di te? – la interrompe l’amica che è andata a prelevarla all’appuntamento – Di solito si fa così – le dice. E lei subito “no, mi danno copie di libri, io li regalo – dice – non posso tenerli tutti non avrebbe senso – aggiunge sorridendo”. Una solare bellezza matura. L’appuntamento è fuori città, in campagna, perché ormai da tanti anni non abita più a Palermo. “Era difficile… Costava troppo,” racconta candidamente e senza girarci attorno. “Dopo che mi hanno distrutto il bar con la bomba, nel marzo del 1990 lo abbiamo ceduto per pochi soldi… avevamo tanti debiti… Avevo avuto tante promesse per far lavorare mio marito come muratore… ma… tra il dire e il fare… Avevamo questo pezzetto di campagna e ci siamo trasferiti…”.

La casa in campagna, l’ha costruita lui, ci è costata solo il materiale… Mio marito non lavora sempre, qualche giornata saltuariamente… sarebbe muratore in effetti fa quello che capita… ovviamente lavoro in nero… E poi, la vita in campagna costa meno, coltiviamo qualcosa… è più facile trovare qualche giorno di lavoro. Dalla terrazza vedo il mare”. Semplice, sobria, sempre decorosa, una dignità che la rende autorevole. Nessuno direbbe che si tratta di una donna che ha già sperimentato tutte le fatiche della vita. Prove dolorosissime che l’hanno segnata e collaudata. La stessa donna, che alla fine degli anni ottanta allora abbastanza giovane sfidando tutto e tutti, si costituì parte civile al primo maxi processo a Palermo perché la mafia le aveva ucciso due fratelli Salvatore e Rodolfo e lei non poteva restarsene senza fare nulla. “Sono Michela Buscemi, sorella di Totò e Rodolfo” dichiarò ed iniziò a parlare.

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Suo fratello Salvatore disoccupato, con quattro figli piccoli, il più grande otto il più piccolo 4, carattere litigioso, negli anni settanta aveva iniziato a vendere sigarette di contrabbando senza aver chiesto il permesso ai boss. Nemmeno a quelli del quartiere di S. Erasmo dove abitava. Più volte gli avevano fatto perdere il carico come avviso, ma lui nulla. Anche perché a pugni era bravo e li faceva scappare. Una sera di aprile del ’76, verso le otto di sera, Salvatore e Giuseppe un fratello più piccolo, si trovavano in compagnia di loro parenti, in una bettola del quartiere, mentre stavano per andarsene, entrarono due uomini incappucciati armati. Salvatore colpito a morte cadde subito a terra, ma non bastava, uno dei due si avvicinò e gli sparò due colpi di lupara alla gola e al mento. La scena che ebbe davanti Giuseppe fu terribile. Il volto di suo fratello era totalmente sfigurato, la pancia squarciata, budella di fuori. Anche lui era ferito, fu portato all’ospedale. Una pallottola aveva perforato l’osso del bacino e gli si era posata sugli intestini. Subito dopo l’assassinio, un altro fratello, Rodolfo, deciso a scoprire gli assassini di Salvatore, si trasferisce nel quartiere di S. Erasmo e comincia a fare indagini e raccogliere prove. Scopre o si convince che il mandante dell’omicidio del fratello era Filippo Marchese boss del quartiere di S. Erasmo.

Il mafioso Vincenzo Sinagra futuro pentito, gli intima di smetterla, inoltre, forse lui stesso era implicato in piccole attività poco lecite e comunque non autorizzate da chi comandava nel quartiere, un mese dopo l’avvertimento da parte di Sinagra, Rodolfo e il cognato Matteo, di soli 18 anni, furono intrappolati con una falsa offerta di lavoro e scomparvero nel nulla.

