25 Settembre 1988 Canicattì (PA). Uccisi in un agguato mafioso il magistrato Antonino Saetta e il figlio Stefano
Antonino Saetta, Presidente della I Sezione della Corte d’appello di Palermo, fu ucciso, insieme al figlio Stefano Saetta, il 25 settembre 1988, sulla strada Agrigento-Caltanissetta, di ritorno a Palermo, dopo avere assistito, a Canicattì, al battesimo di un nipotino.
Nel 1985-86, Antonino Saetta fu Presidente della Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta ed è qui che si occupò, per la prima volta nella sua carriera, di un importante processo di mafia, quello relativo alla strage in cui morì il giudice Rocco Chinnici, e i cui imputati erano, tra gli altri, i “Greco” di Ciaculli, vertici indiscussi della mafia di allora, e pur tuttavia incensurati. Il processo si concluse con un aggravamento delle pene e delle condanne rispetto al giudizio di I’ grado. Antonino Saetta fu poi nuovamente a Palermo, quale Presidente della I sez. della Corte d’Assise d’Appello. Qui si occupò di altri importanti processi di mafia, in particolare presiedette il processo relativo alla uccisione del capitano Basile, che vedeva imputati i pericolosi capi emergenti Vincenzo Puccio, Armando Bonanno, e Giuseppe Madonia.
Nel 1996 sono stati condannati all’ergastolo, dalla Corte d’Assise di Caltanissetta, per il duplice efferato omicidio, i capimafia Salvatore Riina, Francesco Madonia, e il killer Pietro Ribisi. La condanna, confermata nei successivi gradi di giudizio, è passata in giudicato.
Il movente dell’assassinio è stato ritenuto triplice: “punire” un magistrato che, per la sua fermezza nel condurre il processo Basile, e, prima, il processo Chinnici, aveva reso vane le forti pressioni mafiose esercitate; “ammansire” con un’uccisione eclatante, gli altri magistrati giudicanti allora impegnati in importanti processi di mafia; “Prevenire” la probabile nomina di un magistrato ostico, quale Antonino Saetta, a Presidente del cosiddetto Maxiprocesso d’appello alla mafia. (fonte Wikipedia)
Foto e Biografia, scritta dal figlio Roberto, da “Canicattì”
Antonino Saetta magistrato scomodo nemico dichiarato dei centri di potere.
Saetta Antonino. Magistrato canicattinese ucciso dalla mafia il 25 settembre del 1988. Uomo equilibrato ed integerrimo pagò con la vita il rifiuto a piegarsi alle pressioni criminali che volevano ribaltare in appello un verdetto contro la mafia di Palermo. E’ stato assassinato insieme al figlio Stefano. La sua morte è stata però dimenticata, ed ogni anniversario diventa occasione per cogliere con mano l’indifferenza che ha ricoperto questa tragica fine di un servitore dello Stato. Ecco una breve biografia di Antonino Saetta, scritta dal figlio Roberto.
Mi si è chiesto di fornire alcune brevi notizie sulla vita, e sull’uccisione del magistrato Antonino Saetta, e del figlio Stefano, morto con lui.
E’ un compito che, seppure mi riporti alla mente fatti dolorosi, svolgo volentieri, nella convinzione che sia opportuno cercare di tener vivo il ricordo di certi eventi e di certi uomini che sono caduti per difendere interessi e valori della società civile tutta. .
A maggior ragione l’informazione appare opportuna con riferimento ad una vittima di mafia, quale Antonino Saetta, che è certamente meno conosciuta e meno rievocata di altre consimili, pur essendo non meno rilevante e significativa. Antonino Saetta nacque a Canicattì il 25.10.22, terzo di cinque figli, da Stefano, maestro elementare, e da Maddalena Lo Brutto, casalinga. Conseguita la maturità classica presso il liceo ginnasio statale di Caltanissetta, si iscrisse nel 1940 alla facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Palermo.
Chiamato nel frattempo alle armi, partecipò al corso per allievi ufficiali di complemento dell’esercito, che fu però interrotto per la sopraggiunta cessazione delle ostilità. Dopo aver conseguita la laurea in Giurisprudenza nel 1944, col massimo dei voti e la lode, vinse il concorso per Uditore Giudiziario. Entrò in Magistratura nel 1948, all’età di ventisei anni.
La sua prima sede di servizio fu Acqui Tenne (Al), in Piemonte. Nel 1952, sposò Luigia Pantano, farmacista, anch’essa di Canicattì. Ad Acqui Tenne nacquero i figli Stefano e Gabriella.
