7 maggio 1879 Bolognetta (PA). Assassinato Giorgio Verdura, ex sindaco del paese

L’ex-brigadiere Giorgio Verdura con decreto del 31 maggio 1877, fu nominato sindaco del Comune di Santa Maria dell’Ogliastro, oggi Bolognetta (Palermo) per il triennio 1876 -78. A partire dal 24 luglio 1878, il sindaco invia alle autorità del mandamento, della provincia e del circondario una circostanziata denuncia contro il notaio Vincenzo, classe 1836, e i fratelli Antonino e Rosario Benanti, i fratelli Giovanni e Giuseppe Monachelli, il medico Antonino Calivà, tutti appartenenti al cosiddetto “partito Benanti”. La coraggiosa denuncia del sindaco contraddice la presunta generale omertà dei siciliani, segnalata qualche anno prima dalla celebre inchiesta degli aristocratici toscani Franchetti e Sonnino, secondo cui nell’isola “nessuno denunzia, nessuno porta testimonianza, nemmen l’offeso”. Verdura viene accusato di essere un calunniatore fino a essere rimosso dal suo ruolo di sindaco. Il 7 maggio, sul far del giorno, si reca a Palermo a piedi con un gruppo di compaesani forse al seguito dei carrettieri che partono all’alba in gruppo. Nel corso del cammino, l’ex sindaco si distanzia dalla comitiva di circa trecento metri. All’improvviso, da un campo coltivato a frumento vengono sparati i proiettili di un fucile, che lo colpiscono. (Fonte:  vivi.libera.it )

 

 

Fonte: giornaledibolognetta.blogspot.com
Articolo del 4 febbraio 2014
L’assassinio di Giorgio Verdura (1879)
Un delitto politico-mafioso nell’Ottocento
di Santo Lombino

1. La denuncia del sindaco.
Dopo il rifiuto di diversi “notabili” di Ogliastro ad assumere la carica di sindaco del paese, il prefetto di Palermo punta sull’ex-brigadiere Giorgio Verdura, nominandolo sindaco per il triennio 1876-78.
Verdura, a giudizio del questore di Palermo, gode della pubblica stima, ha una buona posizione economica e sociale e ha fatto parte del corpo dei Reali Carabinieri per tredici anni. Sempre secondo la questura, pur essendo originario di Messina, egli ha in Ogliastro “una parentela stimata e piuttosto estesa”, avendo sposato tale Maria Lo Faso fu Carmelo. Inoltre – elemento nient’affatto trascurabile – Verdura viene considerato estraneo alle fazioni in lotta ed allineato su posizioni filo-governative, il che non dispiace alla questura palermitana.

Tuttavia l’amministrazione Verdura entra in crisi dopo la campagna elettorale per il rinnovo del consiglio comunale. Vengono rivolte pesanti accuse al sindaco, che “per smania di potere” si è circondato persino di individui “ammoniti e pregiudicati”. A partire dal 24 luglio 1878 il sindaco Verdura invia alle autorità del mandamento, della provincia e del circondario una circostanziata denuncia contro il notaio Vincenzo Benanti, che i carabinieri indicheranno nell’aprile 1880 come capo della mafia locale, i suoi fratelli Antonino e Rosario, i fratelli Giovanni e Giuseppe Monachelli, il dottor Antonino Calivà, tutti appartenenti al cosiddetto “partito” Benanti, all’opposizione del sindaco. Verdura li accusava di aver ideato il suo assassinio e quello del farmacista Lorenzo Bannò, la devastazione nelle proprietà di campagna di Ignazio Romano, collettore delle imposte e tesoriere comunale. Gli esecutori materiali del progetto criminoso erano indicati in tali Giampaolo Natale di Rosolino e Francesco Di Fresco figlio di ignoti, entrambi domiciliati in Ogliastro, con la promessa di 300 lire di ricompensa. Non sappiamo come e da chi i Benanti siano venuti a conoscenza dell’esposto del sindaco, fatto sta che la loro reazione è forte e decisa.

