7 Febbraio 1986 Brancaleone (RC). Assassinato Filippo Salsone, Maresciallo della Polizia Penitenziaria.

Foto da: polizia-penitenziaria.it

Filippo Salsone
Maresciallo del Corpo degli Agenti di Custodia – nato a Brancaleone (RC) il 28/05/1942 in servizio presso la Casa Circondariale di Reggio Calabria.
Il 7 febbraio 1986 a Brancaleone in provincia di Reggio Calabria mentre Filippo Salsone rincasava dall’abitazione dei propri genitori, alla guida della propria autovettura, unitamente alla famiglia, veniva fatto segno di un attentato mortale che, per dinamica e armi usate, richiama analoghe azioni di stampo mafioso.
Nell’attentato rimaneva ferito il figlioletto di 10 anni.
Nel corso delle successive indagini è emerso il chiaro stampo camorristico dell’omicidio.
Il Maresciallo Filippo Salsone è stato riconosciuto “Vittima del dovere” ai sensi della Legge 466/1980 dal Ministero dell’Interno.
Allo stesso è intitolata la Caserma Agenti dell’istituto penitenziario di Palmi (RC)
Fonte: polizia-penitenziaria.it

 

 

Articolo da L’Unità del 9 Febbraio 1986
Gravissimo il bambino di dieci anni: suo padre è stato ucciso in un agguato mafioso in Calabria
di Enzo Lacaria

REGGIO CALABRIA — La furia omicida delle cosche mafiose della città e della provincia di Reggio Calabria ha stroncato in un vile agguato Filippo Salsone, di 44 anni, maresciallo degli agenti di custodia, da tre mesi distaccato presso le carceri napoletane di Poggioreale. Si è trattato di una barbara esecuzione che, solo per fortuite circostanze non ha avuto un più tragico epilogo: un ragazzo di 10 anni, il secondogenito di Filippo Salsone è rimasto gravemente ferito nell’infernale sparatoria ed e stato sottoposto ad un delicato intervento  nell’ospedale. La prognosi è riservata. Il vile agguato è accaduto a Pantano Grande, all’estrema periferia del comune di Brancaleone. Il maresciallo Salsone aveva fermato la sua Fiat 126 davanti alla propria abitazione: nella piccola utilitaria c’erano anche sua moglie Concettina Minniti e l’altro figlio 15enne, Antonino, rimasti fortunatamente illesi. Contro l’auto sono stati sparati numerosi colpi di lupara caricata a pallettoni. Il maresciallo Salsone aveva prestato servizio presso le carceri di Palmi, di Cosenza e, prima del suo trasferimento a Poggioreale, nelle carceri giudiziarie di Reggio Calabria, dove, sono detenuti, in attesa di processo noti esponenti mafiosi e gruppi dediti allo spaccio di droga.
Dalle prime indiscrezioni pare che le indagini per cercare di identificare gli autori del delitto, si restringano essenzialmente al periodo di permanenza di Salsone nelle carceri reggine. Di recente sono stati scarcerati 4 imputati del processo «droga 2» nonostante un provvedimento restrittivo emesso nei loro confronti in data antedecente all’ordinanza di libertà provvisoria.
Per quell’imprevisto, «regalo natalizio» sono stati trasferiti dalle carceri reggine il direttore Raffaele Barcella, il brigadiere Vincenzo Petralia e l’agente di custodia Giancarlo Olionco: tutti sotto inchiesta da parte della magistratura. Sempre nei confronti del dottor Barcella, oggi direttore delle carceri di Venezia, è stata ora aperta un’altra inchiesta per falso ideologico ed interessi privati in atti di ufficio. Dello stesso reato devono rispondere il dirigente del servizio sanitario delle carceri di Reggio Calabria dottor Antonino Tripodi, i dottori Giuseppe Calabrese e Vincenzo Giovanni Africa, medici presso gli Ospedali riuniti, il detenuto Filippo Barreca di Pellaro, e l’ingegnere Pasquale Paolo Tripodi. L’indagine è rivolta ad accertare se agli inizi del 1985 sono stati concessi certificati di malattia in favore del detenuto Barrese, accusato, insieme all’ing. Tripodi di avere tentato di corrompere un sanitario di uno ospedale siciliano presso il quale era stata disposta la visita di controllo. E, dunque, maturata nel sordido clima delle carceri reggine la decisione di eliminare il Salsone? Si è trattato solo di una vendetta oppure bisognava eliminare un testimone scomodo? E uno degli interrogativi che spetta sciogliere alle autorità inquirenti.

 

 

Articolo da L’Unità del 26 Aprile 1986
Il carcere reggino in mano alla mafia – Arrestati il direttore e otto guardie
di Filippo Veltri
Nell’inchiesta della magistratura anche l’omicidio di un sottufficiale onesto.
In manette l’attuale direttore del penitenziario di Venezia, sottuffìciale e agenti di custodia – I detenuti potevano ricevere chiunque e godevano di numerosi favori – Un rapporto di Nicolò Amato ed un’interrogazione del Pci.

