5 Gennaio 1976 Afragola (NA) Ucciso il maresciallo Gerardo D’Arminio che stava indagando sui legami della malavita campana-sicula-calabrese.

Foto : Carabinieri.it

Il 5 gennaio 1976 ad Afragola (Napoli), è assassinato il maresciallo dei carabinieri Gerardo D’Arminio, del Nucleo Investigativo, specializzato nella lotta alla mafia.
D’Arminio stava indagando sui legami della malavita campana-sicula-calabrese legati ai traffici di droga internazionale. Erano gli anni ’70, D’Arminio, incaricato di dirigere il nucleo antidroga, scopre il canale attraverso il quale si importa l’eroina.
La sera del 5 gennaio stava accompagnando il figlioletto di 4 anni in un negozio di giocattoli, quando viene giustiziato da un colpo di fucile proveniente da una cinquecento gialla. In quell’auto c’erano degli appartenenti al clan Moccia sul quale stava dirigendo le sue indagini. Dell’omicidio si autodenunciò l’ultimo dei fratelli Moccia, Vincenzo, che scontata una pena di undici anni, appena uscito di galera venne ucciso.
Alla sua memoria verrà assegnata la medaglia d’argento al valor militare.
(Fonte: fondazionepolis.regione.campania.it )

 

 

Fonte: archivio.unita.news 
Articolo del 7 gennaio 1976
Il maresciallo ucciso nella lotta ai guappi
di Giuseppe   Mariconda

Gerardo   D’Arminio era stato sempre in prima fila nella lotta alla criminalità   –  Un brillante curriculum   a Napoli   e Palermo –  Lascia moglie e quattro figli –  Assassinato davanti ad uno dei suoi bambini –  Si cercano tre giovani esponenti della nuova camorra   

NAPOLI. 6. Tre nomi sono al vaglio degli inquirenti, che stanno indagando sul mortale agguato teso, ieri sera in piazza ad Afragola, al maresciallo dei carabinieri Gerardo D’Arminio, sposato e padre di quattro bambini. Si tratta di tre figli di un noto «boss» della zona. Gennaro Moccia, di 47 anni, arrestato per porto abusivo di arma da fuoco nel marzo scorso e rimesso in libertà dopo circa tre mesi.  A sorprenderlo, armato di pistola, era stato lo stesso sottufficiale, comandante la locale stazione dei carabinieri.

Forte di una vasta esperienza nella lotta contro la mafia, accumulata durante quattro anni di servizio presso la legione di Palermo, e sempre in prima fila nella battaglia contro criminali che hanno insanguinato la «via del tabacco» in questi ultimi cinque anni nel napoletano il maresciallo D’Arminio era stato trasferito per nove mesi, nel dicembre dell’altr’anno, ad Afragola, una zona dell’entroterra napoletano dove la «nuova camorra» aveva ripreso ad imporre «protezione» e tangenti.

Gli scontri a fuoco tra due «clan» rivali, in lotta per la supremazia, avevano seminato vittime in una faida tra famiglie che sembrava inarrestabile. Nel settembre del 1973 Giovanni Giugliano di 39 anni era stato freddato in quella stessa piazza da un killer. Del delitto fu accusato Mario Magiulo, 53 anni, attualmente imprenditore edile ma con le mani in pasta nel commercio di prodotti ortofrutticoli, grande elettore di un noto esponente Dc a livello nazionale. Il Magiulo aveva creato uno stretto legame tra «camorra» e politica riuscendo a far eleggere nelle file democristiane il figlio Vincenzo, 26 anni, assessore comunale. Un paio di mesi dopo quel delitto, prima dei carabinieri, Mario Magiulo fu scovato da un killer del «clan» rivale e freddato a colpi di lupara.

L’eliminazione dei «capi» non aveva posto fine agli scontri ed ai taglieggiamenti nei confronti di commercianti e contadini. Al gruppo Magiulo era affiliato uno dei tre giovani sospettati, Luigi Moccia, di 18 anni. Da quando il maresciallo D’Arminio aveva assunto il comando della stazione di Afragola furti e ricatti avevano subito un notevole calo. Anche le due organizzazioni antagoniste avevano ricevuto un duro colpo: proprio qualche mese addietro cinque o sei dei componenti erano stati arrestati con pesanti imputazioni. Da quel momento al sottufficiale erano cominciate ad arrivare minacce di morte: ma non gli aveva dato alcun peso, anche perché, di recente, era stato richiamato al Nucleo investigativo di Napoli ed era ritornato al suo vecchio lavoro nella squadra «antidroga».

Ieri sera il maresciallo dei carabinieri era uscito dalla sua abitazione al Corso Garibaldi di Afragola per comperare alcuni giocattoli per i figli: Giuseppina di 7 anni; Anna Rita, di 6; Carmine, di 4 e Marco, di 14 mesi. Li aveva poi portati in casa ed era ritornato sulla piazza perché il piccolo Carmine voleva provare la sua bicicletta. Mentre il bambino giocava, al sottufficiale si è avvicinato uno dei fratelli Giugliano, Luigi, che si è fermato a scambiare qualche parola. Improvvisamente da una «500» color giallo è stata esplosa la micidiale scarica di «lupara»: raggiunto da 8 pallettoni alla spalla ed al collo il maresciallo si è accasciato a terra sanguinane. Accompagnato al pronto soccorso dell’ospedale Loreto di via Marittima a Napoli vi è giunto cadavere.

Poco meno di un’ora più tardi, quando ufficiali e sottufficiali dell’arma dopo aver espresso il cordoglio alla vedova Anna Benvenuto, avevano iniziato le indagini, l’auto di cui si era servito lo sconosciuto assassino è stata ritrovata abbandonata alla periferia del paese. È risultata di proprietà di Antonio Moccia, fratello del «boss» e nessuno ne aveva ancora denunciato il furto. Tutta l’inchiesta a questo punto ha subito una svolta profonda. In paese tutti sapevano che Gennaro Moccia, il «boss», insieme con la moglie Anna Mezza e i tre figli più piccoli, era a Roccaraso per trascorrere le festività di fine anno. In casa, in via Belli n. 15, avrebbero dovuto essere i tre figli maggiori, Enzo di 19 anni, Luigi di 18 ed Angelo di 17 anni. Nell’ appartamento gli inquirenti hanno trovato soltanto una zia, Giuseppina Moccia, la quale si è detta preoccupata perché i nipoti erano usciti di casa alle 15,30 e non si erano più visti. Le ricerche, proseguite per tutta la notte, non hanno dato alcun esito. II sospetto, caduto su di loro, è   andato gradualmente aumentando: questa mattina, anche   sulla scorta di altri elementi raccolti ed il ritrovamento del fucile a canne mozze, le cartucce e così via, pare che non vi siano dubbi. In serata a Roccaraso è stato rintracciato Gennaro Moccia ed è stato fermato.

