9 aprile 2018 Limbadi (VV). Ucciso Matteo Vinci (42 anni), da una bomba posta sotto la sua auto.
Matteo Vinci, biologo di 42 anni è stato ucciso il 9 aprile 2018 con una bomba posta all’interno della sua auto, a Limbadi (VV).
Nell’esplosione è rimasto gravemente ustionato il padre, Francesco, di 73 anni, con lui nell’auto. Stavano tornando a casa dopo aver lavorato nei campi.
La colpa di Matteo Vinci e della sua famiglia è stata quella di non aver ceduto alle pressioni esercitate dai vicini, i Mancuso, famiglia di ‘ndrangheta tra le più potenti in Calabria, che volevano che i Vinci cedessero loro i propri terreni.
Fonte: repubblica.it
Articolo del 9 aprile 2018
Vibo Valentia, autobomba a Limbadi. Muore un uomo, grave il padre. Si indaga per ‘ndrangheta
di Alessia Candito
La vittima era stata candidata alle elezioni comunali.
I suoi terreni erano confinanti con quelli della sorella del boss Mancuso e c’erano state liti.
Gli inquirenti: “Cosche alzano il livello”
LIMBADI (VIBO VALENTIA) – Un boato che squassa il silenzio della campagna vibonese. E poi le fiamme, che rapide divorano l’auto. È morto così Matteo Vinci, candidato alle ultime elezioni comunali, ucciso oggi pomeriggio da un’autobomba che mani anonime hanno piazzato sotto la sua auto a Cervolaro, nei pressi di Limbadi, nel cuore dell’entroterra vibonese. Con lui era presente il padre settantenne, rimasto ferito nello scoppio e attualmente ricoverato in ospedale. Vinci invece non ce l’ha fatta. Secondo le prime ricostruzioni, l’ordigno gli avrebbe fratturato le gambe, impedendogli di uscire dall’auto, nel giro di pochi minuti completamente consumata dalle fiamme. A dare l’allarme è stato il padre dell’uomo, che dopo l’esplosione ha chiamato la moglie chiedendole di avvertire i soccorsi. Sul posto sono immediatamente arrivati i Vigili del fuoco e i carabinieri. E i primi rilievi non hanno lasciato dubbio alcuno.
A far esplodere l’auto, una Ford Fiesta a metano, non è stato un malfunzionamento nell’impianto di alimentazione, ma una bomba. Un messaggio chiaro. Un messaggio di ‘ndrangheta. Per questo sul posto è immediatamente arrivato il pm Mancuso, della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro che ha preso in mano il coordinamento delle indagini. Per ore sul posto sono andati avanti i rilievi e gli accertamenti dei tecnici e degli artificieri, mentre gli investigatori sono riusciti a fare solo qualche domanda all’anziano rimasto ferito, prima che venisse trasferito nel centro grandi ustioni. Per un interrogatorio più approfondito, bisognerà attendere i prossimi giorni. Da lui, sperano di poter ricavare qualche elemento utile riguardo il possibile movente o il mandante di un attentato dal significato inequivocabile. Ex rappresentante di medicinali, Vinci non era mai incappato in indagini di mafia. Aveva qualche precedente, ma solo per una banale rissa. Ma con il potentissimo clan Mancuso ha finito per averci a che fare. Sara Mancuso, sorella dei boss dell’omonimo casato mafioso, è proprietaria degli appezzamenti di terreno confinanti con il suo campo e secondo alcune fonti, su quelle poche zolle che i Vinci avevano nelle campagne di Cervolaro gli uomini del clan avevano messo gli occhi. Ma i Vinci non avevano intenzione di cedere. Frizioni che nel tempo sono aumentate di intensità.
Nel novembre 2017, una lite fra il padre e i vicini è degenerata. L’anziano è stato ferito gravemente con un’arma da taglio, da lì è nata una lite che ha fatto finire dietro le sbarre sia Vinci, sia Sara Mancuso. Entrambi sono stati poi rilasciati ma il caso è finito all’attenzione della procura antimafia. Se tali trascorsi siano da ricollegare all’attentato di oggi però non è dato sapere. Al momento nessuno si sbilancia. Da tempo l’intero vibonese è una polveriera dai contorni ambigui. Nella zona, gli equilibri dei clan stanno cambiando. Registi da sempre dell’architrave del sistema criminale, i Mancuso stanno a guardare mentre nell’ala operativa della feroce ‘ndrangheta vibonese i nuovi assetti si forgiano nel sangue delle faide. Solo nell’ultimo mese, la procura antimafia di Catanzaro è stata costretta per tre volte a procedere con dei fermi per impedire che venissero commessi degli omicidi. Ma l’intera provincia, da sempre fucina di killer giovani e spietati, rimane in ebollizione. Sfrontate, ci sono nuove leve che cercano spazio e senza paura si fanno largo sullo scenario criminale. Ne fanno le spese i clan rivali, ma anche chi alla ‘ndrangheta cerca di resistere e oggi vede i pochi simboli di resistenza oltraggiati da mani anonime. È successo alla stele commemorativa eretta per ricordare Filippo Ceravolo, diciannovenne ucciso per errore nel corso di un agguato. La notte scorsa qualcuno l’ha intenzionalmente danneggiata. Anche questo – si commenta in ambienti investigativi – è un messaggio inequivocabile. Tutti episodi che hanno spinto il prefetto Guido Longo a convocare d’urgenza un comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica.
