16 Maggio 1946 Favara (AG). Uccisione del sindaco socialista Gaetano Guarino. Lottò contro i grandi proprietari terrieri che sfruttavano la locale manodopera e divenne la voce dell’umile gente che chiedeva l’attuazione delle leggi Gullo-Segni.

Foto da: favara.biz

Gaetano Guarino lottò contro i grandi proprietari terrieri che sfruttavano la locale manodopera e divenne la voce dell’umile gente che chiedeva l’attuazione delle leggi Gullo-Segni che destinavano alle cooperative i terreni incolti appartenenti ai latifondi: costituì anche una cooperativa agricola, che probabilmente si ispirava alla “Madre Terra” di Accursio Miraglia, ed i “baroni” del latifondocominciarono a remargli contro.
Il 10 marzo del 1946 si svolsero le elezioni comunali a Favara e Guarino, sostenuto oltre che dai socialisti anche dal Partito Comunista Italiano e dal Partito d’Azione, vinse le consultazioni con il 59% dei voti e fu eletto sindaco; ma la Mafia delle terre non gli perdonò le sue scelte popolari e dopo appena 65 giorni di sindacatura fu ucciso con un colpo di lupara alla nuca.
Non mancarono ipotesi alternative (e spesso fantasiose) sul suo omicidio ma esse furono promosse da politici e dirigenti corrotti dalla Mafia o collusi con essa: anche L’Avanti!, che sulle prime aveva accusato dell’assassinio i neofascisti, dovette fare marcia indietro. I responsabili del suo omicidio, seppur facilmente intuibili, non furono mai arrestati (né quelli materiali, né i mandanti): per protesta la vedova di Guarino ed il figlio andarono a vivere a Parigi, rifiutandosi sempre di tornare a Favara. (Fonte: wikipedia.org )

 

 

 

Fonte: wikipedia.org

Gaetano Guarino (Favara, 16 gennaio 1902 – Favara, 16 maggio 1946) è stato un politico italiano, vittima della Mafia.

Nato in una famiglia povera (la madre era casalinga ed il padre ebanista), studiò a Palermo e dopo aver ottenuto nel capoluogo siciliano la maturità classica si laureò nel 1928 in farmacia presso la locale università. Negli anni universitari cominciò a scrivere articoli per L’Avanti!, quotidiano socialista allora clandestino.Dal 1928 al 1930 lavorò come tirocinante a Burgio, dove conobbe la sua futura moglie. Nel corso degli anni trenta tornò a Favara, suo paese natale, dove acquistò una farmacia esercitando di conseguenza la professione di farmacista: in questi anni Guarino chiese ed ottenne regolarmente la tessera del Partito Nazionale Fascista, anche se probabilmente lo fece solo per poter proseguire la sua attività.Nel 1943, dopo lo sbarco in Sicilia degli americani, si iscrisse al Partito Socialista Italiano e divenne segretario comunale del PSI a Favara. Il 2 ottobre del 1944, su proposta del prefetto di Agrigento, Guarino venne nominato sindaco del suo paese ma si dimise dall’incarico il 15 settembre del 1945 dopo che tre assessori della Democrazia Cristiana si dimisero dall’incarico.
Guarino lottò contro i grandi proprietari terrieri che sfruttavano la locale manodopera e divenne la voce dell’umile gente che chiedeva l’attuazione delle leggi Gullo-Segni che destinavano alle cooperative i terreni incolti appartenenti ai latifondi: costituì anche una cooperativa agricola, che probabilmente si ispirava alla “Madre Terra” di Accursio Miraglia, ed i “baroni” del latifondocominciarono a remargli contro.
Il 10 marzo del 1946 si svolsero le elezioni comunali a Favara e Guarino, sostenuto oltre che dai socialisti anche dal Partito Comunista Italiano e dal Partito d’Azione, vinse le consultazioni con il 59% dei voti e fu eletto sindaco; ma la Mafia delle terre non gli perdonò le sue scelte popolari e dopo appena 65 giorni di sindacatura fu ucciso con un colpo di lupara alla nuca.
Non mancarono ipotesi alternative (e spesso fantasiose) sul suo omicidio ma esse furono promosse da politici e dirigenti corrotti dalla Mafia o collusi con essa: anche L’Avanti!, che sulle prime aveva accusato dell’assassinio i neofascisti, dovette fare marcia indietro. I responsabili del suo omicidio, seppur facilmente intuibili, non furono mai arrestati (né quelli materiali, né i mandanti): per protesta la vedova di Guarino ed il figlio andarono a vivere a Parigi, rifiutandosi sempre di tornare a Favara.