Per adesso gli inquirenti ritengono di aver scoperto anche il movente che avrebbe armato la mano dell’assassino. Durante la sua permanenza quale comandante della stazione dei carabinieri ed  anche dopo, quando era ritornato al nucleo investigativo di Napoli, il maresciallo Gerardo D’Arminio aveva affrontato (spesso anche in pubblico per colpire il loro presunto «prestigio») i componenti la famiglia Moccia, così come aveva fatto con tutti gli altri  «mammasantissima» noti della zona, intimando loro di non persistere nell’atteggiamento «guappesco» come erano soliti fare, perché prima o poi avrebbe trovato le prove per far scontare loro tutte le malefatte. E non è detto che il sottufficiale non avesse già acquisito qualche elemento utile allo sviluppo dell’indagine che – forse – potrebbe coinvolgere anche qualche persona al di sopra di ogni sospetto.

Questa, comunque, è un’ipotesi ancora da verificare. Stamattina, intanto, una delegazione di dirigenti della sezione del PCI di Afragola, guidata dal segretario […]

 

 

 

Articolo da La Stampa del  7 Gennaio 1976
Sono scomparsi tre fratelli di Afragola sospettati d’aver ucciso il maresciallo
di  Adriaco Luise Napoli.
Il brutale omicidio è avvenuto l’altra sera presso Napoli
Hanno 17, 18 e 19 anni – Lo scorso anno la vittima aveva denunciato loro padre per il possesso di una pistola – Trovata la “500” con cui gli assassini sono fuggiti: sul sedile posteriore c’era un fucile a canne mozze – L’autovettura appartiene a uno zio dei ricercati

Napoli, 6 gennaio. Caccia agli spietati assassini che ieri sera, ad Afragola, nella piazza principale del paese, hanno ucciso a colpi di lupara, sotto gli occhi del figlioletto, Carmine, di 4 anni e di numerosi testimoni, il maresciallo dei carabinieri Gerardo D’Arminio, 38 anni, sparandogli da un’auto in corsa una micidiale scarici di pailettoni. Sono state effettuate perquisizioni domiciliari, controllati gli alibi di decine e decine di persone, operati diversi fermi. Le indagini, condotte a ritmo serrato, sembrano aver dato buoni frutti. Stamane all’alba è stata trovata l’utilitaria — una «500» di color aragosta, targata Napoli 990220 — usata dai «killers». Sul sedile posteriore c’era l’arma del delitto, un fucile a canne mozze con la matricola cancellata e alcune cartucce. Tre fratelli, nipoti del proprietario dell’auto, di cui non era stata denunciata la scomparsa, sono fortemente indiziati. Si tratta di Vincenzo, Luigi e Angelo Moccia, di 19, 18 e 17 anni, che sono scomparsi.

Nei loro confronti il sostituto procuratore, Franco Martusciello ha emesso ordini di cattura. Figli di un temibile «boss  locale, Gennaro Moccia, 47 anni, hanno fatto perdere le loro tracce. Gli inquirenti avrebbero raccolto elementi che l’accusano dell’omicidio. Luigi ed Angelo Moccia sono sospettati di essere gli autori materiali del delitto, mentre Vincenzo sarebbe coinvolto, ma non direttamente. Chi sono i fratelli Moccia? Luigi ha precedenti per rissa, gli altri risultano incensurati. Il padre, Gennaro, era stato denunciato per il possesso di una pistola proprio dal maresciallo D’Arminio che lo scorso maggio si era recato nella sua abitazione per cercare una partita di pellicce di visone rubate e aveva trovato in un cassetto l’arma. In quell’occasione il figlio Vincenzo, aveva tentato di addossarsi la proprietà della pistola per scagionare il padre, ma il sottufficiale non si era lasciato ingannare. Gennaro Moccia era rimasto in carcere soltanto un mese, poi aveva ottenuto la libertà provvisoria perché malato.

Il maresciallo D’Arminio aveva un curriculum eccezionale. Entrato giovanissimo nell’Arma, aveva conquistato i diversi gradi per meriti speciali, con anni di lotta prima alla mafia siciliana, poi alla delinquenza organizzata in Campania e soprattutto a quella di Afragola. Nato a Montecorvino Rovella (Salerno), dopo un lungo periodo di servizio a Palermo, nel 1970 era stato inviato a dirigere la stazione di S. Giovanni a Teduccio. Era stato poi trasferito al Nucleo investigativo della Legione carabinieri di Napoli e nel dicembre del ’74 era passato a comandare la stazione di Afragola. Da sei mesi era ritornato nuovamente presso il Nucleo investigativo. Ieri sera, il mortale agguato. Poco dopo le 21,30, quando ancora i negozi erano aperti, il maresciallo D’Arminio era uscito dalla sua abitazione, in corso Garibaldi 116, con il figlioletto, Carmine.

Si era fermato a parlare con Luigi Giuliano, 48 anni, fratello del boss Giovanni, assassinato nel settembre del 1973. Gl’inquirenti hanno escluso l’ipotesi, avanzata in un primo momento, che la vittima designata fosse Luigi Giuliano. I killers, a bordo dell’utilitaria, sono piombati proprio alle spalle del maresciallo e hanno mirato da breve distanza. La scarica a lupara ha raggiunto D’Arminio alla nuca. Il maresciallo è stato soccorso da due giovani, adagiato su di un’auto e trasportato all’ospedale. Ma è giunto cadavere: uno dei pallettoni lo aveva centrato fra la nuca e il collo recidendo la carotide. La morte è avvenuta per dissanguamento.