2. La reazione dei Benanti
Meno di dieci giorni dopo, il notaio Vincenzo Benanti prende carta e penna anche a nome dei fratelli per scagliare un’infuocata contro-denunzia inviata al prefetto di Palermo: viene descritta l’ascesa del sindaco come persona al di sopra delle fazioni locali ed evidenziata la successiva delusione “dell’elemento intelligente” del paese — cioè dei notabili — per il comportamento di Verdura. Quest’ultimo viene infatti accusato di essersi montato la testa e, una volta diventato sindaco, di “aver fatto troppo sciupìo della fortunata autorità per caso acquistata” e di aver perseguitato onesti cittadini con “ingiuste misure di rigore”. Il capo dell’amministrazione comunale, secondo Benanti, aveva addirittura preso di mira il brigadiere dei carabinieri in carica Emilio Marufati, chiedendo contro di lui misure disciplinari perché avrebbe svolto propaganda elettorale a favore dei suoi avversari politici. A questo proposito, il notaio informa anzi apertamente il prefetto di “avere spiegato ogni impegno verso il comando dei carabinieri, rilevando come in nulla il brigadiere (tale Marufati) avea demeritato”, confermando così candidamente di avere il potere di esercitare pressioni sugli alti gradi dell’Arma, utilizzando i suoi forti legami politici a favore del comandante della stazione dei carabinieri. A giudizio del ricorrente, Giorgio Verdura si era trasformato in un campione di ingiustizia e opportunismo, dimostrandosi “funzionario non ispirato al sentimento del proprio dovere ma spinto da un solo fine: l’ambizione… funzionario che valendosi della sua qualità si arma contro il cittadino per dare sfogo alla più turpe passione dell’odio”. A rendere più fosco il quadro, il notaio Benanti fa sapere al rappresentante del governo che il sindaco non si è peritato di far leggere al fratello Rosario la denunzia e di informare Ignazio Romano che era intenzione dei Benanti procurare il taglio delle sue coltivazioni. Inoltre, con finta ingenuità Verdura avrebbe ironicamente ringraziato un ammonito, tal Giuseppe Ficarrotta, perché si era diffusa la voce che questi avesse rifiutato l’offerta fattagli dai mandanti. Ovviamente, Ficarrotta aveva riferito la notizia agli avversari del sindaco… A sostegno della sua accusa, Vincenzo Benanti riporta l’elenco di chi è pronto a confermarla di fronte alle autorità: Santi Adorno, segretario comunale, “che scrisse la denunzia sotto il dettato del Verdura e ne spedì le copie”, Ignazio Romano, esattore delle imposte, presunta terza vittima designata, l’avvocato Antonino Gargano, “che raccolse dalla bocca del Romano la narrazione della infame trama”, Giuseppe Ficarrotta di cui si è detto, Giuseppe e Giovanni Monachelli, Antonino Calivà, gli altri fratelli Benanti.

3. La destituzione e il commissariamento
A questo punto, il prefetto invia un funzionario ad Ogliastro che ascolta dal sindaco la conferma dei termini della grave denunzia presentata e l’aggiunta che le notizie sul “minacciato attentato” erano a lui pervenute, in via confidenziale, da tale Antonino Vilardi. Il prefetto decide di aprire un procedimento penale, alla fine del quale si riserva di prendere gli opportuni provvedimenti. Egli attribuisce l’esposto del sindaco al clima infuocato instauratosi nell’ambito amministrativo, in cui “vari partiti si contendono accanitamente il governo della cosa comunale, non rifuggendo dai più biasimevoli maneggi e dalle arti più basse e malvagie per raggiungere l’intento”. Al partito del sindaco, circondatosi di “aderenti nemici d’ogni disciplina e non tutti immuni da precedenti penali”, si opponeva il partito Benanti-Monachelli, “forte di censo, e di capacità superiore, il quale andò mano a mano acquistando di vigore e circondandosi di largo satellizio (cioè seguito) fino a tanto che con l’esito delle ultime elezioni ottenne una notevole maggioranza di voti nel seno del consiglio”. La lotta tra le due fazioni ha prodotto “un grave disordine nell’azienda comunale, un malcontento generale nel paese verso gli attuali amministratori, segnatamente verso il sindaco, giudicato adesso “uomo pusillanime ed assai limitato di capacità” che “non offre sufficienti garanzie di buona gestione ed è pressoché esautorato”. Il prefetto si era convinto che le accuse del sindaco fossero nient’altro che “una frottola per malevolenza e per passione” dettata “da rimorsi di parte e da ragioni di inimicizia personale”, quindi interamente false. Tanto più che qualcuno lo aveva informato che il sindaco Verdura, pochi giorni dopo l’invio della denunzia, aveva concluso una trattativa con il notaio Benanti e, alla presenza di due testimoni, aveva ritrattato per iscritto l’esposto precedente, arrivando a dichiararlo falso, calunnioso e legato “a sentimenti di mal composta vendetta”. Tali notizie, unite all’esito negativo dell’indagine prefettizia indusse infine il rappresentante del governo a chiedere, il 26 settembre, la rimozione di Verdura dall’ufficio di sindaco e lo scioglimento del consiglio comunale.

