9 Maggio 1990 Palermo. Ucciso Giovanni Bonsignore dirigente superiore della Regione Siciliana. Si era opposto alla concessione di un finanziamento “illegittimo” chiesto da un consorzio agroalimentare.

Foto dal Gruppo Facebook Dedicato alle Vittime delle Mafie

Giovanni Bonsignore (Palermo, 10 gennaio 1931 – Palermo, 9 maggio 1990) è stato un funzionario italiano.
Giovanni Bonsignore fu dirigente superiore dell’assessorato regionale della cooperazione, del commercio e pesca della Regione Siciliana. Il funzionario pagò con la vita la sua intransigenza e il profondo rigore applicato quotidianamente al suo lavoro. Non si era mai voluto piegare a direttive che contrastavano con la legge e per questo era stato trasferito ad un altro ramo dell’amministrazione. Da dirigente dell’assessorato alla Cooperazione aveva ostacolato la creazione del consorzio agroalimentare , un organismo costato miliardi, recuperati da capitoli di bilanci che egli sosteneva fossero destinati ad altre spese. Giovanni Bonsignore aveva preparato una relazione molto dettagliata nella quale sosteneva che secondo le leggi regionali e statali in vigore, il finanziamento predisposto dalla Regione Siciliana di circa 38 miliardi era illegittimo. Fu assassinato il 9 maggio 1990 alle 8.30 a Palermo in Via Alessio Di Giovanni, appena uscito di casa dopo aver acquistato un quotidiano. Qualche anno dopo la sua morte furono confermate le sue accuse, sia i fatti di cronaca giudiziaria sia il fatto che la Regione Siciliana avrebbe cambiato nel 1993 la normativa riguardante i finanziamenti che egli criticava con l’autorevolezza di giurista preparato e rigoroso. Nel 1991 fu insignito della medaglia d’oro al valore civile alla memoria.
Fonte Wikipedia

 

 

 

Fonte: archiviolastampa.it
Articolo del 9 maggio 1990
Assassinato ispettore della Regione
di Antonio Ravidà
Palermo, un delitto di intreccio mafia-politica. Indagava sul traffico dell’acqua.

PALERMO. Un funzionario del corpo ispettivo della Regione Sicilia che indagava anche su casi scottanti è stato assassinato stamane alle 8 con quattro colpi di pistola in faccia in via Alfieri, vicino a viale della Libertà. È il dottor Giovanni Bonsignore, di 52 anni, che abitava all’angolo del luogo del delitto in via Simone Cuccia.

La vittima è stata colta di sorpresa da un solo killer mentre andava in garage a prendere l’automobile per recarsi in ufficio all’assessorato agli Enti Locali. Bonsignore aveva appena preso il caffè nello stesso bar nel quale, il 20 luglio del 1979, fu ucciso, mentre sorbiva anch’egli un caffè, il capo della Squadra Mobile Boris Giuliano; Bonsignore aveva poi acquistato un giornale ed una bottiglia di acqua minerale che intendeva portare con sé in ufficio.

L’omicida l’ha affrontato senza problemi e gli ha sparato quattro volte, una dopo l’altra, a distanza ravvicinata.

La morte è stata istantanea tra la folla terrorizzata che cercava scampo mentre l’assassino fuggiva su una grossa motocicletta guidata da un complice.

Fra le indagini che Bonsignore conduceva all’assessorato agli Enti Locali, dove era stato trasferito sei mesi fa, ve n’era una sulla carenza idrica, sulla possibilità che la Regione avrebbe di assegnare cospicui quantitativi di acqua ai Comuni più assetati, sugli alti prezzi e le speculazioni verificatesi nella distribuzione.

Un incarico molto difficile, insidioso, nell’isola dove la siccità e la più assoluta disorganizzazione nel settore idrico costringono gran parte della popolazione a sacrifici mentre i «nababbi» dell’acqua, proprietari di pozzi e sorgenti, o commercianti di acqua minerale, si arricchiscono.

L’ipotesi che ci si trovi al cospetto di un delitto di mafia non è avvalorata soltanto dalle modalità dell’agguato portato a termine dal killer che ha saputo ben mirare con la sua calibro 7,65, ma viene convalidata da Carmine Mancuso, presidente del coordinamento antimafia e ispettore di polizia. «Mesi fa Bonsignore mi aveva cercato – ha rivelato Mancuso dopo l’omicidio – perché voleva parlarmi. Mi aveva anticipato che era in possesso di un carteggio esplicativo su presunte irregolarità nell’ambito del suo lavoro. Era anche molto preoccupato e temeva eventuali ripercussioni. Purtroppo per impegni personali non ebbi il tempo di incontrarlo». «È sintomatico – ha aggiunto – che il delitto sia stato compiuto a chiusura delle urne». Per Mancuso «l’omicidio è da ascriversi all’intreccio mafia-politica».

L’anno scorso in ottobre Giovanni Bonsignore fu trasferito dall’assessorato regionale alla Cooperazione su richiesta dell’allora assessore Turi Lombardo, psi, ora titolare dei Beni Culturali e Pubblica Istruzione. Il funzionario aveva contestato la decisione dell’assessore di prolungare l’orario di apertura di un distributore di benzina a Modica e l’assessore ne ottenne il trasferimento essendo venuta meno, aveva detto, «l’indispensabile fiducia nei suoi confronti». Il caso finì all’assemblea regionale con interrogazioni dei comunisti e del verde Franco Piro, i quali chiesero anche se sulla decisione dell’assessore non avesse influito, oltre alla vicenda del distributore di benzina, una pratica sul finanziamento di 38 miliardi ad un consorzio agro-alimentare.