Una carriera esemplare Palermo, 6 gennaio.
Gerardo D’Arminio diventò maresciallo capo a Palermo. La sua carriera è da portare ad esempio: sette encomi solenni e due promozioni per « meriti eccezionali ». La notizia della sua uccisione, fra i carabinieri di Palermo, è giunta come una mazzata. « Era tra i migliori dì noi », hanno commentato.  Per tre anni fu in forza al Nucleo di polizia giudiziaria, incaricato dalla Procura della Repubblica di arrestare malviventi e mafiosi colpiti da mandato di cattura. Poi, nel 1966, istituito il Nucleo investigativo comandato dal ten. col. Giuseppe Russo, Gerardo D’Arminio affiancò l’ufficiale in numerose azioni antimafia. Nell’agosto del 1963, il maresciallo D’Arminio era stato fra quelli che avevano catturato il pericoloso boss mafioso Michele Cavataio che sei anni dopo, il 10 dicembre 1969, sarebbe stato soppresso nella strage di viale Lazio. Il sottufficiale si calò nella botola che portava nel nascondiglio del boss e lo bloccò prima che l’altro potesse far fuoco con la « CobraColt » che aveva in pugno. a. r.

 

 

 

Articolo da La Stampa dell’8 Gennaio 1976
Napoli: arrestati due fratelli uno confessa: “Ho sparato,,
Il vile agguato al maresciallo dei carabinieri
Ha 16 anni e mezzo – Aggiunge: “Non volevo uccidere il sottufficiale. E’ stata una disgrazia” – Il terzo ricercato dovrebbe costituirsi nelle prossime ore

Napoli, 7 gennaio. «Non volevo uccidere il maresciallo, ma soltanto dare un avvertimento all’uomo che era con lui… E’ stato uno sbaglio». Questa, in sintesi, la confessione resa al sostituto Procuratore Martusciello da Enzo Moccia, di 16 anni e mezzo, il più giovane dei tre fratelli ricercati per il delitto. Stamane alle 11 il ragazzo si è costituito alla Procura di Napoli, accompagnato dall’avvocato Andrea Della Pietra e questa sera, in casa dello zio materno, Umberto Fresa, è stato arrestato a Napoli anche Angelo Moccia, di 18 anni: è probabile che il terzo fratello, Luigi, si costituirà nelle prossime ore. Data la minore età Enzo Moccia è stato rinchiuso nel carcere-scuola «Filangeri»; Angelo è finito invece a Poggioreale.

La caccia agli assassini del maresciallo Gerardo D’Arminio, ucciso con una scarica di lupara la sera di lunedì scorso sulla piazza principale di Afragola, sotto gli occhi del figlio Carmine, è così finita. Agli inquirenti rimane il compito di proseguire negli interrogatori dei testi e mettere al vaglio la confessione di Enzo Moccia, che sembra fatta su misura per pagare il meno possibile e del tutto addomesticata. Il ragazzo infatti si è addossata ogni responsabilità, escludendo la complicità dei fratelli e di altre persone. Anche l’arma, che ha i numeri di matricola cancellati, non sarebbe sua; l’avrebbe trovata in una cava di pozzolana durante lavori di sterro. «Ero solo in auto lunedì sera, verso le 21,30 — ha detto — dovevo incontrarmi con la mia ragazza. In piazza Gianturco ho notato un mio conoscente. Luigi Giuliano, che mi guardava minaccioso. Ho visto che, accanto a lui, c’era un uomo. Soltanto dopo ho saputo che era il maresciallo che insegnava al figlio ad andare sulla bicicletta. Ho pensato di dare una lezione al Giuliano, un semplice avvertimento… Ho abbassato il finestrino ed ho sparato. In quel momento il maresciallo si è alzato e il colpo è andato diritto a lui».

Come mai aveva l’arma in auto? Anche a questo interrogativo Enzo Moccia ha subito risposto. Ha detto che al mattino, andato a lavorare nella cava del padre, aveva scoperto per caso il fucile e le cartucce. Dapprima l’aveva nascosto in una baracca perché nessun dipendente se ne appropriasse, poi nel pomeriggio l’aveva sistemato sull’auto. «La vettura non è mia; è di Luigi — ha soggiunto — Luigi non era con me e doveva ancora rientrare da Torino, dove domenica aveva assistito con gli amici alla partita Napoli-Juve».

In contrasto con quanto aveva dichiarato la zia Giuseppina (che, subito dopo il delitto, riferì agli inquirenti di non aver più visto i nipoti, usciti in auto lunedì pomeriggio), Enzo Moccia ha fatto di tutto per scagionare i fratelli dall’accusa di complicità: «La zia è mezza scema — avrebbe dichiarato —. Quella sera, alle 18,30, sono uscito di casa. Ho incontrato per strada Angelo, mi sono trattenuto al circolo sportivo “Juliano”, poi in un bar del paese. Non avevo premeditato il delitto, è stata una disgrazia…». Luigi Giuliano, 48 anni, presunta vittima designata dell’agguato, sarebbe così scampato alla morte. Fratello di un «boss» assassinato nel settembre 1973, appartiene ad una famiglia di Afragola rivale di un altro «clan», quello dei costruttori Magliulo, di cui un esponente, l’assessore de Mario, di 47 anni, venne ucciso a colpi di lupara nel novembre dello stesso anno (a. l.)

 

 

 

Articolo da La Stampa del 9 Gennaio 1976
Per il maresciallo ucciso un terzo arresto a Napoli
In carcere tutti i fratelli Moccia

Napoli, 8 gennaio. I tre fratelli Moccia sospettati per il mortale agguato al maresciallo dei carabinieri Gerardo D’Arminio, 38 anni, ucciso a colpi di lupara lunedì sera nella piazza principale di Afragola, sono tutti in carcere: poco dopo mezzanotte è stato arrestato in via Duomo, a Napoli, anche Luigi Moccia, 19 anni. La cattura dei tre fratelli ha impresso una svolta decisiva alle indagini. Il sostituto Procuratore Martusciello ha oggi sottoposto, nel carcere di Poggioreale e nella scuola-prigione per minorenni « Filangieri », Luigi, Angelo e Vincenzo Moccia ad una serie di confronti e interrogatori per accertare il ruolo sostenuto da ciascuno di loro nel crimine.

Il magistrato ha mantenuto nei loro confronti l’accusa di omicidio volontario premeditato. L’inchiesta, entrata in una fase delicata, è diretta a stabilire quale fondamento possa essere attribuito alla confessione di Vincenzo Moccia il più giovane dei tre, che ha dichiarato di aver ucciso il maresciallo da solo e per errore. La tesi dell’omicida, che non ha ancora 17 anni, è stata accolta con riserva.