Si trasferì poi, nel 1955, a Caltanissetta, ove, alcuni anni dopo, nacque il terzo figlio, Roberto (chi scrive). Fu quindi a Palermo, nel 1960, ed ivi svolse poi la maggior parte della carriera, occupandosi prevalentemente di processi civili, salvo talune parentesi. Nel periodo 1969-71 fu Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Sciacca. Negli anni 1976-78, fu Consigliere presso la Corte d’Assise d’Appello di Genova, ove si occupò anche di taluni processi penali di risonanza nazionale (Brigate Rosse; naufragio doloso Seagull). Nel periodo 1985-86, ricoprì le funzioni di Presidente della Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta. E qui si occupò, per la prima volta nella sua carriera, di un importante processo di mafia, quello relativo alla strage in cui morì il giudice Rocco Chinnici, ed i cui imputati erano, tra gli altri, i “Greco” di Ciaculli, vertici indiscussi della mafia di allora, e pur tuttavia incensurati. Il processo si concluse con un aggravamento delle pene e delle condanne rispetto al giudizio di primo grado.
Antonino Saetta tornò poi definitivamente a Palermo, quale Presidente della prima sezione della Corte d’Assise d’Appello.
E qui si occupò di altri importanti processi di mafia, ed in particolare presiedette il processo relativo alla uccisione del capitano Basile, che vedeva imputati i pericolosi capi emergenti Giuseppe Puccio, Armando Bonanno, e Giuseppe Madonia. Il processo, che in primo grado si era concluso con una sorprendente, e molto discussa, assoluzione, decretò, invece, in appello, la condanna degli imputati alla massima pena, nonostante i tentativi di condizionamento effettuati sulla giuria popolare, e, forse, sui medesimi giudici togati.
Pochi mesi dopo la conclusione del processo, e pochi giorni dopo il deposito della motivazione della sentenza, il Presidente Antonino Saetta fu assassinato, insieme con il figlio Stefano, il 25 Settembre 1988, sulla strada Agrigento – Caltanissetta, di ritorno a Palermo, dopo avere assistito, a Canicattì, al battesimo di un nipotino. L’inchiesta, pur essendo sin da subito chiara agli inquirenti la matrice mafiosa dell’omicidio, era stata, in un primo tempo, archiviata a carico di ignoti. In quegli anni, non era ancora stata introdotta la legislazione sul pentitismo; e la quasi totalità degli omicidi di mafia, anche di alte personalità dello Stato, rimanevano prive di colpevoli e persino di imputati. Sette anni dopo, nel 1995, grazie a nuovi elementi investigativi nel frattempo forniti da alcuni collaboranti, e grazie anche al caparbio impegno e alla capacità di due giovani pubblici ministeri presso la Procura della Repubblica di Caltanissetta, che voglio ricordare, il dr. Antonino Di Matteo, ed il dr. Gilberto Ganassi, si potè riaprire l’inchiesta.
I responsabili della duplice uccisione vennero individuati in Totò Riina, Francesco Madonia, e Pietro Ribisi. I primi due, capi indiscussi della mafia palermitana, e della cosiddetta cupola, come mandanti; il terzo, Ribisi, esponente di una sanguinaria famiglia mafiosa di Palma Montechiaro, quale esecutore, insieme con altri criminali, nel frattempo uccisi. I tre imputati sono stati processati e condannati all’ergastolo, dalla Corte d’Assise di Caltanissetta. Il verdetto, confermato anche nei successivi gradi di giudizio, è ormai passato in giudicato. Antonino Saetta rappresentava un obiettivo di primaria importanza per la mafia, un obiettivo da eliminare necessariamente. Per raggiungere il quale, ebbero a convergere le forze di due articolazioni territoriali della mafia: quella palermitana, e quella agrigentina. I processi di mafia presieduti da Antonino Saetta avevano riguardato prevalentemente se non esclusivamente la mafia di Palermo, che risulta mandante dell’assassinio.
L’esecuzione materiale dello stesso viene però affidata alla mafia dell’agrigentino, con la consegna di occuparsene in quel territorio. Ciò, in parte, è stato determinato da ragioni di maggior sicurezza operativa: nessun rischio presentava infatti un agguato a quel magistrato, nel momento in cui, in compagnia soltanto del figlio, ritornava a Palermo, da Canicattì, in tarda serata, su una normale vettura, e senza scorta, in un tratto di strada poco trafficata e circondata dalla campagna. Si conseguiva, inoltre, il vantaggio ulteriore di confondere le acque agli inquirenti.
Ma il motivo principale di quella scelta era un altro: risulta, dagli atti processuali, che la mafia dell’agrigentino, il cui capo indiscusso era, allora, il canicattinese Peppe Di Caro, poi ucciso, abbia volentieri accettato di occuparsi dell’esecuzione materiale di quell’assassinio, per acquisire maggior prestigio all’interno dell’organizzazione e, soprattutto, per stringere più forti rapporti di alleanza con le cosche dominanti del palermitano.