In seguito alle decisioni ministeriali, viene inviato dal prefetto l’ennesimo delegato straordinario nella persona dell’avvocato Eugenio Dionese, che si mette all’opera per affrontare le questioni amministrative più urgenti.
La sua gestione della cosa pubblica viene in paese universalmente riconosciuta quanto mai produttiva ed utile, a tal punto che un gruppo di cittadini sottoscrive una petizione al governo nazionale perché egli venga confermato per un periodo maggiore dei tre mesi previsti dalla legge. La richiesta è motivata da un lungo elenco di benemerite realizzazioni e buoni propositi di Dionese, tra cui “il progetto per la costruzione di un tramway a trazione meccanica, l’utilizzamento (!) di non poche terre abbandonate, il censimento di molte terre usurpate, la concessione di suoli nel campo santo comunale per sepolture gentilizie, il richiamo dei conti finanziari a taluni ex gestori che pel passato, per vedute di amicizia e di parentela si lasciavano nella più pretta dimenticanza”. Nell’eventualità in cui la sua missione si fosse interrotta, i firmatari presagivano nefaste conseguenze: “non si verrà mai a fine per la compilazione di ruoli per la tassa focatico… Non si effettuerà lo appalto del dazio di consumo per il quale questo regio delegato ha iniziato delle vantaggiose trattative… non si costituirà la strada che conduce al cimitero e non si sosterranno altre tre vie che conducono in una vicina frazione di questo comune… Nessuno più brigherà per la vitalissima questione della circoscrizione territoriale per la quale questo sig. r. delegato ha fatto molto riscontrando alle ingiuste pretese di taluni comuni che chiedono l’aggregazione di taluni territori di questa, e nel contempo non ha lasciato di far valere giuste ragioni onde aggregare a questo territorio taluni feudi attualmente catastati ad altri comuni”. La richiesta portava la firma di 26 cittadini ogliastresi, molti dei quali tengono a qualificarsi ex-consiglieri e assessori comunali, appartenenti alle diverse componenti politiche. La compresenza di esponenti dei due “partiti” Benanti e Verdura fa di questo documento una sorta di “patto di pacificazione” tra avversari politici, decisi finalmente ad abbandonare lo scontro diretto e ad affidare concordemente la gestione dei problemi del paese ad una autorità esterna, ritenuta al sopra delle parti.

4. L’uccisione di Verdura
Nel frattempo, pare che Giorgio Verdura, non più sindaco, si fosse convinto a ritrattare la denunzia, o per amore di pace, oppure nell’illusione che la scoperta del complotto potesse indurre gli avversari a desistere dai loro propositi, o ancora rassegnato di fronte alla impossibilità di fornire prove convincenti.
I fatti successivi dimostrarono fondati i suoi timori.
Il 7 maggio 1879, di primo mattino, l’ex-sindaco si reca a Palermo con un gruppo di compaesani. Nel corso del cammino, accompagnato a tale Vincenzo La Barbera, si distanzia dalla comitiva di circa trecento metri. All’improvviso, da un campo coltivato a frumento vengono sparati i proiettili di un fucile, che vanno a colpirlo alla gamba destra e alla coscia sinistra. La Barbera si getta subito a terra, mentre dal gruppo tale Francesco Lo Brutto (molto probabilmente consigliere comunale) risponde al fuoco e “spingendosi avanti tirava due colpi di revolver verso un tale che dal punto dell’esplosione davasi a gran corsa a traverso la campagna”. I testimoni diranno che il fuggitivo era “di statura regolare, vestito di scuro” e – ovviamente – “assai lesto”. Ferito gravemente, Verdura viene soccorso e portato all’ospedale, dove morirà alcune ore dopo, non prima di aver parlato con i parenti e gli inquirenti.

In base alle sue dichiarazioni, il giudice emetteva un mandato di cattura, prontamente eseguito dai carabinieri “in persona di Ficarrotta Giuseppe fu Carlo e Giuffrida Giuseppe fu Giuseppe, ammoniti, come sospetti del crimine”. Il delegato di pubblica sicurezza di Misilmeri a casa di Ficarrotta trova solo la moglie, che dichiara che il marito era andato a lavorare in un fondo del sindaco Antonino Benanti. Alla questura risulterà però che egli era andato a “raccogliere fave in un fondo in prossimità a quello del commesso”, cioè, se non capiamo male, vicino al luogo del delitto. Naturalmente la moglie di Ficarrotta informò subito Antonino Benanti della visita avuta. Benanti, a sua volta, le consigliava di non rivelare ove si trovasse il marito e di inviare da lui eventuali inquirenti. Quando il delegato di polizia chiese al sindaco il perché di questo comportamento, egli rispose che “essendo il di lei marito… al suo servizio, gli farebbe dispiacimento che fosse stato arrestato sapendolo innocente. Il 9 maggio il giudice istruttore convoca tre persone: Francesco Lo Brutto, che aveva difeso a mano armata l’ex sindaco, Antonino Verdura, fratello del defunto e la vedova Maria Lo Faso, di anni 27. Gli ultimi due indicarono Ficarrotta come autore materiale del “truce misfatto” con la complicità di Giuseppe Giuffrida, mentre i mandanti erano da individuare nei “noti fratelli Benanti”. Così come aveva denunciato Giorgio Verdura, circa dieci mesi prima i tre fratelli Benanti, assieme ai fratelli Giuseppe e Giovanni Monachelli e ad Antonino Calivà, “avrebbero promesso lire 300 a Ficarrotta Giuseppe, Gianpaolo Natale e Velardi Antonino per assassinare il Verdura, nonché tale Bannò Lorenzo e tagliare un vigneto di Romano Ignazio sostenitore del Verdura”. Secondo i familiari Giuffrida, “essendo una persona intima” di Lo Brutto, l’unico a sapere in anticipo del viaggio, avrebbe informato Ficarrotta. Il fratello e la moglie della vittima riferirono inoltre al magistrato che il giorno dell’assassinio lo stesso Giuffrida aveva fatto suonare a morto le campane della chiesa di Ogliastro dicendo (chissà perché?!) “al sacrestano che era morto tal Lo Cascio Giovanni tuttora vivo”.