 

 

 

Fonte: archiviolastampa.it
Articolo del 11 maggio 1990
La vedova dell’ispettore ucciso
«Denunciava ingiustizie e soprusi, alla fine ha pagato lui»

PALERMO. Un uomo tutto d’un pezzo. Un personaggio incapace di mediazioni, abituato a denunciare ingiustizie o quelli che riteneva soprusi e «imbrogli». Così era Giovanni Bonsignore, il funzionario regionale assassinato da un killer mafioso. Un carattere difficile, specialmente in una città come Palermo, dove la vita è invece un quotidiano esercizio dell’arte di districarsi in situazioni difficili. Lui no. Non conosceva ammiccamenti, né compromessi, anche se dalla sua scrivania di ispettore regionale, passavano carte, fascicoli, sollecitazioni non sempre nettamente decifrabili.

«Voleva mettere le cose a posto, hanno messo a posto lui». La signora Emilia, la moglie veneta del funzionario ucciso, trova la forza di parlare col cronista del quotidiano del pomeriggio, poi, prostrata, non riesce più a incontrare altri. Ricorda «un uomo onesto col pallino della giustizia». «Ecco, voleva giustizia. Per questo aveva denunciato, per esempio, l’assessore Lombardo. Perché era i certo di essere rimasto vittima di un sopruso. Riteneva di non avere meritato il trasferimento in un altro assessorato. Ecco perché voleva raccontare la sua versione al magistrato». «Ogni giorno – ricorda – rincasando, mi chiedeva se fosse arrivata la convocazione della procura della Repubblica». La donna si sfoga – «Giovanni era uno che non sopportava le cose storte. Voleva che ciascuno facesse il suo dovere, ma sul serio. Io vedo tanti parolai, troppe persone che parlano, parlano, ma non agiscono. E mentre loro discutono, Palermo diventa sempre più selvaggia, meno vivibile. Uccidere così un uomo… Per strada… È terribile». Infine il rimpianto: «Glielo dicevo sempre: andiamo via, trasferiamoci a Venezia. Ma lui non voleva neppure sentire pronunciare queste parole, diceva che doveva restare».

Recentemente Bonsignore aveva cominciato a frequentare il sindacato della Cgil. La moglie sostiene che gli avevano promesso un aiuto e a lui piaceva «aver trovato delle persone con le quali sfogarsi».

Una parte delle sue denunce, quindi, sono fra le carte che il segretario della Cgil funzione pubblica, Giuseppe De Santis, (cui il prefetto adesso vuole assegnare la scorta) aveva raccolto dopo i colloqui con Bonsignore. Documenti che sono in possesso della magistratura, fin da quando il funzionario regionale le aveva consegnato il suo esposto. Da quel momento, dicono, aveva preso ad annotare qualunque cosa. I conoscenti si erano abituati a descriverlo come l’uomo dei dossier. E per il sindacato, dopo l’iscrizione avvenuta a dicembre, stava ultimando una indagine su tre «grandi temi»: i collaudi delle grandi opere pubbliche finanziate dalla Regione; le strutture edilizie e una sorta di censimento sull’esercito di consulenti e consiglieri nel libro paga presso gli assessorati. Non sfugge alla magistratura la particolare «pericolosità» che caratterizza il terreno nel quale Bonsignore si era addentrato. Un atteggiamento che di certo non gli procurava amicizie. [g.l.l.]

 

 

 

 

 

Silenzi eccellenti: il caso Bonsignore. Una battaglia per la giustizia
di Emilia Bonsignore Midrio e B. Agnello

Editore: La Luna, 1994

Un delitto politico-mafioso, ma atipico e inquietante: muore un tranquillo dirigente della Regione Siciliana, molto rigoroso nel suo lavoro. Dopo l’omicidio, la moglie dà battaglia su tutti i fronti per avere giustizia: donna borghese, diventa cittadina che pretende il suo diritto. In questo libro-verità, il suo carteggio con le autorità è la testimonianza in prima persona della lotta contro il muro di gomma oppostole dal Palazzo. Sullo sfondo, la tangentopoli siciliana e una nuova Sicilia che comincia a svegliarsi.

“Silenzi eccellenti” presentazione del libro di Emilia Midrio Bonsignore
Radio Radicale 9 maggio 1994

con:
Valeria Ajovalasit – della casa editrice La Luna
Nicola Tranfaglia – storico
Pietro Grasso – magistrato
Emilia Midrio Bonsignore – vedova del funzionario regionale Giovanni Bonsignore

 

 

 

Articolo da L’Unità dell’8 Maggio 1994
«Silenziosi eccellenti, vi accuso»
di Ruggero Farkas
Non si è data per vinta la vedova rompiscatole. Emilia Midrio, moglie del funzionario della Regione siciliana, Giovanni  Bonsignore, ucciso il 9 maggio 1990, ha scritto un libro che racconta i «Silenzi eccellenti», che spiega come sia difficile ottenere giustizia, come la voglia di verità si scontri con un muro di indifferenza e superficialità.  «Tutti i politici che isolarono Giovanni sono finiti in carcere o sono sotto inchiesta per la tangentopoli siciliana».