La collaborazione tra la mafia palermitana e quella agrigentina serviva anche a dare un segnale di compattezza, e di risolutezza, tanto più necessario per il significato dirompente di quell’evento: per la prima volta si uccideva un magistrato “giudicante”, un organo che, per definizione, non è antagonista rispetto al reo, come lo è invece un magistrato inquirente, ma si colloca in una posizione super partes, di terzietà e di garanzia, tra l’accusa e la difesa, e pronunzia il suo verdetto, in nome del Popolo Italiano, sulla base degli elementi processuali forniti dall’una e dall’altra.
Con l’uccisione di Antonino Saetta si compiva un tragico salto di qualità: chiunque amministrava giustizia, ledendo interessi mafiosi adesso avrebbe potuto sentirsi in pericolo di vita.
L’effetto intimidatorio che ne scaturì negli anni successivi – effetto assolutamente voluto – fu esteso e ben evidente, come espressamente è stato scritto nella relazione finale della commissione parlamentare antimafia, presieduta dal sen. Violante, e si concretizzò in una lunga sequela di ingiustificabili assoluzioni. La gravita di quell’omicidio fu per la verità, sin dall’inizio, chiara agli operatori giuridici e alle autorità istituzionali: ai funerali di Antonino e Stefano Saetta, a Canicattì, volle partecipare, accanto al Capo dello Stato, a Ministri, a Segretari di partito, anche l’intero Consiglio Superiore della Magistratura, fatto questo che mai si era verifìcato prima, in casi analoghi, né mai si verifìcò dopo, neppure dopo le stragi del 1992.
Ma perché la mafia decise di uccidere un magistrato così poco noto alle cronache come Antonino Saetta?
Innanzitutto, per quello che egli aveva già fatto. Negli ultimi anni di vita, come s’è detto, si era occupato, quale Presidente di sezione di Corte d’Assise d’Appello, di due fondamentali processi di mafia: quello relativo all’uccisione del giudice Chinnici, contro i Greco di Ciaculli, e il processo relativo all’omicidio del capitano dei carabinieri Basile, contro i boss emergenti Puccio, Bonanno e Madonia. Entrambi questi processi, condotti con mano ferma, si conclusero con la condanna all’ergastolo degli imputati, e, particolare che va ricordato, con l’aumento delle pene e delle condanne rispetto al giudizio di 1° grado; invertendo così una comune ma ingiustificata prassi giudiziaria che ci aveva abituati a vedere le sentenze di appello quasi sempre più miti e indulgenti di quelle di primo grado.
Il processo Basile fu l’ultimo processo presieduto da mio padre: il dispositivo venne letto poche settimane prima della sua uccisione. E’ probabile che un movente di ritorsione vi fosse, per il modo rigoroso e inflessibile con il quale il processo fu presieduto, sottraendolo a pesanti condizionamenti criminali.
Ma certamente non vi fu solo ritorsione. Antonino Saetta fu ucciso anche, o soprattutto, per quel che avrebbe potuto fare quale probabile presidente, come correva voce, del maxiprocesso d’appello contro la mafia. La quale non poteva gradire per quell’incarico un giudice che si era dimostrato non influenzabile in alcun modo e non suscettibile di intimidazione. Il movente dell’assassinio è stato quindi triplice: “punire” un magistrato che, per la sua fermezza nel condurre il processo Basile, e, prima, il processo Chinnici, aveva reso vane le forti pressioni mafiose esercitate; “ammansire”, con un’ uccisione eclatante, gli altri magistrati giudicanti allora impegnati in importanti processi di mafia; “prevenire” la probabile nomina di un magistrato ostico, quale Antonino Saetta, a Presidente del maxiprocesso d’Appello alla mafia.
Antonino Saetta era un magistrato schivo e riservato, per indole e per scelta di vita. Un giudice che, come tanti, ma non come tutti, aveva fatto carriera lontano dai centri di potere, palesi od occulti.
Un giudice che, come il conterraneo Rosario Livatino, evitava la frequentazione dei politici, non per banali pregiudizi nei loro confronti, ma per far sì che non si determinassero indebite interferenze, magari inconscie, sul suo operato. Un giudice che però, dopo la sua tragica fine, è stato spesso dimenticato. Al punto che la sua figura, e persino il suo nome, sono ormai sconosciuti a tanti, soprattutto ai più giovani. All’oblio hanno concorso vari fattori: anzitutto, la sua poca notorietà da vivo, determinata in parte dalle funzioni che svolgeva, che erano funzioni “giudicanti”, solitamente poco illuminate dai riflettori delle telecamere.