Fonte: quicosenza.it
Articolo del 10 aprile 2018
Il mistero della bomba che ha ucciso Matteo Vinci: timer o radiocomando a distanza?
Un radiocomando a distanza o un timer? Come é stata azionata la bomba che ha ucciso Matteo Vinci? A queste domande stanno cercando risposte i carabinieri di Vibo Valentia.
LIMBADI (VV) – Un attentato a tutti gli effetti ancora avvolto dal mistero soprattutto gli investigatori stanno lavorando per capire chi e come è stata azionata la bomba che ha fatto esplodere l’auto di Matteo Vinci uccidendolo, che ha provocato il ferimento grave del padre, Francesco Vinci di 73 anni, attualmente ricoverato in prognosi riservata nel reparto grandi ustioni dell’ospedale di Palermo.
Un dato acquisito alle indagini é che l’ordigno utilizzato per l’attentato sia stato collocato sotto la Ford Fiesta sulla quale viaggiavano Matteo Vinci ed il padre ma non è chiara come sia stato fatto scoppiare. L’ipotesi maggiormente presa in considerazione é quella di un radiocomando a distanza ma non è escluso l’utilizzo di un timer. Certo è che il delitto è stato compiuto da professionisti e denota l’elevato livello criminale di chi aveva ha progettato l’uccisione di Matteo Vinci e del padre. Persone che non erano collegate ad ambienti della criminalità e della ‘ndrangheta ma che sarebbero finite nel mirino di esponenti di primo piano della criminalità organizzata del vibonese.
Francesco Vinci, il padre della vittima, lo scorso ottobre era stato aggredito da persone nei confronti delle quali sono in corso le indagini dei carabinieri. L’episodio si verificò a breve distanza dal luogo in cui é avvenuto l’attentato di ieri, in prossimità del terreno della famiglia Vinci attiguo a quello dei Di Grillo-Mancuso. Proprio sulla delimitazione del confine tra i terreni é in atto da tempo una disputa tra la famiglia Vinci e quella dei Grillo-Mancuso che sarebbe stata la causa scatenante della rissa avvenuta nel 2014 che vive contrapposti, da una parte, Francesco e Matteo Vinci e, dall’altra, Rosaria Mancuso, sorella dei capi della cosca, ed il marito Domenico Di Grillo, arrestato nella tarda serata di ieri dai carabinieri per la detenzione abusiva di un fucile. E proprio i contrasti di vicinato rappresentano una delle ipotesi che i carabinieri, coordinati dai maggiori Dario Solito e Valerio Palmieri, stanno valutando per risalire al movente dell’attentato di ieri.
L’inchiesta passa alla Dda di Catanzaro
La Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro ha assunto la titolarità dell’inchiesta sull’attentato. Già nella stessa giornata di ieri uno dei magistrati della Procura antimafia, Andrea Mancuso, si era recato sul luogo dell’attentato, affiancando il sostituto di turno della Procura della Repubblica di Vibo Valentia, Ciroluca Lotoro, che ha gestito gli atti urgenti relativi all’indagine sull’attentato. L’intervento della Dda di Catanzaro, che comunque, nell’ambito del rapporto di collaborazione tra i due uffici, si avvarrà della collaborazione della Procura di Vibo Valentia, é motivato dalla chiara matrice mafiosa dell’attentato, anche se il movente di quanto é accaduto é ancora tutto da decifrare. Si tratta anche di capire il motivo per il quale chi voleva uccidere Matteo Vinci ed il padre, riuscendo però ad eliminare soltanto il primo, abbia voluto mettere in atto un’azione così eclatante per mettere in atto il suo proposito, con l’utilizzo di una bomba anziché optare per il classico agguato. Un quesito che é adesso al vaglio della Dda e dei carabinieri della Compagnia di Tropea e del Reparto operativo del Comando provinciale di Vibo Valentia, cui sono delegate le indagini.