Le testimonianze rese subito dopo l’omicidio sono in netto contrasto con le dichiarazioni di Vincenzo: a bordo della «500» furono infatti notati due fratelli Moccia e non uno solo; il maresciallo D’Arminio, che indossava abiti civili, fu assassinato da un colpo alla nuca esploso da distanza ravvicinata e, infine, il sottufficiale non era chinato a terra quando si trovava in compagnia di Luigi Giuliano indicato da Vincenzo quale vittima designata. Luigi Giuliano avrebbe negato, inoltre, di aver rivolto minacce e frasi ingiuriose al ragazzo e nell’ambiente degli inquirenti si è propensi a credere che il maresciallo D’Arminio sia stato volontariamente assassinato per bloccare le indagini che egli stava svolgendo sui legami tra la nuova delinquenza locale ed esponenti mafiosi residenti nei soggiorni obbligati della zona (a.l.)

 

 

 

Articolo dell’8 Gennaio 2012 da dallapartedellevittime.blogspot.com 
GERARDO D’ARMINIO, UCCISO MENTRE STRINGEVA LA MANO AL SUO BAMBINO
di Raffaele Sardo

Montecorvino Rovella è una cittadina in provincia di Salerno di cui fino a qualche anno fa ne conoscevo vagamente  l’esistenza.  Da qualche anno, invece, so che è il paese di origine di Gerardo D’Arminio, il maresciallo dei carabinieri che fu trucidato  nella piazza di Afragola da esponenti del clan Moccia, la sera prima della Befana, il 5 gennaio del 1976. Aveva per mano il suo figlioletto di 4 anni, Carmine. Cosa accade quella sera, me l’ha raccontato qualche tempo fa una una delle sorelle di Gerardo D’Arminio, Orsola.
La storia è tratta dal mio libro “Al di là della notte” ed. Tullio Pironti
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«“Scendo con Carmine al negozio in piazza. Compro dei giocattoli e torno. Domani è la Befana. A lui voglio comprargli una bicicletta”. Furono le ultime parole di mio fratello. Si avviò con uno dei figli piccoli, Carmine, che allora aveva quattro anni e non l’abbiamo più rivisto». È la sorella Orsola, l’unica ancora vivente, a ricordare quegli ultimi momenti del maresciallo dei carabinieri Gerardo D’Arminio, padre di quattro bambini, ucciso nella piazza principale di Afragola il 5 gennaio del 1976. «Fino a qualche mese prima», racconta Orsola D’Arminio, «aveva comandato la stazione dei carabinieri di Afragola. Poi era stato trasferito al nucleo operativo a Napoli, alla caserma Pastrengo. Aveva dovuto lasciare la sua abitazione in caserma. A Napoli le case erano care. E così rimase ad abitare ad Afragola». Il maresciallo D’Arminio era originario di Montecorvino Rovella, in provincia di Salerno. Vi era nato il 12 dicembre del 1937.

Era sposato con Anna Benvenuto, da cui aveva avuto quattro figli: Giusy, Orsola (che lui chiamava Annalina), Carmine e Marco. AMontecorvino aveva la sua famiglia, le sorelle, gli amici d’infanzia. Lì c’erano le sue radici. Le radici di una famiglia nobile e antica, consacrata dagli Aragonesi, con titolo nobiliare e proprietà terriere. Gerardo amava il suo piccolo paese. Amava le sue sterminate piantagioni di ulivo. Amava passeggiare sui vicini monti picentini, che da ragazzo si divertiva a scalare in bicicletta. Faceva lunghe passeggiate sul monte Nebulano che domina il paese. Andava alla scoperta di sorgenti di acque sulfuree, che da quelle parti sono numerose. Si divertiva un sacco e, soprattutto, si rilassava. E ogni volta che poteva, tornava ben volentieri nella sua Montecorvino per ritrovare i luoghi e gli amici della sua infanzia. Partì giovane da Montecorvino. Lasciò le campagne e la vallata per arruolarsi nell’Arma a vent’anni, in cerca del «posto sicuro», come tanti giovani meridionali. A ventidue era già vicebrigadiere. Il suo fascicolo personale è ricco di encomi solenni per aver partecipato a varie operazioni nelle città dove prestava servizio: Chieti, Isernia, i piccoli paesini della Sicilia e Palermo dove venne promosso maresciallo. Poi fu trasferito a Napoli e assegnato alla caserma dei carabinieri di San Giovanni a Teduccio.

Siamo nel 1970, proprio nel periodo in cui c’è la lotta tra i siciliani e i marsigliesi per il controllo delle «vie del tabacco» dove passa anche la droga. Il maresciallo D’Arminio viene incaricato di dirigere il nucleo antidroga. Sequestra ingenti quantitativi di droga. Scopre il canale attraverso il quale si importa eroina dal Perù passando per Francoforte e Milano. Arresta Antonio Ammaturo, a capo della holding criminale che traffica in droga. Era anche la memoria storica delle vicende di criminalità. Si ricordava degli atti giudiziari di ogni delinquente. Delle sue alleanze, dei suoi crimini, delle inchieste in corso. Il maresciallo D’Arminio era un investigatore di razza, destinato ad una carriera importante all’interno dell’Arma. «Erano da poco passate le nove di sera», riprende a raccontare Orsola. «Io e l’altra mia sorella eravamo a casa di Gerardo ad Afragola. Ci passavamo le festività natalizie. E spesso stavamo a casa sua per aiutare la moglie con i quattro figli piccoli. Con i bambini da accudire non era facile andare avanti. Quella sera mio fratello tornò tardi dal servizio, ma volle uscire comunque.

Faceva di tutto per essere un buon padre, nonostante avesse un lavoro così impegnativo. Non erano ancora le nove e il negozio dove aveva scelto di andare, nella piazza principale del paese, era poco distante dalla casa in cui abitava. I negozi erano ancora aperti e affollati, come accade sempre il giorno prima della Befana. Verso le ventuno e quindici mentre stava facendo vedere la bicicletta al figlioletto, da una cinquecento gialla gli spararono con un fucile a canne mozze. Fu raggiunto da una scarica di otto pallettoni che gli si conficcarono tra il collo e la spalla. Il bambino era con lui, vide tutto. Vide il padre cadere con il corpo insanguinato. Vide la gente urlare e scappare. Carmine non capì subito cosa stava accadendo. Si sentì lasciare dalla mano del padre. Ebbe solo la forza di gridare: “Papà, papà, non mi lasciare!”.