Venti giorni dopo, il notaio Vincenzo Benanti, vedendo uscire da casa la vedova e il fratello del defunto per recarsi a testimoniare dal delegato di polizia di Misilmeri, inveisce contro di loro, accusandoli di volere gettare fango su innocenti abitanti del paese. Inoltre Antonino Benanti, facente funzione di sindaco, applicando alla lettera le norme vigenti, revoca subito la licenza di “spaccio privilegiato” al fratello del defunto, che l’aveva chiuso nei giorni del lutto, concedendola a Giuseppe Monachelli. Il comportamento dei Benanti viene rilevato dal questore di Palermo che, in una nota riservata diretta al prefetto, gli fa notare come esso “vada ormai assumendo tale aspetto di provocante ed implacabile rappresaglia contro i parenti ed aderenti dell’estinto Verdura da compromettere seriamente il regolare svolgimento della giustizia riuscendo ad intimidire senza dubbio i testimoni”. Sempre per rappresagli Antonino Benanti, in virtù dei suoi poteri di ufficiale di governo, avrebbe ritirato ai primi di luglio il permesso di porto d’armi al trentaseienne Pietro Graziano di Giuseppe, per “sospetti di furto di covoni di grano in pregiudizio di Orobello Illuminato”. Tale provvedimento, però, avrebbe origine nelle deposizioni fatte da Graziano nel processo Verdura, tutt’altro che favorevoli al partito Benanti.

5. Le indagini e la loro conclusione.
Durante le indagini viene ipotizzata la complicità con gli autori del delitto da parte di Vincenzo La Barbera, compagno di viaggio di Giorgio Verdura. In passato, infatti, c’era stato qualche screzio tra i due, ma alla fine l’ipotesi si rivela infondata, tanto più che Luigi Bannò, anch’egli presente ai fatti e intimo amico dell’ex sindaco, aveva dichiarato che era stato Giorgio Verdura stesso a invitare La Barbera a distaccarsi con lui dalla comitiva.
Gli inquirenti inoltre vengono a sapere che tre giorni prima dell’attentato si sarebbe tenuta una riunione in casa di Giuseppe Giuffrida con l’intervento di Giuseppe Ficarrotta, il medico condotto Antonino Calivà ed altri. Si disse inoltre che il giorno dopo l’assassinio il notaio Vincenzo Benanti e tale Stefano Sclafani, “si sarebbero recati nel fondo seminato a fave in cui lavorava il Ficarrotta ed avrebbero estratto da un letamaio, vicino al punto in cui fu esploso il colpo, un fucile che asportarono seco”. Inoltre la vedova di Giorgio Verdura avrebbe appreso dal marito ferito che “accanto a colui il quale gli esplose il colpo stava Monachelli Giovanni”.Monachelli era stato licenziato, su proposta dell’ex sindaco, da scrivano del municipio. Questa notizia indusse il giudice istruttore di Palermo ad emettere, in data 6 giugno 1879, mandato di cattura “eseguibile anche di notte” nei confronti di Giuseppe Monachelli fu Luciano di anni 29, “civile”, fratello di Giovanni, in quanto complice dell’assassinio, mandato eseguito due giorni dopo.

Altro elemento emerso dalle indagini, lo strano comportamento di un carabiniere della caserma di Ogliastro, il quale in un primo momento avrebbe espresso la motivata convinzione che il mandante dell’omicidio fosse Antonino Benanti, mentre di fronte al giudice istruttore, avrebbe notevolmente ridimensionato le accuse ai Benanti e ai loro complici. Secondo quanto rivelato dalla vedova Verdura agli inquirenti, il militare avrebbe fatto questo “dietro istigazione e minacce del proprio brigadiere, il quale va a licenziarsi alla metà del prossimo agosto e che probabilmente avrà ceduto a preghiera del Benanti, di cui si è sempre mostrato amico e partigiano del di lui partito”. Arriva al prefetto di Palermo nel mese di luglio una circostanziata lettera firmata Antonino Verdura, ma in realtà anonima, in cui si fa presente che “in questo paese di Ogliastro esiste un’associazione di malfattori la quale il sindaco funzionante alla testa di questa mafia e li suoi due fratelli Vincenzo Benanti, Antonino Benanti e Rosario Benanti, nonché Antonino Calivà, Giuseppe Monachelli, Giovanni Monachelli figlio del fu Luciano, la quale autore dell’assassino del nominato Verdura Giorgio”. Entrando nei dettagli del delitto, l’anonimo indicava come mandanti i fratelli Benanti, Antonino Calivà e Giovanni Monachelli, mentre Giuseppe Ficarrotta e Giuseppe Monachelli ne sarebbero stati gli esecutori materiali.