Se un giorno ci sarà un processo sul banco di legno di fronte al pretorio dove siede la Corte di Assise vedremo finalmente i volti dei mafiosi che hanno governato la Sicilia. Se un giorno qualche sostituto procuratore riuscirà ad ottenere la condanna di chi ha ordinato l’omicidio di Giovanni Bonsignore, funzionario della Regione siciliana ammazzato la mattina palermitana del 9 maggio di quattro anni fa, potremo vedere le mani, gli occhi e l’espressione di quelli che per spartirsi qualche miliardo hanno fatto il nome di chi intralciava, di quel granello di sabbia che aveva tentato di bloccare il meccanismo tangentizio, la spartizione priva di scrupoli e pudore, la divisione di uno dei tanti malloppi creato apposta con leggi, decreti, ordinanze assessorili, pronti per la divisione in percentuali già precedentemente calcolate. Se un giorno ci sarà un processo probabilmente si verrà a scoprire che un uomo è stato ucciso per un agrumeto che in realtà era un terreno senza l’ombra di aranci che la Regione ha pagato venti volte di più del suo valore. Se un giorno ci sarà un «processo Bonsignore» in prima fila ogni mattina, per ogni udienza, seduta attenta, vedremo la vedova rompiscatole, quella donna che non ama il silenzio e da quattro anni attende di guardare dentro agli occhi di chi ha pronunziato il nome dell’intruso spiegando a qualche amico coinvolto nella spartizione che solo sbarazzandosi di lui il malloppo poteva essere diviso senza problemi e solo senza di lui l’affare sarebbe stato concluso.

Dura come una roccia
Quante gliene hanno dette ad Emilia Midrio, vedova Bonsignore, a questa che sembra una «donnetta» che si lamenta e piagnucola sempre e che invece è forte e dura come la roccia, convinta delle sue ragioni e del suo diritto alla giustizia, ostinata nel cercare nel muro di silenzio che rende questo diritto lontano, irraggiungibile, qualche varco, qualche crepa, un passaggio per la verità. Anche per questo ha voluto raccontare la gabbia senza rumori in cui è piombata dopo quei cinque colpi di pistola assordandi che hanno piegato la sua vita spostandone la traiettoria e ha scritto un libro «Silenzi eccellenti. Il caso Bonsignore» (edizioni «La Luna»). E’ il racconto di una battaglia che sembra persa in partenza, ma che non finisce perché una volontà di ferro e una amore che continuano ancora impediscono che le armi vengano deposte.
«La gente non sa quanto è difficile ottenere giustizia, quanti scogli si incontrano lungo il cammino per la verità. Io ho scoperto sulla mia pelle che la giustizia non è un diritto. Ho scritto cinque volte al presidente Scalfaro e non mi ha mai risposto. Il Consiglio superiore della magistratura mi ha mandato quattro righe per tenermi buona. Il procuratore Caselli ha promesso di interessarsi, perché l’inchiesta sull’omicidio di Giovanni, dopo quattro anni, è formalmente aperta, ma io non so ancora nulla. Perché continuo a spedire lettere, mandare fax, a telefonare, a “disturbare”? Perché voglio conoscere le ragioni che hanno determinato l’assassinio di mio marito, perché era un funzionario onesto, perché ha detto di no ad un affare sporco. I politici che lo avevano isolato, chi lo ha trasferito senza morivo, chi gli era contro, sono finiti in carcere o sotto inchiesta per la tangentopoli siciliana: hanno intascato miliardi e miliardi di lire».

L’esposto in procura
Avevano detto: «L’hanno ammazzato perché non ha dato il permesso all’apertura notturna di un distributore di benzina in provincia». Oppure «Era un ficcanaso insopportabile, apriva i cassetti dei colleghi, li spiava, si impuntava su cavilli senza importanza». E ancora: «Insieme a quel Beppe De Santis, il sindacalista della Cgil, crede di poter cambiare le regole del gioco. Perché non sta zitto e ubbidisce facendosi i fatti suoi?». Quando Giovanni Bonsignore e Beppe De Santis presentarono in procura l’esposto contro l’assessore regionale alla Cooperazione, Turi Lombardo, socialista, che aveva chiesto ed ottenuto dal presidente della Regione Rino Nicolosi, dc, il trasferimento del funzionario regionale per divergenze d’ufficio, non furono in molti a capire l’importanza «Il consorzio agroalimentare è il nodo. Nessuno me lo toglie dalla testa. Giovanni si era opposto a quel consorzio che doveva sorgere a Catania. Era un’idea di Turi Lombardo. Un’idea da trentanove miliardi di lire. Dieci giorni dopo aver espresso un parere negativo alle modalità di finanziamento del consorzio mio marito è stato trasferito ad un altro assessorato».

Tangente in tasca
Alla fine dell’anno scorso è finito in carcere Elio Rossitto, l’ex presidente del consorzio, che ha ammesso di aver intascato una tangente di un miliardo e duecento milioni sull’acquisto del terreno da destinare alla costruzione degli stabilimenti. Il proprietario del terreno, Alfio Puglisi Cosentino a cui il terreno incolto è stato espropriato come «agrumeto» e pagato venti volte di più del valore reale. Sotto inchiesta sono finiti Rino Nicolosi, l’ex ministro Salvo Andò, il capo degli andreottiani catanesi Nino Drago, il vicepresidente del consorzio Luigi Mazzei, legato a Turi Lombardo: tutti sono accusati di aver intascato centinaia di milioni. Ecco perché volevano a tutti i costi che il progetto del consorzio andasse avanti. Ecco perché era intollerabile che qualcuno mettesse loro un bastone tra le ruote. Io chiedo che si indaghi a fondo per scoprire chi ha ucciso Giovanni. Certo quando vedo le contraddizioni del nostro Paese non mi rallegro. Il presidente della Repubblica ha dato una medaglia d’oro al valore civile alla memoria di mio marito ucciso “in un agguato terroristico-mafioso”: La Regione non gli riconosce la morte per cause di servizio. Ma io continuo a rompere le scatole, perché come ho scritto alla fine del libro dopo la morte di mio marito sono diventata una persona che conosce e rivendica il suo diritto di essere cittadina di questo paese e non suddita né spettatrice silenziosa. Di silenzio ce n’è già abbastanza».