Fonte: repubblica.it
Articolo del 25 giugno 2018
Autobomba Limbadi, fermati i vicini della vittima. La madre: “Solo loro i veri colpevoli”
di Alessia Candito
Il 9 aprile fu ucciso vicino a Vibo Valentia Matteo Vinci e ferito gravemente il padre Francesco. Movente: una lite con il clan Mancuso della ‘ndrangheta per i confini delle proprietà. Gratteri: “Un messaggio al paese che comandano loro”
VIBO VALENTIA – Ai Mancuso non si può e non si deve dire di no. Quale che sia la richiesta, a Limbadi, piccolo centro del Vibonese, bisogna chinare la testa e acconsentire. Per questo la matriarca Rosaria Mancuso ha ordinato che la famiglia di Matteo Vinci, “colpevole” di essersi opposta alle mire del clan sui propri terreni, fosse colpita in modo eclatante. Quel no era un affronto e un esempio pericoloso, da cancellare.
L’autobomba che il 9 aprile scorso a Limbadi ha spazzato via la vita del giovane 42enne e ferito gravemente il padre Francesco, 70 anni, era un messaggio per tutto il paese. Anzi, per tutta la zona. Al clan nessun può e deve opporsi, perché Limbadi tutta è cosa dei Mancuso. Un atto di imperio spazzato via dai 6 fermi eseguiti questa notte dai carabinieri di Vibo Valentia e del Ros per ordine della procura antimafia di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri. In manette sono finiti Rosaria Mancuso e il genero Vito Barbara, considerati gli ideatori dell’attentato, ma agli arresti sono finiti anche Rosina e Lucia Di Grillo, figlie di Rosaria Mancuso, il marito della donna, Domenico Di Grillo, e il fratello, Salvatore Mancuso.
Tutti quanti sono accusati a vario titolo non solo di aver coperto il piano omicida messo a punto dalla matriarca, con la collaborazione del genero, ma anche di aver partecipato alla lunga serie di aggressioni e intimidazioni subite dalla famiglia Vinci per costringerla a cedere i suoi terreni, nonché di illecita detenzione di armi clandestine, inclusa una Colt.
“Ci troviamo dinanzi all’esternazione di un potere mafioso sul territorio, non è una semplice lite fra vicini – spiega il procuratore Nicola Gratteri – Quel terreno doveva essere dei Mancuso, con le buone o con le cattive”. Per anni Francesco Vinci, la moglie Rosaria Scarpulla e il figlio Matteo, ucciso il 9 aprile scorso, sono stati minacciati e più volte aggrediti. Ma alle pretese dei Mancuso non hanno mai ceduto, per questo – hanno scoperto gli investigatori – la matriarca del clan ha deciso di infliggere loro una “punizione” esemplare. “Un’autobomba non è un modo comune di uccidere le persone. Era un messaggio – dice Gratteri – che hanno voluto inviare a tutta la comunità, a tutti quelli che stanno a contatto con il contesto di Limbadi per costringerli ad abbassare la testa”.
Una radiobomba è stata piazzata sotto il fanale destro dell’auto dei Vinci mentre padre e figlio erano impegnati nei lavori in campagna. Al termine della giornata, quando i due si sono messi in macchina per tornare a casa, non sono riusciti ad allontanarsi più di 80 metri da quel fondo conteso. L’auto è esplosa facendo scempio del corpo di Matteo Vinci e ferendo gravemente il padre, tuttora ricoverato al Centro Grandi Ustioni di Palermo.
“Rosaria Mancuso e il genero Vito Barbara hanno avuto un ruolo di primo piano nell’organizzazione e nell’esecuzione dell’omicidio – spiega il comandante provinciale dei carabinieri di Vibo Valentia, Gianfilippo Magro –ma le indagini puntano ad identificare altri possibili soggetti coinvolti nella vicenda”. Quello che rimane da capire è quanto e in che misura il resto del numeroso, potentissimo e litigioso clan Mancuso sia stato messo al corrente del piano della matriarca. Di certo, per gli investigatori qualcosa sapeva il fratello, Salvatore “Mbrogghia”, anche lui arrestato dai carabinieri con l’accusa di aver partecipato ad una delle aggressioni subite dai coniugi Vinci.
A incastrare la matriarca Rosaria Mancuso e i suoi familiari, sono state le intercettazioni telefoniche e ambientali che hanno confermato i sospetti degli investigatori sul quadro in cui è maturato l’omicidio e hanno svelato la diretta responsabilità della matriarca e del genero, Vito Barbara. Ascoltati dalle cimici, i due commentano le indagini in corso. La donna è preoccupata, teme che telecamere di videosorveglianza siano riuscite a immortalare Barbara. Ma lui la tranquillizza “Sono andato dalla strada giusta, dove non ci sono telecamere”. E aggiunge “i cani” – i carabinieri, nel loro linguaggio- girano a vuoto.