In secondo luogo, la sua naturale riservatezza, che dovrebbe essere tuttavia una virtù o un dovere per ogni magistrato. Probabilmente ha contribuito anche il luogo scelto per l’omicidio, un luogo lontano da Palermo, città ove era la sua residenza e ove svolgeva la sua attività. Ancora più sconosciuta è la figura del figlio Stefano, morto con lui, all’età di 35 anni. Talmente sconosciuta che, in quel mediocre film intitolato “II Giudice Ragazzino”, film che non è piaciuto neanche ai genitori di Rosario Livatino, Stefano viene incomprensibilmente rappresentato come un disabile allo stato vegetativo sulla sedia a rotelle, quando invece era un giovane fisicamente sano, e addirittura sportivo: era un ottimo nuotatore, faceva spesso lunghe camminate, e talvolta giocava pure a calcio.
Aveva avuto dei disturbi psichici, dai quali però era sostanzialmente guarito già diversi anni prima della morte.
La conoscenza della vicenda di Antonino e Stefano Saetta è indispensabile per chiunque voglia realmente comprendere cosa sia stata la lotta alla mafia negli ultimi venti anni, e quale sia stato il livello dello scontro. Ritengo che, prima o poi, a differenza di quel che sinora è avvenuto, gli operatori culturali, gli studiosi, il mondo accademico, si soffermeranno più ampiamente su questa vicenda, che ha caratteristiche di gravità unica: unica perché, per la prima e sinora unica volta, è stato ucciso un magistrato giudicante; e unica perché, per la prima e unica volta, insieme con il magistrato da uccidere, è stato ucciso anche suo figlio.
(Fonte:”Loyin” Laboratorio di idee per Agrigento Trimestrale – Anno 1° ottobre-dicembre 2004)
Antonino Saetta
Il primo magistrato giudicante assassinato dalla mafia.
di Carmelo Sciascia Cannizaro
Ed. Paoline – Prefazione di Giuliano Vassallo
Articolo dal Blog di Gaspare Agnello
Il libro è accompagnato dalla prefazione di Giuliano Vassalli ex Ministro della Giustizia che è certamente un riconoscimento della valenza dell’opera dello scrittore canicattinese che, attraverso questo lavoro onesto e puntiglioso, vuole far uscire dall’oblio la figura del giudice Antonino Saetta che, assieme al figlio Stefano è stato trucidato il 25. 9.1988 lungo la statale Agrigento Caltanissetta, dove a distanza di poco tempo sarebbe stato assassinato l’altro giudice di Canicattì il Dr. Livatino.
Antonio Saetta era stato un magistrato giudicante e mai, nella storia dei delitti mafiosi, si era verificato che venisse ucciso un magistrato giudicante.
Le uccisioni riguardavano solo e sempre e magistrati inquirenti.
Forse per questo, dopo un funerale sontuoso, a cui hanno partecipato le massime cariche dello Stato con a capo il Presidente della Repubblica Cossiga, la figura di Antonino Saetta cadde nel dimenticatoio.
Lo storico Carmelo Sciascia Cannizzaro, con il suo libro, vuole rendere giustizia a questo magistrato e far conoscere a tutti il senso di una vita veramente eroica e spesa al servizio della comunità.
“UN EROE VISTITO DI NORMALITA’” e per questo c’è stata una tendenza alla dimenticanza.
Ma se fosse solo questo l’intento del libro potrebbe avere solo un valore di testimonianza e lì finirebbe il suo valore, ma il libro è molto di più perché, oltre a descrivere questa bella figura di uomo, di magistrato, di padre quale è stato il Giudice Saetta, riesce a descrivere, con poche e incisive pennellate, il clima nel quale si attuò il feroce duplice delitto e il clima terribile che visse la Sicilia in quegli anni veramente di piombo che portarono a morte tanti magistrati, e tanti tutori dell’ordine.
Il quadro che ne viene fuori è terribile e drammatico e, per chi ha vissuto quegli anni, è come rileggere un libro già letto ma nelle cui pagine ritrova novità e nuovi elementi di giudizio.
Noi francamente siamo rimasti sorpresi delle sequenze descritte nel libro di Carmelo Sciascia Cannizzaro, pur avendo vissuto quei giorni, e siamo stati indotti a riflettere, nella speranza che le giovani generazioni possano conoscere quegli avvenimenti, meditarli, per comprendere i drammi della Sicilia dove sembrava che “ fosse morta la speranza delle persone oneste”.
Ma Sciascia Cannizzaro e i tanti morti di mafia vogliono dirci che il martirio deve essere speranza e che il martirio vuole indicarci un cammino di giustizia e di pace.