 

 

 

 

 

Un delitto incofessabile
L’omicidio Bonsignore nella Sicilia della mafia e degli affari
di Toni Baldi e Sebastiano Gulisano

Editore Datanews, 1998

Fonte e fotocopertina dal Blog di Sebastiano Gulisano
Morte di un “rompiscatole”

Tre colpi in faccia e uno al petto, esplosi da pochi passi. Così è morto Giovanni Bonsignore. Senza nemmeno accorgersene. A Palermo, alle otto e un quarto del mattino di mercoledì 9 maggio 1990, mentre si recava in ufficio. Il killer ha invece avuto il tempo di rinfoderare la pistola, tirare fuori da una tasca un pacchetto di fazzolettini, estrarne uno, asciugarsi, ripulirsi dagli schizzi di sangue, appallattolarlo e gettarlo accanto al cadavere. Calma e disprezzo. Poi è rimontato in sella alla moto guidata da un complice ed è filato via a tutto gas.

“Era uno che voleva mettere le cose a posto – ha detto amara la vedova, Emilia Midrio Bonsignore -, e invece hanno messo a posto lui”.

Un delitto dai contorni inquietanti. Finora gli omicidi eccellenti siciliani hanno avuto come vittime magistrati, giornalisti, investigatori, uomini politici d’opposizione e di governo, imprenditori. Bonsignore era solo un lavoratore: la mafia non uccideva un lavoratore da tempo immemorabile; bisogna risalire all’immediato dopoguerra per trovare esempi analoghi. E, allora, quest’omicidio potrebbe precipitarci in un passato in cui la mafia uccideva i dirigenti sindacali. Bonsignore però non era un sindacalista, non era iscritto ad alcun partito, non svolgeva attività politica. Non era un uomo pubblico. Era solo un pubblico funzionario preparato e onesto. Ma, da morto, alcuni giudici gli negheranno anche questo riconoscimento.

Cosa nostra ha atteso che passassero le elezioni amministrative, poi ha armato la mano dell’assassino. Perché? A otto anni di distanza le indagini non sono approdate a nulla: ignoti gli autori materiali, ignoti i mandanti, ignoto il movente. L’unica cosa certa è che Bonsignore è assassinato nella zona controllata dai Madonia, che, dunque, devono avere fornito il loro placet e, forse, anche i sicari. Tutti i suoi colleghi ricordano ancora la tempesta scatenatasi dopo il suo trasferimento dall’assessorato regionale del Commercio a quello degli Enti Locali, nell’autunno dell’89. Problemi di “incompatibilità” col socialista Turi Lombardo, all’epoca assessore al Commercio e alla Cooperazione: Bonsignore si era opposto all’assegnazione di un finanziamento di 38 miliardi al “Consorzio mercati agroalimentari Sicilia”, una società mista che avrebbe dovuto costruire e gestire i mercati agroalimentari nelle città di Palermo, Catania e Messina. Lombardo non gradì che il funzionario avesse espresso la propria contrarietà nero su bianco, per iscritto, e pretese il suo trasferimento. Che arrivò in pochi giorni, con una procedura scorretta e dall’insolita rapidità. Un provvedimento chiaramente punitivo che doveva servire da monito agli altri burocrati “rompiscatole”, ai quali si ricordava che erano solo dei passacarte subalterni alla giunta regionale. “Arroganza e spirito di sopraffazione verso chi disturba il manovratore”, sentenziò Gianni Parisi, del Pci.

“Nemmeno oggi ha telefonato il magistrato?”
“Da sei mesi, ogni giorno, appena rietrava in casa mi chiedeva: “Nemmeno oggi ha telefonato il magistrato?”. Aveva denunciato l’assessore Lombardo, a novembre, e aspettava che lo convocassero: “Ci sono cose che non posso mettere per iscritto, gliele devo dire a voce, di presenza”, diceva. Ma non ha fatto in tempo. Me lo hanno ucciso prima”. Mastica bile, la signora Midrio, è doppiamente amareggiata: hanno ammazzato suo marito e lei non ha avuto giustizia. Anzi: Lombardo l’ha citata in giudizio, vuole che gli paghi i danni – un miliardo e mezzo – causato alla sua immagine immacolata. Si sente beffata, la vedova Bonsignore. E se n’è tornata nella sua Venezia, proprio all’inizio del ’98. Dopo l’omicidio, è scesa a Palermo la Commissione antimafia. Voleva capire. E far capire. La presiedeva, l’Antimafia, quel galantuomo comunista di Gerardo Chiaromonte. E fu lui a scrivere la relazione conclusiva, a censurare l’operato della Regione, quello di Lombardo e quello del magistrato che lo ha prosciolto. Fu Chiaromonte a scrivere: “Appariva chiaro che l’omicidio del funzionario era stato compiuto anche con l’obiettivo non trascurabile di far giungere a tutti i dipendenti regionali il ferale messaggio intimidatorio (collegato alla statura morale ed alla professionalità unanimemente riconosciuta al funzionario), secondo cui corre pericolo di vita chiunque si opponga alle regole, non scritte ma ancora più ineludibili, della spartizione degli appalti, dei finanziamenti mirati e gestiti da chi li ha fatti ottenere, dei favori elargiti in cambio di concreti appoggi, delle tangenti travestite da consulenza, delle intermediazioni pagate come contributi tecnici, dei servizi pretesi magari con un sorriso minaccioso…”. “Era stato compiuto anche con l’obiettivo…”, scrisse Chiaromonte. Quindi: non solo con l’obiettivo di intimidire i dipendenti regionali. “Un delitto dalla valenza plurima” disse il giudice Falcone. “Un altissimo delitto politico mafioso – ha sempre sostenuto Beppe De Santis -. Prefigura un passaggio di forze all’interno degli equilibri politici siciliani, si tratta di un feroce avvertimento nei confronti dell’intero governo regionale”. Le ipotesi che abbiamo passato in rassegna, tre ipotesi che si sommano e non si escludono l’un l’altra.