REGGIO CALABRIA – Il carcere San Pietro di Reggio Calabria era diventato una specie di succursale della mafia. Direttore, marescialli e guardie l’avevano trasformato in un istituto per assistenza, beneficenza ed altro dei mafiosi. Alcuni detenuti di “rispetto” potevano incontrare le loro mogli, spostarsi a loro piacimento, ricevere chiunque senza essere disturbati. Per chi non si adeguava a questa regola intimidazioni, attentati e forse persino l’uccisione. Questo il quadro che emerge dalle Procure di Reggio Calabria e Locri che ha portato ieri all’arresto dell’ex direttore del carcere reggino (in carica fino al febbraio dell’anno scorso) e di otto fra marescialli, appuntati e agenti di custodia. Ma l’inchiesta è appena iniziata e non si escludono altre clamorose sorprese.
[…]
Di che cosa sono accusate le nove persone? Gli ordini di cattura derivano da due inchieste parallele portano le firme dei sostituti procuratori della Repubblica di Reggio Calabria, Scuderi e del suo collega di Locri, Ezio Arcadi. A Reggio o viene contestato ai nove il reato di peculato, corruzione, interesse privato in atti d’ufficio e minacce gravi. Il sostituto Arcadi di Locri contesta invece ai nove, tranne Mannarino, un reato ben più grave e cioè l’associazione per delinquere semplice finalizzata al peculato, all’interesse privato, alla corruzione, all’abuso e in più avanza un’inquietante e clamorosa ipotesi: l’allegra gestione del carcere ha portato anche ad un omicidio? Ha infatti inviato due comunicazioni giudiziarie ai marescialli degli agenti di custodia [..] per omicidio volontario pluriaggravato. I due sono implicati infatti nell’uccisione di un loro collega, un altro maresciallo degli agenti di custodia, Filippo Salsone, 44 anni, assassinato il 7 febbraio scorso a Brancaleone (RC) mentre era in macchina. Nell’agguato a Salsone rimase ferito anche il1 figlioletto  Paolo, di 12 anni. Salsone prestava, in febbraio, servizio nel carcere napoletano di Poggioreale e all’inizio si mise in relazione il suo omicidio con la sua attività a Napoli. Ma il grosso della sua attività Salsone l’aveva prestata proprio nel penitenziario di Reggo e le comunicazioni giudiziarie emesse ieri dal dottor Arcadi fanno ipotizzare che ad ordinare ed eseguire l’uccisione del Salsone furono due suol compagni di lavoro del carcere di Reggio. Tale ipotesi, che era già stata avanzata il 20 marzo scorso dai deputati comunisti Fantò e Violante in una interrogazione rivolta al ministri degli Interni e della Difesa, in cui si descrivesse di Salsone come un fedele servitore dello Stato, un onesto agente che non si era prestato a pressioni, che faceva il proprio dovere nel carcere di San Pietro e che proprio per questo era stato eliminato.
L’interrogazione dei due deputati comunisti conteneva altre denunce che vengono confermate dalla inchiesta giudiziaria. Si denunciavano innanzitutto i rapporti fra la direzione del carcere e gruppi mafiosi locali, che praticamente gestivano a loro piacere il penitenziario. Per chi non si adeguava c’erano intimidazioni: molti agenti subirono attentati per i quali non si era riusciti sinora a trovare una spiegazione ma che, alla luce della recente inchiesta, trovano finalmente una logica. Addirittura dentro il carcere al boss Paolo De Stefano, morto ammazzato poi nel novembre dell’85, fu diagnosticato un tumore che ne consentì l’uscita in libertà provvisoria. Tumore che però si dimostrò inesistente al momento dell’autopsia sul suo cadavere.
Il carcere di Reggio Calabria era salito agli onori della cronaca il 9 gennaio scorso quando il direttore Barcella scarcerò quattro pericolosissimi trafficanti internazionali di eroina per non aver notificato loro un mandato di cattura. Barcella parlò di errore materiale ma i giudici ipotizzarono il dolo e Barcella dopo questo episodio fu trasferito. Il direttore  degli Istituti di pena Nicolò Amato non si limitò però a questa misura. Inviò, infatti, ai magistrati di Reggio un pesantissimo rapporto sullo stato di corruzione e sugli intrecci con i mafiosi che esistevano nelle carceri di San Pietro. Ed è proprio da questo dossier e dall’interrogazione dei deputati del Pci — (che denunciarono anche una strategia di intimidazione verso la nuova direzione del carcere che sta tentando un’opera di moralizzazione e di pulizia) — che prese avvio la doppia inchiesta della magistratura che ieri è sfociata nei nove arresti.