La ragione dell’assassinio starebbe nel fatto che Verdura era stato “testimonio di una perquisizione passate nel trappeto di Antonino Benanti” durante la quale le forze dell’ordine, alla presenza del regio delegato Giovanni Cosentino, di un inserviente comunale e del brigadiere dei carabinieri, avrebbero rinvenuto 12.000 lire “in carte false”. Tali testimoni si sarebbero accordati fra di loro facendo perdere le tracce del ritrovamento. Il defunto Verdura sarebbe stato l’unico a non concordare con tale comportamento.

Nel mese di agosto si verifica un’altra delle previsioni annotate da Giorgio Verdura un anno prima di morire: vengono infatti tagliati 510 tralci di viti “a danno di Romano Ignazio”. A questo punto il questore scrive al prefetto che “è di vero che quanto accade oggi in Ogliastro non è se non quello che precisamente in data 26 luglio 1878 l’allora sindaco Verdura segnalava in via di precauzione alle autorità politiche e giudiziarie. Allora fu creduto un calunniatore e come tale venne anche trattato…”. Oltre a fare autocritica, il funzionario teme che si possa verificare anche l’altro assassinio pronosticato da Verdura, cioè l’omicidio dell’amico farmacista Lorenzo Bannò. E conclude “le famiglie Benanti-Monachelli, rappresentano in Ogliastro la maffia locale più audace e sanguinaria tanto più baldanzosa perché finora protetta da un vasto partito”. Il prefetto concorda pienamente con l’analisi del questore e afferma che le proposte per la carica di sindaco di Ogliastro, già messe in atto, non possono essere di alcun ostacolo o impedimento “alla rigorosa applicazione della legge contro le persone sospette e pregiudicate di quel comune”, che egli propone per l’ammonizione e per una stretta sorveglianza dei sospettati, fino ad arrivare a “proposte pel loro domicilio coatto, le quali non mancherò di accogliere ed appoggiare perché abbiano piena esecuzione”. Ma intanto le funzioni di sindaco erano svolte proprio da Antonino Benanti, uno dei tre indiziati come mandanti dell’assassinio Verdura. Non abbiamo purtroppo rinvenuto un’adeguata documentazione che ci consenta di seguire gli sviluppi e le conclusioni dell’indagine giudiziaria. Fatto sta che la carriera professionale e politica del notaio Vincenzo Benanti sarebbe proseguita non solo senza inciampi di sorta ma mietendo significativi successi. Sarà sindaco dal 1880 al 1888 e consigliere comunale per decenni, fino alle dimissioni presentate nel 1905.

 

 

Fonte:  orizzontisicani.altervista.org
Articolo del 3 aprile 2018
L’ex sindaco, il reduce e l’arciprete: da Bolognetta tre nuovi nomi nell’elenco di Libera
di Santo Lombino

Il 21 marzo scorso a Foggia, Catania e in altre città italiane, l’associazione “Libera – nomi e numeri contro le mafie“, in occasione della Giornata nazionale dell‘impegno in ricordo di tutte le vittime innocenti di mafia, ha promosso ancora una volta la lettura dei nominativi delle persone che sono cadute per mano mafiosa in diverse parti d’Italia. Fino allo scorso anno, la lista si apriva con il nome di Emanuele Notarbartolo, già direttore del Banco di Sicilia, ucciso il 1 febbraio 1893 in un agguato mentre viaggiava in treno verso la città di cui era stato sindaco. Di seguito, e in ordine cronologico, gli altri 970 nomi, ciascuno dei quali evoca un grumo di dolore e segna un momento tragico della storia italiana.

Da quest’anno il primo nome della lista è quello di Giorgio Verdura, ucciso nel 1879, fino a qualche tempo fa totalmente sconosciuto. Si tratta di un ex militare di origini messinesi andato a vivere in provincia di Palermo, nel comune di Santa Maria dell’Ogliastro, oggi Bolognetta, avendo sposato una ragazza del luogo, Maria Lo Faso. Congedatosi, era stato nominato sindaco di quel comune, anche perchè ritenuto al di fuori delle fazioni che se ne contendevano il controllo. Ma contro la sua gestione si scatena subito l’opposizione dei maggiorenti, tra cui il notaio Vincenzo Benanti, coadiuvato dai suoi fratelli proprietari terrieri e dal medico condotto Antonio Calivà. A questo punto si verifica quanto evocato da Leopoldo Franchetti nella sua inchiesta in Sicilia di quattro anni prima: “Un funzionario che, prendendo la sua missione sul serio, cercando in buona fede, senza guardare ad altro, di far prevalere l’interesse generale, pigli un provvedimento savio, realmente utile, se volendo o no, ha leso qualche interesse potente, si vede ad un tratto sorger contro una tempesta di pubblica opinione, nata non si sa come, venuta non si sa da dove.”