“Trasparenza o efficienza”
I magistrati hanno messo sottosopra la sua vita professionale, alla ricerca di qualcosa che potesse indirizzarli. Non hanno trovato nulla. Eccetto quel “no” al finaziamento per l’Agroalimentare di Catania. Nient’altro. Dunque, se Bonsignore fosse stato ucciso per il suo lavoro, è lì che bisogna guardare. E Bonsignore è stato ucciso per il suo lavoro. Cioè, a causa del consorzio di Catania. Si era opposto alla concessione del finanziamento “illegittimo” chiesto dal consorzio. E che fosse illegittimo lo dimostrano i fatti. Occorreva una nuova legge. Ma Nicolosi, Lombardo, Rossitto e tutti gli altri avevano fretta, non potevano aspettare, c’era il rischio di perdere i finanziamenti statali. E lo trasferirono.

Poi, qualcuno lo ammazzò.
E, paradossalmente, come fece notare il segretario generale della Cgil Bruno Trentin, sembrerebbe che l’omicidio sia servito da intralcio all’Agroalimentare.

In Sicilia era stato avviato un processo di riclassificazione del potere all’interno della Regione per quanto riguarda il governo e la gestione della spesa pubblica. Lo ha confessato lo stesso assessore al Bilancio Totò Sciangula, al Giornale di Sicilia, l’8 febbraio del ’90: “C’è da scegliere se privilegiare le garanzie della trasparenza o quelle dell’efficienza”, disse. E aggiunse: “C’è nel bilancio tutto quanto occorre per tutta l’imprenditorialità che in Sicilia voglia portare avanti progetti di finanziamento, progetti occupazionali, di ristrutturazione a qualsiasi livello”. Insomma: non vi accalcate, ce n’è per tutti. Ma lasciateci lavorare in pace, con “efficienza”. Cioè: “Io prefiguro un trasferimento per gradi di risorse dalle competenze discrezionali degli assessori al governo regionale nella sua collegialità”.

Sciangula prefigurava un governo che fosse soltanto un organismo di rappresentanza nominale, non più di rappresentanza reale del potere. Il governo reale è gestito infatti da un ceto politico-burocratico forte, con a capo lo stesso Nicolosi e pochi amici. Il “governo parallelo”. Lì passano tutti i progetti di opere pubbliche che prevedono ampi margini di spesa.

In questo contesto, l’omicidio Bonsignore lancia un’intimidazione verso i funzionari e i dipendenti che vogliono fare il loro dovere, un’altra verso i sindacalisti della Cgil che lavorano nel segno del rinnovamento. Quindi: un depistaggio e un segnale lanciato a qualcuno.

“Gli amici piangono…”
La riclassificazione del potere all’interno della Regione minaccia interessi consolidati. Nasce un contrasto tra lobby. L’aria diventa pesante per lo stesso Nicolosi quando, circa un mese prima dell’omicidio Bonsignore, sul Giornale di Sicilia compare un inquietante necrologio: “Gli amici piangono la prematura scomparsa di Rosario Nicolosi”. Nient’altro.

Probabilmente, la mafia fa sapere a Nicolosi che si possono cambiare le regole del gioco politico, ma non del controllo economico del territorio. La spartizione della torta non può essere appannaggio di una parte, ma di tutti. Che era ciò che gli contestava Brusca: voleva ammazzarlo, e glielo mandò a dire con Salamone, tramite Siino. Voleva ammazzarlo perché “ci aveva i cannarozzi tanta”, perché “mangiava” troppo e agli altri lasciava solo le briciole, o nemmeno quelle. E Cosa nostra non voleva restare all’asciutto.

La mafia ha il suo gruppetto di deputati, all’Ars (come nei Comuni, nelle Province, in Parlamento…), un partito trasversale che non è facilmente individuabile, che si cela tra le maglie di tanti partiti. E la Dc ne è sempre stata abbastanza affollata, così come il Psi dalla seconda metà degli anni Ottanta fino al de profundis.

Gli incappucciati
Nell’89, alla Regione, c’era appunto un bicolore Dc-Psi: 52 deputati su 90. Dopo una lunga crisi iniziata con l’arrivo dell’estate, la sera del 14 novembre era tutto pronto per rieleggere Nicolosi, l’accordo c’era, i numeri anche, i deputati avevano fatto interventi appassionati, i colleghi li avevano applauditi… Le opposizioni – destra e sinistra – facevano il loro mestiere di opposizioni: remavano contro. Poi il voto. E la sorpresa. Si arrivò al ballottaggio. Nicolosi contro il repubblicano Salvatore Natoli. Una formalità… ma dodici “incappucciati” riversarono compatti il loro voto sul repubblicano. Erano le undici di sera. Alle tre di notte Natoli comunicò all’Aula che rinunciava.

Eravamo nell’epoca della “grande abbuffata” e probabilmente qualcuno era “scontento”. Così come Mazzei era “scontento” di Rossitto quando mandò a carte quarantotto l’Agroalimenare. Avete visto che differenze di “importi”, tra i due? Rossitto becca un miliardi e seicentomilioni (ma quattrocento li nega), da Puglisi Cosentino; Mazzei solo 70 milioni…

Anche Nicolosi ha tirato troppo l’elastico. E glielo mandano a dire.
Due settimane dopo, comunque, il Presidentissimo torna in sella.