Ad ulteriore conferma ci sono poi le chiacchierate, registrate circa un mese dopo l’omicidio, fra l’uomo e la moglie, Lucia Di Grillo, che riguardo ad eventuali arresti si dice certa “Se doveva succedere qualcosa era già accaduta! Hai capito?”. E ancora “Vuol dire che sono al punto di partenza e non hanno prove”. Poi “anche se qualcuno sa, non parla”, afferma convinta di poter contare sulla cappa di omertà che ha sempre protetto i Mancuso.
In effetti, fatta eccezione per la madre di Vinci, Rosaria Scarpulla, nessuno a Limbadi ha voluto o saputo dire niente dell’efferato omicidio di Matteo. Ma questa indagine, esorta Gratteri, deve far cambiare atteggiamento alla gente del posto e a tutti i vibonesi. “La popolazione non deve sottostare al dominio di queste famiglie mafiose, ci sono le condizioni affinché la comunità si ribelli e denunci. Noi siamo nelle condizioni di dare risposte sul piano giudiziario. A Vibo c’è la più alta percentuale di massoneria deviata e insieme mafiosa d’Italia, ma anche qui, in questo territorio, qualcosa sta cambiando in positivo. La gente deve convincersi che l’aria sta cambiando”.
Ci crede la madre di Matteo Vinci, Rosaria Scarpulla. “Sono stati arrestati non i presunti colpevoli ma quelli reali – dice – Io li ho visti, li ho indicati, ho fatto nomi e cognomi. Finalmente un po’ di serenità. Ringrazio gli investigatori per questo provvedimento che mi restituisce un po’ di gioia dopo tanto dolore”.
Fonte: lametino.it/
Articolo del 15 luglio 2018
Bomba in auto a Limbadi, celebrati i funerali di Matteo Vinci
Limbadi (Vibo Valentia) – Tanta commozione nel pomeriggio di sabato in occasione dei funerali di Matteo Vinci, il biologo quarantaduenne morto a Limbadi lo scorso 9 aprile per l’esplosione di una bomba collocata sotto la sua autovettura e nella quale rimase ferito il padre, Francesco, di 73 anni.
Le esequie sono state celebrate nei locali della scuola media del paese con rito civile alla presenza di alcune centinaia di persone, dei rappresentanti di Libera – ma non delle autorità invitate dai genitori dell’uomo insieme a tutto il paese – che si sono strette attorno a Francesco Vinci e Rosaria Scarpulla e alla compagna Laura Sorbara.
La madre ha scritto una lettera che non ha avuto la forza di leggere e che ha affidato ad un’amica. “Non porteremo all’asilo i tuoi figli – ha scritto tra l’altro la donna – come fanno tanti altri genitori, ma andremo in giro per tribunali a chiedere giustizia per nostro figlio massacrato”.
“In questa bara – ha scritto inoltre la madre di Vinci – giace ciò che resta di mio figlio, un figlio amante della musica, degli animali, della natura, della musica. Innamorato di noi genitori e della sua Laura, che aveva lasciato il suo lavoro di psicologa a Buenos Aires per seguirlo e venire in Italia a formarsi con lui una famiglia. Da quel terribile giorno io continuo a chiedermi perché tutto questo, perché questa morte assurda. Come farò a non vederlo più, a non sentire la sua voce, a non vederlo al mattino e alla sera, a non sentire il suo sassofono con cui mi suonava il silenzio? Come potremo io e suo padre sopportare questa assenza, questa mancanza?”.
Fonte: ilfattoquotidiano.it
Articolo del 3 aprile 2019
Matteo Vinci, il parroco blocca il concerto dell’orchestra Falcone e Borsellino in memoria del giovane ucciso dalla cosca
di Lucio Musolino
Secondo la fondazione Città invisibile che sta organizzando l’evento in occasione dell’anniversario della tragedia, don Ottavio Scrugli della Chiesa Madre di Limbadi ha motivato così la sua scelta: “La chiesa è un luogo di culto e non si presta ad altre manifestazioni”
Ha suonato nella Basilica di San Francesco ad Assisi, nel duomo di Monreale, nella Cappella Palatina di Palermo e nelle basiliche delle Benedettine dell’arcidiocesi di Catania. Addirittura l’orchestra giovanile “Falcone e Borsellino” si è esibita in piazza San Pietro per Papa Francesco. Il 9 aprile, però, non potrà farlo a Limbadi, in provincia di Vibo Valentia, per ricordare Matteo Vinci, il giovane fatto saltare in aria con un’autobomba nel regno della cosca Mancuso. “La chiesa è un luogo di culto e non si presta ad altre manifestazioni”. Sarebbe stata questa la risposta con la quale don Ottavio Scrugli, parroco della Chiesa Madre di Limbadi, ha dato alla fondazione “Città invisibile” di Catania che sta organizzando l’evento in occasione dell’anniversario della tragedia in cui rimase ferito anche Francesco Vinci, il padre di Matteo.