 

 

Articolo dalla rivista della Polizia Penitenziaria “Le due città”
Il ricordo di un grande uomo 
A vent’anni dalla morte del Maresciallo degli Agenti di Custodia Filippo Salsone è stata intitolata alla sua memoria la caserma della Polizia Penitenziaria dell’istituto di Palmi

Il 7 febbraio si è tenuta la cerimonia di inaugurazione della caserma del personale di Polizia Penitenziaria annessa all’istituto penitenziario di Palmi. La struttura è stata intitolata al Maresciallo degli Agenti di Custodia Filippo Salsone, vittima di un vile attentato di stampo mafioso il 7 febbraio 1986. Il Provveditorato regionale della Calabria ha inteso così onorare la memoria di un onesto servitore dello Stato, che ha sacrificato la propria vita per la difesa delle Istituzioni. Alla cerimonia hanno preso parte il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Ettore Ferrara, il Prefetto di Reggio Calabria Luigi De Sena, il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Paolo Quattrone, il Sindaco di Brancaleone, città natale di Salsone, Domenico Malara, numerose Autorità, la vedova del Maresciallo Salsone, Signora Concetta Minniti e i figli Antonino e Paolo Salsone. Alle toccanti parole pronunciate da Antonino Salsone, il Capo del Dipartimento Ferrara ha così replicato: «Nei vostri sguardi riviviamo quegli istanti di tristezza e tragedia. Ma se una famiglia riesce a reagire con la dignità e la forza che voi avete dimostrato vuol dire che il sacrificio di Filippo non è stato invano. Noi siamo orgogliosi di averlo avuto tra di noi, siamo orgogliosi della sua grande umanità e professionalità. Ricordiamo che quelli in cui ha operato Salsone erano anni difficili in cui si chiedeva alla Polizia Penitenziaria di costruire l’ultima barriera tra la società civile e la delinquenza, con il rischio per molti di essere travolti». Chi era Filippo Salsone Filippo Salsone nasce a Brancaleone (RC) il 28 maggio 1942. Arruolatosi nel Corpo degli Agenti di Custodia il 25 settembre 1967, al termine del corso di formazione è assegnato alla Casa circondariale di Messina dove presta servizio fino al 1977. Promosso Brigadiere, Salsone lavora in diversi istituti penitenziari della Basilicata e della Calabria. Giunge a Cosenza nel 1982, e opera, con la qualifica di Maresciallo, in stretta collaborazione con il direttore Sergio Cosmai, nella difficile gestione del carcere calabrese nel quale tentavano di imporre, con coraggio, il rispetto della legalità. Due uomini che hanno sacrificato il bene prezioso della vita per contrastare il potere mafioso, il primo a cadere sotto i colpi delle cosche mafiose del cosentino è il direttore Cosmai, vittima di un attentato consumato il 15 marzo 1985. Circa un anno dopo, è il 7 febbraio 1986, a cadere vittima, a 40 anni, di un agguato di stampo mafioso è il Maresciallo Salsone, il quale, in località Brancaleone, mentre rincasa alla guida della propria autovettura, in compagnia della famiglia, viene fatto segno dell’agguato mortale, nel quale rimane ferito anche il figlio Paolo di dieci anni. Il Maresciallo Salsone è stato riconosciuto Vittima del dovere. La famiglia del Maresciallo Salsone ha così ricordato il proprio congiunto sulle pagine del quotidiano “Calabria ora” il 6 febbraio scorso: «Pur se sono passati oltre 20 anni dalla sua morte, è davvero facile dire chi era e cosa rappresenta Filippo Salsone per la sua famiglia. Il suo ricordo è, infatti, vivissimo ed immutato e ci accompagna quotidianamente, concretandosi, non solo in amarezza per la sua mancanza, ma