Mio fratello fu trasportato al Loreto Mare, ma vi giunse cadavere. In quella cinquecento c’erano tre giovani, appartenenti ai Moccia, Luigi, Antonio e Vincenzo»: il clan sul quale il maresciallo D’Arminio aveva condotto indagini. Investigava da tempo sui rapporti tra clan siciliani e boss napoletani legati ai traffici internazionali di droga. «Eravamo in pena, perché alle undici di sera mio fratello non era ancora ritornato. La moglie cominciava a preoccuparsi. Mi chiedeva continuamente: “Ma quando torna? Ha con sé anche il bambino. Cosa sarà accaduto?”. Nessuno ci avvertì.

La notizia della morte di mio fratello la sentimmo dalla televisione. Gerardo aveva condotto tante indagini delicate», dice ancora Orsola. «Era diventato maresciallo maggiore non per anzianità, ma per meriti acquisiti sul campo. Aveva avuto undici encomi. Mio fratello era uno che lottava contro la criminalità e che a detta di tutti quando c’era lui a comandare la stazione di Afragola i crimini erano diminuiti di parecchio. Era considerato un esperto di mafia perché era stato quattro anni a Palermo. Del delitto di mio fratello Gerardo alla fine si autoaccusò il più piccolo dei tre fratelli Moccia, Vincenzo, che all’epoca era minorenne e credo che lo chiamassero “Angioletto”. Al processo venne condannato a diciassette anni, ma, dopo abbuoni vari e buona condotta, è stato in carcere solo undici anni». Vincenzo Moccia, appena uscito dal carcere, fu assassinato da un commando, nell’ambito di una guerra di camorra. «Da allora c’è una famiglia distrutta. La primogenita di mio fratello, Giusy, è morta il 25 luglio del 2003. Aveva un male incurabile. La moglie Anna è deceduta a maggio del 2009.

La famiglia, in pratica, non c’è più. I figli non vogliono conservare niente che ricordi la morte del padre. Gli è mancato tanto e non riescono a colmare il vuoto che ha lasciato. E ora sembra che nessuno più se ne ricorda di quel maresciallo così attivo e così dedito all’Arma dei Carabinieri», dice Orsola con una vena di amarezza nella voce. «Per lui la divisa che indossava era tutto. Prima della divisa c’era la famiglia. Che ora è come se fosse morta con lui. E dopo tanti anni dalla sua morte, mio fratello è come scomparso dalla vita collettiva, nessuno più ne ha memoria. Per ricordarlo gli facciamo dire una messa tutti gli anni. È venuta una mia cugina a casa proprio il giorno dell’anniversario della sua morte e ha portato un articolo di giornale che lo ricordava. S’è messa a piangere solo parlandone. E con lei anche tutta la famiglia. Qui è come se ci fosse perennemente il lutto.

Ora che sono passati trentaquattro anni, al solo parlarne, il dolore che portiamo dentro è come se si riacutizzasse. Si aprono tutte le ferite». La voce di Orsola è rotta dall’emozione. «Non esistono più feste, non esistono più giornate di sole. Non esiste più niente. È tutto spento. Si va avanti per inerzia. La nostra vita s’è fermata a quel 5 di gennaio del 1976».
La famiglia D’Arminio ora vive a Montecorvino Rovella, cercando di sopravvivere alla tragedia. È ritornata dove aveva le radici. Dove ci sono i monti che circondano il paese, pieni di sorgenti sulfuree. Ma quel carabiniere che non aveva paura di niente, non c’è più. C’è solo il dolore e una lapide nella piazza principale di Afragola che lo ricorda. Alla sua memoria è stata assegnata la medaglia d’argento al valor militare.

 

 

 

Fonte:  afragolanapoli.it
Articolo del 5 gennaio 2014
Afragola- il 5 gennaio 1976 IL MARESCIALLO GERARDO D’ARMINIO, UCCISO MENTRE STRINGEVA LA MANO AL SUO BAMBINO
Posted in: LA FRAGOLA NAPOLI NEWS, LO STRILLO AFRAGOLA
di Gennaro Napoletano

Era il giorno prima della Befana: 5 gennaio 1976. I negozi erano ancora affollati, all’epoca i regali li portava la vegliarda sulla scopa, non Babbo Natale. E così era anche per la famiglia D’Arminio, quando il Maresciallo dei carabinieri Gerardo prese per mano il figlio di quattro anni, Carmine, per condurlo in un negozio di giocattoli. Erano da poco passate le nove di sera e piazza Gianturco ad Afragola, pieno centro della cittadina, era ancora in frenetica attività. Arriva una Fiat Cinquecento Gialla, a bordo ci sono tre esponenti del clan Moccia: Luigi, Antonio e Vincenzo. Un fucile a canne mozze esce dal finestrino, vengono sparati alcuni colpi che raggiungono il Maresciallo D’Arminio al collo e a una spalla. Il sangue schizza via, la gente corre via urlando, il piccolo Carmine non capisce subito cosa è appena successo. Pochi secondi per distruggere la vita di un’intera famiglia e per dare un segnale di totale prepotenza: qui comandiamo noi dei Moccia, nemmeno i carabinieri possono ficcare il naso dove non devono.

Il 5 gennaio 1976 ad Afragola (Napoli), è assassinato il maresciallo dei carabinieri Gerardo D’Arminio, del Nucleo Investigativo, specializzato nella lotta alla mafia.
D’Arminio stava indagando sui legami della malavita campana-sicula-calabrese legati ai traffici di droga internazionale. Erano gli anni ’70, D’Arminio, incaricato di dirigere il nucleo antidroga, scopre il canale attraverso il quale si importa l’eroina.
La sera del 5 gennaio stava accompagnando il figlioletto di 4 anni in un negozio di giocattoli, quando viene giustiziato da un colpo di fucile proveniente da una cinquecento gialla. In quell’auto c’erano degli appartenenti al clan Moccia sul quale stava dirigendo le sue indagini. Dell’omicidio si autodenunciò l’ultimo dei fratelli Moccia, Vincenzo, che scontata una pena di undici anni, appena uscito di galera venne ucciso.
Alla sua memoria verrà assegnata la medaglia d’argento al valor militare.