(C. Sciascia Cannizzaro morto a Canicattì il 17.8.2010)
Video commemorativo giudici Saetta e Livatino
Pubblicato il 22 lug 2009
video realizzato da SMR Productions in occasione del convegno sulla legalità svoltosi a Canicattì nel 2005, in onore dei giudici canicattinesi Antonino Saetta e Rosario Livatino, uccisi dalla mafia.
Articolo del 27 settembre 1988 da ricerca.repubblica.it
AVEVA CONDANNATO I KILLER DI BASILE E ROCCO CHINNICI
di Franco Viviano
CALTANISSETTA Antonino Saetta, 66 anni, è il settimo magistrato siciliano che cade sotto il piombo dei killers mafiosi. Dopo Scaglione, Terranova, Costa, Chinnici, Ciaccio Montalto, Giacomelli, Cosa nostra ha colpito ancora uccidendo un magistrato che agiva in silenzio e che negli ultimi anni aveva presieduto corti d’assise che avevano inflitto pesantissime condanne agli autori della strage Chinnici ed ai presunti killers del capitano dei carabinieri di Monreale Emanuele Basile. Il primo grande impegno con Cosa nostra è proprio contro i capi della cupola Michele e Salvatore Greco, accusati di essere i mandanti della strage di via Pipitone Federico a Palermo, quando morì il giudice Rocco Chinnici. Con i fratelli Greco vennero accusati di avere avuto un ruolo nella strage anche Vincenzo Scarpisi e Pietro Rabito. Processati a Caltanissetta con una Corte presieduta dall’ attuale consigliere istruttore di Palermo Antonino Meli, il 24 luglio 1984 venne emessa una sentenza che condannava all’ ergastolo i fratelli Greco ed a 15 anni di reclusione ciascuno Rabito e Scarpisi. La sentenza venne appellata e passò al vaglio del giudice Antonino Saetta che il 14 giugno del 1985 riformò parzialmente il giudizio confermando l’ ergastolo ai fratelli Greco ed aggravando la condanna di Rabito e Scarpisi, a 22 anni di reclusione. La sentenza venne però annullata dalla Corte di cassazione per difetto di motivazione e gli atti furono in Corte d’ assise a Catania. Da Caltanissetta il giudice Saetta venne poi trasferito a Palermo e nel capoluogo siciliano presiedette un altro processo, contro i presunti sicari del capitano dei carabinieri Emanuele Basile (5 maggio 1980). Gli imputati, Vincenzo Puccio, Giuseppe Madonia ed Armando Bonanno, ritenuti pericolosi killers di Cosa nostra, in primo grado furono clamorosamente assolti dalla Corte d’ assise presieduta dall’ attuale procuratore della Repubblica di Palermo Salvatore Curti Giardina. Dopo la sentenza i tre sono uccel di bosco ed il giudice Saetta è chiamato a giudicare tre fantasmi. La sua sentenza è diametralmente opposta a quella del collega Curti Giardina. I tre furono condannati all’ ergastolo. Una carriera senza ombre, un magistrato stimato e molto apprezzato. Antonio Saetta, nel ‘ 48 era entrato in magistratura e dopo avere percorso molti gradini della sua carriera era approdato a Genova con la carica di consigliere di Corte d’ appello. Sposato con una ricca donna, Luigia Pantano, dalla quale avrebbe avuto tre figli, Stefano, 35 anni, anche lui assassinato nell’ agguato, Gabriella di 34, e Roberto, di 30, nel 1978 fu trasferito a Palermo dove rimase alcuni anni. Nel settembre di quattro anni era stato nominato presidente di Corte d’ assise e inviato a Caltanissetta. Saetta era stato nuovamente trasferito a Palermo con la carica di presidente di sezione della Corte d’ appello. Avrebbe voluto tornare vicino casa. Ma il Csm aveva già scelto Pasquale Giardina.
Fonte: ilquotidianodipalermo.wordpress.com
Articolo del 19 marzo 2014
Intitolazione scuola al giudice Antonino Saetta e al figlio Stefano, vittime di mafia
di Matilde Geraci
Il plesso di Scuola Secondaria di I Grado, in via Palagonia 12, a Palermo, verrà intitolato al giudice Antonino Saetta (presidente della prima Sezione della Corte di appello di Palermo) e al figlio Stefano, entrambi vittime di mafia. La cerimonia avrà luogo a partire dalle ore 10 di venerdì 21 marzo, in occasione della Giornata della Memoria e dell’Impegno per ricordare le vittime innocenti di tutte le mafie.