soprattutto in un costante sentimento di confronto, di stimolo e di guida. Filippo Salsone era soprattutto un uomo che ha voluto e saputo guardare alla vita con dignità, cercando nell’istruzione e nel lavoro onesto la via del proprio agire sociale. Egli era poi un figlio, un fratello, un marito ed un padre di straordinaria intensità affettiva. Il Maresciallo Salsone era inoltre un eccellente servitore dello Stato, che indossava orgogliosamente la sua divisa, fiero del Corpo militare cui apparteneva e che svolgeva il suo lavoro con non comune dedizione, pienamente consapevole che la condizione di detenzione impone certamente un rigido rispetto delle regole ma, nel contempo, abbisogna di un apporto costante di attenzione e di umanità verso l’espiante. Egli è morto perché ha fermamente creduto nelle istituzioni e non ha voluto infangarne la credibilità ed il prestigio lasciandosi andare a comportamenti di collusione o di pavida copertura di situazioni di gravissima e diffusa illegalità. Noi siamo orgogliosi e fieri del suo comportamento di intransigente rifiuto di violare la legge o di assumere atteggiamenti di comoda inerzia, che pur avendolo portato all’estremo sacrificio, ha però costituito un fortissimo stimolo per ogni nostra attività ed un modello di vita cui continuiamo a ispirarci. Noi siamo davvero grati alle Istituzioni per il riconoscimento postumo tributato alla figura e al sacrificio del maresciallo capo Filippo Salsone con l’intitolazione a suo nome della Caserma della Polizia Penitenziaria di Palmi, tuttavia, proprio per il rispetto di quanto ci ha insegnato con il suo comportamento, esprimiamo il vivo auspicio che esse giungano al più presto alla indiviuazione e alla punizione penale degli esecutori del suo delitto, affinchè ognuno possa concretamente percepire che esse sono forti e che non dimenticano i loro figli caduti». Le strutture inaugurate La caserma “Filippo Salsone” per il personale in servizio all’istituto penitenziario di Palmi è una struttura pienamente rispondente alle esigenze del personale, con una disponibilità di 30 posti letto, in camere singole. Essa dispone di un’ampia a attrezzata palestra, quattro spogliatoi, una sala riunione, una capiente sala conferenze da 90 posti, una biblioteca e sala tv. Il personale di Polizia Penitenziaria in servizio a Palmi può, inoltre, usufruire di un centro sportivo molto accogliente e ben attrezzato, ricavato da un vecchio campetto di calcio. Il centro dispone quindi, oltre al campo di calcio, di un’area verde arredata con gazebo e, grazie all’accordo di programma siglato a luglio 2004 tra Comune di Palmi e Amministrazione Penitenziaria, è fruibile anche da associazioni locali e dai giovani del quartiere. I lavori di intonacatura e tinteggiatura, la messa in opera dell’area verde e dei parcheggi sono stati realizzati con la mano d’opera di dodici detenuti provenienti dal vicino istituto di Laureana di Borrello e di otto detenuti della Casa circondariale di Palmi. I manufatti in legno (gazebo, panchine, tettoie per parcheggi) sono stati realizzati presso il laboratorio di falegnameria di Laureana di Borrello, mentre i manufatti metallici (ringhiere, passamano, ecc,) sono stati realizzati presso l’officina fabbri della Casa circondariale di Crotone. L’arredo verde proviene dall’azienda agricola di Laureana di Borrello e dalle serre dell’istituto di Crotone. Il centro sportivo, per espresso desiderio dei colleghi, è stato intitolato all’Assistente capo Rocco Scicchitano, prematuramente scomparso il 25 maggio 2005.