Montecorvino Rovella – VedutaMontecorvino Rovella è una cittadina in provincia di Salerno di cui fino a qualche anno fa ne conoscevo vagamente l’esistenza. Da qualche anno, invece, so che è il paese di origine di Gerardo D’Arminio, il maresciallo dei carabinieri che fu trucidato nella piazza di Afragola da esponenti del clan Moccia, la sera prima della Befana, il 5 gennaio del 1976. Aveva per mano il suo figlioletto di 4 anni, Carmine. Cosa accade quella sera, me l’ha raccontato qualche tempo fa una una delle sorelle di Gerardo D’Arminio, Orsola.

«“Scendo con Carmine al negozio in piazza. Compro dei giocattoli e torno. Domani è la Befana. A lui voglio comprargli una bicicletta”. Furono le ultime parole di mio fratello. Si avviò con uno dei figli piccoli, Carmine, che allora aveva quattro anni e non l’abbiamo più rivisto». È la sorella Orsola, l’unica ancora vivente, a ricordare quegli ultimi momenti del maresciallo dei carabinieri Gerardo D’Arminio, padre di quattro bambini, ucciso nella piazza principale di Afragola il 5 gennaio del 1976. «Fino a qualche mese prima», racconta Orsola D’Arminio, «aveva comandato la stazione dei carabinieri di Afragola. Poi era stato trasferito al nucleo operativo a Napoli, alla caserma Pastrengo. Aveva dovuto lasciare la sua abitazione in caserma. A Napoli le case erano care. E così rimase ad abitare ad Afragola». Il maresciallo D’Arminio era originario di Montecorvino Rovella, in provincia di Salerno. Vi era nato il 12 dicembre del 1937. Era sposato con Anna Benvenuto, da cui aveva avuto quattro figli: Giusy, Orsola (che lui chiamava Annalina), Carmine e Marco. AMontecorvino aveva la sua famiglia, le sorelle, gli amici d’infanzia. Lì c’erano le sue radici. Le radici di una famiglia nobile e antica, consacrata dagli Aragonesi, con titolo nobiliare e proprietà terriere. Gerardo amava il suo piccolo paese. Amava le sue sterminate piantagioni di ulivo. Amava passeggiare sui vicini monti picentini, che da ragazzo si divertiva a scalare in bicicletta. Faceva lunghe passeggiate sul monte Nebulano che domina il paese. Andava alla scoperta di sorgenti di acque sulfuree, che da quelle parti sono numerose. Si divertiva un sacco e, soprattutto, si rilassava. E ogni volta che poteva, tornava ben volentieri nella sua Montecorvino per ritrovare i luoghi e gli amici della sua infanzia. Partì giovane da Montecorvino. Lasciò le campagne e la vallata per arruolarsi nell’Arma a vent’anni, in cerca del «posto sicuro», come tanti giovani meridionali. A ventidue era già vicebrigadiere. Il suo fascicolo personale è ricco di encomi solenni per aver partecipato a varie operazioni nelle città dove prestava servizio: Chieti, Isernia, i piccoli paesini della Sicilia e Palermo dove venne promosso maresciallo. Poi fu trasferito a Napoli e assegnato alla caserma dei carabinieri di San Giovanni a Teduccio.

Siamo nel 1970, proprio nel periodo in cui c’è la lotta tra i siciliani e i marsigliesi per il controllo delle «vie del tabacco» dove passa anche la droga. Il maresciallo D’Arminio viene incaricato di dirigere il nucleo antidroga. Sequestra ingenti quantitativi di droga. Scopre il canale attraverso il quale si importa eroina dal Perù passando per Francoforte e Milano. Arresta Antonio Ammaturo, a capo della holding criminale che traffica in droga. Era anche la memoria storica delle vicende di criminalità. Si ricordava degli atti giudiziari di ogni delinquente. Delle sue alleanze, dei suoi crimini, delle inchieste in corso. Il maresciallo D’Arminio era un investigatore di razza, destinato ad una carriera importante all’interno dell’Arma. «Erano da poco passate le nove di sera», riprende a raccontare Orsola. «Io e l’altra mia sorella eravamo a casa di Gerardo ad Afragola. Ci passavamo le festività natalizie. E spesso stavamo a casa sua per aiutare la moglie con i quattro figli piccoli. Con i bambini da accudire non era facile andare avanti. Quella sera mio fratello tornò tardi dal servizio, ma volle uscire comunque.

Faceva di tutto per essere un buon padre, nonostante avesse un lavoro così impegnativo. Non erano ancora le nove e il negozio dove aveva scelto di andare, nella piazza principale del paese, era poco distante dalla casa in cui abitava. I negozi erano ancora aperti e affollati, come accade sempre il giorno prima della Befana. Verso le ventuno e quindici mentre stava facendo vedere la bicicletta al figlioletto, da una cinquecento gialla gli spararono con un fucile a canne mozze. Fu raggiunto da una scarica di otto pallettoni che gli si conficcarono tra il collo e la spalla. Il bambino era con lui, vide tutto. Vide il padre cadere con il corpo insanguinato. Vide la gente urlare e scappare. Carmine non capì subito cosa stava accadendo. Si sentì lasciare dalla mano del padre. Ebbe solo la forza di gridare: “Papà, papà, non mi lasciare!”.

Mio fratello fu trasportato al Loreto Mare, ma vi giunse cadavere. In quella cinquecento c’erano tre giovani, appartenenti ai Moccia, Luigi, Antonio e Vincenzo»: il clan sul quale il maresciallo D’Arminio aveva condotto indagini. Investigava da tempo sui rapporti tra clan siciliani e boss napoletani legati ai traffici internazionali di droga. «Eravamo in pena, perché alle undici di sera mio fratello non era ancora ritornato. La moglie cominciava a preoccuparsi. Mi chiedeva continuamente: “Ma quando torna? Ha con sé anche il bambino. Cosa sarà accaduto?”. Nessuno ci avvertì.