Antonino Saetta era un magistrato originario di Canicattì, in provincia di Agrigento. Uomo integerrimo, pagò con il prezzo più alto il rifiuto di piegarsi alle pressioni della mafia, che voleva ribaltare in appello un verdetto contro Cosa nostra. Si trattava del processo relativo all’uccisione del capitano Basile, che vedeva imputati i nuovi boss emergenti Giuseppe Puccio, Armando Bonanno e Giuseppe Madonia. In primo grado erano stati assolti tutti, ma in appello vennero condannati alla massima pena. Il 25 settembre 1988, pochi mesi dopo la conclusione del processo e a distanza di pochi giorni dalla deposizione della motivazione della sentenza, il giudice Saetta viene assassinato insieme al figlio Stefano in un agguato mafioso, lungo la statale Agrigento-Caltanissetta, su quella stessa strada dove, due anni dopo, sarà ucciso Rosario Livatino. Sul luogo dell’omicidio furono trovati oltre un centinaio di bossoli e persino una mitraglietta da guerra, a testimoniare la ferocia con la quale i killer si accanirono contro le due vittime. Il delitto, come sarà accertato dagli inquirenti, fu deciso da Totò Riina, che volle così punire chi aveva “osato” condannare gli assassini di efferati omicidi e soprattutto scongiurare la ormai certa nomina di Saetta a presidente del Maxiprocesso d’appello ai vertici di Cosa nostra. Per la morte di Antonino e Stefano Saetta sono stati condannati all’ergastolo con sentenza definitiva i boss Riina e Francesco Madonia, in qualità di mandanti, e Pietro Ribisi, esecutore materiale (insieme ad altri criminali dell’agrigentino che nel frattempo erano stati uccisi), esponente della famiglia mafiosa di Palma di Montechiaro. Va detto che, sebbene fosse chiaro a tutti la matrice mafiosa del duplice omicidio, l’inchiesta a carico di ignoti fu inizialmente archiviata. Bisognerà attendere fino al 1995, perché venga riaperta, grazie a due giovani pm della Procura di Caltanissetta, Antonino Di Matteo e Gilberto Ganassi.
La morte di Antonino Saetta, purtroppo, viene spesso dimenticata. Eppure si tratta del primo magistrato ucciso in Italia, colui che ha sempre lottato in prima linea contro lo strapotere della mafia, che ha inflitto l’ergastolo a Michele e Salvatore Greco.
Giorno 21, verrà scoperta una targa alla presenza di diverse Autorità, per ufficializzare l’intitolazione del plesso scolastico ad Antonino e Stefano Saetta. A seguire, presso la sede centrale “Giotto” (in via Giotto, 41) si terrà una tavola rotonda con la partecipazione di: Sonia Alfano, presidente della Commissione Europea Antimafia; Vincenzo Oliveri; presidente della Corte d’appello di Palermo; Leonardo Guarnotta, presidente del Tribunale di Palermo; e Francesco Messineo, procuratore capo della Repubblica di Palermo.
Articolo del 25 Settembre 2015 da comunicalo.it
Mafia, il figlio di Saetta: ‘Mio padre ucciso per vendetta’
di Calogero Giuffrida
“Mio padre seppe resistere alle pressioni di personaggi di primo piano della mafia siciliana, come Riina, Madonia e i fratelli Greco. Lo fece anche imponendo la sua autorevolezza durante il processo, perché alcuni giudici popolari erano stati intimiditi. Questo fu uno dei motivi per cui lo condannarono a morte ma ce ne sono anche altri due, la possibilità che andasse a presiedere il Maxiprocesso d’appello di Palermo e il desiderio di lanciare un segnale, colpendo un magistrato giudicante”.
Lo ha detto in un’intervista rilasciata a “Voci del Mattino”, su Radio1 Rai, Roberto Saetta, figlio del giudice Antonino Saetta, ucciso dalla mafia il 25 settembre del 1988 mentre era in auto sulla strada statale 640 Agrigento-Caltanissetta con l’altro figlio, Stefano, anche lui assassinato dai sicari di Cosa nostra che già avevano fatto a Palermo la “mattanza” di diversi uomini delle istituzioni. Tra i morti sul campo nella “guerra alla mafia” il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il segretario provinciale della Dc Michele Reina, il commissario Boris Giuliano, il giornalista Mario Francese, il candidato a giudice istruttore di Palermo Cesare Terranova, il presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, il procuratore Gaetano Costa, il segretario regionale siciliano del Pci Pio La Torre e molti altri ancora.
“Mio padre – ha aggiunto il figlio di Saetta – era stato presidente delle corti di assise di appello di Palermo e di Caltanissetta che si occuparono, rispettivamente, dell’omicidio del giudice Chinnici e di quello del capitano Basile. In entrambi i casi le sentenze furono inasprite rispetto al primo grado, e questo atto – ha detto – fu giudicato intollerabile dai vertici mafiosi che decretarono la morte di mio padre”.