 

 

Articolo pubblicato dalla “Casa della legalità e della cultura”
20.10.2006 – Gazzetta del sud
Cosenza – Un anno dopo l’uccisione del direttore del carcere Sergio Cosmai, le cosche bruzie pretesero l’eliminazione di un maresciallo.
Due delitti “eccellenti” ordinati dalla ‘ndrangheta.
Il pentito Franco Pino: «Il mio gruppo chiese la testa del comandante delle guardie»
di Arcangelo Badolati

Due morti di mafia. Due servitori dello Stato uccisi in attuazione d’un diabolico disegno criminale nato sotto l’egida d’un patto inconfessabile. Un patto d’onore e sangue stretto tra la cosca di Cosenza del capobastone Franco Pino e un potente boss della Locride. È stato proprio l’ex “mammasantissima” cosentino (pentito dal ’95) a rivelare i particolari dell’accordo ai magistrati della Dda di Catanzaro. Il padrino dagli occhi di ghiaccio aveva, d’altronde, sempre mantenuto rapporti preferenziali con i “compari” del Reggino, fornendo – quand’era necessario – killer dal polso fermo e rifugi sicuri per i latitanti in fuga dalla Piana di Gioia Tauro e dall’area dello Stretto. Il patto prevedeva – nel quadro di un reciproco scambio di “favori” tra consorterie – l’assassinio di un maresciallo della polizia penitenziaria che, nella prima metà degli anni ’80, aveva dato filo da torcere ai “picciotti” cosentini rinchiusi nel carcere bruzio. Il sottufficiale era stato per mesi il braccio destro del direttore del penitenziario di Cosenza, Sergio Cosmai, ammazzato dalla ‘ndrangheta nel marzo del 1985. Cosmai, schivo e determinato, aveva osato imporre ai carcerati il rispetto di regole ferree. E la scelta gli era costata la vita. L’uccisione del direttore era stata opera dei fratelli Dario e Nicola Notargiacomo e Giuseppe e Stefano Bartolomeo, che avevano agito nell’interesse di una frangia della criminalità organizzata locale. Con l’operazione “Missing” il procuratore aggiunto antimafia Mario Spagnuolo e il pm Raffaela Sforza, hanno contestato all’irriducibile padrino della città bruzia, Franco Perna (per lungo tempo rivale di Pino), d’essere stato il mandante del delitto “eccellente”. Dopo l’eliminazione di Cosmai, tuttavia, il gruppo Pino, che rappresentava, appunto, la storica fazione concorrente, decise di pareggiare i conti. Come? Facendo ammazzare il più fidato collaboratore del direttore del carcere. Ma ecco i retroscena dell’agguato svelati dal capobastone. “Dirigevano il carcere questo maresciallo e il direttore Cosmai e, pertanto, fu deciso di colpirlo – ha confessato il pentito – per favorire la pace tra i gruppi di Cosenza”. Insomma nell’attacco allo Stato i clan, un tempo rivali, decisero di dividersi equamente le responsabilità. Il sottufficiale fu assassinato a Brancaleone, nel 1986, da un commando che aprì il fuoco con fucili caricati a pallettoni. Nell’agguato rimase ferito pure il figlio (di dieci anni) della vittima designata. “Non so chi furono gli esecutori materiali – ha spiegato Franco Pino – non mi sono mai permesso di domandarlo. Il crimine venne compiuto da gente della zona ionica del Reggino cui ci eravamo rivolti per sbrigare la faccenda. Il giorno dell’omicidio io ero recluso nel carcere di Palmi e appresi la notizia alle sei del mattino dal giornale radio. Il maresciallo è morto sul colpo, il bambino che era insieme a lui, rimase ferito ma non morì”. Il pentito ha raccontato che la missione omicida fu organizzata e diretta da un padrino operante tra Africo e San Luca che in cambio chiese un preciso “favore”. I “compari” cosentini avrebbero dovuto ammazzare quattro reggini ch’erano stati fermati nel capoluogo bruzio per detenzione di armi. “Ci chiese se in occasione del processo fissato a loro carico – ha detto Pino – potevamo colpire loro o i familiari che venivano a trovarli. In quel periodo era in corso una cruenta faida nella zona di Africo e l’eliminazione di tutti i nemici veniva ritenuta di vitale importanza”. Il “favore” richiesto non venne tuttavia esaudito. E la circostanza infastidì non poco il potente capobastone della Locride. Già, perchè il padrino – come da pregressi accordi – aveva nel frattempo fatto uccidere il maresciallo della polizia penitenziaria. Filippo Salsone, 40 anni, cadde infatti vittima di un agguato mafioso in contrada Razzà di Brancaleone. Aveva appena lasciato l’abitazione dei genitori cui s’era recato a far visita. Il sottufficiale venne massacrato a colpi di fucile calibro 12 e 16 caricati a lupara e finito con una pistolettata alla testa. Tre i sicari impegnati nell’azione delittuosa. Al momento della morte Salsone era in servizio provvisorio a Reggio Calabria, anche se la sede d’assegnazione era Poggioreale. “L’eliminazione di Salsone – ha aggiunto il collaboratore di giustizia – era stata richiesta ai locresi anche da una famiglia di Lamezia Terme per via di un incidente avvenuto nel carcere di Livorno qualche tempo prima”. Franco Pino è, al momento, l’unico collaboratore di giustizia che offre una chiave di lettura di questo omicidio rimasto senza colpevoli. Nella Locride, d’altronde, non esistono pentiti di spessore che possano riferire di fatti risalenti a venti anni addietro. La ‘ndrangheta, da quelle parti, preferisce il silenzio.

 

 

Altra Fonte: Associazione Vittime del Dovere

 

Fonte: linkiesta.it
Articolo del 11 ottobre 2016
Vittima della mafia. Filippo Salsone, il capo delle guardie.
di Claudio Scaccianoce

Se scrivo sopra ad una pagina bianca il nome di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, sono certo che nella mente di tutti prendono forma immediatamente le immagini dei loro volti. Ma se scrivo il nome di Filippo Salsone, saranno inevitabilmente meno le persone che ne ricorderanno il nome, la storia ed il volto. Eppure, proprio come i due giudici, divenuti emblemi della lotta alla criminalità di stampo mafioso, anch’egli ha pagato la fedeltà allo Stato con la vita. Con questa intervista esclusiva al figlio Antonino, cerchiamo di ricordare la sua figura di uomo, di padre, di integerrimo servitore dello Stato.

Incontro Antonino Salsone nel suo studio di Monza. Nato il 27 aprile 1971 a Melito di Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, è il figlio primogenito di Filippo Salsone. Vive la prima parte della sua vita, fino a ventotto anni, dividendosi tra i paesi di Brancaleone e di Bruzzano Zeffirio, luoghi natali dei genitori, distanti tra di loro solo pochissimi chilometri. Laureatosi nel 1995 in Giurisprudenza a Messina, nel 1997 si trasferisce in Lombardia dove tutt’ora risiede. Dopo una prima esperienza professionale a Chiari (Bs), dal 2000 al 2005 collabora con uno studio legale di Monza. Nel 2005 apre uno studio legale proprio, oggi molto quotato. Antonino Salsone è sposato con una collega avvocato, Giudice di Pace in un capoluogo di provincia lombardo, ed è papà di tre ragazzi.