Nel luglio 1878, Verdura segnala agli organi preposti di aver saputo che il gruppo Benanti ha deciso di pagare un sicario per uccidere lui e un suo amico. Senza paura, fa i nomi e i cognomi, annota la somma pattuita per il delitto, e firma l’esposto. Altro che congenita omertà dei siciliani!

L’inchiesta amministrativa disposta dal prefetto di Palermo porta però alla conclusione che il primo cittadino di Santa Maria si è inventato tutto e “fa la vittima“ per motivi di propaganda elettorale. Viene quindi deposto dalla carica e sostituito da un commissario governativo. Un anno dopo, quando Giorgio Verdura è solo un consigliere comunale, verrà fatto segno a diversi colpi di arma da fuoco mentre, all’alba del 7 maggio 1879 è in cammino con altri verso Palermo. Ferito gravemente e portato all’ospedale San Saverio del capoluogo, confermerà prima di morire le sue accuse davanti agli inquirenti ed ai familiari. Negli anni successivi, il notabile Benanti accusato da Verdura sarà sindaco di nomina prefettizia per otto anni!

Secondo nuovo ingresso nella lista, quello del 23enne ragioniere Carmelo Lo Brutto, figlio di proprietari terrieri, che era stato soldato a Torino durante la prima guerra mondiale. Alla fine del conflitto, aveva promosso a Bolognetta la nascita dell’Associazione ex combattenti che rivendicava la distribuzione di terre ai contadini e una diversa gestione del Comune, in mano alla cosca mafiosa locale. Verrà freddato davanti la porta di casa il 20 aprile 1922. A spiegare perchè, si può ricorrere ancora all’inchiesta di Franchetti che a proposito di un altro giovane ucciso in provincia di Palermo aveva annotato:“Non era per vendetta o per rancori . Era perché certe persone, che dominavano le plebi di quei dintorni, temevano ch’egli, beneficando le classi povere, si acquistasse sulle popolazioni un poco dell’influenza ch’esse volevano riserbata esclusivamente a sé stesse”.

Il terzo nome letto sul palco di „Libera“ è quello di Castrenze Ferreri, la cui storia ha diversi punti di contatto con quella di Verdura. Originario di Vicari, fu parroco nella stessa Bolognetta dal 1908 in poi. La sera del 16 maggio 1920, mentre „prendeva il fresco“ davanti alla canonica, nella piazza principale del paese, un‘ombra appare dietro il campanile della chiesa madre e spara verso il sacerdote. Ferito e messo a letto, Ferreri ripete al comandante dei carabinieri, di fronte a diversi testimoni, tra cui il sindaco ed il capomafia locale accorsi sul posto, il nome del presunto killer, un contadino di 25 anni. Il giovane fu arrestato, e messo in carcere, il suo fucile sequestrato, mentre poche ore dopo il religioso spirava in seguito alle ferite riportate. Al processo, il medico curante del parroco affermò che quest’ultimo soffiva di disturbi alla vista (per cui non ci si poteva fidare di quanto avrebbe visto) e di attacchi epilettici (per cui non ci si poteva fidare di quanto aveva detto, probabilmente in seguito ad una crisi successiva all’agguato). Un metereologo affermò di fronte ai giurati che quella sera la luna, in fase calante, era solo „una falce sottile“ nel cielo: mancando l‘illuminazione elettrica era quindi impossibile che Ferreri avesse visto a distanza di 15 metri il volto del suo assassino.

E la canna fumante? Alcune decine di compaesani, si narra con il biglietto pagato dalla mafia locale, testimoniarono che il giorno dell’agguato l’imputato e suo fratello erano stati visti in quasi tutte le contrade del circondario con lupara a tracolla, impegnati in una battuta di caccia ad amplissimo raggio. L’imputato fu ovviamente assolto, il brigadiere Stracuzzi, che aveva condotto le indagini, trasferito in altra località, mentre in paese circolò la voce che il colpevole fosse già da tempo al sicuro oltreoceano…

 

 

 

Fonte: vivi.libera.it

Giorgio Verdura – 7 maggio 1879 – Bolognetta (PA)
Aveva fatto parte del Corpo dei Carabinieri Reali e nominato sindaco di Ogliastro. Dimostrò attraverso le sue denunce che i siciliani non erano omertosi, ma capaci di coraggio e di onestà.