Ieri il parroco ha fatto sapere ai responsabili della fondazione che non intende accogliere il concerto dei bambini chiudendo, di fatto, le porte in faccia a una manifestazione antimafia in un territorio dove la ‘ndrangheta controlla anche i respiri delle persone. Vivaldi, Bach, Corelli, tutti autori di musica sacra cristiana. A nulla sono servite le rassicurazioni di “Città invisibile” circa il repertorio classico previsto per l’evento. Don Ottavio Scrugli ha negato l’autorizzazione al concerto nei locali della sua chiesa anche quando i rappresentanti della fondazione gli hanno ricordato l’esempio di don Puglisi e don Diana. Alla domanda rivolta al parroco (“Lei sa che Matteo Vinci è stato ucciso dalla ‘ndrangheta?”), questo avrebbe risposto addirittura: “Io sono un pastore di anime, sto dalla parte della Chiesa”.
Eppure per quella autobomba la Procura di Catanzaro ha arrestato esponenti della cosca Mancuso ricostruendo tutte le angherie subite negli anni dalla famiglia Vinci, “colpevole” solo di non aver piegato la testa davanti ai desiderata del clan. “Verrebbe da chiedersi – si domandano i rappresentanti di “Città invisibile” – di quale Chiesa fa parte il parroco di Limbadi? Siamo certi che a Limbadi sono arrivate forti e chiare le parole di scomunica pronunciate da papa Francesco nel 2014”. La fondazione si rivolge anche alle istituzioni lanciando un appello affinché lo Stato faccia sentire la sua voce “in un territorio in cui predomina la malavita e l’omertà, come dimostra il fatto che il Comune è stato l’anno scorso commissariato per infiltrazioni mafiose. I ministri si rechino di persona nel giorno della commemorazione, per rappresentare il volto concreto di una civiltà onesta”. La manifestazione si farà comunque ma l’ultimo appello è per il vescovo di Vibo e per Papa Francesco “perché intervengano personalmente – scrive “Città invisibile” – a rimuovere gli ostacoli che impedirebbero al parroco di ricevere una manifestazione per Matteo Vinci. Perché Cristo non si è fermato fuori di Limbadi”.
Il diniego al concerto sarebbe stato motivato dal sacerdote con una direttiva impartita da anni dal vescovo della diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea Luigi Renzo. Quest’ultimo, infatti, all’Ansa ha dichiarato: “Non so esattamente cosa sia accaduto a Limbadi tuttavia confermo che ho da anni impartito precise direttive sull’utilizzo delle chiese per i concerti, o altre manifestazioni simili. La chiesa è un luogo di culto, di preghiera e non di spettacolo. Tali direttive sono state emanate in ossequio a quanto stabilito da Giovanni Paolo II prima e da Benedetto XVI dopo, quindi nulla di nuovo”. Così come per don Ottavio Scrugli, perciò, anche per il vescovo Renzo il concerto dell’orchestra giovanile “Falcone e Borsellino” è uno “spettacolo” al pari di altri e come tale non può tenersi in una chiesa. In realtà, però, si tratta di una manifestazione antimafia in memoria di Matteo Vinci ucciso un anno fa da una famiglia di ‘ndrangheta che molto probabilmente frequentava la stessa Chiesa madre di Limbadi dove nessuno ai mafiosi ha mai ricordato che Papa Francesco li ha scomunicati.
A un anno dall’autobomba di Limbadi
LaC TV Pubblicato il 5 apr 2019
Martedì prossimo, 9 aprile, un anno dall’autobomba che esplose a Limbadi e uccise tra atroci sofferenze Matteo Vinci. In questi giorni sono state vivaci le polemiche per il diniego affinchè l’orchestra giovanile Falcone Borsellino di Catania potesse suonare nella Chiesa di San Pantaleone per celebrare la memoria dello stesso Matteo. Perché si è deciso cos? Chi ha deciso così. Siamo stati a Limbadi per capirne di più, mentre stamani si è svolta a Vibo Valentia la conferenza stampa per illustrare gli eventi programmati per il 9 aprile.
Fonte: cosavostra.it
Articolo del 7 aprile 2019
Matteo Vinci. Una vittima innocente della ‘Ndrangheta a Vibo Valentia
di Asia Rubbo
Limbadi è un piccolo comune nella provincia di Vibo Valentia, in Calabria. E’ un territorio complesso, dove, nella narrazione giornalistica, la ‘ndrangheta spadroneggia: pare sia l’aria che si respiri, sia vera e propria normalità; Matteo Vinci, però, biologo di 42 anni, a certe condizioni non era disposto a scendere.
I terreni della sua famiglia, nella zona di Cervolaro, confinavano con quelli della famiglia Mancuso-Di Grillo.