Chi era Filippo Salsone ?

Mio padre è nato a Brancaleone (RC) il 28 maggio del 1942 in una famiglia modesta, mio nonno faceva lo stagnino e mia nonna era una casalinga. Mio padre era il terzo di quattro figli. Tre fratelli ed una sorella. A soli undici anni mio nonno lo mandò presso un parente a Pavia e sulle sponde del Ticino rimase fino ai quattordici anni. Dopo essere tornato al paese natale per qualche anno, emigrò quindi in Lussemburgo dove lavorò in fabbrica sino ai diciotto anni. Tornato in Calabria per prestare il servizio militare, entrò nel corpo degli Agenti di Custodia, oggi Polizia Penitenziaria. Allora il Corpo era militarizzato e dipendeva dal Ministero di Grazia e Giustizia. Svolse la prima parte della carriera a Messina, prima assegnazione, prima come agente e successivamente some sottufficiale. Da brigadiere gli venne assegnata la direzione della sezione adibita al contenimento delle terroriste, come ad esempio Barbara Balzarani ed Adriana Faranda, all’interno del penitenziario messinese. Sezione che guidò per cinque anni.

Avvocato Salsone la riporto indietro negli anni con la memoria. Mi racconti cosa accadde il 7 febbraio 1986. Quali sono i suoi ricordi più vivi di quei drammatici momenti?

Accadde questo, lo ricordo in modo assolutamente nitido. Eravamo stati a cena, mio papà, mia mamma, mio fratello minore Paolo ed io, a casa dei mie nonni materni. Intorno alle venti rientrammo da Bruzzano verso Brancaleone dove abitavamo, a mezza collina (sono circa cinque chilometri di strada). Ricordo nitidamente che andammo con la macchina di mia mamma, una Fiat 126 azzurra. Scesi dalla macchina, entrammo tutti e quattro in casa e dopo qualche minuto mio padre uscì nuovamente con una scodella, per dare da mangiare al cane. A quel punto (io mio trovavo più o meno nel corridoio di casa) io sentii uno scoppio, che sulle prime mi sembrò lo scoppio di una bombola del gas. In realtà non si trattava di una deflagrazione, ma di diversi colpi di arma da fuoco. Io fui il primo ad uscire di casa e vidi mio padre disteso davanti all’uscio, con il volto ricoperto di sangue. L’unica cosa a cui pensai fu il cercare di rianimarlo e provai a fargli un massaggio cardiaco. Un gesto istintivo, forse l’emulazione di un gesto visto in televisione.

Ma mio padre si spense dopo pochissimi secondi, ed io percepii chiaramente il suo ultimo respiro. Dalla casa di fronte, distante circa venticinque-trenta metri, dal secondo piano di una casa in costruzione, furono sparati da due fucili diversi colpi di arma da fuoco. Munizioni a pallettoni, con i pallettoni legati tra di loro con un filo per non allargare troppo la rosa prima di giungere al bersaglio. In quell’occasione rimase purtroppo ferito molto gravemente anche mio fratello Paolo, che sostava al momento dell’agguato in casa ma dietro ad una finestra. Fu colpito alla testa e fu ricoverato per oltre un mese agli Ospedali Civili di Reggio Calabria in pericolo di vita. Ai tempi aveva solo undici anni. Ancora oggi mio fratello ha dei pallini in testa.

Perché le cosche ordinarono questo crimine efferato?

Nell’immediatezza del delitto, dopo tre-quattro anni, la prima indagine riguardò il carcere di Reggio Calabria. Mio papà aveva avuto diversi incarichi ed aveva comandato in diverse carceri. Tutte in Calabria: Lamezia Terme, Crotone, Cosenza ed infine Reggio Calabria. Al momento dell’uccisione era comandante di Poggioreale, a Napoli. Il primo filone di indagini riguardò il carcere di Reggio Calabria, dove mio padre era vice comandate, alle dipendenze gerarchiche di un certo maresciallo Scorza. Mio padre, che è sempre stata una persona integerrima ed assolutamente onesta, si accorse che all’interno del carcere di Reggio Calabria (parliamo del 1985) non venivano rispettati i regolamenti carcerari. Si scontrò molto, moltissimo (si può leggere la cronaca giudiziaria di quegli anni) con il direttore di allora, il dottor Barcella, e con gli altri due marescialli suoi colleghi, Scorza e Miciullo. Agli atti rimane una sentenza che attesta in maniera chiarissima come il maresciallo Salsone, fedele ed integerrimo servitore dello Stato, fosse l’unico tra i sottufficiali a far rispettare il regolamento carcerario. (Tribunale di Reggio Calabria, sentenza a firma della dott.ssa Grasso, Presidente del Collegio giudicante).