Giorgio Verdura nasce a Messina. Ben presto decide di entrare a far parte del corpo dei reali Carabinieri di cui farà parte, con orgoglio e dedizione, e ci resterà per ben 13 anni.
Giorgio si sposta spesso per lavoro e in uno dei tanti viaggi conosce una ragazza, Maria Lo Faso. I due, ancora molto giovani, si innamorano e si sposeranno poi subito, coronando così il loro sogno d’amore.
La loro vita scorre serenamente fin quando un’importante novità li travolge: con decreto del 31 maggio 1877, Giorgio è nominato sindaco del Comune di Santa Maria dell’Ogliastro, oggi Bolognetta (Palermo), per il triennio 1876-78.
Tale scelta viene giustificata del questore di Palermo dal fatto che Giorgio gode di stima da parte dell’intera opinione pubblica, ha una buona posizione economica e sociale e, pur essendo originario di Messina, ha in Ogliastro “una parentela stimata e piuttosto estesa”, avendo sposato Maria Lo Faso, originaria proprio di quel Comune. Inoltre – elemento niente affatto trascurabile – Verdura viene considerato estraneo alle due fazioni in lotta per il potere municipale e allineato su posizioni filo-governative.

 

La denuncia di Verdura

I primi anni dell’amministrazione di Verdura scorrono velocemente e senza intoppi fino a quando entra in crisi a causa del non piegarsi di Giorgio a forme di condizionamento esterno. A partire dal 24 luglio 1878, infatti, invia alle autorità della provincia e del circondario una circostanziata denuncia contro i fratelli Antonino e Rosario Benanti, i fratelli Giovanni e Giuseppe Monachelli, il medico Antonino Calivà e il notaio del paese, tutti appartenenti al cosiddetto “partito Benanti”. Verdura li accusa di star ideando il suo assassinio e quello del farmacista Lorenzo Bannò, così come della devastazione nelle proprietà di campagna di Ignazio Romano, collettore delle imposte e tesoriere comunale. Gli esecutori materiali del progetto criminoso sono indicati da Giorgio in Giampaolo Natale di Rosolino e Francesco Di Fresco, dietro la promessa di 300 lire di ricompensa. La coraggiosa denuncia del Sindaco contraddice la presunta generale omertà dei siciliani, segnalata qualche anno prima dalla celebre inchiesta degli aristocratici toscani Franchetti e Sonnino, secondo cui nell’isola “nessuno denunzia, nessuno porta testimonianza, nemmen l’offeso”.

E la reazione all’esposto da parte dei fratelli Benanti non si farà certo attendere, è anzi forte e decisa. Meno di dieci giorni dopo inviano un’infuocata contro-denunzia al Prefetto di Palermo: viene descritta l’ascesa del Sindaco diventato – a loro parere – tale perché ritenuto persona al di sopra delle fazioni locali, seguita dalla delusione da parte dei notabili del paese per il comportamento di Verdura. Quest’ultimo infatti, secondo il loro scritto, una volta diventato Sindaco, si sarebbe montato la testa, mostrando di “aver fatto troppo sciupìo della fortunata autorità per caso acquistata”, e viene accusato di aver perseguitato onesti cittadini con “ingiuste misure di rigore”.

A seguito di questa denuncia, il Prefetto invia un funzionario a Ogliastro per ascoltare direttamente da Giorgio la sua posizione rispetto a tali gravi accuse e decide di aprire un procedimento penale, alla fine del quale la Prefettura si riserva di prendere gli opportuni provvedimenti. Giunti al termine di tali indagini, il funzionario si convince che l’esposto del Sindaco sia da attribuire al clima infuocato instauratosi nell’ambito amministrativo, in cui “vari partiti si contendono accanitamente il governo della cosa comunale, non rifuggendo dai più biasimevoli maneggi e dalle arti più basse e malvagie per raggiungere l’intento”. Si ritine inoltre che la lotta tra le due fazioni ha prodotto un grave disordine nel Comune, un malcontento generale degli abitanti nei confronti degli attuali amministratori, particolarmente verso il Sindaco, giudicato perciò un uomo pusillanime e assai limitato di capacità, che non offre sufficienti garanzie di buona gestione. In base a tale relazione, il rappresentante del Governo perviene quindi alla conclusione che quanto scritto da Giorgio nella sua denuncia sia stata una menzogna, dettata da rimorsi di parte e da ragioni di inimicizia personale. Alla luce di tale quadro, perciò, lo stesso decide di chiedere la rimozione di Verdura dall’ufficio di Sindaco.

Per i sei mesi successivi viene così inviato in paese un delegato straordinario, nella persona dell’avvocato Eugenio Dionese, che si mette all’opera per affrontare le questioni amministrative più urgenti, giungendo poi a nuove elezioni.
Nel frattempo, Giorgio Verdura, non più sindaco ma semplice consigliere comunale, si convince a ritrattare la denuncia: forse per amore di pace, oppure nell’illusione che la pubblicità del complotto ne scoraggiasse gli ideatori, o, ancora rassegnato di fronte alla difficoltà a essere creduto dalle superiori autorità.
Ma i fatti daranno ben presto ragione a quella denuncia di Giorgio.