Il 7 giugno, a 28 giorni di distanza dall’omicidio Bonsignore, gli incappucciati, all’Ars, si rifanno vivi. Ci sono in votazione tre ordini del giorno presentati dal Pci: i comunisti chiedono che la Regione revochi un paio di convenzioni ed esca da un consorzio: Agroalimentare, Sirap e Siciltrading. Quest’ultima è una società vicina a Lombardo addetta “alla fase attuativa delle iniziative promopubblicitarie a sostegno dei prodotti siciliani”. Anche le altre due erano “creature” di Lombardo. Ma Lombardo non sta più all’assessorato dal quale “dipendono” quelle tre società. Abbiamo visto (o, quantomeno, intuito) quali e quanti siano gli interessi che ruotano attorno a Sirap e consorzio. E anche la Siciltrading movimentava somme non indifferenti.

Accade che, a sorpresa, i tre ordini del giorno sono approvati. C’è scompiglio alla Regione. C’è scompiglio tra i partner. Quegli affari ormai sono soprattutto di Nicolosi. E Nicolosi (e la giunta) non tiene conto di quella direttiva che gli viene dall’Ars: tira dritto.

Che la Sirap e l’Agroalimentare fossero principalmente faccende sue risulta evidente dalle pagine precedenti. Dunque, quel voto era un “segnale” a Nicolosi… che tendeva ad accentrare. Troppo.

Un anno dopo passa la mano, lascia l’Ars e si parcheggia in attesa delle politiche del ’92. Ha “la percezione che si sia esaurito un ciclo vitale” e avverte l bisogno di chiamarsi fuori dalla mischia, in attesa della “calma” di Montecitorio. Dove, tra l’altro, c’è l’immunità parlamentare. Sì. Perché Nicolosi non deve guardarsi solo da Cosa nostra, ma anche dai magistrati di tutta la Sicilia. Ha commesso reati ovunque. E l’aria sta cambiando.

A Catania, ad esempio, c’è quel “comunista” di Felice Lima e quegli altri suoi colleghi… stanno arrestando troppa gente…

“Bonsignore? Guardate a Catania…”
“Nicolosi ha suggerito ai magistrati di “guardare pure a Catania”, agli “interessi forti” che c’erano alle pendici dell’Etna per i miliardi destinati alla società consortile Mercati agroalimentari Sicilia spa”. Domenica 26 marzo 1995 il Giornale di Sicilia pubblica un articolo di sei colonne che ha nelle parole che abbiamo riportato la sua essenza, la sua ragion d’essere. “Guardate a Catania”. Lo abbiamo visto, l’Agroalimentare era un affare solo catanese, tutto catanese. E, se Bonsignore è caduto su quella pista è lì che bisogna andare a guardare.

I veri signori del consorzio
“All’inizio del 1991, sono stato contattato da Eugenio Galea, che aveva rapporti con Giovanni Brusca. Ebbi l’incarico di incontrare Domenico Cavallaro, che era nel consiglio di amministrazione dell’Agroalimentare”, ha spiegato il pentito Angelo Siino ai giudici della sesta sezione penale del Tribunale di Palermo, il 13 gennaio ’98, durante il processo agli amministratori del consorzio e ad alcuni esponenti della giunta regionale dell’epoca. Galea è uno dei massimi esponenti del clan Santapaola, l’uomo incaricato di tenere i rapporti con i palermitani e i politici; Cavallaro è l’ex presidente della Federmercati, membro del consorzio, e, secondo Siino, “a disposizione” di Santapaola.

Conosce molti segreti inconfessabili della storia siciliana e nazionale degli ultimi trent’anni, Bronson; è uno che fa tremare tanta gente. E dal mese di luglio del ’97, cioè da quando ha deciso di collaborare con la giustizia, ha riempito migliaia e migliaia di pagine di verbali. Provocando, suo malgrado, un’altra stagione di veleni e sospetti nel Palazzo di giustizia di Palermo. Com’è sempre successo ogni qual volta i magistrati si avvicinano a qualche verità inconfessabile.

Sa poco sull’Agroalimentare, Siino, ma quel poco apre squarci inediti, fa balenare scenari fino ad ora solo immaginati, teorizzati a bassa voce. In aula, sentito in teleconferenza, racconta di avere preso parte a due incontri: il primo a Catania, in una saletta riservata di un albergo, il secondo a Granieri, nei pressi di Caltagirone. Tra i partecipanti: Nitto Santapaola, il fratello maggiore Salvatore (“u zu Turi”), Eugenio Galea e, appunto, Domenico Cavallaro. “Cavallaro, che non mi conosceva – spiega il pentito -, cominciò a parlarmi di forniture di pesce… Io però chiarii che dovevo gestire l’intero appalto dell’Agroalimentare, dalla A alla Z… Disse che lui non aveva alcun potere, che l’Agroalimentare doveva essere progettato da una società ingegneristica romana e che i veri signori del consorzio erano Nicolosi e Andò”, ovvero l’ex presidente della Regione e il ministro della Difesa dell’ultimo governo Andreotti, Salvo Andò, anch’egli catanese. “Erano loro che comandavano, che decidevano a chi dovesse essere aggiudicato l’appalto”, ha chiarito Bronson, e ha aggiunto: “Dissi a Cavallaro di far sapere a Nicolosi e Andò che dell’appalto si stava occupando Angelo Siino. La notizia arrivò ad entrambi, che si preoccuparono moltissimo”.

