Qualunque cosa succeda di Umberto Ambrosoli
Questa è la storia di Giorgio Ambrosoli, per cinque anni commissario liquidatore della Banca Privata di Michele Sindona, ucciso a Milano da un killer la notte tra l’11 e il 12 luglio 1979.
La racconta a trent’anni di distanza il figlio Umberto, che ai tempi era bambino, sulla base di ricordi personali, familiari, di amici e collaboratori e attraverso le agende del padre, le carte processuali e alcuni filmati dell’archivio RAI. Sullo sfondo, la storia d’Italia in quel drammatico periodo.
Nell’indagare gli snodi di un sistema politico-finanziario corrotto e letale, Ambrosoli agiva in una situazione di isolamento, difficoltà e rischio di cui era ben consapevole. Aveva scritto alla moglie: «Pagherò a caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il Paese […] Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo».
Il racconto illumina il carattere esemplare delle scelte di Giorgio Ambrosoli, la sua coerenza agli ideali di libertà e responsabilità e, insieme, sottolinea il valore positivo di una storia ancora straordinariamente attuale.
Prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Ogni pagina di questo libro trasmette al lettore una emozione profonda; persino la ricca dotazione documentaria, che fa di questo lavoro un importante contributo per una ricostruzione accurata dei fatti – dal tempo collocati ormai in una prospettiva “storica” – è incastonata in una cornice di toccante amore
filiale, primum movens di questo viaggio della memoria.
Per questo da lettore, in larga misura partecipe delle vicende che nel libro si ripercorrono con scrupolo di verità e dovizia di informazioni, avverto il bisogno di fermarmi in silenziosa riflessione sull’insanabile ferita che quel colpo di rivoltella inferse, l’11 luglio del 1979, all’universo affettivo di una giovane mamma e dei suoi tre bimbi. Ed è proprio di quella lontana mattina di luglio il ricordo più vivo e terribile, insieme, che fin dalle prime righe il libro ha risvegliato in me.
Queste note non hanno altra pretesa che offrire una testimonianza, nel ricordo di chi allora in Banca d’Italia, insieme con gli altri membri del Direttorio, visse quella che non era solo la tragedia di un uomo giusto e della sua famiglia; quel colpo sparato ad Ambrosoli era destinato al cuore dello Stato, inscrivendosi
l’episodio in un clima inquietante e torbido di intrecci tra malavita e forze eversive, che puntavano alle istituzioni con un disegno destabilizzante non dissimile, nei suoi esiti, da quello perseguito dal terrorismo, dalla lotta armata.
Erano le 8.30 del 12 luglio. Il consueto, familiare gesto di accendere la radio per ascoltare il notiziario trasformò di colpo quella che doveva essere una ordinaria giornata di lavoro in un tempo di straordinaria drammaticità: la sera precedente l’avvocato Giorgio Ambrosoli era stato assassinato mentre stava rientrando a casa. La Banca d’Italia, che lo aveva designato commissario liquidatore della Banca Privata Italiana in virtù delle sue elevate capacità professionali e, soprattutto, per la robusta fibra morale unanimemente riconosciutagli, visse quell’evento luttuoso con dolorosa intensità.
I trent’anni trascorsi da quelle giornate non hanno appannato la memoria dei sentimenti con cui, in Banca d’Italia, affrontammo una tragedia che toccava nel profondo gli uomini che in quel momento la guidavano. Il 26 luglio si riunì, come di consueto, il Consiglio superiore della Banca, che in assoluto silenzio ascoltò le parole del governatore Baffi: una comunicazione scarna che non riuscì a celarne la commozione; piuttosto, quelle parole dettero forma tangibile al turbamento generale.
Ho voluto riprendere in mano il verbale di quella riunione. Per qualsiasi lettore è solo un documento burocratico. Personalmente, in quel breve testo ritrovo, intatta, la dimensione del dramma, insieme con il dominante sentimento di solidarietà che ci pervase: che ispirò alla Banca la linea di condotta da seguire.
Per questo mi piace qui riproporne i due passaggi centrali: L’avvocato Ambrosoli lascia tre figli in giovane età, Francesca di anni 11, Filippo di anni 10 e Umberto di anni 7 e la vedova signora Anna Lorenza Gorla, la quale deve ora affrontare la grave responsabilità del mantenimento e della loro educazione senza più disporre dell’unica fonte di reddito, rappresentata dall’attività professionale del marito. […] volendo rendere concreta la commossa solidarietà della Banca, il Governatore propone […] che l’Istituto dia un sostanziale concorso al mantenimento e all’educazione dei tre orfani sino al compimento degli studi.
Oggi quei tre ragazzi sono adulti, inseriti attivamente, insieme con le famiglie che hanno formato, nella società. L’Autore, seguendo le orme paterne, esercita l’attività forense; come suo padre è un avvocato apprezzato e stimato per serietà e competenza, per la profonda moralità che ne ispira e guida l’esercizio
della professione.
Il libro che viene ora licenziato è un atto d’amore per il Padre, un attestato di incondizionata ammirazione per il professionista che obbedisce solo alla Legge, un tributo all’Uomo e al Cittadino, esempio altissimo di virtù civili.
Il libro è tutto questo. Al di sopra di tutto c’è, a mio parere, la volontà di Umberto Ambrosoli di testimoniare – con la memoria di una vicenda personale, di una ferita insanabile – l’impegno “militante” per l’affermazione dei valori dell’onestà, dell’assunzione di responsabilità, dell’adempimento del dovere; della necessità di non tradire mai la propria coscienza: «non omnis moriar».
Carlo Azeglio Ciampi
aprile 2009