La notizia della morte di mio fratello la sentimmo dalla televisione. Gerardo aveva condotto tante indagini delicate», dice ancora Orsola. «Era diventato maresciallo maggiore non per anzianità, ma per meriti acquisiti sul campo. Aveva avuto undici encomi. Mio fratello era uno che lottava contro la criminalità e che a detta di tutti quando c’era lui a comandare la stazione di Afragola i crimini erano diminuiti di parecchio. Era considerato un esperto di mafia perché era stato quattro anni a Palermo. Del delitto di mio fratello Gerardo alla fine si autoaccusò il più piccolo dei tre fratelli Moccia, Vincenzo, che all’epoca era minorenne e credo che lo chiamassero “Angioletto”. Al processo venne condannato a diciassette anni, ma, dopo abbuoni vari e buona condotta, è stato in carcere solo undici anni». Vincenzo Moccia, appena uscito dal carcere, fu assassinato da un commando, nell’ambito di una guerra di camorra. «Da allora c’è una famiglia distrutta. La primogenita di mio fratello, Giusy, è morta il 25 luglio del 2003. Aveva un male incurabile. La moglie Anna è deceduta a maggio del 2009.

La famiglia, in pratica, non c’è più. I figli non vogliono conservare niente che ricordi la morte del padre. Gli è mancato tanto e non riescono a colmare il vuoto che ha lasciato. E ora sembra che nessuno più se ne ricorda di quel maresciallo così attivo e così dedito all’Arma dei Carabinieri», dice Orsola con una vena di amarezza nella voce. «Per lui la divisa che indossava era tutto. Prima della divisa c’era la famiglia. Che ora è come se fosse morta con lui. E dopo tanti anni dalla sua morte, mio fratello è come scomparso dalla vita collettiva, nessuno più ne ha memoria. Per ricordarlo gli facciamo dire una messa tutti gli anni. È venuta una mia cugina a casa proprio il giorno dell’anniversario della sua morte e ha portato un articolo di giornale che lo ricordava. S’è messa a piangere solo parlandone. E con lei anche tutta la famiglia. Qui è come se ci fosse perennemente il lutto. Ora che sono passati trentaquattro anni, al solo parlarne, il dolore che portiamo dentro è come se si riacutizzasse. Si aprono tutte le ferite». La voce di Orsola è rotta dall’emozione. «Non esistono più feste, non esistono più giornate di sole. Non esiste più niente. È tutto spento. Si va avanti per inerzia. La nostra vita s’è fermata a quel 5 di gennaio del 1976».

La famiglia D’Arminio ora vive a Montecorvino Rovella, cercando di sopravvivere alla tragedia. È ritornata dove aveva le radici. Dove ci sono i monti che circondano il paese, pieni di sorgenti sulfuree. Ma quel carabiniere che non aveva paura di niente, non c’è più. C’è solo il dolore e una lapide nella piazza principale di Afragola che lo ricorda. Alla sua memoria è stata assegnata la medaglia d’argento al valor militare.

 

 

 

Fonte: stampacritica.it
Articolo del 15 gennaio 2016
Il maresciallo D’Arminio: un papà ucciso dalla mafia
di Giusy Patera

Prima che un maresciallo dei carabinieri, Gerardo D’Arminio era un padre. E quella sera del 5 gennaio 1976, ad Afragola, dove viveva con la famiglia, stava accompagnando il figlio Carmine in un negozio di giocattoli per scegliere una bicicletta, come regalo per la Befana. Stringeva nella sua mano quella del suo bambino quando viene raggiunto da otto pallottole sparate da una Cinquecento gialla. A bordo dell’auto che attraversa la piazza principale del piccolo paese campano ci sono tre fratelli appartenenti al clan camorrista dei Moccia. La corsa sfrenata per raggiungere l’ospedale di Napoli non è sufficiente: Gerardo D’Arminio vi arriva già morto.

Siamo negli anni Settanta. In Italia le famiglie mafiose sono nel pieno della lotta per il controllo delle “vie del tabacco”: il business principale per la mafia e la camorra è questo. Il maresciallo d’Arminio ai tempi faceva parte del nucleo operativo della caserma Pastrengo di Napoli, dopo una rapida e brillante carriera nell’Arma in cui spiccò dall’inizio per le sue eccellenti capacità investigative. Quasi cinque anni trascorsi nella stazione dei carabinieri di Palermo, inoltre, gli avevano permesso di conoscere a fondo le dinamiche che muovevano la malavita siciliana. Si distingue per alcuni arresti importanti, come quello del boss palermitano Michele Cavataio: quando ritorna in Campania, appena trentenne, si immerge a capofitto in un’indagine volta a svelare i collegamenti nascosti tra i boss malavitosi siciliani e la nascente Camorra. D’Arminio poi, posto a guida della sezione antidroga, intuisce immediatamente la relazione fra i traffici di stupefacenti e quelli legati ai movimenti del tabacco. Scopre inoltre il canale attraverso il quale l’eroina, passando da Francoforte, arrivava a Milano dal Perù, e riesce ad arrestare uno degli artefici principali di quel traffico, ovvero il boss camorrista Antonio Ammaturo. Un personaggio troppo acuto, esperto, sicuramente scomodo per le famiglie del luogo: lo “stop” della malavita non si fa attendere.

Dell’omicidio di quella notte d’inverno si autoaccuserà il minore dei fratelli Moccia, il quale sostiene che il maresciallo fu colpito per errore, in quanto la vittima designata era, a quanto pare, un certo Luigi Giugliano. Gli inquirenti, non convinti da questa versione, risalgono ben presto al vero motivo dell’agguato. Ma abbuoni e buona condotta permetteranno a Vincenzo Moccia di scontare in carcere soltanto undici dei diciassette anni di reclusione cui verrà condannato.

Oggi la famiglia di Gerardo D’Arminio vive ancora ad Afragola, in cui è rimasto il dolore e una lapide nel luogo della strage. Quella del maresciallo D’Arminio è una delle tante storie che rendono tristemente lungo l’elenco di vittime della mafia: purtroppo, una delle tante omesse ingiustamente dal ricordo collettivo, cui una medaglia d’argento al valore militare forse non è abbastanza a rendervi onore.