 

L’attentato

Mercoledì 7 maggio 1879, sul far del giorno, Verdura si sta recando a Palermo a piedi con un gruppo di compaesani, forse al seguito dei carrettieri che partono all’alba in gruppo. Nel corso del cammino, accompagnato a tale Vincenzo La Barbera, l’ormai ex sindaco si distanzia dalla comitiva di circa trecento metri e poi, all’improvviso, da un campo coltivato a frumento, vengono sparati innumerevoli proiettili di fucile, alcuni dei quali andranno a segno, colpendolo gravemente alla gamba destra e alla coscia sinistra. Vincenzo si getta subito a terra, mentre dal gruppo un altro consigliere comunale risponde al fuoco costringendo il killer a darsi alla fuga verso la campagna.

Giorgio viene immediatamente soccorso e portato all’ospedale più vicino, ma le sue ferite sono troppo gravi e morirà solo alcune ore dopo, non prima però di aver parlato con i parenti e gli inquirenti, raccontando tutto ciò che ha visto e che sa.
Si interrompe così la sua giovane vita, lasciando sola la sua amata moglie Maria, di appena 27 anni e infrangendo il loro sogno di diventare genitori.
In base alle sue dichiarazioni però il giudice è in grado di emettere subito un mandato di cattura, prontamente eseguito dai Carabinieri nei confronti di Ficarrotta Giuseppe e Giuffrida Giuseppe, entrambi sospettati dell’omicidio.
Il contesto storico e le indagini sull’omicidio

Il 9 maggio il Giudice istruttore convoca tre persone: Francesco Lo Brutto, che aveva difeso a mano armata l’ex sindaco, Antonino Verdura, fratello del defunto, e Maria, la vedova di Giorgio.
Gli ultimi due indicarono Ficarrotta come autore materiale del delitto, con la complicità di Giuseppe Giuffrida, mentre i mandanti, a loro dire, erano da individuarsi nei noti fratelli Benanti. Infatti, così come aveva denunciato Giorgio circa dieci mesi prima. Secondo i familiari del defunto, Ficarrotta sarebbe stato informato del programma di Giorgio di partire quel mattino alla volta di Palermo da Giuffrida, persona di fiducia di Lo Brutto, l’unico a sapere in anticipo del viaggio. Il fratello e la moglie della vittima riferiscono inoltre al magistrato che il giorno dell’assassinio lo stesso Giuseppe Giuffrida aveva fatto suonare a morte le campane della chiesa di Ogliastro.

A seguito di tali rivelazioni, i familiari di Giorgio divengono oggetto di pesanti intimidazioni da parte dei fratelli Benanti. Come prima cosa Antonino Benanti, facente adesso funzione di sindaco, applicando alla lettera le norme vigenti, revoca subito la licenza di “spaccio privilegiato” al fratello di Giorgio, che aveva chiuso l’esercizio commerciale nei giorni del lutto, concedendola a una persona a lui vicina. Come se non bastasse, soli venti giorni dopo, il notaio Vincenzo Benanti, vedendo uscire da casa la vedova e il fratello di Giorgio per recarsi a testimoniare in Questura, rivolge loro a voce alta pesanti e pubbliche intimidazioni, accusandoli di volere, con le loro confessioni agli inquirenti, gettare fango su innocenti abitanti del paese. Il comportamento minaccioso e scorretto dei Benanti viene però fortunatamente rilevato dal Questore di Palermo che, in una nota riservata al Prefetto, gli fa notare come si voglia compromettere il sereno e regolare svolgimento delle indagini, intimidendo e minacciando gli unici testimoni.

I giorni passano e grazie al costante e tenace lavoro degli inquirenti e al coraggio della famiglia che non si lascia intimidire, presto si riesce a scoprire che i killer erano due e che il complice era Monachelli Giovanni, persona che in passato era stato licenziato da scrivano del municipio proprio su proposta di Giorgio. Quest’ultimo elemento, unito ai precedenti già riscontrati, induce così il Giudice istruttore di Palermo a emettere, in data 6 giugno 1879, mandato di cattura nei confronti di Giuseppe Monachelli di anni 29, e del fratello Giovanni, in qualità di complice dell’assassinio.
Ma, nel mese di agosto dello stesso anno, si verifica un’altra delle previsioni annotate da Giorgio nella denuncia scritta un anno prima di morire: vengono infatti tagliati 510 tralci di viti a danno di Romano Ignazio. Il Questore perciò scrive immediatamente al Prefetto rilevando che quanto accaduto corrisponde pienamente a quando in precedenza denunciato proprio da Giorgio, aggiungendo che lo stesso, solo 10 mesi prima, fu creduto un calunniatore e per questo destituito anche dalla sua carica di Sindaco. Il questore conclude poi la sua missiva affermando che “le famiglie Benanti-Monachelli, rappresentano in Ogliastro la maffia locale più audace e sanguinaria tanto più baldanzosa perché finora protetta da un vasto partito”. L’allora Prefetto concorda pienamente con tale analisi e propone per le persone in oggetto una stretta sorveglianza con domicilio coatto.