Fu ucciso un magistrato giudicante chiamato a decidere le sorti giudiziarie della cupola siciliana. “Fino a quel momento, i tanti magistrati uccisi – ha ricordato Roberto Saetta mentre a Canicattì si celebrano le iniziative in ricordo del padre e del giudice Rosario Livatino – erano tutti inquirenti, quindi antagonisti diretti, avversari della mafia. Era un salto di qualità importante nella lotta della mafia contro lo stato: si colpiva mio padre, magistrato giudicante che applicava la legge e che quindi agiva di fatto in una posizione di terzietà. Era un cambiamento importante, che non tutti colsero”.
Insieme al ricordo, il rammarico del figlio del giudice sulla storia del padre un po’ caduta nel dimenticatoio. “La figura di Antonino Saetta nel tempo è stata un po’ dimenticata – ha sottolineato il figlio del magistrato a 27 anni dal delitto del padre – forse perché non era un personaggio molto conosciuto, non si era occupato di inchieste che portano alla notorietà. Un po’ ha contribuito anche il suo carattere schivo, lontano da ogni centro di potere. Per molti anni l’indagine sull’omicidio Saetta ha arrancato. E’ stato così – ha detto – fino alla nuova legislazione sui pentiti, che ha consentito di riaprire un fascicolo all’epoca archiviato come contro ignoti. E grazie alla bravura degli investigatori e di due giovani magistrati, Nino Di Matteo e Gilberto Ganassi, l’intero impianto accusatorio – ha ricordato Roberto Saetta – ha poi retto in tutti i gradi di giudizio”.
Fonte: vivi.libera.it
Articolo del 25 settembre 2018
Mio padre, Antonino Saetta
Nel giorno del 30^ anniversario della barbara uccisione di Antonino Saetta e di Stefano Saetta li ricordiamo attraverso una lettera del figlio Roberto.
Antonino Setta è forse il più ignorato o dimenticato, tra i magistrati vittime della mafia.
Mi è capitato, varie volte, di vedere, con piacere, che persino in piccoli e sperduti paesini dell’Umbria o della Toscana, o di altre regioni, ci sono strade o scuole intitolate a grandi Magistrati siciliani, caduti per mano mafiosa, come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, qualche volta anche a Rosario Livatino.
Si contano, invece, sulle dita forse di una mano soltanto i Comuni nei quali esistono strade o scuole intitolate al Magistrato Antonino Saetta, sebbene la sua uccisione abbia rappresentato uno degli episodi più importanti, più inquietanti e più sconcertanti nella lotta della mafia contro lo Stato.
Non solo perchè Antonino Saetta, quando è stato ucciso, era un magistrato di un livello piuttosto elevato in carriera, ma, soprattutto, perchè, per la prima volta nella nostra Storia, insieme con il magistrato, vittima designata, veniva ucciso anche uno dei suoi figli ed anche perchè, per la prima volta, veniva ucciso un magistrato con funzioni giudicanti, anzichè inquirenti, ossia un soggetto che non ha il compito di combattere la mafia, ricercandone i componenti o svelandone le trame, ma ha il compito di applicare la Legge, in nome del Popolo Italiano, in posizione di terzietà, tra le ragioni dell’accusa e quelle della difesa.
A causare l’oblio hanno contribuito probabilmente vari fattori, fra cui la sua poca notorietà da vivo, dovuta al tipo di funzioni svolte, generalmente piuttosto lontane dai riflettori e dall’attenzione della stampa, e la sua lontananza verso organizzazioni politiche, sindacali, religiose. Soggetti che, spesso, hanno svolto un ruolo attivo nel mantenere vivo il ricordo di una vittima del dovere percepita come a loro vicina.
Mio padre era originario di Canicattì.
Entrò piuttosto giovane in Magistratura, all’età di 26 anni, nel 1948. Per quel che lui sapesse, era stato il primo canicattinese a divenire magistrato, nel corso del novecento.
Uno dei valori più cari ad Antonino Saetta, nell’esercizio della sua attività, era quello dell’indipendenza del Magistrato.
Indipendenza, anzitutto, da poteri politici e da interferenze di qualsiasi genere. Indipendenza, anche, da eventuali pressioni dell’opinione pubblica, che, in determinate circostanze, per ragioni emotive, può essere spinta a condizionare, in senso colpevolista o innocentista, l’esercizio dell’attività giurisdizionale, che, invece, secondo Antonino Saetta doveva essere sempre libero ed indipendente.