Intorno ai primi anni duemila le indagini presero una piega diversa e si orientarono verso il carcere di Cosenza. Un pentito di ‘ndrangheta, Franco Pino, proveniente dalla città di Paola, suggerì agli inquirenti di concentrare la propria attenzione verso questo penitenziario. Mio padre comandò il carcere di Cosenza e fu un collaboratore strettissimo dell’allora direttore Sergio Cosmai, ucciso nel 1985. Cosmai venne ucciso da una consorteria mafiosa cosentina facente capo ad un certo Franco Perna (esiste a tal riguardo una sentenza passata in giudicato). L’altra consorteria mafiosa che operava in città, e faceva capo a Franco Pino, decise di controbilanciare la dimostrazione di potere mafioso del clan Perna, uccidendo l’allora capo della Polizia Penitenziaria, il capo delle guardie, cioè mio padre. Il tutto per dimostrare come anche il clan Pino avesse la medesima capacità operativa.

Successivamente il pentito Franco Pino confermò che il mandante dell’omicidio Salsone era stato proprio lui e si autoaccusò in modo palese, anche se l’esecuzione materiale fu delegata a personaggi di Africo a cui chiese il favore di eseguire il delitto.

Esiste quindi una sentenza giudiziaria?

In realtà, ad oggi, non esiste alcuna sentenza. Ufficialmente non esiste un solo nome che individui il mandante e l’esecutore dell’omicidio di mio padre.

Suo padre è stato insignito, alla memoria, con la Medaglia d’Oro al Merito Civile. Dalle mani del Presidente della Repubblica proprio Lei ha ritirato l’onorificenza. Suo padre è stato riconosciuto “vittima del dovere”. Immagino che la Sua famiglia abbia quindi prontamente beneficiato di tutti i sostegni previsti dalla legge.

Assolutamente si. Mio padre è stato dichiarato vittima del dovere già l’anno successivo alla sua morte, con decreto del capo della Polizia. E la mia famiglia ha beneficiato della cosiddetta speciale elargizione spettante ai familiari superstiti delle vittime del dovere. A seguito anche dei filoni di indagine, noi abbiamo sempre sostenuto che mio padre non fosse solo una vittima del dovere, ma anche una vittima di mafia. Sicuramente è una vittima di mafia. Perché la matrice del delitto è esclusivamente mafiosa, e nello specifico ‘ndranghetistica. Questo nostro tentativo di avere riconosciuta la qualifica di vittima di mafia per mio padre non ha mai avuto un buon esito. Per la prima volta intorno all’anno 2000 abbiamo fatto un’istanza per ottenere questo riconoscimento, ma ci siamo scontrati con la normativa vigente. Normativa che attribuisce la decisione non all’autorità amministrativa, bensì all’esistenza di una sentenza, anche di primo grado, che attesti il contesto mafioso del delitto. Sentenza che non esiste, a distanza di trent’anni dall’omicidio. Proponemmo quindi ricorso al TAR di Milano che però dichiarò la propria incompetenza, rimandandoci al giudice civile.

Nel 2010 ricevemmo la splendida notizia che mio padre era stato insignito della Medaglia d’Oro al Merito Civile. Nel corso della festa della Polizia Penitenziaria, maggio 2010, io stesso ricevetti l’onorificenza dalle mani del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nella splendida cornice dell’Arco di Traiano a Roma, presenti anche mia mamma e mio fratello Paolo.

La motivazione che indusse il Ministro degli Interni a proporre alla Presidenza della Repubblica la concessione dell’onorificenza dice:

«Consapevole del grave rischio personale si impegnò con coraggio e fermezza a ripristinare il rispetto delle regole e la disciplina all’interno di alcuni istituti penitenziari, ove erano detenuti elementi di spicco delle locali cosche criminali, rimanendo quindi vittima di un vile agguato. Fulgido esempio di elevato spirito di servizio e non comune senso del dovere, spinti sino all’estremo sacrificio».

Mio padre aveva la consapevolezza che quelle azioni gli sarebbero costate la vita. E lui, nonostante questo, decise di andare avanti. Ed io ne sono orgoglioso.

A fronte di questo grande onore, l’anno successivo, il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha intestato il carcere di Palmi “Casa Circondariale Filippo Salsone”. Stiamo parlando del penitenziario più importante della Calabria.

Nonostante queste chiarissime manifestazioni della ratio, del principio, della natura criminale mafiosa dell’omicidio di mio padre, ancora qualche giorno addietro, ai primi di settembre, a seguito di un’ulteriore istanza che io ho personalmente presentato al Ministero dell’Interno ed al Capo della Polizia, (riassumendo tutto l’iter e chiedendo nuovamente il riconoscimento della qualifica di vittima della mafia), mi è stato comunicato ancora il rigetto dell’istanza. Motivo tecnico-burocratico: manca la sentenza.