 

 

 

nota da: perlasicilia.blogspot.com
SALVATORE LUPO, Prefazione a “Favara. L’assassinio di Gaetano Guarino”

Calogero Castronovo,
Favara. L’assassinio di Gaetano Guarino
Edizione Compostampa, Palermo 2005.

PREFAZIONE

La storia qui narrata è una delle tante del dopoguerra siciliano. Essa si incentra su uno dei paesi più turbolenti della parte centro-occidentale dell’isola, Favara; un paese nel quale la ricerca di un riscatto (da un ventennio di oppres­sione politica fascista, da fenomeni di oppressione sociale, miseria e sfruttamen­to ben più antichi) si accompagnò in quegli anni all’ennesima riproduzione del fenomeno mafioso. La mafia a Favara, d’altronde, era antica già nel 1943-45. II paese nel periodo postunitario fornì alle cronache il caso del bandito Sajeva, che le fonti ci descrivono impegnato nella tipica funzione mafiosa di “fare le vendet­te” per conto dell’una o dell’altra fazione paesana. Di lì a pochi anni, nel 1885, la mafia di Favara apparve all’opinione pubblica anche nazionale nella forma del sodalizio criminale strutturato, compattato da tenebrosi rituali, grazie al proces­so contro la locale “Fratellanza” (1885), composta in maggioranza da zolfatari. Sembra un’applicazione della famosa teoria di Eric Hobsbawm sulla mafia come forma primitiva della lotta di classe. Su questo versante agrigentino d’altronde Luigi Pirandello ambientò nel 1910 una novella su una lega contadina che inizia­va col promuovere le lotte popolari per un migliore riparto dei prodotti agricoli e finiva con l’organizzare l’abigeato, con l’usuale taglieggiamento dei proprietari legato al meccanismo della protezione-estorsione. Mobilitazione popolare e feno­menologia mafiosa si intrecciavano dunque in quest’area ben più di quanto fosse nel grande palcoscenico del Palermitano, dove, come diceva Franchetti, la fenome­nologia mafiosa si riferiva piuttosto ai “facinorosi della classe media”, alla gran­de impresa agricola e pastorale dei gabellotti, alla stessa classe dirigente del capoluogo.
Calogero Castronovo qui ricostruisce con impegno conoscitivo e passione civile la storia di una mafia antica, passata attraverso il fascismo, pronta a but­tarsi all’attacco del potere politico locale – o, per meglio dire, determinata a con­servare il potere locale – anche infiltrandosi nei partiti di sinistra. II caso dell’as­sassinio del sindaco Guarino, delitto politico-mafioso a parere dell’autore matura­to all’interno del locale “blocco del popolo”, gli serve per entrare in questi intrec­ci e per cogliere questa continuità dei gruppi di potere e delle pratiche criminali nel paese. E’ difficile dire se la sua tesi sui responsabili del delitto possa conside­rarsi provata; è invece probabile che la notevole documentazione da lui raccolta avvalori pienamente l’idea di una continuità di gruppi mafiosi quanto meno dai primi anni Venti. II secondo aspetto mi sembra comunque in ogni caso più rile­vante, perché a mio parere compito dello storico della mafia non è la ricerca dei responsabili di delitti remoti, insoluti e forse insolubili, ma la chiarificazione dei contesti ambientali che hanno reso possibile la compenetrazione tra potere occul­to e potere palese. In questo senso si può comprendere il perché in un centro di irradiazione del fenomeno mafioso, come F’avara, tutte le forze politiche siano state oggetto dell’attenzione più o meno strumentale dei gruppi di mafia. Ciò vale per la Democrazia cristiana, partito unico del potere in età repubblicana, e dun­que oggetto privilegiato degli appetiti mafiosi; come per altri partiti, come per i comunisti, relativamente alla fetta di potere locale di cui essi eventualmente abbiano usufruito. Questa è la considerazione realistica che viene accreditata da ricerche come quella che qui si presenta.
Mi resta però da fare un’ultima considerazione. Il riconoscimento della lati­tudine della capacità corruttrice del potere mafioso non implica l’equiparazione tra le responsabilità dei partiti politici. La Democrazia cristiana ha avuto una responsabilità incomparabilmente superiore a tutti gli altri: non solo perché tutti i grandi mafiosi sono stati democristiani, ma perché in quel partito il livello dell’inquinamento è giunto a toccare, in certe aree, in certe situazioni, in certi grup­pi locali o sovralocali, i vertici. D’altro canto, tutto il peso della resistenza alla mafia è ricaduto nella Sicilia degli anni Cinquanta e Sessanta sulle spalle dei due partiti di sinistra,- ed è sempre là che, non a caso, vanno cercati i caduti sotto il piombo mafioso. Credo che dobbiamo tornare, ma per volgerla in positivo, alla frase celebre del cardinale Ruffini, secondo il quale la mafia era un’invenzione dei comunisti: mentre così si esprimeva la più alta autorità “morale” dell’isola, men­tre gli inquirenti affermavano che i delitti mafiosi erano attribuibili a questioni di corna, mentre i giudici assolvevano tutti e sistematicamente, mentre negli ambienti governativi era fragoroso il silenzio, solo grazie a politici, intellettuali, giornalisti di sinistra il discorso contro la mafia restò vivo per essere consegnato a tempi migliori.