Siino, inoltre, sarebbe stato informato da Santapaola che nel consorzio c’erano pure interessi di Turi Lombardo e del piduista Luigi Mazzei: “Erano tutta una banda”, anche se fra i politici palermitani e quelli catanesi “c’erano contrasti, si stavano rompendo le corna tra loro. Ma poi la mia attenzione fu distolta perché ebbi sentore del mio imminente arresto”, conclude il pentito. La deposizione di Angelo Siino, il 13 gennaio, è talmente dettagliata che gli avvocati difensori degli imputati rinunciano persino a controinterrogarlo: sembravano bloccati, confusi, timorosi che il pentito potessa aggiungere altri particolari a quanto ha già detto.

Su Bonsignore, invece, non ha detto nulla. Non sa nulla. È un delitto talmente inconfessabile che neppure uno del calibro di Siino ne ha saputo alcunché. Nessun pentito, fino ad oggi, per quel che se ne sa, ha saputo dire una parola sugli autori e i mandanti di questo crimine crudele e devastante.

Chi, un mese dopo il necrologio, ha inviato questo pazzesco “avvertimento” a Nicolosi ha saputo tenere la bocca chiusa. Ha saputo compartimentare al massimo. Conferendo all’omicidio di un onesto funzionario una brutale carica intimidatrice superiore persino al delitto Mattarella, e perciò più segreta e inconfessabile.

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.Fonte:  archiviolastampa.it
Articolo del 22 ottobre 1999
Sprio gestiva un’agenzia di killer
di Antonio Ravidà
Palermo, quattro finora gli omicidi attribuitigli: Ramirez, Bonsignore, Basile e Lo Jacono.
Il funzionario ordinava di uccidere per 10 milioni.

PALERMO. Per almeno dieci anni a Palermo il funzionario regionale Nino Velio Sprio, 56 anni, uomo di tanti affari pare solo pochissimi dei quali leciti, ha potuto contare su killer che avrebbe ingaggiato di volta in volta. Il compenso era modico: 10 milioni. Di solito due le persone che entravano in azione. Un’autentica agenzia del crimine, dunque, al servizio di Sprio con «picciotti» svelti a sparare, abituati a star zitti e, soprattutto, pronti a togliere di mezzo chiunque. Gli inquirenti su questa storia in attesa degli indispensabili riscontri probatori dicono il meno possibile; non escludono che il gruppo di fuoco abbia agito in tante altre occasioni e non soltanto nei quattro omicidi finora attribuiti a Sprio come mandante: l’avvocato Giuseppe Ramirez, i funzionari regionali Giovanni Bonsignore e Filippo Basile, e il panettiere Antonio Lo Jacono.

L’agenzia dei killer, se uno dei sicari abituali fosse stato in galera, sarebbe stato in grado di contattare un sostituto pronto all’azione. È il caso di Pietro Guida, il pasticciere arrestato lo scorso fine settimana in Molise, reclutato come killer in sostituzione di Salvatore Giliberti. Negli uffici della Procura, a palazzo di Giustizia ora ci sono solo «no comment». Altrettanto laconici sono gli investigatori in Questura e al comando provinciale dei carabinieri. Eppure l’insanguinato intrigo comincia a chiarirsi poco per volta, anche per le ammissioni dei fratelli Ignazio e Salvatore Giliberti, catturati martedì della settimana scorsa nell’aeroporto di Pisa, subito dopo aver assassinato con colpi di pistola a Firenze il panettiere Francesco Lo Iacono. Questi, anni fa, era stato accusato a Milano assieme a Sprio di un tentativo di omicidio ed era stato assolto. Invece, il funzionario regionale, condannato a 5 anni di reclusione, era certo di essere stato inguaiato proprio dal panettiere, e ora ne avrebbe ordinato l’uccisione «a piatto freddo».

Andando a ritroso in questo orripilante itinerario di morte, si arriva al 5 luglio scorso. Quel giorno due killer hanno ucciso il capo del personale dell’assessorato regionale Agricoltura Filippo Basile che aveva inviato alla commissione antimafia dell’assemblea siciliana l’incartamento su Nino Velio Sprio, inquadrato nell’organico dell’assessorato, oltre a quelli su altri dipendenti come lui implicati in procedimenti penali. Sprio temeva di essere licenziato. Quindi, per un’inchiesta aperta nel 1982 sulla cooperativa agricola «La Sicilia» di Palma di Montechiaro della quale Sprio era vicepresidente 162 milioni ottenuti dalla Regione per merce sembra mai acquistata), nel 1990 un killer assassinò in strada a Palermo l’ispettore regionale Giovanni Bonsignore. Adesso il pentito Ignazio Giliberti giura che a sparare con lui fu il pasticciere Pietro Guida. Per anni Emilia Midrio, una tenace professoressa patavina, vedova di Bonsignore, ha chiesto invano giustizia, anche con ripetute petizioni al Quirinale, scatenando sospetti anche sull’ex assessore regionale del Psi Turi Lombardo (aveva tolto un incarico a Bonsignore), uscito poi assolutamente indenne dall’inchiesta. Altro caso rimasto insoluto e ora chiarito dalla confessione dei Giliberti è quello dell’avvocato civilista Giuseppe Ramirez, sgozzato dieci anni fa nel suo studio.

 

 

 

 

Articolo da La Repubblica del 9 Agosto 2002
Sentenza Sprio una domanda a Cuffaro
di Amelia Crisantino

I giudici della terza corte d’assise hanno depositato le motivazioni della sentenza per l’uccisione di Giovanni Bonsignore e Filippo Basile, delineando il contesto politico-mafioso in cui maturarono i delitti e identificando quella convergenza di interessi che troviamo in ogni delitto eccellente.