Io noto che c’è una chiara contrapposizione tra quanto il Presidente della Repubblica, il Ministro dell’Interno ed il Capo del DAP hanno fatto e ritenuto e quanto viene negato a mio padre con motivi non di merito, ma burocratici. Viene negato quanto gli spetta, perché lui è morto per mano della mafia.

Dove ha trovato la forza per superare una tragedia così devastante sino a diventare un professionista affermato ed un uomo stimato da tutti ?

Proprio in mio padre. Nel suo ricordo, nella sua memoria. Nel fatto che io volevo essere un degno figlio per lui. È lui che mi ha dato e mi da la forza.

Riesce ancora ad amare la sua terra d’origine dopo tutta la sofferenza che Le ha procurato?

Assolutamente si. Io amo la Calabria ed amo i calabresi. La Calabria è un’espressione autentica di calore e di bontà d’animo. In Calabria purtroppo c’è questo cancro spaventoso che andrebbe estirpato in modo radicale e definitivo, ma questo cancro non deve essere confuso con i calabresi. Io non li chiamerei neppure calabresi; questi sono dei criminali che andrebbero estirpati dalla faccia della Terra.

Amo molto anche la Lombardia e mi sento un figlio adottivo di questa terra. Certamente la mia mamma naturale è la Calabria ma la mia mamma adottiva è la Lombardia. La Lombardia mi ha accolto, mi ha fatto diventare uomo e professionista e la amo con la stessa intensità emotiva.

Quanto la spaventa il fatto che la ‘ndrangheta si stia radicando pervicacemente in Lombardia?

Mi spaventa moltissimo come cittadino, come lombardo-calabrese e come padre di tre figli che spero possano vivere in un ambiente immune da un cancro così feroce. Una regione espressione di valori sani, portatrice di valori che fanno riferimento all’onestà, al lavoro deve essere difesa da noi tutti. E resa aliena da infiltrazioni di questo tipo. Ribadisco, questi malavitosi, a prescindere dal fatto che siano ‘ndranghetari calabresi, mafiosi siciliani, camorristi napoletani o pugliesi della Sacra Corona Unita, sono solo criminali. Vanno trattati da criminali e combattuti senza tregua. Non solo grazie all’opera costante ed encomiabile delle forze dell’ordine e della magistratura, ma soprattutto grazie all’opera della società civile e della pubblica amministrazione.

La pubblica amministrazione deve avere il coraggio di dire NO a queste infiltrazioni.

Come si può rendere sterile la mala pianta della mafia?

Non sono un sociologo, ma ho da sempre maturato una duplice convinzione, anche in considerazione del fatto che sino a ventotto anni ho vissuto in una terra molto difficile come la Locride. Sono due gli ambiti da coltivare da parte soprattutto della politica. La vera forza motrice del cambiamento deve essere necessariamente la volontà politica. La scuola ed il lavoro. Bisogna svolgere un’attività di tipo pedagogico a partire dalle elementari, riscoprendo il gusto, il piacere, il senso della civicità. Bisogna investire nella scuola.

E poi il lavoro. Il lavoro è essenziale perché la ’ndrangheta si radica dove il lavoro non c’è. La ‘ndrangheta diventa il datore di lavoro del soggetto che il lavoro non ha. E siccome bisogna campare, e bisogna pur mangiare la malavita organizzata può risultare talvolta una soluzione.

In una situazione già degradata sotto il profilo sociale, in cui lo Stato viene impersonato dalla caserma dei Carabinieri e niente altro, è chiaro che il lavoro è assolutamente necessario. Per combattere la criminalità mafiosa e ‘ndranghetista, prima la scuola e poi il lavoro.

Un ultimo pensiero.

L’amarezza mia, di mio fratello, di mia madre e di mio zio nasce dal fatto che, a trent’anni esatti dalla morte di mio padre, sembra quasi che la sua uccisione debba per forza rimanere nel dimenticatoio di questa Repubblica. E noi questo non lo accettiamo. A fronte delle dichiarazioni del pentito Pino, noi non abbiamo mai saputo niente di ufficiale. Non abbiamo una informativa ufficiale da parte degli organi inquirenti. Quello che sappiamo lo abbiamo ricavato dai mass media e da una continua opera di collazione su internet. Io non so se il Pino, reo confesso, sia ancora vivo o carcerato. Non ne sappiamo nulla. Abbiamo chiesto all’autorità giurisdizionale ed alla DDA (Direzione Distrettuale Antimafia ndr) “cosa state facendo?” Ancora attendiamo una risposta.

 

 

 

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