Salvatore Lupo

Università di Palermo, 23 dicembre 2004

 

 

 

Fonte: gruppolaico.it
Articolo del 16 maggio 2017
Il coraggio di un giovane sindaco
GAETANO GUARINO

Il 16 maggio 1946 muore a Favara (AG) ucciso da Cosa Nostra con un colpo di lupara alla nuca GAETANO GUARINO (44 anni) farmacista, sindaco e politico socialista.

Negli anni dell’immediato dopoguerra a Favara, un centro agricolo al confine con Agrigento, la vita sembrava riprendere dopo la guerra, anche se con la secolare lentezza, trascinando con sé i problemi di sempre: furti, abigeati, sequestri di persona, occupazione delle terre, angherie varie. E’ in questo difficile contesto che maturò l’assassinio del giovane sindaco del paese Gaetano Guarino.

Guarino nacque a Favara in una famiglia povera, si diplomò a Palermo in un liceo classico e si laureò in farmacia nel 1928 nell’università palermitana. Dopo la prematura scomparsa del padre era stato assunto dal Comune di Favara con la qualifica di commesso. Sin da giovane aderì al partito socialista e s’impegnò soprattutto negli anni universitari nelle prime lotte politiche che ebbero come conseguenza vari interventi della polizia fascista. Venne anche perquisita la sua abitazione e venne più volte ammonito per infrazioni alle leggi di pubblica sicurezza.

Caduto il regime fascista anche a Favara si costituì il Comitato di liberazione nazionale e Gaetano Guarino vi venne chiamato a far parte per rappresentare il partito socialista. Il comitato nell’autunno del 1944 doveva prendere una difficile decisione: indicare al Prefetto di Agrigento il sindaco di Favara. La scelta cadde sul giovane farmacista Guarino.

A Favara operava in particolare la pericolosa cosca mafiosa denominata “Cudi Chiatti” e il giovane sindaco faceva quello che poteva per lenire le tante povere famiglie in condizioni di grave bisogno e provava ad evitare che la delinquenza dilagasse. Costituì le cucine economiche e prese provvedimenti per i più poveri. Ripristinò l’illuminazione pubblica nelle principali vie del paese e prese anche seri provvedimenti per l’approvvigionamento idrico. Intervenne perché fossero aumentati i salari ai molti minatori, considerato che in quei mesi erano cresciuti il prezzo dei generi di prima necessità. Costituì una cooperativa agricola per aiutare i contadini a prendere in affitto le terre senza la necessità di rivolgersi ad intermediari mafiosi.

Ma intanto gravi dissidi turbavano la stessa giunta comunale. Gravi episodi innescarono una strategia della tensione che aveva come opposti protagonisti i democristiani e i social-comunisti. L’amministrazione locale entrò in crisi, Guarino dovette dimettersi il 15 settembre del 1945 e a Favara si resero necessarie le prime elezioni politiche comunali.

In tale contesto però non scendevano in campo solo i partiti politici ma anche le cosche mafiose locali e i diversi baroni che con le loro potenti famiglie sostenevano importanti interessi. Guarino era il candidato nella lista del blocco dei partiti della sinistra che si denominava “blocco del popolo” e subì per tutta la campagna elettorali molte intimidazioni di chiaro sapore mafioso. Il “blocco del popolo” vinse quelle elezioni ottenendo la maggioranza assoluta (nelle elezioni comunali del 10 marzo del 1946 Guarino fu sostenuto oltre che dai socialisti anche dal Partito Comunista Italiano e dal Partito d’Azione: vinse le consultazioni con il 59% dei voti e fu eletto) e così Guarino riprese il comando dell’amministrazione comunale.