I Mancuso, per chi non lo sapesse, sono la ‘ndrina più influente nella zona di Vibo Valentia, che gestisce un grande traffico di stupefacenti, attraverso alleanze con molte delle famiglie mafiose calabresi delle altre province e addirittura con altre mafie.
Sono considerati, i Mancuso, degli ‘ndranghetisti di spessore, capaci di fare affari economici in tutta Italia. Una vera potenza economica, quindi, a cui non si “deve” dire di no.
Matteo Vinci era un uomo semplice, quello che in molti definirebbero “una persona normale”. Aveva lavorato come rappresentante di medicinali e, in seguito, aveva deciso di candidarsi alle elezioni comunali. Non aveva precedenti, soprattutto non per questioni di mafia. Laureato disoccupato ma disposto a qualsiasi lavoro pur di aiutare la sua famiglia, si è scontrato con la sorella dei boss della già citata ‘ndrina.
I terreni della famiglia di Matteo confinavano proprio con quelli della donna che, assieme ai suoi fratelli, già da un po’ aveva cominciato a guardarli con interesse. Infatti la famiglia Vinci era stata contattata diverse volte dai Mancuso, che cercavano di prenderli, e, ogni volta, Matteo e i suoi parenti si erano rifiutatati di cedere.
I terreni appartenevano a loro e non c’era nessuna ragione per cederli, solo perché una famiglia potente di ‘ndrangheta, potesse espropriarli di ciò che apparteneva loro di diritto. Ma resistere alla ‘ndrangheta, soprattutto nel vibonese, non è una cosa semplice e soprattutto non conviene. Se una famiglia potente come i Mancuso vuole un pezzo di terra, finirà col prenderselo, in un modo o nell’altro.
È il 9 aprile del 2018 quando su uno sterrato nei pressi di Cervolaro esplode una bomba all’interno di un’auto. A bordo del veicolo ci sono Matteo Vinci e il padre Francesco. Il figlio muore sul colpo, mentre il padre rimane ferito, ma riesce a chiamare i soccorsi.
Non siamo nella Palermo delle stragi di mafia, ma nella campagna calabrese e, se esplode un’autobomba, mezzo persino inusuale per la ‘ndrangheta, vuol dire che nessuno può permettersi di dissentire.
“Un’autobomba non è un modo comune di uccidere le persone. Era un messaggio che hanno voluto inviare a tutta la comunità, a tutti quelli che stanno a contatto con il contesto di Limbadi” ha affermato il procuratore Nicola Gratteri, “per costringerli ad abbassare la testa”.
Nonostante i sei arresti che hanno coinvolto molti dei Mancuso, il paese, malgrado il grande frastuono mediatico e sociale di quell’autobomba, ha taciuto.
Solo la voce di Rosaria Scarpulla, madre di Matteo Vinci, ha squarciato il silenzio. Dopo aver perso un figlio in questa maniera, Rosaria non è rimasta in silenzio. “Sono sola e mi sento abbandonata”, ha denunciato la signora Scarpulla, supportata dall’avvocato di famiglia, Giuseppe Antonio De Pace, il quale, nei giorni immediati al vile omicidio, ha sottolineato le “mancanze” della società civile – dai commissari prefettizi comunali che non si erano recati dalla donna alla mancata assegnazione di una scorta e, per finire, una dura presa di posizione nei confronti delle associazioni antimafia che “hanno preferito voltarsi dall’altra parte”.
Da qui, l’aperta polemica tra l’avvocato De Pace – che, in segno di protesta, ha pure strappato la tessera di “Libera” – e il coordinatore regionale della medesima associazione, Don Ennio Stamile. Polemica, riteniamo noi, volta a “svegliare” i più, compreso lo Stato: per non abbassare la guardia né per dimenticare questa storia visto che non lo ha fatto nemmeno la ‘ndrangheta.
Un omicidio del genere avrebbe dovuto mutare le sorti del piccolo comune del vibonese o almeno questo è quello che il procuratore Nicola Gratteri si sarebbe aspettato di vedere: “La popolazione non deve sottostare al dominio di queste famiglie mafiose, ci sono le condizioni affinché la comunità si ribelli e denunci. Noi siamo nelle condizioni di dare risposte sul piano giudiziario”.
La magistratura c’è, forse però è lo Stato (e la sua percezione) che manca. Malgrado ci siano forti risposte sul piano giudiziario, sono poche quelle sul piano sociale: al funerale di Matteo Vinci era assente persino il gonfalone comunale, ha notato il giornalista Agostino Pantano “che è una cosa inspiegabile che ci fa sembrare coloro che siamo qua la parte sbagliata. Non solo non siamo la parte sbagliata, ma non è giusto neanche contarci, non è importante. Siamo giusti: siamo le persone e il numero giusto”.