Non rimasero tracce. Dopo qualche anno, il superpentito Sinagra raccontò che erano stati portati nella camera della morte, torturati e uccisi. Buttati in fondo al mare perché l’acido in cui avrebbero dovuto sciogliere il suo cadavere non era buono… La moglie di Rodolfo, Rosetta, si lasciò morire di dolore dopo il parto del secondo bambino. “Sono Michela Buscemi, sorella di Salvatore e Rodolfo” disse quel giorno nell’aula Bunker di Palermo Michela e subito nell’aula ci fu un bisbiglio di sorpresa. Il Presidente le chiese se avesse qualcosa da raccontare e lei rispose si. Per tutta la mattinata, racconta la stessa, davanti alla corte era passata una fila di parenti di vittime che non sapevano, non avevano visto, non avevano sentito. Tutte le televisioni, tutti giornali, si interessarono a Michela. Tuttavia, non tutti la pensavano alla stessa maniera.

“Spero a Dio che lo stesso dolore tu hai da provare, i figli t’hanno ad ammazzare” la minacciò in modo orribile e snaturato la madre che di costituirsi parte civile non ne volle sapere. Anzi, con quella figlia pazza, che aveva avuto l’ardire di recarsi in Tribunale a raccontare fatti della famiglia, la madre interruppe ogni rapporto e assieme agli altri figli decisero di isolarla. Abbandonarla al suo destino. “Quando io decisi di costituirmi parte civile al maxi processo dell’’85 – racconta con distacco – non sapevo che mia madre avrebbe preso le distanze da me, comunque, dopo ho continuato per la mia strada…” rinnegata e rinnegando la famiglia. Era l’86, da allora, Michela combatte una guerra solitaria, priva di madre, nessun fratello, nessuna sorella.

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Attraverso la storia di Michela, che lei stessa ha raccontato e scritto in prima persona, senza più imbarazzi, sono venute fuori storie di fame, indigenza, miseria. Storie che non nascono solo dalla povertà. Fatti miserabili. Sentimenti egoisti, avari. Forse criticabili e discutibili. Violenze quotidiane che passano in secondo ordine, perché le necessità e i bisogni hanno sempre e comunque la precedenza. Interni di famiglia in case diroccate, o popolari occupate abusivamente dove le donne sono costrette a non fiatare davanti al padre, o alla madre o all’autorità. Lei, Michela Buscemi si è ribellata a tutto. All’ignoranza, alle molestie del padre, alla povertà, ai pregiudizi. Nata e cresciuta nei quartieri poveri di Palermo, era la più grande di otto fratelli e sorelle che la madre sistematicamente le scaricava addosso subito dopo averli partoriti. Sebbene cresciuta e vissuta in un contesto caratterizzato dalla mancanza di idonei modelli e strumenti culturali e sociali ha trovato il coraggio e la determinazione per essere una protagonista cosciente. Una sfida enorme, ma ce l’ha fatta, per se e per i suoi 5 figli che “…hanno vissuto e vivono in una situazione totalmente diversa da quella in cui sono vissuta io, migliore certamente, nonostante le nostre difficoltà…”. Anche se non tutti sono come si suole dire sistemati sono tutti orgogliosi di ciò che ha fatto la loro madre. Lei non è pentita della sua scelta e resta un’attiva sostenitrice della lotta contro la mafia. “Un rimpianto? Essermi ritirata dal processo. Oggi non l’avrei fatto, allora ascoltai le persone che mi stavano più vicine l’avvocato, l’associazione donne contro la mafia, il centro Impastato che mi è stato sempre vicino”.

(Per raccogliere i fondi per pagare le spese delle parti civili al primo maxiprocesso di Palermo, si era costituito un apposito comitato. Ma alle uniche due donne del popolo presenti in quel processo, Michela Buscemi e Vita Rugnetta, fu deciso di non dare alcun contributo: i soldi raccolti dovevano essere dati soltanto ai parenti dei servitori dello stato. Ad aiutare Michela e Vita furono il Centro Impastato di Palermo e l’Associazione donne contro la mafia).