Una delle prime delicate scelte che il nuovo sindaco dovette prendere riguardava la distribuzione regolare tra le famiglie davvero bisognose degli aiuti che arrivavano per la ricostruzione fossero essi finanziamenti o rifornimenti dell’U.N.R.R.A. che già cominciavano a riempire i magazzini del Comune. Pochi giorni prima dell’assassinio proprio in tali magazzini avvenne un clamoroso furto e a Guarino che manifestò di avere precisi sospetti si disse chiaramente di mantenere il silenzio sulla faccenda o avrebbe dovuto temere per la vita. Ma a quanto pare Guarino era deciso a sporgere denunzia cosa che però non poté avvenire perché la mafia delle terre non gli perdonò le sue scelte popolari e dopo appena 65 giorni di sindacatura fu ucciso.

L’omicidio di Guarino maturò certamente nell’ambito della lotta per il potere tra gruppi che si servivano di pratiche criminali di stampo mafioso per condizionare l’assetto politico ed economico dell’entroterra agrigentino. La sera del 16 maggio 1946 la seduta del consiglio comunale si era da poco conclusa. Guarino come sempre l’aveva seguita sin dal primo minuto e ritornava a casa piuttosto turbato per le solite questioni liti scontri che da tempo ormai caratterizzavano l’attività politica locale. Mentre camminava con due amici si era fermato a discutere con altre tre persone che aveva incontrato. Alle 20.30 proprio quando l’illuminazione pubblica venne spenta un tale approfittando dell’oscurità si avvicinò a Guarino e sparò colpendo il sindaco alla nuca che cadde a terra mortalmente ferito.

Tra gli stessi accompagnatori rimasti illesi vi fu chi si diede immediatamente alla fuga e chi prontamente cercò di organizzare i soccorsi anche se tutto fu vano. I responsabili del suo omicidio seppure conosciuti da tutti non furono mai arrestati (né quelli materiali né i mandanti): per protesta la vedova di Guarino ed il figlio andarono a vivere a Parigi rifiutandosi per sempre di tornare a Favara. I resti di Guarino riposano nel cimitero di Piana Traversa a Favara.

 

 

 

Leggere anche:

 

Articolo del 15 maggio 2020

GAETANO GUARINO SOCIALISTA UMANITARIO E DAL CUORE GENEROSO

 

 

 

 

 

 

One Comment

  • Antonino Russo

    Sia nella Napolitania (nel Meridione) sia in Sicilia i Borbone difesero i diritti e la dignità dei contadini con i famosi usi civici emanati con una Prammatica regia del 23 febbraio del 1792. Gli usi civici dei Borbone avrebbero posto fine al feudalesimo sostenuto da famiglie dei grandi proprietari terrieri e del baronaggio e applicavano la spartizione dei beni, ovvero delle terre, per eliminare l’ineguaglianza che se le stesse famiglie stavano la esercitavano con arroganza nei confronti dei napolitani e dei siciliani. La dinastia non straniera e legittima si interessò dell’isola dove il re Ferdinando II si oppose, oltre alle mire espansionistiche degli inglesi intenti di istituire un protettorato coloniale, ai tentativi di ripristino dello strapotere parlamentare da parte dei baroni che non accettavano le riforme dei suoi predecessori e desiderosi di riavere i suoi diritti feudali limitati dalla dinastia e dal governo duosiciliano. I baroni cercavano di isolare la Sicilia da ogni innovazione del modernismo politico e di rendere i contadini più schiavi e meno liberi, ma quest’ultimi saranno protetti e tutelati dagli stessi Borbone quando nel dicembre del 1841 estesero di più gli usi civici e eliminavano la primiscuità che, in altre parole, significava una forma di separazione istituzionale tra napolitani e siciliani, tentando di favorire l’istanza autonomista all’isola, dopo che gli concesse il Ministero per gli Affari di Sicilia, la Luogotenenza generale dell’isola, il Ministero Segretario di Stato di Sicilie e i suoi ripartimenti ministeriali. Pensate che le classi baronali si sentivano di più sicure sotto i Borbone per esercitare la loro arroganza e la sua attività di usurpazione delle terre? No e poi no, perché Ferdinando II aveva capito che l’intenzione di suoi nonno Ferdinando I di unificare la Sicilia con la Napolitania nel 1816 fu dovuto propriamente alla lotta dinastica contro la tirannide baronale che dominava la Sicilia per scopi demagogici, per cui il fedelissimo popolo siciliano gli aveva chiesto di non affidare a essi nessun ruolo amministrativo e istituzionale e tale promessa veniva mantenuta. Inoltre gli usi civici dei Borbone furono utili grazie all’eliminazione dell’utopa indipendentista dei baroni isolani e dell’ideologia della libertè della grande proprietà terriera, aiutati però dalla borghesia. I Borbone portavano ai sicilia progresso, terra e libertà, mentre i Savoia gli portò la miseria, la disoccupazione e la schiavitù in collaborazione con la mafia affermata nelle nuove istituzioni sabaude dopo la mala-unificazione.

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