 

 

 

 

Fonte:  ilmattino.it
Articolo del 6 gennaio 2019
Afragola blindata ma nessuno al ricordo del maresciallo ucciso dalla camorra
di Marco Di Caterino

Dopo le bombe del racket delle estorsioni, sette in dieci giorni, Afragola è una città blindata da polizia e carabinieri. Ieri, nel giorno della commemorazione del maresciallo Gerardo D’Arminio, ucciso 42 anni fa sotto gli occhi del figlio di appena sei anni da Vincenzo Moccia nella piazza principale, sono scattate le prime operazioni di controllo del territorio. I carabinieri della locale caserma, grazie anche ai cinque colleghi di rinforzo, hanno sequestrato nel Rione Salicelle due pistole, un coltello e droga, mentre la polizia ha effettuato posti di blocco su tutto il territorio cittadino. E da quattro giorni il tritolo tace. Afragola è una città con un lato oscuro ancora tutto da esplorare. Nessuno denuncia le estorsioni, nemmeno sotto l’attacco della camorra, però tutti protestano per l’arrivo di rinforzi al lumicino, e quando si tratta di onorare la memoria di un servitore delle Stato che ha dato la vita per difendere la legalità, come la medaglia d’argento al valore militare Gerardo D’Arminio, nessuno partecipa, né in chiesa e nemmeno in piazza. Fatto salvo poi il «rimpianto» per il clan Moccia, perché quando c’erano loro droga per strada non ce n’era, nemmeno furti e rapine, figurarsi poi le bombe.

«Camorristi per bene», così gli affiliati del clan si autocelebravano nel titolo di un film di una decina di anni fa prodotto, diretto e interpretato da affiliati di primo livello del clan. Un consenso sociale da far rabbrividire, rimasto ancora quasi intatto, e mai cambiato nemmeno di fronte al sangue di un carabiniere ucciso per ribadire la supremazia della camorra. «Il sacrificio di Gerardo D’Arminio ha detto nell’omelia don Tonino Palmese, presidente onorario della Fics e referente di Libera per la Campania, che ha celebrato la messa in suffragio nella chiesa dei Sacri Cuori su invito di Maria Saccardo, responsabile di Libera per Casoria e Afragola è identico a quello di Gesù sulla Croce. Ha lo stesso significato salvifico di chi anche a costo della vita antepone la fede e lo spirito di servizio per gli altri». Ed è stata una cerimonia «intima» quella della messa alla quale hanno partecipato i familiari di Gerardo D’Arminio, il sindaco Claudio Grillo, il suo vice Biagio Castaldo, il capitano della compagnia di Casoria Francesco Filippo, agenti del commissariato di Afragola, una rappresentanza della guardia di finanza del gruppo di Frattamaggiore, gli agenti della polizia locale, e quelli della protezione civile.

Prima della benedizione, sono intervenuti il sindaco e la responsabile di Libera, che hanno sottolineato l’importanza e il dovere dell’impegno quotidiano alla memoria, alla stregua di quella della Shoah, perché dimenticare è il concime per il Male, qualunque esso sia. Dopo la funzione religiosa è stata posta una corona di alloro dell’amministrazione comunale al monumento, realizzato dagli alunni del liceo artistico di Cardito. Poche ore prima si era conclusa una operazione di controllo ad Alto Impatto, nel rione Salicelle, condotta dai militari della caserma di Afragola. In due isolati diversi, i militari hanno rinvenuto e sequestrato una pistola semiautomatica con matricola punzonata e colpo in canna e 11 cartucce custodite in uno zaino nascosto sul tetto di un ascensore di una palazzina. La seconda arma, un revolver 357 Magnum con matricola abrasa e carico, è stata rinvenuta in un’intercapedine del vano ascensore di un altro isolato. Insieme alla micidiale arma è stato sequestro un coltello sporco di droga e 57 grammi di crack. Le armi e i proiettili sono stati inviati al Racis, per accertare se siano state utilizzate per omicidi o raid intimidatori.

 

 

 

Fonte: mafie.blogautore.repubblica.it
Articolo del 4 aprile 2020
Un colpo di lupara contro il maresciallo
a cura di Emmanuele Monti

Gerardo D’Arminio, maresciallo dei Carabinieri del Nucleo Investigativo, viene assassinato ad Afragola, Napoli, il 5 gennaio 1976. Indagava sul narcotraffico e sui legami tra le organizzazioni mafiose.
Era nato nella profonda campagna a Montecorvino Rovella, in provincia di Salerno. Quel luogo gli aveva dato le origini ed era a quel luogo che egli apparteneva.

All’età di vent’anni lasciò il luogo natio per andare ad arruolarsi. Stava cercando giustizia, giustizia per i luoghi dove le faide e le scorribande della mafia non ne lasciavano scorgere nemmeno un pallido raggio, dove l’ omertà obnubilava la speranza, dove la paura si sostituiva strisciando alla quotidianità.
Ma, grazie anche alla sua professione, non sarebbe stato così per sempre.
Gerardo non fu solo un militare: fu anche marito e padre, infatti sposò Anna D’Arminio e da lei ebbe ben quattro figli negli anni successivi al matrimonio.
Il più piccolo tra questi si chiamava Carmine D’Arminio, nome tipicamente campano, deriva dall’arabo “karmel” e significa “giardino” o in generale “zona verde, incontaminata”, come quelle in cui il maresciallo era cresciuto. Nel 1976 Carmine aveva solo quattro anni.

Una sera di quell’anno, il giorno prima della Befana, padre e figlio erano fuori casa, nella piazza principale di Afragola, il paese in cui lui e la sua famiglia si erano trasferiti.
Gerardo voleva trasmettere al figlio quella che era la sua passione più grande dopo la giustizia: la bicicletta.
Così i due, mentre gli occhi di Carmine brillavano, stavano davanti alla vetrina di un giocattolaio, a decidere con cura ed eccitazione quale tra quelle lucide e fiammanti meraviglie sarebbe divenuta la prima bicicletta di Carmine. La decisione era stata presa.

A passo sicuro e con lo stesso sorriso stampato sul volto, padre e figlio si stavano dirigendo verso l’ entrata del negozio quando una macchina inchiodò violentemente al centro della piazza. Un finestrino si aprì. Dal finestrino uscì una lupara, probabilmente vennero sparati sette colpi, due di questi raggiunsero il maresciallo. Uno lo colpì alla spalla, uno, mortale, lo colpì alla gola. Egli cadde davanti al figlio, bagnando con il sangue la vetrina, rotta dai colpi di lupara, dove prima avevano fantasticato.

Così, il 5 gennaio 1976 moriva il maresciallo dell’Arma dei Carabinieri Gerardo D’Arminio.

 

 

 

 

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