A salutare Matteo non c’è stata la folla oceanica che di solito accompagna le vittime innocenti di mafia e questo perché il 42enne non è stato ucciso per caso. Lui era “colpevole” di essersi rifiutato, in maniera semplice e forse non troppo consapevole delle conseguenze che il suo atteggiamento avrebbe potuto avere, di cedere una sua proprietà e di abbassare la testa.
“Io e suo padre non avremo più impegni per tutta la vita, non dovremo preparare il suo matrimonio, non porteremo all’asilo i suoi figli, come fanno tanti altri genitori, ma andremo in giro per tribunali a chiedere giustizia per nostro figlio morto massacrato”, ha detto la madre Rosaria durante i funerali del figlio.
A un anno di distanza dalla tragica morte di Matteo le cose a Limbadi non sembrano essere troppo cambiate. L’orchestra giovanile “Falcone e Borsellino” avrebbe dovuto tenere un concerto nella chiesa del paese per ricordare Matteo Vinci grazie alla fondazione “Città Invisibile” di Catania. Il 9 aprile del 2019 la comunità avrebbe dovuto riunirsi nel segno della legalità e del ricordo.
Don Ottavio Scrugli, parroco di Limbadi, ha rifiutato di ospitare il concerto dei ragazzi nella sua chiesa perché “la Chiesa è un luogo di culto e non si presta ad altre manifestazioni”. Il concerto si terrà comunque, perché Matteo Vinci deve essere ricordato e la situazione del vibonese non può continuare a restare nell’ombra.
È proprio la Fondazione Città Invisibile a lanciare un appello alle istituzioni affinché siano presenti “in un territorio in cui predominano la malavita e l’omertà […] I ministri si rechino di persona nel giorno della commemorazione, per rappresentare il volto concreto di una civiltà onesta” ed è un appello anche al Papa e al Vescovo di Vibo Valentia, quello mosso dalla Fondazione, affinché “intervengano personalmente a rimuovere gli ostacoli che impedirebbero al parroco di ricevere una manifestazione per Matteo Vinci. Perché Cristo non si è fermato fuori di Limbadi”.
La Calabria è una terra di resistenti e di resistenze, ma è anche una terra di assordanti silenzi e connivenze. Chi prova ad opporsi resta solo e se anche un parroco non ha più ben chiaro quale sia il suo posto, forse dovrebbe essere lo Stato – compresi noi tutti – a “mostrare i denti” e fare leva sulle dinamiche che ormai sono davvero date per scontate.
Perché la Calabria è affare nostro, anche se spesso tediamo a dimenticarlo.
Fonte: rainews.it
Articolo del 8 giugno 2019
‘Ndrangheta, ucciso da una bomba nell’auto: a giorni gli imputati saranno liberi.
A causa di un ritardo di notifica, rischiano di essere rimessi in libertà i presunti assassini di un biologo di Vibo Valentia. I fatti si sono verificati poco più di un anno fa ed ora i familiari della vittima temono per la propria incolumità.
Appello al Ministro della Giustizia.
Chiede l’aiuto e l’intervento del Ministro della Giustizia l’avvocato di una vittima di ‘ndrangheta per evitare che i presunti assassini possano tornare in libertà per decorrenza dei termini. Accade a Vibo Valentia per l’omicidio di Matteo Vinci, fatto esplodere con una bomba comandata a distanza poco più di un anno fa.
L’appello del legale
“Questa mattina ho scritto una lettera al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, per informarlo del fatto che, a causa di un vizio di notifica, o meglio di una notifica arrivata tardivamente, i presunti assassini di Matteo Vinci, il giovane biologo morto all’interno della propria autovettura fatta esplodere con un ordigno a distanza nell’aprile dello scorso anno, potrebbero tornare presto a piede libero”. Lo afferma l’avvocato Giuseppe De Pace, legale della famiglia della vittima. “Il 26 giugno 2018 – prosegue – la Dda di Catanzaro ha tratto in arresto i presunti autori della strage di Limbadi, tutti appartenenti al clan Mancuso. Solo il 16 maggio di quest’anno la Procura della Repubblica competente ha depositato la richiesta di rinvio a giudizio al Gup, il quale, in pari data, ha provveduto ad emettere il decreto di fissazione dell’udienza preliminare per il 7 giugno 2019. Ai sensi di legge, la notifica alle parti doveva compiersi entro il 28 maggio. Per ragioni ad oggi sconosciute la notifica all’imputata Lucia Di Grillo è stata fatta solo il 4 giugno, tre giorni prima dell’udienza. Il Gup, come suo obbligo, ha disposto il rinvio dell’udienza al 21 giugno. Detto ciò, se la notifica del verbale non verrà effettuata entro l’11 giugno 2019, e cioè fra soli tre giorni, il processo subirà un ulteriore rinvio e, di conseguenza, gli imputati, il 26 giugno, termine di scadenza della custodia cautelare, verranno rimessi in libertà”.