Ma indipendenza, anche e soprattutto, da tentativi di condizionamento e intimidazione provenienti dalla mafia, cui Antonino Saetta resistette in due importanti processi da lui presieduti in grado d’appello, come quello relativo ai responsabili della strage Chinnici, celebratosi qui a Caltanissetta, e quello relativo agli assassini del cap. Emanuele Basile, celebratosi a Palermo, In questi processi, si assistette ad un aumento delle pene e delle condanne rispetto ai giudizi di primo grado, evento non molto frequente in grado di appello, dove, solitamente, si verifica il contrario. Per giungere a tali risultati, del resto conformi alle risultanze processuali e probatorie, Antonino Saetta dovette spesso fare uso di tutta la sua autorità di Presidente, in seno al Collegio Giudicante, ove, come è stato poi accertato, taluni giudici popolari erano stati avvicinati ed intimiditi da soggetti mafiosi.
La mafia non perdonò ad Antonino Saetta la sua fermezza e, in particolare, Totò Riina e Francesco Madonia, allora capi indiscussi della mafia palermitana, non gli perdonarono la condanna all’ergastolo degli assassini del capitano Basile, uno dei quali figlio di Francesco Madonia.
L’uccisione avvenne nei pressi di Canicattì, con la collaborazione della mafia canicattinese, nel Settembre 1988.
Nell’agguato, morì, crivellato di colpi, anche il figlio Stefano.
Pochissime notizie si trovano su Stefano e, spesso, si tratta di notizie inesatte o del tutto irreali. Per esempio, nel film, di alcuni anni fa, “Il Giudice Ragazzino”, Stefano viene, di sfuggita, raffigurato come un invalido, allo stato vegetativo, sulla sedia a rotelle.
Nulla potrebbe essere più lontano dalla realtà.
Nessuna malattia è offensiva od infamante, ma, per rispetto della verità, bisognerebbe attribuire ad ognuno le malattie che ha, non quelle che non ha.
Stefano, fisicamente, stava benissimo. Praticava anche degli sport: era un ottimo nuotatore; giocava spesso a calcio e faceva lunghissime passeggiate. Era poi una persona socievole con tutti, spiritosa, con molti interessi culturali, in particolare era appassionato di cinema. Aveva avuto, però, dei disturbi di tipo psichiatrico, da adolescente, con diverse ricadute anche negli anni successivi, che lo avevano costretto ad abbandonare gli studi. Per tale ragione, gli era stata riconosciuta l’invalidità. Lui teneva spesso con sè questa tessera, che gli dava diritto ad una riduzione sul biglietto del cinema. Quando fu ucciso, fu trovata questa tessera e qualcuno immaginò che fosse un paralitico, dando luogo involontariamente ad una notevole disinformazione sul suo conto.
Nel concludere, voglio ripetere qui, per Antonino e Stefano Saetta, ma anche per le tante altre vittime della criminalità mafiosa, note o meno note, le toccanti parole che, nel 1968, il primo ministro indiano Indira Gandhi (che poi, a sua volta sarebbe stata assassinata) pronunciò, per le esequie di Martin Luther King:
“Egli non è qui con noi, ma ne sentiamo lo spirito.
La tragedia ha ravvivato il ricordo dei grandi martiri di tutti i tempi, che hanno dato la loro vita perchè altri uomini potessero vivere e prosperare.
Tali eventi rimangono come ferite nella coscienza umana, richiamandoci alla mente battaglie ancora da combattere e traguardi ancora da raggiungere.
Non dovremmo piangere per la morte degli uomini di alti ideali.
Piuttosto, dovremmo gioire per il privilegio di averli avuti con noi, ad ispirarci con la loro radiosa personalità”.
Roberto Saetta
L’ABBRACCIO Storia di Antonino e Stefano Saetta
27 ott 2019
“L’Abbraccio. Storia di Antonino e Stefano Saetta” è un film documentario targato BridgeFilm, scritto e diretto da Davide Lorenzano.
Con Gaetano Aronica e la partecipazione straordinaria di Lidia Vitale.
Prodotto da Cristian Patanè.
La produzione esecutiva è di Giuseppe Manfrè
La direzione della fotografia è di Daniele Ciprì
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Articolo del 29 maggio 2021
Antonino Saetta, un documentario racconta l’omicidio “dimenticato” del giudice antimafia. Di Matteo: “Fu messaggio all’intera categoria”
di Manuela Modica
Il 25 settembre 1988 il magistrato è ucciso con 40 colpi di pistola insieme al figlio Stefano: verrà trovato riverso sul suo corpo, come nel tentativo di proteggerlo. Doveva presiedere la Corte d’Appello nel maxiprocesso a Cosa Nostra. Ne “L’abbraccio” di Davide Lorenzano – premiato al Vittoria Peace Film Festival – documenti inediti, filmati d’archivio e testimonianze.