La vicenda dei due funzionari regionali è materialmente ricondotta alla vendetta di un collega dalla fedina penale tribolata e afflitto da mania di onnipotenza, per cui quelli che a vario titolo gli intralciavano la strada venivano raccomandati alle attenzioni dei suoi killer personali che, con costi modici, eliminavano il problema. Ma Nino Sprio mandante, Piero Guida e i fratelli Giliberti esecutori dei vari delitti sono il prodotto di un contesto criminogeno su cui vale la pena di riflettere.

Riepiloghiamo brevemente la vicenda. Il 9 maggio 1990 cinque colpi di pistola uccidono Giovanni Bonsignore, funzionario dell’assessorato alla Cooperazione. Erano anni in cui ancora arrivavano in Sicilia migliaia di miliardi per finanziare i lavori pubblici, di Bonsignore si disse che era un funzionario integerrimo che certo aveva disturbato tanti amichevoli equilibri con i suoi “atti dovuti”. Poco prima del delitto era stato trasferito, una punizione voluta da chi non gradiva le sue obiezioni al finanziamento del mercato agroalimentare di Catania. Interessi miliardari e corruzione di pari livello, il caso poi esplose nel 1993. L’omicidio Bonsignore è rimasto per anni senza un colpevole, nel 1994 la vedova ha raccolto nel libro “Silenzi eccellenti” la storia della sua battaglia contro il muro di gomma dei politici e delle istituzioni.

Passano gli anni, la città rincorre il suo sogno di normalità. Il 5 luglio 1999 Palermo viene bruscamente riportata alle plumbee atmosfere che si sperava per sempre dimenticate.
In quella data viene ucciso Filippo Basile, 3 colpi di pistola mentre è al volante della sua macchina. Anche Basile è un funzionario regionale, assessorato Agricoltura e Foreste, come dire 4 mila dipendenti ufficiali più altri 32 mila stipendi per i precari forestali a fronte di un’agricoltura che in Sicilia conta meno del 5 per cento del prodotto interno lordo. Un feudo clientelare da manuale, dove la vita può diventare parecchio dura per chi non è abbastanza elastico. Dal giorno dell’omicidio Basile alcuni telefoni sospetti vengono messi sotto controllo, e così il 12 ottobre si intercetta una chiamata di Ignazio Giliberti a Nino Sprio: «Tutto a posto, dottore». Era a Firenze, aveva appena ucciso il pregiudicato palermitano Antonino Lo Iacono. Arrestato all’aeroporto di Pisa ci mette poco a confessare, accusandosi anche di delitti su cui nessuno gli aveva chiesto niente.

Gli esecutori materiali dei delitti Bonsignore e Basile sono individuati, le motivazioni appaiono tragicamente intrecciate. Al 1982 risale un’inchiesta amministrativa per un finanziamento irregolare alla cooperativa “Il Gattopardo” di Palma di Montechiaro, cooperativa che aveva attirato le attenzioni della Procura di Agrigento per collegamenti con le famiglie mafiose degli Allegro e dei Ribisi. Giovanni Bonsignore era uno dei due ispettori che avevano condotto l’inchiesta, accertando come Nino Sprio fosse al contempo inserito nel comitato tecnico incaricato di istruire le pratiche sui contributi e vicepresidente della cooperativa che riceveva i finanziamenti. Il rapporto amministrativo si concluse con una denuncia alla magistratura. Il 30 aprile 1990 ci fu la sentenza della Cassazione, il 9 maggio l’uccisione di Bonsignore.

In seguito alla sentenza della Cassazione, Sprio viene sospeso dal lavoro e poi reintegrato. Ma nel febbraio 1998 la condanna per truffa aggravata diventa definitiva. All’assessorato all’Agricoltura, da cui Sprio dipende, bisogna allestire la pratica di licenziamento. Lavoro che spetta a Filippo Basile, capo del personale e altro funzionario anomalo. Basile si era occupato dei consorzi di bonifica, una di quelle “stazioni appaltanti” attraverso cui girano soldi e affari e la sua correttezza non gli aveva attirato molte simpatie. Più volte aveva denunciato irregolarità, ad esempio aveva sventato la truffa della Federconsorzi, i cui beni venivano alienati per meno della metà del loro valore. L’isolamento, quello vero, l’aveva però conosciuto quando nel luglio 1998 aveva trasmesso alla commissione regionale antimafia l’elenco dei funzionari condannati o con procedimenti in corso. Un atto dovuto, come dovuta era l’istruzione della pratica di licenziamento per Nino Sprio.

Ma in un contesto mafioso gli atti normali e impersonali che dovrebbero identificare l’agire della burocrazia diventano azioni da incoscienti, e come tali vengono isolati. La pratica per il licenziamento di Sprio ci mette un tempo infinito per scendere le scale dal quarto al secondo piano e l’assessore all’Agricoltura – l’attuale presidente della Regione Cuffaro – non trova il tempo di firmarla perché troppo occupato con la campagna elettorale. Una campagna a cui pare che partecipi anche Sprio, almeno a sentire il killer Ignazio Giliberti. Sprio e Cuffaro sono compaesani, entrambi di Raffadali e, sempre a sentire il killer Giliberti, Sprio chiama Cuffaro «il mio figlioccio».

La pratica per il licenziamento di Sprio verrà firmata da Cuffaro il 12 luglio 1999, sette giorni dopo l’uccisione di Filippo Basile. Nelle motivazioni della sentenza per il delitto Basile, i giudici denunciano le responsabilità di Cuffaro nella creazione del clima di ostile isolamento in cui il funzionario trascorreva i suoi giorni all’assessorato. Non chiedono al presidente della Regione come ci si senta ad avere isolato un funzionario onesto. Ma autorizzano tutti noi a farlo.

 

 

 

 

 

 

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