La protesta della madre della vittima
“Ieri – ricorda il legale – la signora Rosaria Scarpulla, madre della vittima, ha occupato la Stazione dei Carabinieri di Limbadi chiedendo agli stessi di attivarsi, immediatamente e senza ulteriori indugi, per notificare la data della prossima udienza all’imputata Di Grillo. La mia assistita, sentendo come concreta la possibilità dell’imminente scarcerazione dei presunti assassini di suo figlio, teme fortemente per la propria incolumità e per quella del marito, rimasto gravemente ferito durante l’esplosione che ha ucciso Matteo”. “Com’è evidente – conclude l’avvocato – in uno scenario così allarmante, solo il repentino e diretto intervento del Ministro della Giustizia può consentire l’effettuazione di quegli adempimenti di legge che costituiscono i presupposti necessari al proseguimento di un giusto processo”.
L’omicidio
Un boato che squassa il silenzio della campagna vibonese. E poi le fiamme che rapide divorano l’auto. È morto così, il 9 aprile 2018, Matteo Vinci, candidato alle elezioni comunali, ucciso da una bomba piazzata sotto la sua auto a Cervolaro, nei pressi di Limbadi, nel cuore dell’entroterra vibonese. Con lui a bordo dell’auto era presente il padre settantenne, rimasto gravemente ustionato nello scoppio. Matteo Vinci invece non ce la fece. Secondo le ricostruzioni, l’esplosione gli fratturò le gambe, impedendogli di uscire immediatamente dall’auto che nel giro di pochi minuti fu completamente consumata dalle fiamme. A dare l’allarme fu proprio il padre dell’uomo. Sul posto arrivarono Vigili del fuoco e carabinieri. E i primi rilievi non lasciarono dubbi: a far esplodere l’auto, una Ford Fiesta a metano, è stata una bomba comandata a distanza. Un chiaro messaggio di ‘ndrangheta.
Precedenti pericolosi
Ex rappresentante di medicinali, Matteo Vinci aveva avuto una banale rissa con Sara Mancuso, sorella dei boss dell’omonimo casato mafioso e proprietaria degli appezzamenti di terreno confinanti con il suo campo. Terreni sui quali gli uomini del clan avevano messo gli occhi, ma che i Vinci non avevano intenzione di cedere. Nel novembre 2017 una discussione fra il padre e i vicini è degenerata. L’anziano restò ferito gravemente con un’arma da taglio, da lì è nata una lite che ha fatto finire dietro le sbarre sia Matteo Vinci sia Sara Mancuso. Entrambi sono stati poi rilasciati, ma il caso è finito all’attenzione della procura antimafia. Se tali trascorsi siano da ricollegare all’attentato ancora non è dato sapere, si aspetta che si celebri il processo con gli imputati ancora a disposizione della Giustizia.
Fonte: quotidianodelsud.it
Articolo del 13 novembre 2019
Vibo, Omicidio Matteo Vinci, Rosina Di Grillo condannata solo per lesioni
di Gianluca Prestia
VIBO VALENTIA – Primi verdetti nella vicenda dell’autobomba che provocò la morte del biologo 43enne di Limbadi, Matteo Vinci, nel pomeriggio del 9 aprile del 2018.
Il gup distrettuale Paolo Ciriaco, al termine del processo con rito abbreviato, ha condannato a sei mesi – con la sospensione della pena – Rosina Di Grillo, figlia di Domenico Di Grillo e Rosaria Mancuso, quest’ultima sorella dei più temuti boss dell’omonimo casato mafioso.
Una pena di molto inferiore rispetto alle richieste avanzate dal pm della Dda, Andrea Mancuso, che infatti aveva invocato un verdetto di 7 anni per le contestazioni di tentata estorsione, lesioni personali con l’aggravante del metodo mafioso.
Ma il magistrato non ha riconosciuto né il primo reato né, tanto meno, l’aggravante a carico dell’imputata, accogliendo, in tal modo, le richieste avanzate dall’avvocato Francesco Capria.
La parte civile, nella persona dell’avvocato Giuseppe De Pace in rappresentanza dei familiari della vittima (la madre Sara Scarpulla e il padre Francesco Vinci), nell’udienza di oggi, su richiesta del giudice di accettare o meno il giudizio abbreviato, ha opposto un rifiuto e di fatto è stata estromessa dal processo.
Sia l’aggressione, del 29 marzo 2014, che le tentate estorsioni alla famiglia Vinci-Scarpulla, secondo la prospettazione accusatoria, sarebbero alla base dell’eclatante attentato che costò la vita a Matteo Vinci e il ferimento del padre Francesco. Nel processo in ordinario sono imputati i due genitori della Di Grillo, la sorella Lucia e il cognato Vito Barbara.
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